Come
si costruisce l’alleanza?
Un genitore
rappresentante che legga, si documenti alla ricerca di
risposte, che abbia compreso che occasionali iniziative e
individuali, per quanto generosi, impegni non modificano
positivamente la realtà, che provi a non restare nei
corridoi nella scuola (*)
cercando condivisione con altri che l’aiutino ad entrare,
non è un supporto ma costituisce una minaccia. Potrà trovare
altri genitori attivi, ricevere soddisfazioni e
gratificazioni oppure subire delusioni e sconfitte,
studiare, capire, superare difficoltà alle quali se ne
frappongono sempre altre, ma resterà fuori. E forse vi
rimarrà, vista la sorte incerta degli organismi collegiali.
È
incredibile scoprire che in fondo a distanza di 40 anni la
realtà della nostra scuola sia cambiata così poco. Ha
indossato un abito diverso, il mondo intorno è mutato, ma la
sua intima essenza, il suo cuore e la sua incapacità nel
creare un vero legame con la famiglia, che continua ad
essere vista come una fastidiosa interferenza, restano
pressoché invariati. Ed è incredibile leggere come 40 anni
fa siano riusciti a vedere tanto oltre da un punto di
osservazione tanto limitato.
“Ora
siamo qui ad aspettare una risposta. Ci sarà (…) qualcuno
che ci scriverà: “cari ragazzi, non tutti i professori sono
come quella signora. (…) anche se non sono d’accordo su
tutto quello che dite, so che la nostra scuola non va. Solo
una scuola perfetta può permettersi di rifiutare la gente
nuova e le culture diverse. E la scuola perfetta non esiste.
Non lo è né la nostra né la vostra”(1)
Ma nessuno
è stato in grado o ha voluto rispondere. E così la
scuola non va, oggi come ieri. Il panorama
socio-culturale è cambiato ma i problemi restano, vecchi e
nuovi, sempre incapaci di affrontarli.
Dispersione, obbligo scolastico, orientamento
“La scuola ha un problema solo. I
ragazzi che perde”.
(2) Questo è senza dubbio
il vero problema ma purtroppo non il solo. La scuola
continua a perdere i suoi ragazzi perché non sa leggere i
loro bisogni, per lo più non progetta tenendo conto di essi,
non li legge in chiave territoriale, non li condivide con le
famiglie. È significativo che questo dato sia confermato
proprio dai materiali correlati al progetto Gold Train
“per la diffusione delle buone pratiche della scuola”, dove
si legge nell’ambito di un’indagine che le “buone pratiche”
rispondono più ad un’esigenza correlata all’”apprendimento”,
allo scopo di renderlo più gradevole motivando gli studenti,
che ad un reale bisogno degli stessi(3).
40 anni fa la “scuola dell’obbligo” perdeva
462.000 (4) ragazzi
l’anno. Oggi i dati della scuola di grado inferiore sono in
sensibile miglioramento ma i valori complessivi del fenomeno
“dispersione” (con cui non si intende solo l’abbandono ma
una casistica più complessa che comprende la non ammissione
alla classe successiva, i ritiri, i ritardi, le interruzioni
ecc.) restano preoccupanti. Infatti, secondo le rilevazioni
del MPI con riferimento all’anno 2005, “In Italia, gli
school leavers rappresentano il 21,9%” mentre nei 25
Paesi membri dell’UE i livelli si sono attestati mediamente
intorno al 14,9%(5). Il
dato diventa ancora più allarmante se si considera che la
Conferenza di Lisbona (6)
ha stabilito 5 indicatori/obiettivi da raggiungere
in materia di istruzione entro il 2010. Tra questi è
previsto che la percentuale dei giovani tra i 18 e 24 anni
che raggiungono solo il titolo di primo grado (secondaria di
primo grado) debba contenersi entro il 10%, percentuale
dalla quale siamo ampiamente lontani.
Per
un’analisi corretta occorrerebbe considerare i percorsi
formativi nel loro complesso, dunque quelli che passano non
soltanto attraverso l’istruzione scolastica ma anche la
formazione professionale ed il mondo del lavoro.
Le
variabili sono molteplici, di carattere soggettivo,
economico e geografico. Sicuramente il quadro
socio-economico è un fattore discriminante.
Però ciò
che allontana dalla scuola in maniera determinante è
l’insuccesso scolastico.
Da
quando la L. 53/2003 ha abolito l’esame nel passaggio dalla
quinta classe della scuola primaria alla prima della
secondaria di primo grado, il disagio diventa evidente con
l’inizio del secondo ciclo di istruzione, anche per la
mancanza di un’efficace azione “orientativa” della scuola
nel momento della scelta. La non ammissione agli anni
successivi determina infatti l’abbandono in molteplici casi
e l’incidenza è senza dubbio maggiore nel primo anno mentre
tende a ridursi in quelli successivi. Tra gli istituti, il
tasso di abbandono è sensibilmente più alto nell’ambito dei
professionali (anche per la possibilità d’interruzione
anticipata al terzo anno) e degli artistici nonché
geograficamente prevalente nelle regioni del sud ed
insulari.
Sul
livello di scolarizzazione influisce anche l’opportunità
offerta da corsi di formazione professionale, ovviamente ove
geograficamente diffusi. Questo crea una ulteriore
discriminazione tra aree ricche e povere. Infatti in
generale, come si desume dal rapporto ISFOL 2004 la
maggioranza dei corsi è organizzata nelle regioni del Nord
ed in particolare in Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna.
(7)
Ma anche
le possibilità di facile accesso al mondo del lavoro non è
priva di effetto sulla tendenza a concludere il percorso di
studi. Questo fa comprendere perché il fenomeno della
dispersione non sia limitato solo alle aree “a rischio” ed
economicamente disagiate, ma in maniera “trasversale” sia
presente anche nelle zone ad elevato sviluppo economico,
laddove le maggiori prospettive d’inserimento nel mercato
del lavoro fanno apparire precocemente più vantaggioso
l’abbandono, a discapito ovviamente nell’un caso come
nell’altro (si parla di dispersione ricca e povera), del
livello di professionalità. Infatti, anche considerando le
valutazioni conseguite mediamente nell’ultimo anno del corso
di studi, si rileva un significativo abbassamento degli
standard di qualità dell’apprendimento.
Generalmente la determinazione all’abbandono nonché le
maggiori carenze formative si riscontrano in prevalenza tra
i maschi. (8)
Ciò che
colpisce è che non si riesca ad andare oltre la lettura del
dato e l’incapacità di ipotizzare e realizzare azioni
efficaci in grado di arginare il fenomeno.
Anche il
Progetto 92, a partire dal quale si è
proceduto alla ridefinizione dei curricoli degli istituti
professionali, si è rivelato inadeguato, lontano dall’ottica
di una progettazione individualizzata e rispondente ai
bisogni, tanto che il livello di dispersione nel loro ambito
resta il più alto (9).
Per
fronteggiare questa emergenza si è pertanto attuato, sempre
in via sperimentale, il Progetto 2002
(10) avviato dal 1997 allo
scopo proprio di realizzare una maggiore personalizzazione
del curricolo del professionale, ispirandosi a criteri di
flessibilità conformi ai principi dell’autonomia e
promuovendo un maggiore raccordo col territorio ed il mondo
del lavoro. Tuttavia le statistiche non migliorano. Comunque
sembra che forse, dopo anni di sperimentazione, ci si stia
avviando verso un’ipotesi di riordino.
