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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Ma chi è il disabile?

            Cerchiamo di fare delle precisazioni terminologiche.

            Per troppo tempo, della disabilità si è sottolineato l’aspetto organico. E’ prevalsa una concezione <<medicalizzata>> della disabilità, come un complesso sintomatologico, esito di una affezione organica prenatale (è il caso che si verifica ad esempio quando la madre prende la rosolia durante la gravidanza), natale (ad esempio un trauma durante il parto) o post natale (ad esempio un’infezione post-vaccinica). L’aspetto più importante sarebbe quindi quello biologico; pertanto si focalizza l’attenzione su qualcosa che va storto durante la gravidanza o quando il bambino nasce, e che provoca un danno permanente. Ma accettando questa definizione si rischia di confondere causa ed effetti.

            Occorre inoltre precisare che nel 1980 l’Organizzazione Mondiale della sanità (OMS) ha pubblicato una prima Classificazione Internazionale delle Menomazioni, delle Disabilità e degli Handicap (ICIDH).

            Tale classificazione distingueva rigorosamente i seguenti termini: menomazione, disabilità, handicap.

            La menomazione è qualsiasi perdita o anormalità di una struttura o di una funzione psicologica, fisiologica o anatomica. Il termine menomazione è più comprensivo di disturbo, in quanto si estende anche alle perdite anatomiche; ad esempio, la perdita di una mano non è un disturbo ma una menomazione.

            Essa è caratterizzata da perdite o alterazioni provvisorie o permanenti e comprende anomalie (la sindrome di Down è un’anomalia cromosomica, una malformazione genetica), difetti o perdite a carico di arti, organi, tessuti o altre strutture dell’organismo psichico e fisico. Si nasce menomati, ma si può anche diventarlo in seguito a incidenti.

            Il concetto di disabilità è meno semplice da definire rispetto a quello di menomazione. La disabilità è la conseguenza pratica della menomazione e questo termine indica ciò che è in grado di fare e ciò che non si riesce a fare: esso riguarda perciò la sfera delle attività.

            Una menomazione del linguaggio comporta una disabilità nel parlare. Una menomazione dell’udito produce una disabilità nell’ascoltare. E’ così per quanto riguarda le menomazioni della vista, che determinano una disabilità nel vedere.

            Una menomazione psicologica (una schizofrenia, una psicosi, ecc.) causa una disabilità nel vivere con gli altri.

            L’handicap è innanzitutto un fenomeno sociale: con questo termine si intende la condizione di svantaggio, conseguente a una menomazione o a una disabilità, che in un determinato soggetto limita o impedisce l’adempimento di un ruolo sociale considerato <<normale>> in relazione all’età, al sesso, al contesto socioculturale di appartenenza alla persona.

            L’handicap può essere interpretato come il risultato dell’incontro tra la disabilità e l’ambiente fisico e sociale: tanto più è accogliente e adatto a ogni individuo l’ambiente fisico e sociale, tanto minore sarà l’handicap. Ad esempio, una piccola disabilità nel camminare diventa un handicap grave su di un ripido sentiero di montagna, mentre è lieve in una strada piana e non dissestata.

            Un non vedente al buio non manifesta un handicap: è in presenza della luce che permette a tutti gli altri di vedere che la sua cecità diventa un handicap.

            E così un ipovedente con una protesi che compensa bene il suo deficit è si un menomato nell’udito, ma non necessariamente un handicappato.

            In un manicomio un matto è uno come gli altri. Nella realtà di tutti i giorni, in cui tutti vivono seguendo delle regole che lui infrange, diventa <<il matto>>.

            Se anche Ulisse avesse avuto un solo occhio, forse non se la sarebbe cavata così a buon mercato con Pilifero.

            La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, il 22 maggio 2002, ha approvato una nuova Classificazione Internazionale del Funzionamento, della disabilità e della Salute denominata ICF: i tre termini portanti della precedente versione (menomazione, disabilità, handicap) sono stati sostituiti da: funzioni e strutture corporee, attività, partecipazione.

            Nel primo ambito, concernente funzioni e strutture corporee, sono raggruppate le classificazioni relative alle funzioni fisiologiche dei sistemi corporei (incluse le funzioni psicologiche) e alle parti anatomiche del corpo.

            Nel secondo ambito riguardante le attività sono raggruppate le classificazioni relative all’esecuzione di un compito o di un’azione da parte di un individuo.

