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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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IL MISTERO DEGLI ESAMI DI STATO

di STEFANO STEFANEL
Dirigente scolastico
Istituto comprensivo di Pagnacco

Gli esami di stato della scuola italiana alla fine dei suoi due cicli dell’Istruzione sono gli unici esami non selettivi d’Italia e fanno il paio solo con altri meccanismi concorsuali impropri, quali, ad esempio, l’esame per la patente di guida e i concorsi riservati, che null’altro sono che un modo per promuovere attraverso una sanatoria, senza dover subire sorprese di alcun genere.  La perdita di credibilità della scuola sia nei confronti dell’opinione pubblica nazionale, sia nei confronti delle istituzioni educative di livello internazionale trova la sua testimonianza diretta negli esami di Stato, diventati praticamente esami “di graduazione”: poiché quasi nessuno viene bocciato gli esami servono a distinguere gli alunni attraverso giudizi conclusivi (Scuola secondaria di 1° grado) o voti (Scuola secondaria di 2° grado). Anche questo dato testimonia una mancata attenzione della scuola per i suoi stakeholder: che senso ha, infatti, declinare graduazioni che non vengono tenute in conto da nessuno e che non fanno acquisire alcuna facilitazione, vista anche la trasformazione delle Università, che raccolgono gli iscritti più in base ad operazione di marketing che di vera e propria selezione?

I concorsi riservati nel pubblico impiego, il rilascio di una patente di guida praticamente “eterna” per tutti, il titolo di studio ottenuto dopo un corso scolastico regolare ma attraverso un esame finale inutile costituiscono alcuni degli elementi non marginali della caduta di credibilità del sistema-Italia. La logica delle sanatorie può avere giustificazioni di parte sindacale e politica, laddove il numero degli iscritti e le percentuali del consenso annullano qualsiasi considerazione meritocratica, ma nel campo della competizione economica, culturale o intellettuale sono dei deterrenti negativi. Non è un caso, infatti, che tutte le rilevazioni nazionali o internazionali (dalle valutazioni dell’Invalsi al Programma Ocse-Pisa, dai Progetti regionali di valutazione gestiti dagli Usr o dagli ’Irre alle autovalutazioni delle scuole) non prendano mai in considerazione gli esiti dell’esame di Stato, cioè del momento conclusivo di un ciclo di studi.[1] Questo significa solo che il sistema scolastico italiano non si può misurare attraverso le sue prove d’esame, che diventate il modo attraverso cui viene comunicata una reale impotenza a migliorarsi.[2]

 

CUI PRODEST?

Quando una prassi continua a ripetersi negli anni vuol dire che produce dei vantaggi per qualcuno. Questa regola aurea pare non valere per gli esami di Stato: inutili e pesanti quelli della Scuola secondaria di 1° grado, per certi versi dannosi quelli della Secondaria di 2° grado. Che senso ha esaminare torme di adolescenti desiderosi di andare in vacanza laddove non si sa cosa si cerca di misurare, non è chiaro perché lo si fa,  si percepisce che la società non saprà che uso fare dei voti usciti da quegli esami? Se tutti o quasi gli alunni ammessi all’esame di “terza media” vengono promossi confermando il giudizio con cui sono stati ammessi all’esame stesso, se tutti o quasi gli alunni ammessi all’esame di “quinta superiore” vengono promossi con un voto che la commissione giudicante ha in mente già da prima dell’inizio delle prove d’esame, sfugge chi trae giovamento da una simile pratica. Quando una pratica viene ripetuta nei decenni e non produce alcun reale vantaggio per alcuno vuol dire che sta mettendo in evidenza un sistema poco efficiente e per nulla efficace.

Tra le varie opinioni sull’esame di stato quella prevalente tra i docenti (e anche tra molti dirigenti) è che piuttosto che bocciare un candidato è meglio non ammetterlo alla prova d’esame. Questa corrente di pensiero manifesta l’idea che l’esame non possa essere considerato una prova di qualche valore o che in Italia gli esami non riescano mai a dare responsi accettabili o reali. Il concetto stesso di concorso riservato prefigura l’idea che un concorso ordinario sia destinato determinare ingiustizie e per questo è necessaria una fase riservata in cui ammettere coloro che hanno maturato titoli per essere “promossi”, ma che non danno garanzia di poter superare un concorso ordinario o che, semplicemente, non lo hanno superato.[3] Dovrebbe far riflettere un sistema scolastico e ordinamentale che non ha fiducia nella procedura di assunzione ordinaria e che vede nei concorsi un modo per alimentare le ingiustizie invece che per eliminarle. Anche la letteratura sull’esame di stato risente di una normativa farraginosa[4] e che non va alla sostanza della prova d’esame e del suo valore sociale.[5] Rimane poi aperta la questione relativa alla liceità per uno Stato di mantenere in vita prove che producono risultati “non graditi” e forse sarebbe più accettato dal mondo della scuola un sistema di “sanatorie mascherate”, cioè concorsi per soli titoli o per soli servizi acquisiti. Non c’è un senso nel mantenere in vita prove in cui nessuno crede, che possono essere sostituite da altre che prefigurano una maggiore coesione con la realtà.