(11)
Ma
pretendere di fronteggiare attraverso una soluzione di
natura organizzativa una problematica soprattutto umana e
sociologica è ulteriore dimostrazione
che la scuola è incapace di leggere i bisogni
dell’allievo e non è predisposta all’”ascolto”
(12). Non è difficile
individuare chi è destinato all’abbandono in quanto questo
evento rappresenta l’esito di un percorso degenerativo che
ormai si è evoluto ad un punto di non ritorno. Infatti
l’alunno manifesta sin dai primi anni del suo corso di studi
atteggiamenti significativi (quali mancato inserimento nella
classe, manifesta ostilità, ripetute assenze), così come
anche è possibile valutare una componente familiare, come
una sorta di predisposizione dovuta a fenomeni imitativi
(13)
Ma
nessuno ha preparato i docenti a questa operazione di
ascolto (14) ed è più che
mai importante che l’azione della scuola si metta in
discussione (15)
Sicuramente non è possibile pensare di risolvere il problema
semplicemente attraverso l’innalzamento dell’obbligo.
Ma qual
è poi il significato dell’ “obbligo formativo”? L’art. 34
della Costituzione recita: L'istruzione inferiore,
impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
L’istruzione per otto anni oltre che obbligatoria deve
essere “garantita”. E “8 anni vuol dire 8 classi
diverse. Non 4 classi ripetute due volte ognuna…”
(16)
Dopo 40 anni ancora si ripropone lo stesso quesito.
Superate di fatto le questioni relative al “diritto-dovere”
e limitandoci a parlare appunto di “obbligo” ci addentriamo
in un’altra zona oscura del sistema formazione.
In primo luogo bisogna rilevare come la finanziaria 2007
parli di “obbligo di istruzione” per almeno 10 anni e non
di “obbligo scolastico”, come prevede il programma
dell’attuale maggioranza di governo con la sua elevazione a
16 anni. La differenza terminologica non è priva di
significato sostanziale perché la scuola non identifica in
toto il concetto “istruzione”. In una recente analisi
sull’argomento (17) si
legge una frase di Gramsci: "La legge è un'imposizione:
può importi di frequentare la scuola, non può obbligarti a
imparare, e, quando abbia imparato, a [non] dimenticare".
Possiamo obbligare i ragazzi ad andare a scuola fino a 16
anni ma questo non significa che essi riescano a completare
l’intero percorso formativo. D’altra parte l’“obbligo” può
dirsi “assolto” con il semplice raggiungimento dell’età
prevista ma è “adempiuto” solo con l’esecuzione della
prestazione oggetto dell’obbligo dunque con l’effettiva
percorrenza degli anni di istruzione. Escluso che la legge,
come sostiene giustamente Gramsci, possa importi ad
imparare, considerando che ben si potrebbe restare a scuola
per 10 anni senza neanche superare il passaggio alla
secondaria di primo a quella di secondo grado, bisognerebbe
o concludere per la promozione obbligatoria fino al
raggiungimento dell’età prevista o svincolare il concetto di
obbligo da un riscontro numerico ed in particolare d’età per
riportarlo sui piani dei “saperi”. Chiedersi cosa sia quel
bagaglio minimo di cognizioni che consenta anche l’accesso
ad un percorso che non sia solo scolastico. Bisogna
comprendere se elevare l’obbligo corrisponda ad un’esigenza
di migliorare la qualificazione e formazione o risponde solo
alla logica solo di attenuare il fenomeno della dispersione.
In pratica: meglio a scuola obbligatoriamente che in strada.
Don Milani aveva proposto tre riforme:
1)
Non bocciare.
2)
A quelli che sembrano cretini dargli la scuola a
tempo pieno.
3)
Agli svogliati basta dargli uno
scopo.(18)
Nessuna di esse è stata realizzata. L’insuccesso continua a
mietere vittime; di tempo pieno ce n’è sempre meno per tutti
(ma poi… quale tempo pieno?!); l’integrazione ancora non si
è compreso come realizzarla; scopi non si riesce a darne.
Perché la scuola progetta senza ascoltare i bisogni e non
c‘è alleanza con la famiglia.
La
scuola fatica a realizzare un “progetto educativo”
individualizzato ed a “potenziare le capacità” dell’alunno.
Per
quanto (art. 1 Direttiva 487/97)
L'orientamento - quale attività istituzionale delle scuole
di ogni ordine e grado - costituisce parte integrante dei
curricoli di studio e, più in generale, del processo
educativo e formativo sin dalla scuola dell'infanzia,
esso appare spesso come un’attività che si esplica
soprattutto se non esclusivamente al momento della scelta ed
in funzione di essa.
Proprio
perché i “segnali” si manifestano con anticipo rispetto al
fenomeno è necessario che questa attività proprio
nell’ottica di “prevenzione” della dispersione e
“promozione” della scolarizzazione avvenga rispettando i
tempi previsti non a caso dalla Direttiva
(19).
Ma senza
una preparazione all’”ascolto” difficilmente la scuola
riuscirà a guidare i genitori e gli studenti nella scelta.
Un
sindacato di babbi e mamme
Massimiliano Amato ne “l'Unità”
del 15/4/2007 così
titola il suo articolo: “Si
è sgretolata l’alleanza fra scuola e famiglia” ma in
realtà questa alleanza è mai esistita? 40 anni fa è stato
scritto: “Finchè avrete il coltello dalla parte del
manico i genitori staranno zitti. E allora o levarvi di mano
ogni coltello (voti, pagelle, esami) o organizzare i
genitori.
Un
bel sindacato di babbi e mamme capace di ricordarvi che vi
paghiamo per servirci e non per buttarci fuori.
In
fondo sarebbe il vostro bene. Quelli che non ricevono
critiche, invecchiano male. S’estraniano dalla storia che
vive e progredisce. Diventano quelle povere creature che
siete voi. (…)”(20)
Quel
coltello è ancora nelle mani di chi lo possedeva, i genitori
non si sono organizzati e la valutazione, pur normativamente
prevista, è una chimera. Eppure con la scuola condividiamo
una duplice responsabilità, educativa e collegiale, e la
scuola dell’autonomia chiede il nostro contributo.
Ma i
genitori non sono educati a partecipare.
E le
associazioni riconosciute dei genitori, incapaci di
realizzare un vero contatto con la base, non riescono a
rappresentarli.
Un
excursus storico molto interessante dell’organizzazione
scolastica si legge nei Documenti dell’associazione Treelle
anche perché testimonia la difficoltà obiettiva e cronica
nella realizzazione partecipativa dell’”alleanza”
(21)
Si evidenzia come al tempo della legge Casati, che dettò
l’originaria disciplina dell’istituzione non era previsto
alcun contributo partecipativo della società che rimaneva
fuori da essa come in generale da ogni settore della
pubblica amministrazione
(22).
I
Decreti Delegati del 1974 hanno dato una risposta alle
esigenze di maggiore partecipazione nel clima immediatamente
post-sessantottino. (23)
Così il DPR 416/74 ha conferito alla scuola il “carattere
di una comunità” (art. 1) cui sono chiamati a
partecipare “collegialmente” più soggetti ma “nel
rispetto degli ordinamenti della scuola dello Stato e delle
competenze e delle responsabilità proprie del personale
ispettivo, direttivo e docente”. Furono creati organi
collegiali interni e territoriali tra i quali non v’era
“rapporto gerarchico” ma “cooperativo”, secondo le proprie
competenze. Ma il principio di collegialità fu introdotto
all’interno di una struttura organizzativa sostanzialmente
immodificata con la quale dunque mal si conciliava.
L’assetto centralistico dei poteri di gestione era rimasto
pressoché invariato ed il passaggio da un “sistema
burocratico” e specializzato a quello collegiale con cui
condividere le competenze gestionali non poteva essere senza
trauma e di fatto non s’è mai pienamente realizzato. Quindi
l’entusiasmo iniziale, che aveva segnato una partecipazione
alle elezioni dei genitori fino all’80 %, si è gradatamente
e sensibilmente ridotto, anche perchè diciamolo, la scuola
non ha mai favorito la partecipazione.(24)
Pertanto
non ci si può limitare ad osservare che la collegialità non
ha funzionato perché ciò tra l’altro non è vero ovunque.
