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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Un decalogo contro l´apatia politica

GUSTAVO ZAGREBELSKY *

 

Come parlarne ai giovani

La diffidenza verso le decisioni irrimediabili . L´atteggiamento sperimentale . Coscienza di maggioranza e minoranza.  L´atteggiamento altruistico. La cura delle parole
La fede in qualcosa che vale. La cura delle individualità personali. Lo spirito del dialogo. Lo spirito dell´uguaglianza. Il rispetto delle identità diverse
Come Tocqueville aveva ben visto in anticipo la massificazione è un pericolo mortale e la storia lo prova
Come istituzione d´insieme non ha valori assoluti da difendere: i dogmi valgono nelle società autocratiche
Senza leggi uguali per tutti la società si divide in caste e la vita collettiva diventa dominio delle oligarchie

Senofonte, Cicerone, Machiavelli, Bossuet, Montesquieu... Le rivoluzioni hanno avuto i loro catechismi. La democrazia invece ha politologi e costituzionalisti. Non bastano. Il loro compito è studiare e spiegare regole esterne di funzionamento ma ciò che qui importa, il fattore spirituale, normalmente sfugge. Il loro pubblico, poi, non è certo il cittadino comune, come dovrebbe essere, in quanto si sia in democrazia. Naturale dunque è che si guardi alla scuola e al suo compito di formazione civile. Il decalogo che segue è una semplice proposta.

 


1) La fede in qualcosa che vale.

La democrazia è relativistica, non assolutistica. Come istituzione d´insieme, non ha fedi o valori assoluti da difendere, a eccezione di quelli su cui si basa. Deve cioè credere in se stessa e sapersi difendere, ma al di là di ciò è relativistica nel senso preciso della parola: fini e valori sono da considerare relativi a coloro che li propugnano e, nella loro varietà, ugualmente legittimi. Democrazia e verità assoluta, democrazia e dogma, sono incompatibili. La verità assoluta e il dogma valgono nelle società autocratiche, non in quelle democratiche. Dal punto di vista dei singoli, invece, relativismo significa che «tutto è relativo», che una cosa vale l´altra, cioè che nulla ha valore. In questo senso, cioè dal punto di vista dei singoli, relativismo equivale a nichilismo o scetticismo. Ora, mentre il relativismo dell´insieme è condizione della democrazia, nichilismo o scetticismo sociali sono una minaccia. Se non si ha fede in nulla, perché difendere una forma di governo come la democrazia che vale in quanto le proprie convinzioni possono essere fatte valere? Per lo scettico, democrazia o autocrazia pari sono. Rallegriamoci dunque se la democrazia, come insieme, è relativistica. Solo così la società può essere libera; chi se ne duole, nasconde pensieri autocratici. Impegniamoci però in ogni luogo per scuotere l´apatia, promuovere ideali, programmi e, perché no, utopie.

 

2) La cura delle individualità personali.

La democrazia è fondata sugli individui, non sulla massa. Come Tocqueville ha antiveduto, la massificazione è un pericolo mortale. Proprio la democrazia, proclamando un´uguaglianza media, può minacciare i valori personali annullando individui e libertà nella massa informe. E la massa informe può accontentarsi di un demagogo in cui identificarsi istintivamente. I regimi totalitari del secolo scorso sono la riprova: una democrazia senza qualità individuali si affida ai capipopolo e questi, a loro volta, hanno bisogno di uomini-massa, non di uomini-individui. Per questo, la democrazia deve curare l´originalità di ciascuno dei suoi membri e combattere la passiva adesione alle mode. Dobbiamo vedere con preoccupazione l´appiattimento di molti livelli dell´esistenza, consumi e cultura, divertimenti e comunicazione: tutti «di massa». Chi non si adegua, nel migliore dei casi è un "originale", nel peggiore uno "spostato". Non è questa certo la prima volta che ci si rivolge proprio alla scuola perché alimenti, e non reprima, caratteri e vocazioni personali delle giovani vite con cui ha a che fare.