Se lo scopo è quello di licenziare tutti gli alunni che hanno maturato un dato tipo di crediti, allora bisogna impostare una prova d’esame che possa solo “aumentare” il voto o mantenerlo inalterato. Se invece si vuole un vero esame di Stato allora bisogna contemplare anche la possibilità che un candidato ammesso con il massimo dei voti svolga prove così scadenti da poter essere bocciato. Invece in Italia si applica una “terza via”: strutturare una prova d’esame “seria” e poi tenere conto solo parzialmente dei suoi risultati. In tal senso è significativa l’esperienza degli esami di maturità, ma è particolarmente preoccupante quella degli esami di terza media, dove succede che si promuovano anche alunni che forniscono prove d’esame a livello di analfabetismo. Tra l’altro negli esami di maturità accade, a volte, che una certa indulgenza preoccupata venga in soccorso solo di alcuni candidati e non di tutti (solo di “quelli che meritano” ad insindacabile giudizio dei docenti che ritengono di avere una potestà valutativa che non deve rendere conto a nessuno).

Finché poi l’esame di terza media verrà normato da documenti come l’Ordinanza Ministeriale n° 90 del 21 maggio 2001 grossi passi in avanti non se ne potranno fare. Questa ordinanza viene ormai stancamente reiterata dal Miur che attende l’attuazione della legge n° 53 del 28 marzo 2003 anche in relazione agli esami di terza media (con il passaggio della realizzazione delle prove all’Invalsi).[6] La realtà è che vengono date indicazioni particolari su pratiche ormai desuete e che producono solo faldoni di documenti di complessa consultazione. Negli esami di Stato poi vengono applicati criteri di valutazione non chiari, compensativi, realizzati in forme stereotipate e burocratizzate. Non è dato di sapere ancora in che modo l’Invalsi entrerà nel nuovo esame di Stato della Riforma Moratti, né se la Riforma Moratti riuscirà a superare l’estate. Sembra dunque che la convivenza tra la scuola e gli esami di Stato debba continuare ancora senza che questo faccia sollevare anche a livello ministeriale alcune delle perplessità che sono ormai patrimonio comune della pubblica opinione.

Resta, infine, l’idea che la scuola italiana finisca “male” i suoi cicli di studi, con prove d’esame che non dicono nulla e che non riescono ad influenzare quel futuro dei ragazzi che dovrebbe trovare in quelle prove il punto di partenza e di confronto con la società che andranno ad incontrare.


 

[1] Può essere interessante notare come anche chi analizza in forma sistematica il sistema-scuola sia più interessato a capire quanti ragazzi di 19 anni non si diplomino, che ad analizzare i risultati di quelli che si diplomano (Quaderno n° 1, maggio 2002, Associazione Treellle, Scuola italiana, scuola europea?, pag. 59).

[2] Due articoli di origine culturale e politica opposta hanno detto, qualche tempo fa, la stessa cosa: Concita De Gregorio su D di repubblica del 25 giugno 2005 e Gaspare Barbiellini Amidi sul Corriere della sera del 28 luglio 2005 hanno scritto con chiarezza che gli esami di Stato della scuola italiana non sono una cosa seria e non possono aiutare in questo periodo i nostri ragazzi a crescere. La replica del Ministro Letizia Moratti sul Corriere della sera del 3 agosto 2005 non è stata affatto convincente, soprattutto perché ha messo in rapporto la “serietà” degli esame con la “sua” Riforma, laddove questa riforma non è riuscita a produrre ancora alcun esito misurabile.

[3] Esiste un rapporto stretto tra il declassamento degli esami di stato a mero “passaggio” formale e la pratica dei concorsi riservati. Questa logica è sottesa anche nel reclutamento dei dirigenti, laddove al Concorso ordinario indetto con DDG del 22 novembre 2004 è stato subito affiancato il decreto legge n° 7 del 31 gennaio 2005, approvato in via definitiva il 23 marzo 2005, che prevede una riserva “totale” per i dirigenti scolastici incaricati. La storia di questi giorni conferma che il Concorso ordinario per Dirigenti scolastici ha “bocciato” troppi incaricati, che ora reclamano non altri concorsi selettivi, ma forme più o meno velate di sanatorie.

[4] Si veda il completo numero di “Notizie della scuola” (n° 18 del 16-31 maggio 2005) a cura di Marzio Tiriticco sull’esame di Stato in cui sono raccolte le normative di riferimento, lunghe, complesse, piene di riferimenti e di descrizioni, lontane da quella che è la prassi d’esame reale.

[5] Teresa Boella Ruggiero, Valutazione ed esame di Stato, in “Dirigere la scuola”, n° 6, giugno 2005.

[6] Giambò Antonino, Progetto pilota ed esami di stato, Allegato a “Notizie della scuola”, n° 13 del 29 febbraio 2004


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