Bisogna chiedersi perché qui e non altrove e perché.
Ma vi è
di più.
In un
recente editoriale di Alberoni si legge che ad ogni “esplosione
creativa” segue una situazione di “instabilità”
cui succede una nuova “stagione delle passioni”
(25). Ebbene, i genitori
non hanno attraversato alcuna di queste fasi. Il
riconoscimento del diritto di partecipazione non è in realtà
una nostra conquista. Sono gli studenti che hanno meritato
quel diritto e rivendicato appassionatamente per essi, e per
noi. Perché meravigliarsi dunque se ad essi sono
riconosciute le Consulte, se uno Statuto disciplina i loro
diritti o se firmano la Carta di Palazzo Valentini?
(26)
Non è
esistito un movimento da parte dei genitori che abbia
affermato le proprie istanze di partecipazione.
I
giovani vivono di passioni ed hanno uno sguardo verso il
futuro, vedono oltre.
Dov’è la
nostra passione? E dove finisce il nostro sguardo?
Le
mamme
“Le
mamme non sono sante. Non vedono più in là del loro uscio. È
un difetto grosso. Ma il bambino è di qua dall’uscio”(27)
Perché
le mamme?!
L’IRRSAE
del Veneto negli anni 1998-2000 quale sperimentazione
dell’autonomia scolastica ha svolto un’indagine in merito
alla partecipazione dei genitori
(28). Dalla relazione conclusiva si legge che “Per
conoscere più da vicino i genitori, per sapere cosa fanno,
cosa propongono e come interagiscono con la scuola”
furono inviati dei questionari ai 1000 presidenti dei
consigli di istituto della regione. È emerso che “il
presidente tipo” è “prevalentemente maschio, tra i
quaranta ed i cinquant’anni, diplomato o laureato, impiegato
o libero professionista e autodidatta per ciò che riguarda
la nuova scuola”. In ogni caso per lo più persone che
possono disporre con maggiore elasticità del proprio tempo.
A livello di classe invece i rapporti cambiano decisamente.
Anche se l’analisi citata era rivolta ai soli presidenti, è
un dato che può essere accertato senza ricorrere ad
elaborate analisi statistiche da chi partecipa abitualmente
al mondo della scuola, l’80% dei rappresentanti di classe è
costituito da donne prevalentemente casalinghe o che
svolgono attività lavorative compatibili, così come per gli
uomini. Insomma sembra che il criterio selettivo della
partecipazione genitoriale sia determinato dal tempo libero!
Sembra quindi che il problema della partecipazione vada
affrontato e risolto al femminile (**).
La
questione è seria ed attiene anche all’ambito delle
“motivazioni”, alla circostanza che gli incarichi di
rappresentanza collegiale per i genitori non hanno alcun
reale riconoscimento compensativo, non essendo neanche
contemplata la previsione di pur minime contribuzioni né di
permessi retribuiti (quanto al rilascio di permessi
lavorativi di recente s’è fatta qualche ipotesi)
(29), nonché ad un
“declassamento” del ruolo, la cui attività sembra limitarsi
sempre più alla raccolta di fondi per acquisto regali o
materiali di vario tipo, l’eventuale disponibilità per
l’accompagnamento a visite guidate, la partecipazione alle
riunioni dei consigli di classe ed interclasse (l’efficacia
e la sostanza della quale è dato meramente soggettivo, non
considerando i casi limite di chi è preoccupato solo della
promozione del proprio figlio(30)
…è ancora vero quindi che… le mamme non vedono al
di là del proprio uscio…?!).
Comunque
l’indagine dell’IRRSAE nell’evidenziare la mancanza di
competenze specifiche rivela altresì che, pur riscontrandosi
la presenza sul territorio di comitati genitori (ma questo
non è un dato che può ritenersi costante in tutta la
penisola) il loro “impegno” come quello delle famiglie è “rivolto
maggiormente, però, verso attività extra, come feste,
manifestazioni sportive o teatrali, mercatini, gemellaggi,
ricerca fondi, piuttosto che verso ciò che più riguarda la
vita di scuola, ovvero organizzazione di mense, visite
didattiche, presenza con funzione di esperti in classe”(31).
Ma non sarà mica che la maggior parte di quei pochi che
vivono attivamente, autoformandosi, l’esperienza della
collegialità rivendicando la qualità della loro
partecipazione sono proprio gli ex studenti del ’68?!
Monitoraggi e MoniPOF… quali risultati?
Monitoraggi simili, durante la sperimentazione dei MoniPOF,
sono stati effettuati anche in altre regioni, anche se non
per tutte v’è pubblica traccia dei relativi esiti. È
pertanto indicativo il rapporto di sintesi realizzato
dall’IRRE (32).
L’iniziativa ha coinvolto focus-group
(docenti-studenti-genitori). Dal rapporto si segnala una
certa uniformità dei dati raccolti sull’intero territorio
nazionale. Si riscontra in particolare: gli incontri con i
genitori e gli studenti hanno avuto una bassissima
frequenza (18% i genitori e 7.7 % gli studenti); scarsa
attenzione all’attività di formazione; il 23% degli istituti
scolastici ha mostrato sensibilità alle azioni di
valutazione; il POF è per lo più adottato da “gruppi di
progetto” composti quasi esclusivamente da docenti (i
genitori presenti per il 19,1% gli studenti per il 9,4% );
difficoltà delle scuole a ragionare in materia di
flessibilità e curricolo; il luogo di elaborazione del POF
non sono più gli organi collegiali; in generale scarso
coinvolgimento dei genitori. Tuttavia sembra che
l’esperienza dei MoniPOF si sia conclusa con la sola
rilevazione dei dati senza che ad essa abbia fatto seguito
un’azione concreta diretta a superare le criticità
riscontrate. A che pro un tale dispendio di energie se è da
40 anni che nulla si è modificato?
Sembra
mortificante a questo punto dire: la collegialità non ha mai
funzionato!... Ma è stata mai messa nelle condizioni di
funzionare?! E cosa cambierà se si modificherà la
composizione di questi organi (due, quattro o otto genitori)
se si lascia che persista tutto ciò che ha impedito loro di
operare efficacemente?
Emergono
fin qui due dati: la mancanza di educazione/formazione alla
partecipazione e nello specifico all’esercizio dell’attività
collegiale e la composizione poco omogenea della
rappresentanza (costituita all’80% da donne). Finché non si
riequilibrerà la composizione e si formeranno le
rappresentanze qualificandole anche la visione cooperativa
della scuola dell’autonomia non potrà realizzarsi.
Ma se la
rappresentanza è composta prevalentemente da donne dobbiamo
concludere che l’incapacità ad organizzarsi è un problema
tutto femminile?
Oggi: La scuola dell’autonomia - realtà del coinvolgimento e
della partecipazione – buone pratiche
L’autonomia scolastica ha rinnovato e rafforzato le esigenze
partecipative laddove alla scuola si richiede di condividere
una progettazione territoriale con le varie realtà ed in
particolare ascoltando le istanze dei genitori.
Il primo effetto della L. 59/97 (legge Bassanini), che
all’art. 21 disciplina appunto l’autonomia scolastica, è
stata l’attribuzione della dirigenza ai capi di istituto. Se
è vero che la funzione educativa non può svolgersi senza la
partecipazione di tutte le componenti della comunità
scolastica le nuove prerogative dei capi di istituto mal si
conciliano col mantenimento di una struttura collegiale e
delle sue attribuzioni, considerando che egli deve
esercitarle “nel rispetto delle competenze degli organi
collegiali scolastici”, (art. 21 comma 2 L. 59/97).
