I Progetti
"Parole
con l'H"
Il
progetto dell'Ufficio per l'abbattimento delle barriere
linguistiche.
Estratti
degli atti del convegno tenutosi a Roma il 31 marzo 2000.
"Io
sono abituata a vedere,
io conosco il mondo in una prospettiva che è la mia. Se fossi in
piedi probabilmente non troverei normale, non essendovi abituata,
guardare la gente negli occhi. Io so che, per guardarmi negli
occhi, la gente si deve chinare: e che io devo alzare la testa. Se
mi alzassi, il mio mondo perderebbe il suo senso, non sarebbe più
il "mio", ma quello di altri che hanno deciso di farmelo
vivere differentemente.
Sono
molto felice, quindi, di essere quello che sono. Non per
presunzione ma per la consapevolezza di aver conquistato quello
che ho faticando, come tutti noi, senza però essere per questo
assimilata a nessun altro". (Ileana
Argentin)
"Parole
con l'H"
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Il
progetto dell'Ufficio per l'abbattimento delle barriere
linguistiche.
Dalla convinzione che la discriminazione verso i disabili
abbia inizio dalle parole con cui li si indica o ci si rivolge
loro, è nata PAROLE CON L'H,
un'idea che ha trovato forma in un convegno tenutosi a Roma il
31 marzo 2000 e che da oggi, in occasione della pubblicazione
degli atti di quel convegno, è possibile apprezzare in questa
area dedicata di Acca Comune.
Si ringrazia la Dott.ssa
Francesca Dragotto per aver curato questa pagina.
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Con
il nostro patrocinio
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Patrocinato dall'Ufficio, l'incontro, dopo i
saluti degli ospiti dott. L.Amadio e prof. G.Bernardi, in
rappresentanza, rispettivamente, della sede ospitante, la
Fondazione Santa Lucia, e dell'Università di Roma 'Tor
Vergata', alla quale afferisce buona parte degli studiosi
intervenuti, ha preso concretamente avvio con l'intervento
della stessa on. Ileana Argentin, assertrice convinta della
necessità di superare la pietistica indulgenza ma anche la
disinteressata compartecipazione che troppo spesso si
percepiscono nei termini usati quotidianamente da chi ha
necessità di riferirsi all'handicap: per l'appunto le PAROLE
CON L'H.
"Questo
era il nostro scopo: ricostruire un percorso culturale fatto
di termini che ruotano intorno al mondo della disabilità,
barriere culturali forse più problematiche delle stesse
barriere architettoniche.
Naturalmente quando si parla di disabilità si parla sempre di
barriere architettoniche, di problemi di accessibilità di
trasporto, dei problemi di assistenza: problemi veri, reali,
concreti, immediati, ai quali manca - e si deve dare - una
risposta.
Si trascura, però, spesso, di fare sensibilizzazione, forse
proprio perchè è più facile chiedere ulteriori spazi
piuttosto che affrontare a viso aperto quel disagio che le
famiglie, gli operatori, conoscono bene. E che tutti,
comunque, a cominciare dai politici, dovremmo affrontare. E'
per questo, allora, che abbiamo avuto la presunzione, ma anche
l'umiltà, di fare un convegno in cui si facesse cultura su
questo mondo. Un mondo che è visto da molti come una
minoranza da rispettare, ma le cui possibilità di
arricchimento per la società intera sono sottostimate quando
non ignorate. Quindi qui non si rivendica assolutamente un
principio di uguaglianza, ma un principio di pari
opportunità. Non vogliamo dire, come al solito,
laconicamente, siamo tutti uguali. Anzi, siamo profondamente
contrari a questo. Quello che rivendichiamo è che le persone
con disabilità, con handicap, o comunque potremmo dire - non
ne usciremmo più se cominciassimo ad analizzare la varietà
delle definizioni - non sono persone effettivamente uguali
agli altri.
Ogni persona si differenzia dalle altre. Ci sono persone alte,
persone basse, persone grasse, magre, belle, brutte,
handicappate e non handicappate: il fatto, allora, che le
persone dicano che invece siamo tutti uguali significa
livellare, significa togliere quel minimo o quel massimo di
capacità che una persona ha. Quindi non uguaglianza, ripeto,
ma pari opportunità rispetto ai diritti".
