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Una donna, un popolo di Antonio Stanca E’ comparso nel 1996 col titolo “The Voice of Hope”, Editions STOCK, è stato tradotto in tredici lingue e a ottobre di quest’anno anche in italiano da Alessandra Petrelli per conto della Casa Editrice Corbaccio di Milano: è il grosso volume “La mia Birmania” che contiene le interviste fatte dal giornalista e scrittore americano Alan Clements, ordinato monaco buddista in Birmania e qui vissuto a lungo, alla birmana Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace, e ai suoi collaboratori nell’operazione di protesta nonviolenta condotta nel loro paese e finalizzata a procurare una condizione di vita libera e democratica ad un popolo che da decenni soffre le gravi ingiustizie di un regime dittatoriale. Dalla lunghissima conversazione tra Aung San Suu Kyi e il giornalista emergono la vita e l’opera della donna, la storia passata e presente della Birmania, le tradizioni, la cultura, la religione di questa e soprattutto le gravi vicende che negli ultimi anni si sono verificate e che hanno fatto della Suu Kyi una figura di rilievo nel contesto mondiale. Nel 1991 ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace ma già prima aveva avuto importanti riconoscimenti e questi ci sarebbero stati anche dopo. Figlia del generale Aung San, considerato in Birmania un eroe nazionale perché l’aveva resa indipendente dall’Inghilterra nel 1947, e di Daw Khin Kyi, unica ambasciatrice donna della Birmania, Suu Kyi è nata nella capitale, Rangoon, nel 1945. Fin d’adolescente, dopo la morte del padre vittima di un attentato, segue la madre nel suo lavoro all’estero, studia all’estero, qui si diploma, si laurea, lavora e, dopo diverse sedi, si stabilisce a Londra dove si sposa ed ha due figli. Nel 1988 rientra in Birmania perché la madre è ammalata e le succede di assistere alla grave situazione del paese sottoposto alla dittatura militare del generale Ne Win, che ha rovesciato il breve governo democratico seguito all’indipendenza. Il 1988 è un anno funesto per la Birmania: i militari sparano su una folla immensa che manifesta pacificamente contro la dittatura e uccidono migliaia di persone. E’ l’evento che muove Suu Kyi ad entrare in politica e unirsi alle proteste della sua gente verso un regime che l’ha privata di ogni libertà, di ogni diritto, l’ha ridotta in miseria e punisce i dissidenti con la tortura, i lavori forzati, il carcere, la morte. Suu Kyi tiene il famoso comizio di Shwedagon di fronte a cinquecentomila persone, insieme a stretti collaboratori fonda il partito democratico, la National League for Democracy (NLD), ne diviene la segretaria generale e percorre il paese fermandosi in molti posti a parlare ed incitare la gente a non aver paura, a resistere allo stato di oppressione, a fidare in un prossimo avvento della libertà, della democrazia. Intanto lo State Law and Order Restoration Council (SLORC), cioè il partito al potere, annulla, nel 1990, i risultati delle elezioni perché favorevoli alla NLD e ricorre ad ogni forma di violenza materiale e morale, continua con le sue gravi misure contro i cittadini e in particolare contro gli esponenti del partito democratico. E questo nonostante i richiami che da tanti governi stranieri giungono ai capi birmani e li invitano ad una politica più conciliante, ad un dialogo con la NLD. Già nel 1989 erano cominciati per Aung San Suu Kyi quegli arresti domiciliari che dureranno sei anni e che avverranno altre volte in seguito anche se per periodi di tempo più brevi. Tuttavia appena libera la donna tornerà vicina al suo popolo, ascolterà la voce della sua gente, vorrà sapere dei suoi bisogni, scriverà, terrà i discorsi settimanali o “della domenica” presso la sua casa di Rangoon e di fronte alle migliaia di persone che ogni volta vi converranno. Le esorterà ad avere fiducia, a credere nella forza dell’amore, del bene, nella nonviolenza, a considerare necessaria la vittoria finale di questi valori perché propri dell’uomo, della sua natura, della sua civiltà, a ritenere le richieste dello spirito superiori a qualunque altra, a non smarrire i precetti della religione, del buddismo, per i quali fondamentali sono la tolleranza, la collaborazione, la pace e le azioni, le opere che ad esse tendono. Non a rassegnarsi, non a subire passivamente Suu Kyi insegna ma ad operare, ad agire per correggere il male, a lottare per eliminarlo perché così vuole la religione buddista della quale ella è fedele seguace. Tutto questo è avvenuto e avviene nella Birmania degli ultimi decenni e di tutto questo si dice nel libro “La mia Birmania”, dove dalle risposte di Aung San Suu Kyi alle interminabili domande di Alan Clements si sa non solo di lei ma di un intero popolo. Di esso la donna si fa interprete, con la sua vita, la sua storia s’identifica, della sua anima vive anche se ad ognuna delle tantissime persone che popolano la Birmania si sente uguale. A renderla così modesta, così umile è la religione vissuta con la stessa semplicità di una donna comune, è la condizione dello spirito uguale a quella di una popolana e in nome della quale parla e agisce. Se i suoi “discorsi della domenica” attirano migliaia di ascoltatori significa che nei loro argomenti essi si ritrovano, nella loro morale si riconoscono. E’ una prova che la fede religiosa, il buddismo, al quale Suu Kyi si appella in continuazione, è vissuto in Birmania come principio inalterabile, come regola definitiva e che per i suoi insegnamenti cinquanta milioni di abitanti continuano a rimanere nonviolenti pur di fronte alle ingiustizie, sopportano i soprusi di chi è al potere, credono nella liberazione dalle pene: sarà una redenzione dal male sofferto e risulterà tanto più grande quanto più grave è stato il dolore. E’ una “rivoluzione spirituale”, una applicazione concreta dei dogmi del buddismo, Aung San Suu Kyi è solo uno degli esempi offerti dal popolo birmano e questa è già una vittoria, quella della fede sulla ragione. Che si verifichi in tempi moderni, quando di sola ragione si vive, è un fenomeno eccezionale, che assuma una dimensione così estesa è un caso unico, un evento straordinario del quale si deve e si dovrà sempre tener conto. |
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