3) Lo spirito del dialogo.

La democrazia è discussione, ragionare insieme; è, socraticamente, filologia. Chi odia discutere, il misologo, odia la democrazia, forma di governo discutidora. Alla persuasione preferisce l´imposizione. Maestro insuperabile dell´arte del dialogo, cioè della filologia, è certo Socrate, cui si deve la denuncia di due opposti pericoli. Vi sono - dice - "persone affatto incolte", che "amano spuntarla a ogni costo" e, insistendo, trascinano altri nell´errore. Vi sono poi però anche coloro che "passano il tempo nel disputare il pro e il contro, e finiscono per credersi i più sapienti per aver compreso, essi soli, che, sia nelle cose sia nei ragionamenti, non c´è nulla di sano o di saldo, ma tutto va continuamente su e giù". Dobbiamo guardarci da entrambi i pericoli, l´arroganza del partito preso e il tarlo che nel ragionare non vi sia nulla di integro. Per preservare l´onestà del ragionare, deve essere prima di tutto rispettata la verità dei fatti. Sono dittature ideologiche, quelle che li manipolano, travisano o addirittura creano o ricreano ad hoc. Sono regimi corruttori delle coscienze «fino al midollo», quelli che trattano i fatti come opinioni e instaurano un «nichilismo della realtà», mettendo sullo stesso piano verità e menzogna. Gli eventi della vita non sono più «fatti duri e inevitabili», bensì un «agglomerato di eventi e parole in costante mutamento (su e giù, per l´appunto), nel quale oggi può essere vero ciò che domani è già falso», secondo l´interesse del momento (Hannah Arendt). Perciò, la menzogna intenzionale - strumento ordinario della vita pubblica - dovrebbe trattarsi come crimine contro la democrazia. Né intestardirsi, dunque, né lasciar correre, secondo l´insegnamento socratico. Il quale ci indica anche la virtù massima di chi ama il dialogo: sapersi rallegrare di scoprirsi in errore. Chi, alla fine, è sulle posizioni iniziali, infatti, ne esce com´era prima; ma chi si corregge ne esce migliorato, alleggerito dell´errore. Se, invece, si considera una sconfitta, addirittura un´umiliazione, l´essere colti in errore, lo spirito del dialogo è remoto e dominano orgoglio e vanità, sentimenti ostili alla democrazia.


4) Lo spirito dell´uguaglianza.

La democrazia è basata sull´uguaglianza; è insidiata dal privilegio. L´uguaglianza è isonomia - «la più dolce delle parole» - l´uguaglianza delle leggi, che, in Grecia, precedette il secolo glorioso della democrazia ateniese. Senza leggi uguali per tutti - pensiamo ai privilegi, alle leggi ad personas - la società si divide in caste e la vita collettiva diventa dominio di oligarchie. Il privilegio crea arrivismo e rincorse perverse. Se la mobilità e gli accessi in alto esistono, la società è sottoposta a stress dal carrierismo diffuso, con disagio, frustrazioni, perfino suicidi; se si chiudono, per insufficiente mobilità, si ingenera un terribile male distruttivo, l´invidia sociale. Tanto sono evidenti, non occorrono esempi della caduta attuale dello spirito di uguaglianza. Si tratta anzi di un rovesciamento: l´ammirazione sta al posto del disprezzo verso i privilegiati, esempi da imitare nel modo di pensare e nello stile di vita. C´è un luogo di culto sociale che esprime lo spirito autentico del nostro tempo: lo stadio. Si faccia attenzione alle stratificazioni del pubblico.

Alla tribuna volgarmente denominata dei vip, dove siedono i prominenti di politica, finanza, mondanità, si volgono gli occhi di diecine di migliaia di potenziali clientes che, invece di avvertire l´indecenza della situazione, farebbero di tutto per esservi ammessi.


5) Il rispetto delle identità diverse.