Facendo nella vita il politico è chiaro che potrei sembrare
fare demagogia fine a se stessa su questi argomenti, ma
sostengo e credo fermamente in quel che dico: credo, quindi,
nella necessità di parlare delle parole che concernono
l'handicap per superare questa barriera culturale. Credetemi,
la disabilità o il disagio non è poi così allucinante o
lontano da ognuno di noi; è soltanto un mondo che non si
conosce e che, senza voler fare psicologia spicciola,
senz'altro ci terrorizza. O al quale necessariamente ci si
avvicina per dare solidarietà. Quando invece, per come la
vedo io, è soltanto un mondo come tanti altri in cui non à
necessario svendere solidarietà ma neppure negatività. La
terminologia - senza fare il lavoro di nessun altro qui - il
problema delle parole, costituisce un ulteriore limite per la
persona con limiti. Pensiamo alla parola disabile 'non abile'
a cosa?
Handicappato. L'handicap lo portiamo noi o lo troviamo
all'esterno? Se io esco per la strada sono handicappata
perché trovo lo scalino ma ciò non significa che porto
dietro a me un bagaglio di handicap. E' la società esterna
che non riconosce i miei limiti: anche, in fondo, giustamente
poichè, e questo va detto, è comunque nel rispetto di una
maggioranza di persone che nascono le cose. E pur essendo vero
che la civiltà è data dal rispetto delle minoranze, risulta
lampante che il mondo gira intorno ai grandi e non ai piccoli
numeri. Corro un rischio, ma sono pronta a farlo, allora,
quando dico che, è vero, i disabili non sono l'intero mondo e
che l'intero mondo non deve, non può girare intorno a questi.
Ma sono ancor più pronta a difendere la legittimità del loro
spazio, non nel senso di rivendicazione ostentata del disagio,
ma in quello di una rivendicazione equilibrata, giustamente
finalizzata alla richiesta di non essere ulteriormente
penalizzati da una scorretta terminologia.
Una piena sintonia sussiste, poi, tra queste osservazioni di
carattere culturale e le vicende, più specifiche, del
lessico, dal quale proviene un calzante parallelismo del fatto
che "a determinare la diversità non è tanto la
condizione oggettiva, quanto piuttosto la considerazione
soggettiva e le barriere, non solo architettoniche, ma
soprattutto pregiudiziali degli altri".
Parole, queste, del moderatore dell'incontro, il
linguista prof. P.Poccetti, che nell'intervento di apertura
dei lavori spiega anche la scelta del titolo dell'incontro.
"A
differenza di altri segni alfabetici, alla lettera H non
corrisponde nella lingua italiana alcun suono, Più
tecnicamente l'acca in italiano - diversamente da altre lingue
- non è che un grafema, il quale non solo non rappresenta
nessun fonema, cioè un suono funzionale alla lingua, ma
neppure una variante. In altre parole, l'acca è il segno che
si scrive per convenzione, dovuta o a ragioni etimologiche
(legata, cioè, all'origine delle parole che la recano) o a
pura vezzosità, ma non si pronuncia: rappresenta, dunque, il
silenzio.
Le parole inizianti con H, con la sola eccezione delle III
persone dell'indicativo presente del verbo avere, tradiscono
la loro origine straniera, per lo più da lingue dove il segno
indica un suono che è fonologicamente pertinente e che,
invece, una volta che la parola è trasposta in italiano, si
ammutolisce nelle pronunce meno accurate.
Le parole con H iniziale, conservando la veste
ortografica alloglotta, segnalano immediatamente la loro
estraneità al lessico italiano e diventano fin dall'inizio
una spia di ciò che è diverso. Ovviamente diverso significa
solo differente, ma non "estraneo", perchè una
parola non è diversa di per sè, ma sono gli utenti della
lingua a sentirla "diversa" e a renderla uguale alle
altre, facendone parte integrante della varietà delle
componenti del lessico. Per queste considerazioni il titolo
Parole con l'acca è stato molto appropriatamente e, al tempo
stesso, piacevolmente scelto dagli organizzatori di un
convegno multidisciplinare sulla tematica dell'handicap,
parola anch'essa appunto iniziante con l'acca.