            Nel terzo ambito riguardante la partecipazione sono raggruppate le classificazioni relative ai livelli di coinvolgimento in situazioni di vita concrete e normali.

            Questa nuova classificazione cerca di porre in primo piano le capacità del singolo e le sue possibilità di partecipazione sociale.

            Da una parte si devono evidenziare le abilità di tutti gli individui – anche diversamente abili -, dall’altra  occorre guardare con più ottimismo alla società.

            Perché la sua sfera sociale non è solo <<cattiva>>. Lo è anche quando non riesce a capire la diversità, quando pensa solo ai normali e non si cura dei più deboli, di chi ha bisogno di attenzioni particolari. Lo è quando invece prendersi cura del matto, lo fa diventare lo zimbello di tutti, lo stigmatizza come lo <<scemo del villaggio>>.

            Ma l’ambiente sociale, per fortuna, non è solo questo. Ambiente sociale è quello da cui provengono le protesi per il disabile, è quello che produce la carrozzina che permette all’invalido di spostarsi, ambiente sociale è quello di chi emana le leggi che tutelano i diritti delle persone  disabili.

            La legge 104/92, che ha riconosciuto a tutti gli individui il diritto di frequentare la scuola normale, è stata frutto di un ambiente sociale democratico e solidale che riconosce, non crea, i diritti delle persone disabili. Ambiente sociale è la scuola, quando questa non esclude, ma accoglie, integra, valorizza la diversità.

            Per fortuna non esiste un <<pianeta handicap>> . Le persone disabili vivono tra noi e noi traiamo benefici dalla loro presenza, proprio come loro traggono vantaggi dal vivere insieme in un mondo di uguali e diversi.

Perciò la disabilità, che ha una connotazione soprattutto sociale e culturale, si evolve seguendo l’evoluzione sociale e culturale.

            Una non vedente in topless non fa scandalo esattamente come una bagnante vedente. Fu Brigitte Bardot a inventare la moda del topless. Allora fece scandalo. Lo avrebbe fatto anche se non vedente. E così è necessario non confondere menomazione e handicap un uomo con la faccia di elefante (ricordate il film The elefant man?), in grado di vivere una vita normale sul piano biologico, non è un disabile ma è sicuramente una persona che vive un handicap: la società degli uomini <<normali>> ha difficoltà a rapportarsi a una proboscide che parla. La <<regola>> prevalente è che si deve parlare con la bocca. Il ventriloquo fa spettacolo, nell spettacolo la finzione è la regola.

            Definire un individuo sulla base della menomazione (o della sua disabilità) implica il rischio di effettuare una stigmatizzazione (e di produrre handicap).

            La condizione di handicap è tale in rapporto all’atteggiamento di altre persone in un determinato periodo storico.

            Se non possiamo intervenire sull’aspetto della menomazione, possiamo invece fare molto nei confronti dell’ambiente fisico e sociale: possiamo eliminare tutti gli ostacoli fisici, le barriere architettoniche ( c’è lo scivolo nella tua scuola? Sai usare lo <<scoiattolo>>?), possiamo intervenire traducendo in segnali sonori quelli visivi (si pensi alla scritta sul semaforo avanti sostituita o accompagnata da un segnale sonoro di via libera, ecc.), possiamo intervenire sull’ambiente sociale sensibilizzando società e individui sulla necessità di agevolare il processo d’integrazione (dal semplice non posteggiare le auto sul marciapiedi, alla ricerca di sempre più importanti sussidi tiflologici, ecc.). E’ soprattutto l’ambiente socioculturale che fa l’handicap. Rifiutando. Emarginando. Isolando. Non dedicando cure e tempo. Non considerando i portatori di disabilità come interlocutori.

            Vygotskij sostiene che i comportamenti mentali inferiori vengono a poco a poco trasformati in comportamenti mentali superiori attraverso l’interazione sociale.

            Cosa ha di diverso la persona disabile per sfuggire all’applicazione di questa regola? Vivere con gli altri significa interagire: un ciao, una carezza, delle attenzioni particolari, ecc.

            Per capire questo non conviene certo scomodare gli psicologi e non è necessario farlo neppure per rispondere alla domanda <<Chi è la persona disabile?>>.

            La persona disabile è un individuo. Con una propria identità. Con una propria connotazione. Con delle caratteristiche proprie.