Diventa quindi necessario ridefinire compiti e prerogative
ma anche potenziare l’esigenza di una collaborazione tra i
soggetti in causa. Tra l’altro, e lo spiega il DPR 275/99,
la scuola si trasforma, almeno in teoria, come si è detto,
da una comunità ad organismo più complesso, realtà
territoriale aperta ed eterogenea con una specifica
progettualità che trascende i limiti dell’edificio
scolastico.
Sicché, il Piano dell’Offerta Formativa, stante ai contenuti
ed ai principi espressi, non dovrebbe rappresentare, come
purtroppo avviene, “il
luogo in cui vengono riportate le varie iniziative che
conduce o intende condurre l’istituto”
(33) ma un progetto
territoriale organico e condiviso e continuamente
modificabile attraverso “verifiche” che consentano di
“riorientare” le scelte. Con circolare dell’11 maggio 2004
l’INDIRE (34) ha intrapreso
un’azione di monitoraggio dei Piani dell’Offerta formativa
al fine di evidenziare eventuali criticità ma anche per
realizzare uno scambio informativo, di esperienze e buone
pratiche, nonché di confronto ed a tal fine le istituzioni
scolastiche sono state invitate a comunicare i loro POF alla
relativa banca dati. Ovviamente si tratta di iniziativa di
carattere meramente volontario. Stante ai dati complessivi
relativi al numero delle istituzioni scolastiche
(35) si desume che sono
meno della metà le scuole che hanno inviato il loro POF.
L’attività di “documentalizzazione” dell’INDIRE, ed in
particolare il progetto Gold-train
(36), hanno un senso se si
è in grado di beneficiare delle “buone pratiche” non in un
lavoro di “copia” ma di “riadattamento” a realtà diverse.
Ma
“ripensare” un progetto rischia di diventare persino
attività ancora più onerosa soprattutto perché una “buona
pratica” non è tale in sé ma perché è in grado a rispondere
ai bisogni, ed è questo il dato da tenere in debito conto.
Realtà del POF
Tanto dalla relazione dell’IRRE, quanto dal quaderno n. 5
della Treelle si legge che il POF finisce cosi per
presentarsi come una sorta sommatoria eterogenea e non
organica di attività e progetti, anche interessanti, frutto
di elaborazione individuale o di gruppi di docenti (cui è
affidata la responsabilità progettuale) e raramente
collegiale, che la genericità degli obiettivi perseguiti
dalla istituzione scolastica permette sempre di ritenerli
conformi a detti scopi ma che quasi sempre non sono stati
pensati in quest’ottica né finalizzati a migliorare gli
standard di “qualità dell’apprendimento” nonché innovare la
didattica (i più “gettonati” quelli relativi alla
continuità, all’accoglienza, all’integrazione); pertanto né
tenendo presenti le esigenze delle famiglie e del territorio
e spesso senza procedere a successiva valutazione dei
risultati. Per quanto talvolta anche molto elaborata,
l’analisi del territorio sembra non finalizzata ad una
interazione ma ad una semplice osservazione dello stesso ove
la scuola interviene su di esso ma non coprogetta o
correalizza. Insomma i POF sono pensati per i docenti e per
la scuola e manca ogni riferimento alle sue componenti
fondamentali (come studenti e genitori) ed al territorio.
(37)
E proprio questa estraneità dell’”utenza” nella loro
formazione li rende spesso loro scarsamente “leggibili”(38)
e quindi raramente sono sottoposti a verifica
attraverso attività valutativa.
Si aggiunga che tende ancora a prevalere una certa rigidità
alla prevista flessibilità, ancora circoscritta per lo più
ad attività extracurricolari
Conseguentemente i genitori, come gli studenti, si sentono
poco “responsabili” delle scelte dell’istituzione. Essi non
vengono considerati come delle “risorse” e ciò rende
ovviamente più difficile la concreta realizzazione di
“alleanze”.
Ma se la
scuola non sa agire collegialmente allora il problema della
formazione alla partecipazione non è solo della componente
genitoriale ma è una vera “questione territoriale”. Questa
storica incapacità di coprogettare e condividere non poteva
essere risolto dal semplice avvento dell’autonomia il quale,
pur avendo teoricamente favorito la spinta partecipativa, è
gravemente impedito nella realizzazione dei suoi principi
anche dal colpevole stato di abbandono nel quale sono stati
lasciati da anni gli organismi di rappresentanza
territoriale, la cui attività sarebbe stata invece
fondamentale e determinante. (*)
Siti e collegamento
.(39)
Inoltre
tutti mostrano costantemente le attività della scuola ed il
POF, ma danno minore e quindi insufficiente pubblicità ad
atti importanti quali il proprio regolamento di istituto, la
carta dei servizi, e modesta attenzione è attribuita alla
comunicazione della composizione degli organi collegiali
(prevalentemente i consigli di classe relativamente alla
componente docente, pochissimi i consigli di circolo di
istituto e ancor meno la Giunta Esecutiva) e dei loro atti.
Inoltre lo spazio delle comunicazioni scuola famiglia è
limitato. Normalmente si tratta di informazioni fornite
unilateralmente dall’istituzione senza interattività. Manca
prevalentemente una pagina dedicata ai genitori ed a
recepire le loro osservazioni ed aspettative. Per dovere di
cronaca bisogna dire però che vi sono anche scuole che hanno
istituito forum o altre forme di scambio on line … ma quanti
lo sanno ed in quanti li usano?
Quando
si dice che i genitori non sono organizzati bisogna anche
precisare che ad essi non sono offerti gli strumenti, pur
disponibili, per farlo. Organizzarsi senza conoscersi né
avere opportunità di contattarsi e collegarsi presuppone
quanto peno poteri telepatici che per ora non rientrano
nelle umane potenzialità. Certo è che le scuole avrebbero
potuto agevolare questo compito indicando quanto meno i
recapiti dei presidenti dei consigli di circolo o di
istituto così come è noto che le scuole sono pubblicizzate
all’interno dei siti istituzionali con i nomi dei loro
Dirigenti (*).
Le
reti
Un’altra importante innovazione è costituita dall’art. 7 del
regolamento dell’autonomia (DPR 275/99) che prevede la
creazione di reti di scuole che potrebbero costituire
un’ottima opportunità di stimolo alla partecipazione, in
quanto inoltre rispondono alla logica della scuola come
realtà territoriale aperta ed attenta all’esigenza
dell’”utenza”. Le finalità sono normativamente molteplici e
proficue e gli effetti senza alcun dubbio positivi. Tuttavia
esse stentano ancora a diffondersi con capillarità e
comunque ancora non coinvolgono appieno anche l’utenza. In
effetti ciò che emerge è che per sebbene le “reti” comincino
a diffondersi, l’impressione è che le scuole abbiano ancora
difficoltà ad interagire tra loro, a coprogettare tra
“soggetti autonomi”, così come si evidenzia anche
dall’analisi dei siti. (40)
Un
progetto organico di collegamento in rete ed interazione di
ampia portata è “Marte” Moduli
di Apprendimento su Rete Tecno-Educativa,
evoluzione del quale è il portale Campus, avviato nel
2005 tra le istituzioni scolastiche sarde.
Marte,
con il suo portale, è stato pensato con lo scopo di mettere
a disposizione di tutti i soggetti della scuola ”gli
strumenti tecnologici, i servizi e le professionalità
per costruire una
scuola di qualità in cui si riconoscano e possano
raggiungere insieme tutti questi obiettivi. Dove siano
protagonisti di un progetto educativo comune e abbiano la
possibilità di collaborare in rete attraverso lo scambio e
il confronto di informazioni, risultati, metodi, esperienze,
superando l’ostacolo rappresentato da distanze territoriali
e trasformando in ricchezza la diversità dei modi di
insegnare e di apprendere”.(41)
L’obiettivo finale è quello di collegare in rete
543 istituti scolastici di ogni ordine e grado. Il progetto,
come si legge dal sito, però è ancora in fase sperimentale e
coinvolge attualmente 28 scuole della regione per un totale
di 100 classi. Non si evince dal portale lo stato di
evoluzione del progetto né quali obiettivi possano dirsi per
ora raggiunti. Resta un esempio di ciò che si potrebbe
realizzare con la volontà di farlo.