Nel suo campo semantico, handicap è la parola con l'acca per
eccellenza, è l'arcilessema con cui si designano le
molteplici condizioni di disagio nelle quali una persona può,
per infiniti motivi e circostanze, trovarsi nella vita e che
lo rendono ad un certo punto diverso dagli altri. Tuttavia - e
qui viene il calzante parallelo con le vicende del lessico - a
determinare la diversità non è tanto la condizione
oggettiva, quanto piuttosto la considerazione soggettiva e le
barriere, non solo architettoniche, ma soprattutto
pregiudiziali degli altri. Handicap è una parola ormai
acclimatata ed integrata nel lessico italiano a tal punto che
il suo derivato andicappato si può scrivere anche senza
l'acca, come sanciscono illustri dizionari, creando così una
dissolvenza attraverso la lettera iniziale tra ciò che c'è e
ciò che non c'è. D'altra parte, come handicap è un
eufemismo per indicare una condizione disabilitante e dolorosa
(talvolta meno sul piano fisico che su quello psichico), anche
l'espressione parole con l'H per trattare la tematica che vi
è sottesa è a sua volta un eufemismo. Insomma un eufemismo
dietro un altro eufemismo...Se vi può essere una vera
rivoluzione nel trattare la tematica dell'handicap, questa non
può che partire dalla lingua, perchè - per riformulare il
detto di Protagora - "la lingua è la misura di tutte le
cose, di quelle che sono, in quanto sono, e di quelle che non
sono, in quanto non sono".
Quello della lingua è, pertanto, il terreno sul quale si
consuma l'incontro tra le esperienze provenienti da molteplici
discipline, accomunate, tutte - dall'etimologia,
all'onomasiologia, all'onomastica, ai rapporti
interlinguistici, ai testi letterari - dalla convinzione che
si possa parlare di handicap senza falsi pudori, purchè si
faccia un uso più consapevole dei termini.
"Tale taglio, oltre a rappresentare una novità
nell'affrontare un argomento di questo tenore, che non di rado
tocca la lingua solo per far vibrare le corde della retorica,
è forse proprio l'approccio più corretto. Se vi può essere
una vera rivoluzione nel trattare la tematica dell'handicap,
questa non può che partire dalla lingua" (P. Poccetti).
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I
relatori e gli argomenti degli interventi.
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E' il sottotitolo stesso proposto per
l'incontro a chiarire le modalità che hanno guidato la scelta
degli studiosi convenuti per discutere, ciascuno ricco
dell'esperienza del proprio ambito: un
modo nuovo per parlare di disabilità non è, infatti,
il solo sottotitolo dell'odierno incontro. E', innanzi tutto,
l'intento che ha animato i partecipanti.
L'idea di parlare delle parole con l'H, quelle con cui in
genere si designano individui colpiti da deficit psichici,
fisici o sensoriali è il leit motiv sotteso alla discussione.
Disarticolatasi in primis come analisi contrastiva tra la
linguistica, che fa della parola il proprio vessillo, e tutte
le altre discipline (qui rappresentate da diritto, musica,
psicologia, letteratura) e, contemporaneamente, come confronto
tra i possibili approcci che la linguistica già da sola può
fornire.
E' in quest'ottica che si sono succedute etimologia,
onomastica e paremiologia. Ovvero il significato originale
unitamente alla storia della parola; lo studio dei nomi propri
e del loro processo di formazione; i proverbi, stilla di
presunta saggezza popolare o più semplicisticamente
cristallizzazione della vox populi. Il taglio degli interventi
- possibilmente così accattivante da stimolare la curiosità
dell'uditorio - è stato calibrato in modo da consentire la
fruizione a qualsiasi livello. Il numero dei relatori, quindi
delle discipline presenti, contenuto per poter alimentare il
dibattito tra gli studiosi e il pubblico in sala, pur nel
rispetto della pluralità dei punti di vista.
Trasmettere la convinzione che senza falsi pudori si possa
parlare di handicap, usandone i termini in modo più
consapevole, è stata la speranza degli organizzatori.
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Nomi
propri con l'acca: l'onomastica specchio della
diversità
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I
nomi non sono semplici etichette. Tutti noi possediamo almeno
un nome e un cognome, talvolta un doppio nome e un doppio
cognome e uno o più soprannomi che ci sono stati imposti in
tempi diversi... Tutti questi nomi sono pieni di informazioni
storiche, culturali, linguistiche, sociali che forse neppure
immaginiamo. Il nome di battesimo ci dice...l'età che grosso
modo ha quella persona nata in un dato luogo e proveniente da
un determinato ceto sociale... Il cognome ci parla invece di
un avo che portava un nome o un soprannome o praticava un
mestiere o rivestiva una carica pubblica o proveniva da una
certa località: e quel nome o soprannome, attraverso processi
complicati e differenti secondo il tempo e il luogo, si è poi
fissato, cristallizzato, in un cognome.