            Lui ha sempre saputo non solo di essere portatore di una disabilità, ma anche di essere innanzitutto una persona. E’ ora che lo impariamo anche noi.

            Effettuare precisazioni terminologiche è fondamentale: <<il Down>> (non chiamarlo <<mongoloide>>, per favore e nemmeno <<mongolino>>) non è una persona, ma una categoria e così come nella categoria <<persone>> vengono compresi gli individui  dalle caratteristiche più disparate, nel caso di chi è affetto dalla sindrome della trisomia 21 (è sempre il Down). C’è differenza tra un caso ed l’altro, tra un individuo con sindrome Down e, in riferimento allo stesso individuo, tra un periodo della sua esistenza e un altro.

            Perciò l’interrogativo su chi sia la persona disabile impone una risposta diversa rispetto a quella concernente <<il deficiente>>, <<il pazzo>>, <<l’autistico>>, <<il motuleso>>, <<il Down>>, <<lo schizofrenico>>.

            Ripetiamo: è il fattore sociale che trasforma la disabilità in handicap. E quando si dice aspetto sociale questo significa non solo indicare il fattore umano, le persone, i ruoli, le funzioni, ma anche i prodotti sociali: e così una scala con alti gradini è ambiente fisico ma anche sociale, mentre una ripida salita in montagna può essere un aspetto fisico di un paesaggio che la natura ha creato così, ma sul quale l’uomo può intervenire. E se invece di intervenire con il cemento e le villette a schiera, l’uomo intervenisse per creare dei percorsi facilitati accessibili anche  chi ha difficoltà nel camminare? Anche questa è una scelta. C’è il trekking pensato solo per i robusti scalatori che confrontano il loro fisico possente con la montagna. Ma c’è chi è costretto a confrontarsi quotidianamente con se stesso. Perché l’uomo scala le montagne? Per superare i propri limiti. Credi che per la persona disabile sia diverso? Pensi che accetti volentieri i propri limiti? Una scuola costruita con barriere architettoniche, con i servizi igienici inadeguati, con ostacoli fisici crea handicap.

            Un gruppo di scienziati che asserisce senza prove scientifiche che l’autismo è frutto di madri poco affettuose, di <<madri frigorifero>> (quelle madri in carriera che non darebbero il giusto affetto ai figli perché troppo impegnate nella corsa al successo), contribuisce a creare l’handicap, con la falsità o la leggerezza superficiale della cosiddetta <<ricerca scientifica>>. Sul versante opposto, la creazione di un apparato telematico e informatico che permette di <<scannerizzare>> in rilievo ciò che si vuole stampare da Internet contribuisce a diminuire la disabilità e l’handicap.

            Prendiamo le lenti per i miopi. E’ un dato oggettivo che la riduzione del visus, specie se grave, costituisce una minorazione visiva.

            La società, inventando lenti sempre più perfezionate, riduce la disabilità e l’handicap.

            E così accade a proposito delle protesi in genere. Ne esistono per tutti o quasi i deficit di tipo non psichico.

            Per i non udenti esistono protesi acustiche di dimensioni ridottissime e sofisticate. Ma in linea di massima, la protesi è costituita da un microfono che trasforma le onde sonore in segnali elettrici, da un amplificatore che amplifica tali segnali e, eventualmente, li modifica adattandoli alle esigenze particolari del soggetto e da un riproduttore che riconverte i segnali elettrici in onde sonore. Vi sono poi dei comandi applicati all’amplificatore che consentono di regolare il volume, il tono e altre componenti sonore.

            In seguito all’approvazione dell’ICF nel 2002, il termine <<handicap>> è stato accantonato ed è stato sostituito dalla locuzione <<persona che sperimenta difficoltà nella partecipazione sociale>>. Non portatore di difficoltà, ma portatore di sogni, di speranze, di una certa capacità di comprendere, di attitudine per alcuni giochi, di simpatia, di sorrisi, di affetto e di occhi azzurri o castani, portatore di una difficoltà spesso invalidante.

            E qui c’è già un’indicazione metodologica: non puoi partire dal negativo, poiché se fai questo, non potrai che lavorare sul vuoto: non si lavora su un materiale che non c’è. Occorre partire dal positivo facendo leva su ciò che c’è, enfatizzando le aree di efficienza. E’ necessario focalizzare l’attenzione sui seguenti interrogativi: possiede buone capacità tattili, olfattive, linguistiche ecc.? Come faccio a sfruttare questi aspetti positivi per ridurre le conseguenze della sua cecità? Come faccio a ridurre le conseguenze della sua sordità?