Ma rete
non significa incontrarsi in un luogo virtuale. Così si
rischia solo di finire “nella” rete piuttosto che essere
“in” rete. Molteplici possono essere le sue definizioni o
gli obiettivi ma essa deve caratterizzarsi sempre per la
creazione di un solido e continuo “legame” cooperativo(42).
Fatto
sta che le reti di scuole comunque costituite non
coinvolgono le loro componenti.
Per ora
i “genitori in rete” sono un obiettivo ancora lontano.
Autonomia e suoi strumenti
Insomma,
a quanto pare la comunità scolastica non è in grado di
utilizzare gli strumenti dell’autonomia al pari della
collegialità. Non funzionano entrambe? Non è certo la
vecchia collegialità ma l’evidente persistente
autoreferenzialità delle istituzioni scolastiche che
ostacola l’adozione di un efficace sistema valutativo in
grado di superare criticamente le problematicità
evidenziate, di costruire una scuola di qualità e di
consolidare l’alleanza con le famiglie. I limiti non sono
negli strumenti ma nel loro uso
(*).
E’ la
valutazione in vero nodo problematico ma anche la chiave di
volta del problema.
Quando
si è posta la questione della qualità del servizio pubblico,
gli uffici pubblici, istituzioni scolastiche comprese, sono
tenute ad adottare e portare a conoscenza degli utenti una
Carta dei Servizi, quale strumento di attuazione del
principio della trasparenza (DPCM 7 giugno 1995).
Considerando che l’art.2 comma 1 della Direttiva n. 254/95
prevede che “I capi di istituto promuovono apposite
riunioni con genitori, studenti, docenti, personale ATA e
associazioni dell'utenza del servizio, con l'eventuale
partecipazione gratuita anche di esperti, al fine di
favorire la piena collaborazione tra tutte le componenti
delle singole istituzioni scolastiche per la migliore
riuscita dell'iniziativa” la predisposizione di una
idonea Carta dei Servizi dovrebbe presupporre
necessariamente il monitoraggio preventivo delle esigenze
dell’utenza nonché successivo per accertare che i servizi
predisposti siano rispondenti alle aspettative. Tuttavia
quali e quante scuole hanno promosso tali incontri? E poi
che senso ha una carta che non viene neanche portata a
conoscenza degli utenti?
La
visione della scuola autonoma nasce dalle mutate esigenze
legate alla circostanza che se prima, a causa del livello
generalmente modesto di alfabetizzazione ci si proponeva
degli obiettivi “nazionali” in grado di elevare il grado di
preparazione dello studente, oggi la scuola si propone (o
meglio dovrebbe proporsi) di raggiungere dei livelli di
“qualità” attraverso l’adozione di una programmazione
rispondente alle esigenze socioculturali del territorio.
Ecco perché essa è organizzata secondo criteri di
flessibilità.
In conformità a quanto
previsto dalla Carta dei Servizi l’art. 21 della L. 59/97 al
comma 9 nella sua parte finale prevede a carico delle
istituzioni scolastiche “l'obbligo
di adottare procedure e strumenti di verifica e valutazione
della produttività scolastica e del raggiungimento degli
obiettivi”. Ma può dirsi adempiuto tale obbligo ove non
vengano stabiliti “indicatori” certi e comuni e l’audit
resta solo esclusivamente interno? Chi è come può e deve
valutare la produttività ed il raggiungimento degli
obiettivi? Tale onere non può dirsi assolto finché la scuola
e l’intero sistema resta autoreferenziale.
I
genitori però non sono formati né sufficientemente informati
per pretendere il rispetto di tale norma.
Se la
scuola è una “comunità educante”, cioè una comunità in cui
coesistono più soggetti (nella fattispecie: scuola intesa
come docenti e apparato organizzativo, studenti e famiglie)
che perseguono la medesima finalità educativa nei rispettivi
ruoli, è necessario che ognuno agisca conformemente ad essi
in armonia e nel rispetto di regole condivise. E’ per questo
che istituti illuminati
(43) stipulano, in
conformità a quanto previsto dalla Carta dei Servizi, un
vero e proprio “contratto sociale” tra le sue componenti.
L’autonomia richiama fortemente i principi di responsabilità
e l’art. 21 citato li definisce con precisione. La scuola è
appunto chiamata a “rendere conto” delle proprie scelte e
della efficacia della propria azione operativa ed è chiamata
a garantire un certo livello di qualità del servizio erogato
Una
scuola “autoreferenziale” è appunto quella che non “si
lascia osservare, misurare e controllare”(44),
tuttavia oggi tutta l’attività della pubblica
amministrazione è caratterizzata dai caratteri di
“trasparenza” codificati all’interno della L. 241/90. La
Carta dei Servizi risponde proprio a quest’ottica di
rendicontazione, Prima di essa si riteneva che l’utenza
vantasse certo “un diritto alla prestazione, ma gli
standard qualitativi di quest’ultima venivano definiti da
norme interne” stabilite dall’amministrazione stessa
(45).
Oggi invece un pubblico servizio deve poter rispondere
sempre alla domanda dell’utenza rispettando adeguati livelli
di qualità.
Di queste rinnovate esigenze si è
fatto portavoce lo stesso Ministero della Pubblica
Istruzione con l’esperienza ministeriale del "Progetto
Qualità"(46).
Il Progetto, che mirava anche attraverso la valorizzazione
delle risorse professionali a “migliorare l’efficacia e
l’efficienza del servizio formativo” si sviluppava
attraverso un percorso di analisi e progettazione in tre
livelli ognuno caratterizzato da precisi obiettivi. Da
osservatore colpisce che solo pochissime scuole sono
pervenute alla terza fase del progetto, ora concluso,
ottenendo la certificazione
(47).
Comunque da questa esperienza è nato, attraverso la C.M.
403/’97, uno specifico "Servizio Nazionale per la qualità
dell’istruzione", con il compito, tra gli altri, di
fornire alle scuole "strumenti metodologici adeguati per
promuovere la capacità di autovalutazione"
(48).
Tra gli “strumenti di
verifica e valutazione” che le scuole tendono attualmente ad
adottare vi è quello di sottoporsi a certificazione di
qualità ISO 9000, sigla comunemente nota in riferimento
alla certificazione di prodotti.
“La certificazione è
una procedura con la quale una parte terza (cioè
indipendente sia dal fornitore che dall’utilizzatore) dà
assicurazione scritta che un prodotto, un servizio, un
processo, un sistema di gestione è conforme ai requisiti
specificati in una norma”.(49)
Quando si parla di “norma” non ci si riferisce ad una
“legge” cogente ma ad una “specificazione tecnica
approvata da un organismo riconosciuto per attività
normativa (ISO, UNI ecc.)” “elaborata da esperti” per
specifiche esigenze dei produttori-fornitori-utilizzatori.
Si effettuano certificazioni di prodotti o servizi, del
personale, e del sistema qualità. Essa, tranne in alcuni
casi in cui è resa obbligatoria dalla legge (ad es. l’UE la
richiede per alcuni prodotti che possono essere pericolosi),
è facoltativa. Le norme ISO 9000 certificano solo sistemi di
qualità pertanto nel caso della scuola la certificazione
indica che essa ha adottato un sistema di qualità conforme a
tali norme ma “nulla dice sul livello di qualità del
prodotto/servizio effettivamente realizzato”.(50)
Per quanto appaia strano anche
l’”azienda scuola” fornisce un “servizio”, nella fattispecie
un servizio formativo, di cui sono beneficiari gli studenti
e le famiglie le cui esigenze la scuola dell’autonomia è
chiamata a soddisfare.