Nel nostro nome non c'è il futuro, non c'è il destino come
vorrebbero i cartomanti dell'onomanzia (che sta all'onomastica
come l'astrologia sta all'astronomia); c'è invece un po' di
presente: come conviviamo con il nostro nome e cognome, specie
se sono troppo comuni o troppo rari, o se corrispondono a
parole della lingua italiana imbarazzanti, ridicole,
vergognose. E c'è soprattutto il nostro passato. Molti
cognomi derivano da soprannomi e come i soprannomi riferiti
all'aspetto fisico, al comportamento abituale o ad un'azione
particolare del soprannominato, tendono a coglierne l'aspetto
più appariscente, dunque il più originale. Non raccontano la
normalità, come avviene al contrario per i nomi derivanti da
mestieri e professioni, ma fissano la diversità. Una
diversità che acquista moltissime forme, talvolta
impensabili, e non riconoscibili se tramite un'intervista
diretta.
Diversità, dunque, in opposizione a una presunta normalità,
o per meglio, dire, la denominazione attiva della minoranza a
fronte di una maggioranza onomasticamente silenziosa. Ed è
proprio per questo motivo che l'onomastica italiana è piena
di signori Grassi, Grossi, Bassi, Corti, Lunghi, Sordi, Muti,
Nani, Brutti, Guerci, Malfatti, Piccoli, Gobbi, Zoppi,
Malvestiti, e presenta, con frequenze molto basse anche i
cognomi Deboli, Viscidi, Sciancati, Minorati, Dementi,
Invalidi, Storpi, Curvi, Malati, Pesanti, nonché Gambarotta,
Brazzorotto, Testasecca, Testaverde e la lista potrebbe a
lungo continuare.
Forme di questo genere non sono tipiche o esclusive solo di
alcune zone d'Italia. Vediamo a mo' di esempio i cognomi che
risalgono a un soprannome allusivo alla cecità (di uno o
entrambi gli occhi, o allo strabismo): Borgna e derivati (dal
francese borgne 'orbo') sono cognomi soprattutto piemontesi e
liguri; Cecati e Cecato risultano l'uno romano e marchigiano,
l'altro agrigentino, con Cecatiello casertano e napoletano;
Orbi è cognome di Assisi; Occhiochiuso è foggiano,
Occhionero di tutta l'Italia meridionale peninsulare; ma la
serie più prolifica è quella con base guercio: ecco il
cognome Guerci in tutto il Nord, Guercia solo alle falde del
Vesuvio, Guercetti a Zelo Buon Persico, comune del Lodigiano,
Guercini in Toscana, Guercio nel Siracusano e nel Palermitano,
Gerciolini nel Grossetano, Guercioni in provincia di Teramo,
Guerciotti nel Pavese, Guercitelli a Poggiomarino (Napoli),
Del Guercio in Irpinia; e poi Guerzi a Ferrara, Guerzo nel
Piemonte settentrionale, Guerzoni a Modena e a Bologna;
Sguerzi in provincia di Venezia, Sguerzo nel Bresciano,
Sguerzoni intorno a Verona. Un altro esempio può riguardare
quella deformazione che in genere chiamiamo gobba. Ecco il
diffusissimo cognome Gobbi nel Nord ma anche in Toscana e
nelle Marche; Gobbo è invece forma veneta e lombarda, e
Gobbis soprattutto triestina; Gobbetti si trova nel Veronese e
in Alto Adige; Gobbetto soprattutto nel Trevigiano; Gobbin
invece nel Padovano; Gobbini tanto in Lombardia quanto a
Foligno, nel Perugino, mentre Gobbino è piuttosto ternano;
Gobello è di Sezzadìo nell'Alessandrino, Gobet dela Venezia
Giulia, Gobetti soprattutto lombardo....
La lista di questo tipo di soprannomi potrebbe allungarsi a
dismisura.
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Disabilità
riflessa: la letteraratura
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Di
fronte al dolore del mondo che cosa fare se non condividerlo?
Mi è sembrato così di dover andare a cercare dentro qualche
libro una via d'accesso, sperando di trovare aiuto per
radicalizzare la tensione, per cercare il rispecchiamento di
un contagio che già c'è comunque. Perchè siamo tutti
malati, e lo siamo ancor di più quando non lo sappiamo...Ed
è allora che ritornano utili i libri con il loro corteggio di
immagini, specialmente i libri dove regna la sofferenza.