In democrazia le identità particolari sono ininfluenti sul diritto di stare in società. Non è stato così in passato; non è pienamente così neppure ora. Oggi, il problema della coesistenza di identità plurime è di natura etnico-culturale e religiosa; storicamente, è stato religioso, derivando dal distacco della Riforma dalla Chiesa di Roma. In nome dell´ordine interno, col principio cuius regio, eius et religio, a metà del ?500 si impose in Europa l´identità di religione agli abitanti le medesime terre, rendendo sì possibili le migrazioni da uno stato all´altro per difendere, insieme alla vita, la fede, ma permettendo la persecuzione religiosa entro ciascuno Stato. L´idea della tolleranza nacque per consentire di tenere insieme terra e fede, per non dover perdere l´una volendo conservare l´altra. Ma non alla tolleranza si rivolge la democrazia. Il contesto è diverso. L´assolutismo, quando si ammorbidisce, può parlare di tolleranza; non la democrazia, cui si addice invece il linguaggio della cittadinanza, uguale per tutti. Onde il concetto di identità, se deve valere per riconoscere e proteggere le culture diverse, è irrilevante per la partecipazione alla vita pubblica.

Il rischio viene ora da un nuovo richiamo all´unione tra potere civile e religione. Storicamente, essa ha posto la vita religiosa sotto la potenza degli Stati. Oggi, «atei-clericali», o come li si possa chiamare, mirano al rovescio: cuius religio, eius et regio, in un ambiguo intreccio di potere civile e religioso in cui l´uno si appoggia sull´altro (Stefano Levi della Torre). Una nuova alleanza tra trono e altare, una minaccia di rinnovate intolleranze su ampia scala. Questi problemi sono particolarmente vivi nel riflesso che hanno con riguardo ai simboli, velo islamico o crocifisso cristiano. La democrazia non ne può impedire l´esposizione a nessuno in particolare, ma nessuno, a sua volta, può farne uso aggressivo. Se e quando prevarrà il reciproco rispetto, un problema che oggi appare tanto acuto, all´identità associandosi l´esclusione, si supererà da sé, senza bisogno di soluzioni giuridiche. Molto può la scuola nel promuovere la reciproca accettazione e con ciò abbassare l´insolenza dei segni distintivi.


6) La diffidenza verso le decisioni irrimediabili.

La democrazia implica la rivedibilità di ogni decisione (sempre esclusa quella sulla democrazia stessa). Le soluzioni definitive ai problemi, senza possibili ripensamenti e correzioni, sono dei regimi della giustizia e verità assolute. In quanto perennemente dialogica, la democrazia non ha e non può volere verità né a priori, come frutto per esempio di mandati divini, né a posteriori, come conseguenza di decisioni popolari, anche se unanimi. La strada per dire: «ci siamo sbagliati» deve restare sempre aperta. Non è privo di significato che le democrazie siano prevalentemente orientate contro la pena di morte e contro la guerra, due decisioni dagli effetti irreversibili. Le autocrazie, invece, non hanno scrupoli.
Possono fondarsi, come in de Maistre, sull´elogio congiunto della forza armata e del boia, naturali prosecuzioni della verità assoluta. Tutti comprendiamo quanto le decisioni irreversibili possano pregiudicare la discussione in materie oggi divenute cruciali, come la bioetica, la tecnologia applicata ai temi della vita, della morte e della salute o il rapporto tra l´essere umano e la natura - tutte esposte al rischio di scelte senza ritorno.


7) L´atteggiamento sperimentale.