            Non puoi chiedere a uno che non ha pane di dividerlo con te. Sei tu che puoi dividere il tuo con chi ne ha bisogno. E allora al cieco toglierai gli ostacoli che gli impediscono di muoversi e di correre, con il non udente eviterai di parlare alle sue spalle, ma ti metterai davanti a lui in modo che possa vedere bene le tue labbra. E via, fallo questo sacrificio: tagliati i baffi! Vedrà meglio i movimenti delle tue labbra e sarà come accendere una luce.

            La menomazione del soggetto completamento privo di vista è facilmente riproducibile: basta che tu gli chiuda gli occhi e sarai non vedente. Ma tu, se decidi di chiudere gli occhi di fronte a una vetrina, non potrai mai essere esattamente come un non vedente: chi vede infatti ricorda gli oggetti della vetrina, sa come è fatto un percorso per pedoni, come sono fatti un piatto, un bicchiere, la tastiera di un computer , ecc.

            Chi nasce privo della vista, invece, deve inventarsi il mondo.

            Deve inventarsi il suo paesaggio in una dimensione in cui non c’è differenza tra un’alba e un tramonto, tra una pianura piatta e delle montagne che si ergono imponenti a spezzare l’orizzonte.

            Non credere che abbia un sesto senso in grado di preservarlo dai pericoli, anche se ha dovuto sviluppare al massimo tutti gli altri sensi: la percezione tattile è sicuramente migliore rispetto alla norma, la sua mappa mentale, se ben costruita, può essere compatibile con la mappa del mondo reale, ma a volte ha bisogno di aiuto.

            I <<non vedenti>> sono persone uguali alle altre. Non passare loro accanto senza farti notare solo perché non vuoi disturbarli: dì loro che stai passando, fai sentire la tua presenza, descrivi le azioni che stai compiendo, parla, fatti sentire: il <<disturbo>> sarà sempre meglio della solitudine e dell’abbandono.

            Problemi simili ha il <<non udente>>. La sordità è una menomazione invisibile  anche perché il non udente, come tutti i disabili stufi di essere messi in vetrina, tende a nascondere la propria menomazione: può approvare con un cenno del capo, pur non avendo compreso quasi nulla di tutto ciò che si è detto. Per questo evita la gente. Per questo spesso evita la gente. Per questo sceglie la solitudine. Una persona con disabilità mentale si presenta palesemente come tale, una persona con epilessia è difficile da riconoscere se non è nella fase di crisi. Perciò in seguito parleremo delle disabilità più comuni, anzi dei portatori di disabilità specifiche, non tanto per differenziarli o classificarli (dai più gravi ai meno gravi), quanto per suggerire dei comportamenti che tu puoi mettere in atto per assisterli meglio e per aiutarli, senza la compassione e la carità pelosa che spesso tendiamo a manifestare.

            Il problema dell’integrazione non è di pertinenza esclusiva dell’insegnante di sostegno: esso riguarda la scuola nel suo complesso, compresi i componenti del personale amministrativo, tecnico, ausiliario. Quell’insegnante che vedi spesso con un bambino che urla o che fa i capricci, o che si muove in carrozzina, o che passa tanto tempo seduto o sdraiato su di un tappeto, è un insegnante come gli altri, anzi con una marcia in più: è un insegnate specializzato. Come un medico specializzato in una branca della medicina. Di solito, lo si chiama insegnante di sostegno. Ma sostegno a chi? E che significa sostegno? Questo insegnante ha un compito difficile: quello di far diventare quella scuola, sì, proprio quella scuola in cui lavori da tempo, una scuola in cui si realizza effettivamente l’integrazione, una scuola in grado di dare risposte adeguate ai bisogni di istruzione e di educazione di tutti gli alunni, disabili compresi.

            E’ possibile?

            Oggi in tutti i programmi di ogni ordine di scuola è presente una finalità ineludibile: formare l’uomo e il cittadino. La vita è cambiamento, perciò la scuola, oltre a insegnare materie e la buona educazione – quanti ragazzi né dimostrano così poca nei tuoi confronti! -, deve preparare i ragazzi ad affrontare i cambiamenti presenti e futuri.