Il “controllo” della qualità
presuppone necessariamente un’”attività di misurazione” e
quindi l’identificazione di “indicatori”, di “obiettivi
quantitativamente misurabili” (inseriti eventualmente in
“liste di controllo”) nonché di “valutatori” per verificare
la conformità del servizio a predeterminati standard.
Alcuni “standard di riferimento”
sono forniti alle scuole a livello nazionale dall’INVALSI "Istituto
Nazionale per la valutazione del sistema di istruzione"
nato con il D.L. 20/’99. Accanto a questi criteri di
qualità stabiliti in via generale, si affiancano quelli che
vengono poi stabiliti specificamente dall’istituto. Dunque,
nel contesto di un’attività ancora autoreferenziale in
quanto compiuta da chi eroga il servizio, basterà in un
processo di autoanalisi che la scuola confronti il dato
empirico rilevato con gli obiettivi previsti in via generale
e particolare. Non si raggiunge la piena attendibilità
neanche affidando l’attività valutativa ad organi ispettivi
che per quanto terzi, appartengono sempre in quanto tali
all’apparato, ma l’analisi va completata con l’ausilio anche
di un punto di vista esterno che, integrato con i primi,
possa conferire una certa garanzia di obiettività ai
risultati raggiunti con l‘indagine.
Ne deriva che una risposta
efficace può essere quella di combinare gli strumenti
sinergicamente per cui la certificazione di qualità è
supportata da un’attività di autovalutazione con audit
esterno ed interno.
Soccorrono tutti gli strumenti
previsti dalla Carta dei Servizi: questionari, interviste,
sondaggi, monitoraggi.
Pertanto strettamente legato al
concetto di valutazione v’è quello di
“monitoraggio”, caratterizzato dall’essere costituito da
gruppo di osservazione esterno in relazione con gruppi
interni e griglie di indicatori che ha poi ispirato quel
“Monitoraggio dell’Autonomia Scolastica” meglio noto con
nome di MoniPOF di cui si è parlato(51).
“La
valutazione, infatti, è il risultato del ragionamento dei
valutatori, siano essi interni, esterni, interni ed esterni
all’istituto scolastico, sulle informazioni acquisite
relative ai processi di apprendimento, di insegnamento, alla
cultura organizzativa della scuola ed alla formazione degli
studenti”
(52). Finalità di
tale attività non è un giudizio fine a se stesso ma il
miglioramento del servizio e del prodotto. Anche i
valutatori esterni devono fuggire dall’ottica della rivalsa
sanzionatoria per assumere un atteggiamento cooperativo in
quanto firmatari del “contratto formativo”.(53)
Indicativi questi due passaggi
che si leggono tra gli atti del convegno di Rovigo del 2000
(54).
Nel primo si legge:“Chi
deve controllare l’efficienza e l’efficacia di un processo
educativo non può di certo identificarsi con chi fornisce ed
eroga tale servizio. Il controllo sulla qualità, già
previsto con l’introduzione della carta dei Servizi,
dovrebbe interagire a due livelli. Un primo livello che
funga da osservatorio permanente, pronto a verificare ed
eventualmente modificare in corso d’opera l’azione
educativa. Un secondo livello, attraverso l’analisi dei
risultati, composto da osservatori interni ed esterni alla
scuola stessa che ne valutano l’efficienza e l’efficacia del
servizio erogato”. E
nel secondo:
Abbiamo parlato molto di partecipazione, però bisogna capire
che ci sono tanti livelli di partecipazione e che il momento
della valutazione è un momento importante. Che fine ha
fatto, per esempio, il questionario che la Carta dei servizi
prevedeva si mandasse alla fine di ogni anno scolastico agli
operatori interni, agli studenti maggiorenni e alle famiglie
per capire qual era la loro percezione del servizio? Quindi,
per prima cosa, bisogna cominciare a stabilire che cosa vuol
dire partecipare”.
Non si può non concordare con
entrambi. Tuttavia è necessario non solo stabilire cosa vuol
dire partecipare ma anche farlo comprendere a chi deve
partecipare. Il fatto è che per quanto sia previsto un
obbligo specifico a riguardo sia dall’art.21 L. 59/97 ed
implicitamente anche dal DPCM del 7 giugno 1995 (Carta dei
Servizi), essendo lo stesso non sanzionato, esso è per lo
più violato o rispettato secondo modalità eterogenee e non
efficacemente conformi agli scopi (come prevedere attività
autovalutative limitate all’audit interno).
In egual modo occorrerebbe
disciplinare l’obbligo di adottare ulteriori strumenti di
pubblicità del POF incentivando ad esempio la sua
registrazione all’interno dei siti dell’Indire facendo
seguire la stessa dal riconoscimento di eventuali benefici;
nonché di effettuare secondo precise calendarizzazioni i
questionari di customer satisfaction e
autovalutazione.
La situazione allo stato
dell’arte
L’immagine che si trae è
assolutamente deludente. Possiamo riformare all’infinito gli
strumenti messi normativamente a nostra disposizione ma se
non comprendiamo le intime motivazioni degli insuccessi
anch’essi si reitereranno infinite volte. Gli organi
collegiali sono stati istituiti per favorire la
partecipazione, anche nella piena consapevolezza
dell’indispensabilità del rapporto scuola - famiglia. Ma
nessuno affiderebbe mai la propria auto ad un ragazzo senza
patente. E la gran parte dei genitori non ha mai fatto
scuola guida di partecipazione. Nessuno d’altra parte è
stato in grado di spiegarlo a loro perché forse il problema
della formazione in questo settore è relativo a tutte le
componenti elettive. Ma non è andata diversamente anche per
l’autonomia che dopo anni stenta a decollare.
Indipendentemente dalla capacità dei genitori di contribuire
con le loro proposte all’offerta formativa di fatto la
progettazione è competenza esclusiva dei docenti. Ma si è
visto come per lo più i POF siano ben lontani dal
rappresentare il progetto formativo territoriale previsto
dal DPR 275/99 anche quale risposta al contratto stipulato
con i destinatari del servizio istruzione. La nuova funzione
riconosciuta ai dirigenti scolastici avrebbe presupposto poi
un’adeguata formazione manageriale per gestire il nuovo
modello scuola. La scuola dell’autonomia nasce proprio per
superare la rigidità in considerazione della eterogeneità
delle esigenze territoriali. Invece le indicazioni nazionali
continuano a costituire un sicuro conforto ed un certo
riferimento.
L’autonomia dunque rappresenta il riconoscimento della
diversificazione territoriale e sociale che però non è
riconosciuta dalla scuola stessa.
“Non
c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti uguali tra
disuguali”...(55)
Pensiamo all’integrazione dei
diversamente abili, ai rapporti per il diritto al sostegno
ed al loro futuro. Quanti di essi riescono a completare con
successo il loro percorso formativo? Lo sbocco preferibile
per la maggior parte di essi è costituito dagli istituti
professionali, la cui sorte sembra essere sempre più incerta
e soprattutto la cui distribuzione sul territorio non è
omogenea. Anche la scarsa operatività dei gruppi GLH laddove
istituiti ed operanti con efficacia è una conferma di una
concezione unilaterale del rapporto scuola famiglia.
Nella frequente incapacità di
affrontare le questioni relative al disagio e alla diversità
i genitori restano senza guida, incerti su come tutelare i
propri figli e senza guidati nell’orientamento.