La democrazia è orientata da principi ma deve imparare quotidianamente dalle conseguenze dei propri atti. E´ scontata la citazione della weberiana etica della responsabilità, accanto all´etica della convinzione. Non è così per i regimi della verità assoluta. Essi non temono le conseguenze. Fiat veritas, fiat iustitia, pereat mundus. Lo spirito democratico è invece quello in cui convinzioni e conseguenze formano il campo di tensione che determina le norme dell´agire responsabile. Ogni progetto realizzato apre problemi che rimettono in discussione il progetto. L´esperienza è il banco di prova della teoria. Immergersi in questa tensione forma il carattere, rende accettabili le sconfitte e promuove nuove energie. Sotto questo aspetto, l´istituzione scolastica da noi è particolarmente carente, orientata com´è all´astrattezza che genera distacco dal mondo, induce alla rinuncia e invita all´individualismo chiuso in se stesso.


8) Coscienza di maggioranza e coscienza di minoranza.

In democrazia, nessuna deliberazione si interpreta nel segno della ragione e del torto. Non vale la massima terroristica: vox populi, vox dei. Essa solo apparentemente è democratica poiché nega il diritto della minoranza, la cui opinione, per opposizione, si direbbe vox diaboli. Vox populi, vox hominum, invece; voce di esseri fallibili ma disposti a riconoscere i propri errori. Il motore di questo movimento sta non nella maggioranza, ma nelle minoranze che fanno loro il motto «distinguìti dalla maggioranza nel compiere ciò che ritieni giusto». La loro ragione d´essere è la sfida alla deliberazione presa, in previsione di un´altra migliore. Per questo, la prevalenza di una maggioranza su una minoranza non è la vittoria della prima e la sconfitta della seconda ma l´assegnazione di un duplice onere: alla maggioranza, dimostrare nel tempo a venire la validità della decisione presa; alla minoranza, insistere su ragioni migliori. Ond´è che nessuna votazione, in democrazia (salvo quelle che instaurano la democrazia stessa) chiude definitivamente la partita, perché il terreno per la sfida di ritorno è sempre aperto.

9) L´atteggiamento altruistico.

 La democrazia è forma di vita di esseri umani solidali. La virtù repubblicana di Montesquieu è questo: amore per la cosa pubblica e disponibilità a mettere in comune qualcosa, anzi il meglio di sé: tempo, capacità, risorse materiali. Ciò costituisce la res publica come risorsa comune cui tutti possono attingere. L´emarginazione sociale è dunque contro la democrazia e l´idea che nessuno possa essere lasciato a se stesso non è elemento accidentale della democrazia. L´alternativa è il darwinismo sociale, l´ideologia crudele che legittima la fortuna dei forti e abbandona i deboli alla loro sorte. Dire queste cose a un pubblico di insegnanti che quotidianamente hanno a che fare con studenti che eccellono e con altri che faticano a tenere il passo significa evocare problemi che essi conoscono bene e solidarizzare con la loro fatica.

 

10) La cura delle parole.

Essendo la democrazia dialogo, gli strumenti del dialogo, le parole, devono essere oggetto di cura particolare, come non è in nessun´altra forma di governo. Cura duplice: quanto al numero e alla qualità. (a) Il numero di parole conosciute e usate è proporzionale al grado di sviluppo della democrazia. Poche parole, poche idee, poche possibilità, poca democrazia. Quando il nostro linguaggio politico si fosse rattrappito al solo sì e no, saremo pronti per i plebisciti; e quando conoscessimo solo più i sì, saremmo ridotti a gregge. Il numero delle parole conosciute, inoltre, assegna i posti nella scala sociale. Ricordiamo ancora la scuola di Barbiana? Comanda chi conosce più parole. Il dialogo, per essere tale, deve essere paritario. Se uno solo sa parlare, o conosce la parola meglio di altri, la vittoria non andrà al logos migliore, ma al più abile con le parole, come al tempo dei sofisti. Ecco perché la democrazia esige una certa uguaglianza nella distribuzione delle parole. «E´ solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l´espressione altrui. Che sia ricco o povero importa di meno». Ed ecco perché una scuola ugualitaria è condizione di democrazia. (b) La qualità delle parole. Per l´onestà del dialogo, le parole non devono essere ingannatrici. Parole precise e dirette; basso tenore emotivo, poche metafore; lasciar parlar le cose attraverso le parole, non far crescere parole su parole. Le parole, poi, devono rispettare, non corrompere il concetto. Altrimenti, il dialogo diventa un modo di trascinare gli altri dalla tua parte con la frode. Ancora impariamo dal Socrate del Fedone: «il concetto vuole appropriarsi del suo nome per tutti i tempi». Il mondo della politica è dove questo tradimento si consuma più che altrove, a incominciare per l´appunto dalla parola «politica». Politica viene da polis e politéia, due concetti che indicano arte, scienza e attività dedicate alla convivenza. Ma oggi si parla di politica di guerra, segregazionista, espansionista, coloniale, ecc. «Questa è un´epoca politica - ha scritto Orwell. La guerra, il fascismo, i campi di concentramento, i manganelli, le bombe atomiche sono ciò a cui pensare». Altro inganno: la libertà, da protezione degli inermi contro gli abusi del potere è diventata, nell´uso «politico», scudo dietro il quale i potenti nascondono la loro pre-potenza.