John Baely ha scritto uno di questi libri, dedicato agli
ultimi anni di vita di sua moglie. Una donna che è un
personaggio straordinario: Iris Murdock...una delle più
illustri allieve di Ludwig Wittgenstein. Ha insegnato
filosofia per quindici anni, poi si è allontanata
dall'insegnamento per proseguire nella sua ricerca di studio,
ma anche di scrittura. Ed è diventata quella scrittrice che
tutti conoscono. Questo è quello che è facile dire di lei.
Quello che è molto meno facile è seguirla nei suoi ultimi
anni, quando era ormai irraggiungibile, completamente ghermita
dalle ombre, eppure ancora viva. La splendida e così luminosa
mente di Iris è stata incenerita dal morbo di Alzheimer. Una
malattia crudele e beffarda che a un certo punto costringe
quasi a dubitare che aldilà di una labile, ma ostinata,
parvenza di vita non ci sia più nessuna fiammella, che non ci
sia più nessuna possibilità, nè di parlare nè di ricevere
una qualsiasi risposta. Ed ecco il problema toccante di questo
libro, biografia diario ricordo, disperato tentativo di capire
come mai e per che vie l'intelligenza più luminosa si vada
scialbando inarrestabilmente. La questione fondamentale di
questo libro? Cercare di capire se c'è ancora una
comunicazione possibile aldilà di quelle nebbie. Se c'è
ancora una storia che raccolga in qualche modo quella persona
che è ancora viva, ma che non ha più nessuna possibilità di
comunicare. E mi pareva giusto, per entrare dentro l'orrore,
incominciare da qui, dalla fine. Incominciare un ragionamento
proprio da dove la ragione si spegne. Un monito, una
professione di smarrita umiltà. E la pretesa che la pietà
possa parlare, almeno lei. Pensavo anche a un libro del 1996,
che ebbe una sua breve fortuna. Un romanzo di un giovane
scrittore alla sua seconda prova...E' il libro di Rocco
Carbone che s'intitola Il comando. Qui diverse storie
s'intersecano, ma una è quella che ancora una volta tocca la
punta. Ora non è più una biografia di qualcuno che
attraversa lentamente il varco, non è una conoscenza diretta:
è un tentativo dell'immaginazione di spingersi verso ciò che
gli uomini non si aspettano nè immaginano. Il tentativo di
condividere l'incenerimento, di rappresentarlo: un modo
insomma di prepararsi. E la punta è questa: un professore, il
cui nome per un rovesciamento della nemesi è Logoteta. sta
per venire incenerito dall'Alzheimer. E il problema è ancora
una volta, che cosa succede quando una mente brillante e
raffinata conosce e patisce il proprio sbriciolamento? Il
professore, maestro di logos, adesso sta per perderlo, il
logos. Anzi, è già partito verso uno sprofondamento da cui
non ci sarà presto più nessuna possibilità di mandare
notizie. Un viaggio verso questo buio, questo buio feroce. La
solitudine di chi muore, di chi soffre. La difficoltà, e poi
l'impossibilità, di trovare un senso e di condividerlo...
Per capire le cose difficili che ci fanno orrore non è
forse necessario uno straordinario esercizio intellettuale,
serve piuttosto il coraggio di saper resistere alla paura. Il
coraggio di non risolvere ciò che non si risolve in una
parafrasi ottimistica di qualcuna delle molte formule
rasserenanti. In fondo il buon uso della vita sta proprio in
quella coscienza della differenza tra il bene e il male:
saperli distinguere mentre continuano intransigentemente a
confondersi. L'importante è dunque non credere di stare bene,
perchè questo significa dimenticarsi del male. E dimenticarsi
del male non è l'agognato privilegio a cui aspira nobilmente
ciascuno, è semmai prolungare una vita senza significato.
Orgoglio e stupidità, una lapide sontuosa che ricopre
l'euforia dello spreco, un'occasione perduta. Se la malattia
si può e si deve inscrivere in un contesto più ampio, non
saranno inutili e soltanto perfidi quei sintomi, quei limiti,
quegli insulti che caratterizzano la malattia. Anche i martiri
cristiani muoiono ciascuno con la sua propria morte...