            Nella scuola è implicita l’idea di progresso: se si esce da essa nelle stesse condizioni in cui si è entrati, la scuola ha fallito. Se l’alunno esce dimostrando di avere acquisito maggiori capacità critiche che lo mettano in condizioni di pensare, di sapere, di saper fare, di saper essere, non sarà una comparsa sul palcoscenico della vita, ma un attore vero, forse anche – perché no? – un protagonista.

            Quante volte ti sarà capitato di dire: <<Quel professore, quel professore sì che li fa filare!>>. Ti sei mai chiesto come quel professore li facesse filare? Approveresti se venissi a sapere che quel docente usa sempre maniere forti e non sorride mai, facendo diventare le sue ore di lezione un serie di brutti, interminabili quarti d’ora? Gli affideresti serenamente tuo figlio, sapendo che vivrebbe la scuola come una condanna? Certo i ragazzi imparano, ma se imparassero a suon di sberle il prodotto potrebbe anche essere meritevole, ma il processo, i mezzi impiegati sarebbero inaccettabili. Tu sai che un ragazzo maltrattato sin dall’infanzia e nei cui confronti i genitori sono maneschi, da grande molto probabilmente diventerà come i genitori e maltratterà i propri figli, in un circolo vizioso e perverso di violenza che si ripete inesorabilmente.

            La scuola educa alla democrazia. Si impara a leggere leggendo, a scrivere scrivendo. Alla democrazia si educa con la democrazia.

            E che c’entra questo con l’integrazione degli alunni disabili?

            Oggi l’integrazione, così come lo star bene a scuola (il che non significa disubbidire, rompere le finestre, fare casino, non rispettare le regole), è un valore per tutti.

            Nella repubblica di Platone, i valori venivano stabiliti dai filosofi. Per i guerrieri la guerra. Per gli iloti, il popolino poco più che schiavo dei potenti, il lavoro che doveva farli sudare per sé e per gli altri.

            La democrazia impone che tutti i cittadini siano uguali, senza distinzione di sesso e di condizione economica, umana e sociale.

            Ti hanno insegnato che democrazia significa governo della maggioranza. Falso. La maggioranza sa farsi rispettare da sola solo per il fatto di essere maggioranza. La democrazia è altro. E’ rispetto della minoranza. E la scuola democratica ne è la conseguenza.

            La scuola – dicevano i ragazzi di una scuola sperduta in un paese di montagna – non può essere un ospedale che cura i sani e manda via i malati. Chi ha più bisogno di cure, attenzioni e aiuto? Sicuramente chi possiede di meno rispetto agli altri. Non ha bisogno dell’otorinolaringoiatra chi sente bene, ma solo chi sente male.

            Tu dici che la scuola dovrebbe riservare a tutti lo stesso trattamento: chi arriva arriva e chi resta indietro se l’è voluta. Sei sicuro? Ricordi tua madre? Trattava tutti i figli allo stesso modo ma, quand qualcuno si ammalava, gli riservava un ovetto in più e non risparmiava le carezze. E tua madre era giusta.

            Anche la scuola, se vuole davvero essere giusta, deve dare di più a chi ha avuto di meno. Lo dicevano sempre quei ragazzi di Barbiana guidati da un prete (uno di quelli tosti, si chiamava Don Milani): <<Fare parti uguali tra disuguali è somma ingiustizia>>.

            La scuola è il luogo dove si insegna. E tu, per definizione infelice del legislatore, fai parte del personale non docente. Ad altri, ai docenti, il compito di insegnare.

            I docenti insegnano materie distinte. Tu le insegni tutte insieme.

            Non credi?

            Al mattino suoni la campanella per l’entrata. Con quel semplice gesto ogni mattina mandi dei messaggi: è ora di entrare a scuola, smettere di bisticciare, Mario finisci in fretta la merenda, signora lasci in pace Suo figlio, ecc.

            Dopo che tutti sono entrati nelle aule, pulisci le prime tracce lasciate dall’orda di barbari: ti vedono, capiscono – mandi sempre dei messaggi – che la pulizia e l’igiene sono beni preziosi.

            La campanella della ricreazione: è venuto il momento di lasciare i banchi, sfogatevi pure ma senza farvi male…

 

Per chi suono la campanella?
di  VITO PIAZZA  -  Erickson


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