Inganni, dunque. A chi pronuncia parole come queste siamo autorizzati a chiedere: da che parte stai? Degli inermi o dei potenti?

 

 

 

 

 

 
DEMOCRAZIA - Non promette nulla a nessuno ma richiede molto a tutti .

Nonostante le delusioni, il cui elenco è sempre incompleto, non è mai lecito parlare di patti non mantenuti. L' oppressione dispotica suscita ribellione, il regime democratico stanchezza. Lo spirito attuale non è quello trionfante con cui 50 anni fa si celebrava la vittoria


 

Pubblichiamo la seconda parte della lezione sulla parola democrazia tenuta la settimana scorsa da Gustavo Zagrebelsky al 34° convegno del Cidi, l' Organizzazione degli insegnanti democratici.

Abbiamo detto della democrazia e cercato di mettere in luce dieci implicazioni pratiche della sua nozione con riguardo agli atteggiamenti spirituali che ne devono conseguire. Sarà stato certamente notato, tuttavia, che il problema più importante e, al tempo stesso, più difficile si è finora evitato. Si è infatti è taciuto della premessa, l' adesione alla democrazia. La domanda, ora, non è se si possa insegnare che cosa è o qual è lo spirito della democrazia, ma se si possa insegnare a essere democratici, cioè ad assumere nella propria condotta la democrazia come ideale o virtù da onorare e tradurre in pratica. In breve, si tratta di sapere se ideali e virtù, in particolare la virtù politica che sta a base della democrazia, siano insegnabili oppure no. Siamo così pienamente, di nuovo, al centro di un argomento tipicamente socratico. Se solo alcuni e non altri sono predisposti alla virtù politica, gli uni saranno destinati a governare e i secondi a obbedire e la democrazia sarebbe un esperimento contro natura, destinato ad avere vita breve e a produrre gran danno. Essa ci consegnerebbe indifesi nelle mani di maggioranze di ignoranti senza testa politica, nella migliore delle ipotesi; di malvagi con testa criminale, nella peggiore.

Il mito del Protagora racconta di come Prometeo, avendo distribuito agli esseri viventi, per conto degli dei, tutte le facoltà necessarie per una vita buona, si accorse che mancava agli uomini l' euboulia, l' assennatezza nelle deliberazioni comuni. Onde essi fondavano città per difendersi dai pericoli della vita ferina ma, una volta radunati, scoppiavano dissidi, si disperdevano di nuovo e perivano. «Ora Zeus, temendo l' estinzione della nostra stirpe, manda Ermes a portare tra gli uomini rispetto e giustizia, affinché siano ornamenti e vincoli, propiziatori d' amicizia. Ermes dunque interroga Zeus in qual maniera virtù e rispetto si debbano distribuire tra gli uomini. "Debb' io distribuirle come furono distribuite le arti? E le arti furono distribuite così: un solo che possiede la medicina basta a molti che non la possiedono; e così anche i cultori delle altre arti: devo io dunque collocare allo stesso modo giustizia e rispetto tra gli uomini, o distribuirla tra tutti?". "Tra tutti - risponde Zeus - e che tutti ne abbiano parte, perché non potrebbero esistere le città, se ne partecipassero pochi, come avviene per le altre arti. E poni il mio nome per legge, affinché chi non partecipi al rispetto e alla giustizia sia ucciso come peste della città"».