Quale contributo significativo ha
portato anni di progetto “Genitori e Scuola”?
A parte le iniziative di
partenariato che ottengono il maggiore riconoscimento nel
corso della giornata dedicata in quante scuole sono stati
elaborati e quali sono i loro contenuti?
Leggendo la pagina del MPI
dedicata all’argomento per l’anno 2006
(56) sovvengono alla mente
alcuni particolari. In primo luogo il riferimento ai Forum
ed in particolare alle “diramazioni provinciali” che ad oggi
non hanno ancora ottenuto riconoscimento normativo, pur
individuati quali referenti istituzionali per il progetto,
nonostante non ovunque istituiti e funzionanti la mancanza
di rappresentatività connessa alla partecipazione riservata
ai soli iscritti alle associazioni riconosciute.
(*) Ed in secondo luogo il
forte richiamo alle esigenze di formazione che coinvolgano i
“presidenti dei Consigli di Circolo e di Istituto e i
genitori attivi nei gruppi associativi”. Ma quali
iniziative significative sono state intraprese in tal senso?
Ribadendo che l’autonomia ha
precisato e distinto le responsabilità elettive da quelle
amministrative, allo stato l’apparato amministrativo (a
partire dal MPI, gli USR, gli USP e la struttura della
singola istituzione scolastica nelle figure del DS e del
DSGA) ha subito e subisce periodicamente interventi
riformatori mentre gli organi elettivi: CNPI, Consigli
Scolastici Provinciali, Consigli Scolastici Distrettuali,
Organi collegali di Istituto, restano immodificati da anni
e del tutto paralizzata nella generale indifferenza è
l’attività dei Consigli Scolastici Distrettuali e
Provinciali, senza alcuna idea di rinnovo che possa
considerarsi idonea risposta alle cause del loro
malfunzionamento.
Tuttavia mentre i docenti sono
circa 800.000 il 25-30% dei quali è rappresentato da
sindacati e associazioni, gli alunni/studenti sono circa
7.500.000 e conseguentemente circa 15.000.000 i genitori le
associazioni dei quali rappresentano circa lo 0,5% di essi.
Insomma una maggioranza, un vero esercito, che però resta
silente e che per lo più non viene coinvolto all’interno
della gestione scolastica.
È evidente comunque che senza
un’adeguata formazione delle componenti qualunque proposta
di modifica dello status attuale rischia di essere
l’ennesimo inutile tentativo che potrebbe snaturare la
logica stessa della collegialità e impoverire il significato
dell’”alleanza”.
…e le prospettive future
Senza particolari approfondimenti avendo affrontato
l’argomento già altrove
(*),
in generale c’è una logica costante che le ispira e cioè
ridurre numericamente le componenti. Il dato che sicuramente
allarma è la reiterata previsione di abolizione dei consigli
di classe. Ma come mai l’impressione è che la maggiore
snellezza che si vuole conferire agli OO.CC. finisce con
risolversi sempre in una minore inclusione dei genitori al
loro interno?
Si può concordare con una più
chiara distribuzione dei compiti. Proprio in considerazione
del maggiore richiamo alla responsabilità dell’autonomia è
necessario prevedere una più precisa distribuzione dei ruoli
distinguendo in particolare tra attività di gestione ed
attività di indirizzo. La responsabilità didattica e
progettuale resta dei docenti. Quanto al controllo esso per
essere efficace richiede una certa competenza e comunque
contrasta con i nuovi poteri e responsabilità dei Dirigenti
Scolastici. Meglio rafforzare invece le attività valutative
che oltre a stimolare la partecipazione consentano di
migliorare la qualità del servizio e superare
l’autoreferenzialità.
In alcune proposte si prospetta
in luogo del “consiglio di circolo/istituto” il “consiglio
della scuola”
(57)
ove prevalentemente componente
docente e genitori (ovvero genitori+studenti) si equivalgono
numericamente (nel DDL del 2002 la componente genitori
ovvero genitori+studenti è persino superiore) ma in quantità
ridotta rispetto all’attuale.
Altrove invece si prevede il
“consiglio di amministrazione”(58).
Una definizione questa che porta alla mente una
visione imprenditorialistica della scuola ove si rafforza la
figura del Dirigente Scolastico e l’immagine del genitore
non più parte della “comunità educante” ma semplice utente.
Costante è l’assegnazione della presidenza al Dirigente
Scolastico con una riduzione del numero complessivo di
membri secondo una composizione affidata ai regolamenti
dell’istituto.
Il
ricorrere di alcune proposte a distanza di anni e
l’eterogeneità dei contenuti dimostrano la mancanza di una
condivisa e chiara idea di quale debba essere
l’organizzazione interna della scuola dell’autonomia.
Ma non
solo.
La
costante riduzione delle previsione di partecipazione da
parte dei genitori sembra rispondere ad una logica per la
quale, accertato il malfunzionamento del principio di
collegialità, anziché indagarne le cause, si tenda ad
abolirlo o a modificare l’assetto delle componenti interne.
Per favorire la maggiore
integrazione del territorio è o può essere prevista poi la
presenza di un rappresentante dell’ente locale nonché
l’inclusione di altre figure rappresentative della realtà
locale in particolare del mondo del lavoro (pensiamo ai
rapporti scuola-lavoro nei professionali). Infatti ai
regolamenti verrà attribuito il potere di normare il
funzionamento ed eventualmente di integrare o persino di
individuare la composizione degli OO.CC. Potremmo arrivare a
vedere persino Consigli senza genitori? Ma chi sono i reali
portatori di interessi all’interno della scuola? Nessun
ruolo può essere maggiormente rappresentativo di quello
attribuito per delega elettiva. Nessuna forma associativa
esterna può avere la stessa forza rappresentativa degli
eletti.
Se gli attuali OO.CC. sono
accusati di essere pletorici non si rischia di generare
ulteriore pletoricità con l’ingresso altresì di soggetti
diversamente interessati al funzionamento della scuola ed
alla realizzazione dei suoi obiettivi formativi? Perché
dovremmo immaginare il governo della scuola in maniera
diversa di quello di altro organismi istituzionali? E come
attribuire ai regolamenti interni un tanto significativo
potere disciplinare senza adeguata formazione per elaborare
simile disciplina?
L’idea poi che al Dirigente
Scolastico dovrebbe essere attribuita la possibilità di
scegliere il corpo docente così come il Consiglio della
scuola potrebbe assumere e valutare periodicamente
l’attività del Dirigente Scolastico è molto interessante ma
configge nettamente sulle attuali modalità di reclutamento
all’interno della P.A. Al di là poi della capacità e
competenza delle componenti per esprimere giudizi di simile
portata tali prerogative lasciano margini di discrezionalità
troppo ampi tanto da apparire irrealistiche.
(59)
In generale i consigli di classe
o vengono soppressi o in qualche caso permangono ma, con un
ritorno al passato, con la sola componente docente, quali
“organi di valutazione collegiale degli alunni”. Mentre
resta confermato il
comitato per la valutazione del servizio dei docenti
previsto dall’art. 11 del T.U. 297/94, viene introdotto
il nucleo di valutazione del funzionamento dell’istituto
proprio “per valutare l’efficienza e l’efficacia del
servizio” secondo le finalità ed indicazioni in proposito
fissate dall’Istituto nazionale per la valutazione del
sistema dell’istruzione e composto dal dirigente scolastico,
che lo presiede, un genitore ed un docente non facenti parte
del consiglio della scuola, nonché da un soggetto esterno
alla scuola, tutti nominati dal consiglio della scuola;
ovvero con la sola presenza di esperti.