Morenti, malati, martiri, mistici. Parole con la M, eppure non
tanto lontane da quella con l'H che ci ha riuniti oggi. Se
solo potessimo riunirci ancor di più, spinti in questo dallo
sforzo di resistere ad un'altra parola con la M, quella di
male, non sbagleremmo di certo. I saggi hanno sempre insegnato
che il male divide, che la civiltà organizza le sue sacche di
resistenza quando gli uomini si uniscono. Rovesciare la forza
del male non è forse soltanto sperare di guarire, ma restare
insieme. E sentire il male in noi, e sentire che la sua
violenza è proiettata verso la divisione. E nonostante tutto,
riunirci gli uni accanto agli altri. Riunire gli animi e
scoprire le divisioni che oppongono il bene al male, invece di
dividerci e lasciare che il bene e il male, la salute e la
malattia, la vita e la morte, continuino a confondere il loro
profilo. Distinguere il genere e riunire la specie. Proclamare
l'unità sulla divisione. Che è poi quello che sanno fare i
buoni libri quando raccontano la storia che ci racconta.
Dentro questa nostra storia non siamo più soli, perchè lì
finalmente la nostra anima entra nell'anima del mondo. Là
dove Iris e Harold incontrano il grande Simeone e ciascuno di
loro, come i martiri e i mistici, si affida alla memoria che
custodisce misteriosamente oltre la soglia della vita. E' la
grande lezione della letteratura. E ancor di più di quella
letteratura che non volle legarsi a nessuna confessione di
fede: La ginestra di Leopardi, I sepolcri di Foscolo. Perchè
la letteratura è il luogo dove il dolore diventa il dolore
del mondo, ossia dove il mondo di là approda in quello di
qua.
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Curiosità
etimologiche
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Esistono
due distinti, ma interrelati, modelli di ricerca etimologica
che, rispettivamente, muovono verso la ricostruzione della
radice, del suo significato originario, (sorta di iniziale
stato di purezza prima della contaminazione inevitabile
laddove un segno venga immesso in una storia linguistica)
oppure verso il susseguirsi delle testimonianze, delle
manifestazioni fenomeniche della parola nel corso del tempo.
Esemplificativo è il lemma deficiente, proveniente nel senso
dell'histoire de la racine proviene da una radice lat. deficio
composto di facio dal valore di 'venir meno, mancare', ma,
dopo una trafila semantica incentrata sul non completo
possesso di facoltà intellettuali, diventato a tutti gli
effetti sinonimo di scemo, cretino.
La sorte di deficiente è però esemplificativa del destino
che sembra accomunare tra loro non solo tutte le parole di
questo lessico, ma anche il lessico, inteso nella sua
globalità, con tutti gli altri repertori terminologici
usualmente colpiti da interdizione. Un repentino tramutarsi in
termini ingiuriosi, comunemente usati per offendere. Oggetto
di studio non dei soli linguisti, ma anche degli antropologi,
l'interdizione, può essere definita come "la coazione a
non parlare di una data cosa o ad accennarvi con termini che
ne suggeriscano l'idea pur senza indicarla direttamente"
(N. Galli de' Paratesi). Evitare, per lo più mediante
sostituzione, l'uso di certe parole è quanto costituisce un
tabu linguistico, insieme di manifestazioni linguistiche di
cui l'interdizione è la causa psicologica. Termini di
sostituzione sono le espressioni cui si ricorre per sfuggire
alle espressioni tabuizzate: correlati alla competenza del
parlante, sono termini utilizzati in base ad un grado di
complessità crescente, proporzionata alla forza
dell'interdizione.
All'interno del lessico eufemistico, tutto caratterizzato da
un'abbondante sinonimia determinata dalla ricerca di sempre
nuove coperture, quella dei difetti fisici è da ritenersi una
categoria piuttosto eterogenea. Spesso sfuggono i motivi per
cui è scattata l'interdizione, collegata in parte ad una
sorta di timore superstizioso (simile a quello provocato dalle
malattie), in parte alla stessa forma di ripugnanza ingenerata
dai vizi morali. Rispetto a difetti morali, i termini che
indicano la non integrità delle facoltà psico- intellettuali
sono soggetti ad un ricambio continuo, non sembrando
sussistere una via d'uscita al loro degenerare in insulti. E'
evidente che essendo lo studio della disabilità di pertinenza
preminente della medicina, un cospicuo filone di parole con
l'H sia costituito da termini scientifici. Ma l'azione
esercitata dall'uso scommatico è stata così incisiva da
impedire, a volte, perfino il riconoscimento dell'origine
medica di alcuni elementi lessicali.