Tutti sono dunque capaci di virtù politica. Basta che la conoscano. Questa era la convinzione socratica: la virtù esiste in sé, tutti la possono conoscere e, poiché nessuno è malvagio se non per ignoranza, ciò che occorre e basta per essere virtuosi è la retta conoscenza.

Noi sappiamo che, disgraziatamente, non è così; che Socrate erra, sia perché le virtù non sono realtà obiettive ma valori soggettivi; sia perché, comunque, nella natura umana la conoscenza non coincide affatto con la coscienza, perché si può essere malvagi con la perfetta consapevolezza di esserlo.

 Se dunque non è la conoscenza che fonda l' adesione alla virtù, potrà essere l' utilità? Possiamo cioè pensare di promuovere adesione alla democrazia mostrandone i vantaggi? Purtroppo, anche qui la risposta è no. Se ci riferiamo a beni come, per esempio, lo sviluppo economico, la promozione delle arti e della scienza, la pacifica convivenza, la sicurezza pubblica come frutti benefici della democrazia, non possiamo non considerare che esistono momenti critici in cui, proprio per garantirceli quando paiono sfuggirci, siamo disposti a limitare la democrazia, o addirittura a rinunciarci, per metterci nelle mani salvifiche di qualcuno che provveda per tutti. Onde, una fondazione solo strumentale e utilitarista della democrazia potrebbe rivelarsi un suicidio. Né dunque essenzialismo alla Socrate, né mero utilitarismo, nella pedagogia democratica.

Che dire allora, senza cadere in melliflua, ideologica e alla fine falsa e controproducente propaganda di un valore? Chi ha qualche esperienza di insegnamento di temi politici e costituzionali - la legalità, la libertà, la solidarietà, la democrazia, per l' appunto - conosce bene questo pericolo. Un pericolo che comporta anche una contraddizione: qualsiasi altro sistema di governo, ma non la democrazia, può far uso di propaganda. In ogni propaganda è implicita una tentata violenza all' altrui libertà di coscienza.

La democrazia è dialogo paritario e, se vuol essere tale, questo deve farsi deponendo ogni strumento di pressione: innanzitutto pressione materiale, come quella che viene dalla violenza e dalle armi, ma anche pressione morale, come quella che può essere esercitata nel rapporto asimmetrico di autorità-soggezione che si crea talora, quando degenera in autoritarismo, tra padre e figli, maestro e allievo: un rapporto che può mancare di rispetto e contraddire libertà e democrazia.

Pensando e ripensando, non trovo altro fondamento della democrazia che questo solo. Solo, ma grande: il rispetto di sé. La democrazia è l' unica forma di reggimento politico che rispetta la mia dignità nella sfera pubblica, mi riconosce capace di discutere e decidere sulla mia esistenza in rapporto con gli altri. Nessun altro regime mi presta questo riconoscimento, poiché mi considera indegno di autonomia, fuori della cerchia stretta delle mie relazioni puramente private.

E' per questo - cosa notevole - che la Chiesa cattolica, pur in origine favorevole a regimi politici autocratici e poi indifferente, purché essi fossero rispettosi dei suoi diritti e del suo diritto naturale, ha da ultimo condannato le dittature (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 75) e fatto affermazioni preferenziali nei confronti della democrazia (ivi, 32), stante il rapporto tra questa e la dignità umana, un pilastro del suo insegnamento sociale attuale.