Una delle proposte individua
(60) il cosiddetto “garante dell’utenza”, in quanto
chiamato a rappresentare le esigenze della stessa, in
pratica il più votato tra i genitori, che entra a fare parte
quale membro di diritto anche del nucleo di valutazione. Ma
il maggiore consenso elettorale (opinabile in qualche caso,
vista la bassa percentuale dell’elettorato attivo che si
reca alle urne) non costituisce garanzia di autonomia di
giudizio. È pertanto tutta da valutare l’efficacia di una
figura solitaria e minoritaria quale portavoce delle
esigenze della maggioranza silenziosa.
La valutazione non può essere deferita in esclusiva ad un
organo così composto ove una sola persona si faccia
portavoce di una realtà tanto grande e complessa. La Carta
dei Servizi ha indicato le modalità da adottare e l’art. 21
della L. 59/97 ne ha previsto l’ordinarietà. Il passaggio
ulteriore pertanto sta nel renderle pratiche obbligatorie.
Sembrerebbe che la scomparsa dei
consigli di classe sia compensata da un maggiore
riconoscimento dei comitati genitori, almeno secondo una
visione più recente
(61),
la cui esistenza non è più prevista solo potenzialmente
senza tuttavia assurgere a livello di stabile organo
collegiale e la disciplina dei quali è affidata ai
regolamenti. Ma in assenza dei collegamento con la classe
secondo quale logica saranno costituiti?
Le potenzialità possono essere
indubbiamente molteplici, quale quella di attribuire agli
stessi il riconoscimento di un’action class a tutela
dei genitori. Sebbene il termine sia usato impropriamente
giacché al contrario di quanto avviene normalmente per le
”azioni collettive” a difesa dei consumatori l’attività
comune non è diretta ad ottenere un risarcimento esso in
realtà sta ad indicare l’opportunità appunto di un’azione di
rappresentanza condivisa delle comuni istanze, in
particolare finalizzata proprio all’esercizio dell’attività
di valutazione.
Perché ciò sia possibile
dipenderà dalla capacità dei genitori di mediare tali
prerogative all’interno del consiglio chiamato ad approvare
il regolamento, ma anche dall’effettiva partecipazione e
formazione dei genitori.
Per quanto anche il collegio dei
docenti sembra destinato ad un futuro incerto rischiando di
essere soppiantato da semplici gruppi di lavoro disciplinati
dai regolamenti, evidentemente per la riscontrata difficoltà
di progettualità collegiale, è proprio nel suo ambito,
integrato dai genitori rappresentanti di classe, che
potrebbe svolgersi l’attività autovalutativa.
Da ultimo
(62)
si registra una rivalutazione ed
un rafforzamento della Giunta Esecutiva con l’introduzione
di un “comitato tecnico”.
Sarebbe interessante conoscere le
risposte che il MPI ha ricevuto dalle componenti della
scuola nell’ambito del “Progetto Ascolto”
(63), ma non si comprende
il perché della persistente riservatezza che lo ha
caratterizzato in ogni sua fase.
La scuola ha la sua primaria
responsabilità nei confronti dei ragazzi che grava prima di
tutto sui docenti, che hanno la responsabilità progettuale.
Manca però un’idea organica, un
reale progetto per il futuro. Si va per tentativi e riforme
parziali ma senza convinzione, frutto di molteplici
compromessi.
Vale la pena ricordare una frase
che rammenti il senso del ruolo, sempre coltivando la
speranza di ottenere le risposte che mancano:
“Il sapere serve solo per darlo.
<Dicesi maestro chi non ha nessun interesse culturale quando
è solo>”
(64)
Oggi come ieri. Non si può ritenere l’insegnamento milaniano
anacronistico, a meno che, vista l’incapacità di
un’evoluzione del pianeta scuola nel seno di concepire una
centralità dell’alunno/studente secondo una visione “umana”
della funzione educativa, non si voglia giustificare tale
mancanza con un appagamento (o una forma di rassegnazione)
ad un approccio che ha già evidenziato tutti i suoi difetti.
Quell’idea di scuola, come quell’idea di collegialità non si
è mai realizzata.
Si
può convenire sulle difficoltà di esportare e riprodurre
in toto il modello ma non si può prescindere dal
recupero di quella concezione educativa. Una scuola
competitiva e di qualità è quella che riesce a condurre alla
fine del percorso formativo tutti i suoi studenti educandoli
allo studio fine a se stesso e non per far primeggiare solo
l’eccellenza ed è una scuola che sa dialogare con le sue
componenti per migliorare se stessa.
Questo presuppone un percorso introspettivo ma che utilizza
anche l’analisi dei bisogni per un’istruzione sempre più
individualizzata. Per tutto ciò è fondamentale recuperare il
rapporto tra i docenti, responsabili del progetto educativo,
e le famiglie che sui propri figli hanno un analogo
progetto. Tutti insieme parti di una vera e mai pienamente
realizzata “comunità educante”. La sfida è riuscire a
realizzare all’interno di ogni istituzione scolastica quel
“patto educativo tra insegnanti studenti e genitori” per ora
stipulato solo su base associativa.
(65)
Ma può dirsi che quanto espresso
costituisce una risposta alla domanda con cui si è
cominciato? Cioè: Come si
costruisce l’alleanza? Premesso che di costruzione ex novo
si tratta e non di risanamento, potrebbe apparire scontato
affermare che nulla si può senza la volontà di farlo.
È
impossibile ragionare in termini puramente astratti quando
ci sono in gioco reazioni umane imprevedibili e
difficilmente globalmente ponderabili. Non reggeranno mai
splendide impalcature teoriche senza una completa analisi
della realtà che tenga conto delle variabili soggettive.
Alla luce delle considerazioni esposte non pare vi sia
alcuna valida idea di riforma degli OO.CC. che abbia
concrete possibilità di successo. E non c’è più tempo di
procedere per tentativi. Sicuramente rafforzare
l’obbligatorietà di strumenti valutativi con un ampio
riconoscimento all’audit esterno, vissuto anche in
momenti di collegialità, può favorire la partecipazione ed
il miglioramento dell’offerta attraverso un’analisi critica
ma costruttiva. Solo con la collaborazione delle famiglie è
possibile comprendere la reale efficacia dell’azione
educativa dell’istituzione scolastica. Ma è altresì
indispensabile una concreta azione di collegamento perché la
valutazione si rafforzerà nel confronto.
Se 11.000
presidenti non si sono collegati, se i genitori non si sono
organizzati, lo faccia chi ne ha le possibilità o provveda a
rimuovere ogni ostacolo che di fatto lo impedisce e non
chiami a rappresentarci chi non ci rappresenta. Lo 0,5% di
chi non sì conosce e non è stato in grado di crescere né di
collegare pur potendo non può costituire valido e unico
punto di riferimento. Come si fa a parlare di scuola e
innovazione senza chiedere ai veri genitori cosa hanno da
dire? Ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.
Allo stato
dunque se tanti studi effettuati con mezzi e competenze non
hanno condotto a nessuna concreta soluzione; se nonostante
le analisi complesse effettuate si continua a pensare di
modificare qualcosa che non ha funzionato col rischio di
costruire qualcosa di peggio perché la sfida più grande non
è il cambiamento ma far funzionare ciò che c’è, gli
strumenti che abbiamo, cos’altro possiamo proporre che non
si sia già detto? (*) (**)
Questo è un documento in perpetuo itinere, aperto ai
contributi e valido rebus sic stantibus nel costante
auspicio che le “cose” possano un giorno “stare” in maniera
diversa(#).
1
giugno 2007
Genitori in Movimento
Web:
http://www.apritiscuola.it/genitori/inmovimento -
E-mail:
genitori_inmovimento@yahoo.it
(*)Lettera
(Aperta) a un genitore rappresentante tra i corridoi della
scuola e fuori dai Consigli Scolastici Territoriali
https://www.edscuola.it/archivio/famiglie/lettera_aperta.htm
(**)