Basti pensare alla parola cretino, legata fin dalla sua
origine ad una patologia diffusa presso alcune vallate alpine
dove frequenti erano "gravi disturbi della tiroide dovuti
a carenze alimentari, per i quali i pazienti assumevano
l'aspetto di poveri cristi". L'etimologia rimanda al
francese crétin (1750) cristiano ma anche, al di là del
significato religioso, essere umano, proprio come il termine
italiano corrispondente. Cretino era insomma un individuo
affetto da cretinismo (dal fr. Crétinisme, 1748), il cui
aspetto era quello di 'persone mutole, insensate, e con gran
gozzo'. Insomma, cretino è sinonimo di gozzuto aggettivo e
sostantivo denotante "chi è afflitto dal gozzo. E anche,
per l'aspetto che deriva dal male, sciocco". Povero
cristo o povero cristiano ovvero povero cretino erano
probabilmente le esclamazioni compassionevoli alludenti ad un
malato di tiroide.
E del destino di cretino non doveva certo sospettare il detto
del Vallese "fortunata quella casa che ha un
cretino" (forse per assimilazione del gozzo ad una gobba,
ritenuta portatrice di fortuna, elemento su cui varrebbe la
pena di indagare).
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I
proverbi con l'acca
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Di
fronte alla sconfinata messe di dati che sono forniti dai
sempre più ampi repertori, il presente contributo non può
neppur lontanamente ambire ad una esaustività dell'argomento
proposto; tuttavia, si è cercato, attraverso
l'esemplificazione proposta, di rilevare come anche
all'interno del corpus di proverbi relativi a quanto viene
percepito come imperfezione fisica, ed in particolare alla
cecità, si attui una dinamica piuttosto articolata tra la
loro pretesa universalità da un lato ed i singoli contesti
storico-culturali di formazione e produzione dall'altro.
I proverbi che, al fine di realizzare attraverso metafora ed
analogia una nuova conoscenza o consapevolezza del reale, si
servono del mitema del cieco, del sordo ecc. paiono essere
caratterizzati da marcata coesione tematica e ripetitività
situazionale in aree tra loro assai distanti. Al tipo
dell'italiano Non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere
corrispondono l'inglese There's none so blind as those who
will not see, il romeno Nu e mai orb decât cel ce nu vrea sa
vada e altre 26 attestazioni che presentano identica struttura
tra Europa (specialmente orientale), Asia ed Africa.
Analogamente, l'italiano non c'è peggior sordo di chi non
vuol sentire è lo stesso di ingl. There's none so deaf as those who will not
hear, rom. Nu
e mai surd decât cel care nu vrea sa auda (anche - ca surdul
ce se face ca nun aude) e di altri 37 proverbi, più o meno
identici, diffusi, con maggior o minore densità, nelle stesse
aree. Di fronte a ciò, non può non presentarsi la tentazione
di considerare la ricorsività diffusa e formalmente piuttosto
coerente di questi proverbi come segno dell'universalità del
loro messaggio, e dunque della percezione del materiale
culturale che sta alla base dell'analogia che vi conduce. In
effetti, la corrispondenza tra un proverbio cinese ed uno
latino non può facilmente essere spiegata ricorrendo a
contatti diretti o mediati tra le due culture - ciò che
potrebbe valere per un nucleo di diffusione limitata
all'Europa...Ma anche quando le attestazioni di un proverbio
si articolano in un'area geo-culturale chiaramente limitata,
le cose non sono così semplici...Gli archetipi antropologici,
per quanto universali possano essere, si articolano secondo
figure caratteristiche di singole culture, nel cui ambito
giocano fattori particolari ad esse esclusivamente correlati,
prescindendo dalla considerazione dei quali si finisce per
isolare ed affiancare elementi simili, operazione il cui
significato è però limitato al livello descrittivo, dunque
scarsamente significativo per l'interpretazione del/i fatto/i
culturale/i cui essi appartengono.
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L'handicap
dal punto i vista psicologico
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L'Organizzazione
mondiale della Sanità definisce "l'handicap condizione
di svantaggio vissuta da una determinata persona in
conseguenza di una menomazione, che limita la possibilità di
ricoprire un ruolo considerato normale in base all'età, al
sesso, ai fattori culturali e sociali tipici di una
determinata persona Tenendo conto che il disabile è persona,
in quanto tale è portatore di una dignità e di una sua
originaltà, va valorizzata la sua individualità, e la sua
diversità. I disabili non negano di aver problemi e
difficoltà particolari in molti settori, rispetto ai
normodotati, e neppure hanno la pretesa di conseguire
un'uguaglianza che sarebbe a prescindere da ogni altra
considerazione materialmente impossibile. Il problema è che
diversità non deve significare inferiorità o peggio
giustificare la negazione della pari dignità della parità
dei diritti, della possibilità di contare sulle stesse
opportunità personali e sociali che sono di tutti.