 Ma non basta il rispetto di sé, occorre anche il rispetto, negli altri, della stessa dignità che riconosciamo in noi. Il motto della democrazia non può che essere: «Rispetta la dignità del prossimo tuo come la tua stessa». Infatti, il solo rispetto di se stessi e il disprezzo degli altri portano non alla democrazia ma alla lotta per l' affermazione della propria autocrazia, al fine di evitare la necessità e la limitazione del necessario coordinamento reciproco.

Questo rispetto è qualcosa di moralmente elevato, ma non necessariamente incontestabile. Si può rispettare in sé la propria dignità, e così negli altri; ma ugualmente ci possono essere buone ragioni per disprezzare sé e gli altri: ragioni personali, che affondano le loro radici nelle storie individuali; ma anche ragioni universali, come quelle offerte dalle religioni che annichiliscono di fronte a Dio l' essere umano, peccatore fin dall' origine e indegno di condursi da sé, e si predispongono così a forme di governo teocratiche o autocratiche su base religiosa. Anche a questo proposito, la storia meno recente della Chiesa cattolica e dei suoi rapporti con l' autorità politica è istruttiva.

 E lo sono anche certi tentativi recenti di imporre verità dogmatiche tramite la forza dello stato, in questioni eticamente sensibili come quelle che riguardano la tecnologia applicata alla nascita, alla vita e alla morte. D' altra parte, il rispetto di sé e degli altri è sempre esposto al peso della spossatezza. La democrazia stanca. L' oppressione dispotica suscita reazione e ribellione, la democrazia invece stanchezza. La virtù democratica è cosa «pénible», come annotava già Montesquieu: «La virtù politica (della democrazia) è una rinuncia a se stessi, ciò che è sempre molto faticoso da sopportare.

 Questa virtù consiste nella preferenza continua prestata all' interesse pubblico invece che agli interessi propri». Dunque, rispetto agli istinti egoistici, essa, se non proprio una cosa contro natura, almeno è una sfida permanente.

Ma vale la pena questa rinuncia? A che pro? Abbiamo già ricordato le «promesse non mantenute» della democrazia, di cui ha parlato il professor Bobbio. L' elenco delle delusioni è lungo: l' ingovernabilità delle società pluraliste; la rivincita degli interessi corporativi che soffocano l' interesse generale; la persistenza di oligarchie economiche, politiche e di ogni altra natura; lo spazio limitato che la democrazia occupa, non essendo riuscita a penetrare dappertutto nella società; il potere occulto che contrasta con l' esigenza primordiale che il potere si mostri pienamente in pubblico e ha indotto a parlare di un «doppio stato», uno visibile e un altro invisibile; l' apatia politica; il fanatismo e l' intolleranza; tecnocrazia e burocrazia (e quindi gerarchia) invece che democrazia; sovraccarico di domande e difficoltà delle risposte, cioè ingovernabilità. Questo elenco, col senno dell' oggi, è incompleto. Parliamo di videocrazia, conseguente alla crescente concentrazione a livello mondiale e nazionale della comunicazione politica; di plutocrazia, determinata dall' assunzione del potere politico in mani di pochi detentori di smisurate ricchezze personali, e di cleptocrazie, quando quelle ricchezze sono il frutto di attività illecite.