L'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato, il
09/12/1975, la "Dichiarazione dei Diritti delle Persone
Handicappate", proclamando con l'articolo 4 il diritto
"ai trattamenti medico-psicologici e funzionali, ivi
compresi gli apparecchi di protesi e ortesi; al riadattamento
professionale, agli aiuti, ai consigli e agli altri servizi
intesi a garantire la valorizzazione ottimale delle sue
capacità e attitudini, ad accellerare il processo della sua
integrazione o della sua reintegrazione sociale".
Gli obiettivi della riabilitazione possono essere anche
indicati in accordo con quelli degli studi sugli invalidi
sviluppati dalla Classificazione Internazionale di Deficit,
Invalidità, Handicap, (ICDH) dell'Organizzazione Mondiale
della Sanità, 1980, e dai modelli delle limitazioni
funzionali di Nagi ( 1965). Il primo studio classifica
invalidità nei termini di malattia, deficit, invalidità, e
handicap, in cui la malattia è lo studio precedente la
diagnosi e il processo patologico, il deficit è la perdita o
l'anormalità di capacità fisiche o psicologiche,
l'invalidità è una restrizione o la mancanza dell'abilità
di una persona di svolgere un'attività nella vita quotidiana,
e l'handicap è una conseguenza derivata dalla menomazione o
dall'invalidità, che limitano o impediscono l'adempimento di
un ruolo che è normale per quella persona. Nagi esalta la
patologia, la menomazione, la limitazione funzionale e
l'invalidità, dove la patologia è l'interruzione o
l'interferenza dei normali processi o strutture fisiche; il
deficit è la perdita o la anormalità delle funzioni
anatomiche; la limitazione funzionale è la restrizione o la
perdita della capacità di compiere un'azione o un'attività
nella vita domestica o all'interno di un'autonomia considerata
normale, e l'invalidità è l'inabilità o la limitazione
nello svolgimento di attività socialmente definite e dei
ruoli previsti in un contesto fisico o sociale.
TECNICHE D'INTERVENTO PSICOLOGICO NELLA TERAPIA
COGNITIVO-COMPORTAMENTALE: ASSERTIVE TRAINING
L'assertività è uno stato di equilibrio e armonia interiori
tra abilità sociali, emozioni e razionalità. E' un
comportamento, uno stile di vita che non richiede cambiamenti
di personalità, ma la scoperta del significato e del piacere
di essere spontanei e naturali, attraverso il mutamento delle
abitudini. Per il paziente paraplegico è utile apprendere la
suddetta tecnica di intervento per facilitare la sua
accettazione sociale. Egli, attraverso il training assertivo,
impara a:
- riconoscere le emozioni (ansia, timore, irritazione, gioia e
commozione). L'obiettivo è l'autonomia emotiva, il percepire
e mozioni come un arricchimento della situazione senza quel
coinvolgimento negativo, legato alla presenza di altre
persone, che genera vergogna, imbarazzo, disagio, per timore
di essere commiserati
- trasmettere emozioni e sentimenti attraverso molteplici
strumenti comunicativi. Obiettivo è la libertà espressiva,
padroneggiare le reazioni gestuali e mimiche, perché non
siano alterate dall'ansia o dalla tensione.
- essere consapevole dei propri diritti. Obiettivo è il
rispetto di se degli altri. Ciò richiede di identificare e
valutare i propri diritti secondo il principio di
reciprocità.
- apprezzare gli altri e se stessi anche nella propria
condizione di disabile. Obiettivo è la stima di sè, la
capacità di valorizzare gli aspetti positivi dell'esperienza
traumatica, con una visione funzionale costruttiva del proprio
ruolo sociale.
- autorealizzarsi con la consapevolezza di poter decidere
della propria vita. Obiettivo è avere un'immagine positiva di
se. Un'immagine positiva comporta maggiori capacità di
autocontrollo e di intervento sulle situazioni, e, quindi,
capacità di soluzione dei problemi. Questo consente di
affrontare in modo positivo ansia e stress e di percepire le
difficoltà non come occasioni negative e frustranti, ma come
ostacoli da superare, nonostante il cambiamento dell'aspetto
fisico.
(della versione scritta dell'intervento è, integralmente
consultabile negli atti del Convegno, coautore il dott.
Antonio Cerasa, Psicologo presso l'I.R.C.S.S S.Lucia- Roma)
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