 Si assiste con un senso di impotenza allo sviluppo di una dimensione ormai planetaria delle organizzazioni degli interessi industriali e finanziarie dell' odierno capitalismo, in un mercato che palesemente sfugge al controllo dei poteri politici nazionali, ammesso che essi, anziché essere conniventi, intendano porre regole e controlli. L' aumento delle disuguaglianze e delle ingiustizie su scala mondiale alimenta l' identificazione dei regimi democratici con le plutocrazie, da cui l' identificazione della democrazia, ideale universale, con un regime di casa nostra, regime dei forti e dei ricchi, che credono talora di poterla imporre con lo strumento tipico dei prepotenti, la guerra. Queste sono le «promesse non mantenute». Ma che significa questa espressione? Non nasconde forse un malinteso? E' infatti un modo di dire approssimativo che mette fuori strada. E' come se un tempo ci fossimo affidati alla democrazia, aspettandoci un contraccambio, e quindi potessimo lamentarci se le nostre attese sono andate deluse. Ma la democrazia non è un' Alcina o una Circe. Non ci hanno detto una volta: venite da noi ché vi promettiamo una vita di amorose delizie, e si siano poi scoperte per megere ributtanti che ci riducono a una vita animalesca. Non è qualcosa fuori di noi, indipendentemente da noi e tanto peggio per noi, se ci siamo illusi. Non è lecito parlare di promesse non mantenute della o dalla democrazia, come se questa ci avesse un tempo dato affidamenti, poi rivelatisi vani. La democrazia non promette nulla a nessuno ma richiede molto a tutti. E' non un idolo ma un ideale corrispondente a un' idea di dignità umana e la sua ricompensa sta nello stesso agire per realizzarlo. Se siamo disillusi, è per illusione circa la facilità del compito. Se abbiamo perduto fiducia è perché siamo sfiduciati in noi stessi. Le promesse sono quelle che ci scambiammo tra noi nel dire di volere la democrazia (art. 1 della Costituzione) e, se non sono state mantenute, è perché abbiamo mancato verso noi stessi ed è qui, in questo scarto tra ciò cui aspiriamo e la bruta realtà delle cose, che, naturalmente, si innesta il nostro tema: la pedagogia democratica, l' insegnar democrazia. Lo spirito attuale, di fronte a queste disillusioni, non è certo quello trionfante in cui cinquanta anni fa si celebrava la vittoria delle democrazie sui totalitarismi.

 Nel 1951, pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, si tenne un simposio sulla democrazia promosso dall' Unesco cui parteciparono centinaia di studiosi di tutto il mondo e di ogni orientamento politico. Per la prima volta nella storia dell' umanità, in quegli anni la democrazia riceveva il riconoscimento di unica definizione ideale di tutti i sistemi di organizzazione politica e sociale e diventava la categoria-base su cui collocare e a cui confrontare tutte le azioni, i pensieri e le relazioni politiche. Essa risuonava come sintesi di tutto ciò che di bello e buono esiste nella vita collettiva.

 Nessun regime, capitalista o socialista, liberale o sociale, pluripartitico o a partito unico, rappresentativo o basato su auto-investiture carismatiche, ecc. intendeva rinunciare ad autoproclamarsi democratico. Il problema dell' adesione sembrava universalmente risolto. Fin da allora, però, doveva risultare chiaro proprio da quell'illimitata adesione che il nobile concetto era sottoposto a una tale dilatazione da perdere di significato, oltre che analitico, anche ideale, predisponendosi così, fin da allora, a corrompersi e anche a rendere bassi servigi a chi avesse voluto travestirsi in democratico per i propri scopi.

 Quello spirito trionfante non c' è più e ci si accorge sempre più spesso che la democrazia esige ricostruzione, dove c' è da recuperare le posizioni, e resistenza, dove c' è da salvaguardarle. E si fa sempre più chiara la consapevolezza che si ha a che fare con macro-difficoltà, mentre la democrazia, oggi, è all' altezza dei suoi propositi piuttosto in micro-dimensioni.

 Ma cos' altro possiamo fare se non considerare che la diffusione nelle coscienze dell' attaccamento alla dignità delle persone, al valore della democrazia e alle azioni che ne derivano si possa generalizzare al punto da insidiare, a sua volta, le insidie che la minacciano?

(fine seconda parte)

 

Relazione tenuta durante il Convegno Nazionale  CIDI  il  4 marzo 2005

*Gustavo Zagrebelsky Nato nel 1943, autore di numerose pubblicazioni, fra cui alcune anche scolastiche, ha insegnato Diritto Costituzionale e Giustizia Costituzionale all’Università di Torino. Nominato giudice costituzionale nel 1995 è diventato presidente della Corte Costituzionale il 28 gennaio 2004


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