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Quel ragazzo con gli occhi a mandorla

I ragazzi come lui li chiamavano <<i figli della speranza>>, forse in riferimento al fatto che la loro anomalia è in stretta correlazione alla età della madre (ma anche del padre). Ma io preferisco credere che questa espressione sia dovuta al fatto che da un ragazzo così è possibile aspettarsi molto.

Quel ragazzo si presenta con una particolare fisionomia mongolica, taglio degli occhi obliquo, naso piccolo a sella, lingua che sembra una carta geografica spesso sporgente dalla bocca, statura tozza con spiccata quadratura degli arti, notevole ipotonia muscolare, ultima falange del mignolo rivolta all’indietro. Qualcuno aggiunge a queste caratteristiche anche un aspetto inespressivo, un modo lento di muoversi e di fare.

Una volta veniva chiamato mongoloide, come lo classificò il dott. Langdon Down nel 1866. Non lo fece per cattiveria, ma perché convinto che, ci fosse stata una classificazione precisa, in grado di fare riconoscere fin dalla nascita i bambini con anomalie, si sarebbero potuto intervenire presto e curare meglio.

Distinse perciò gli idioti secondo una tipologia etnica: l’etiopica, la causica, la mongolica.

Delle altre classificazioni non è rimasta traccia.

Mongoloide (potenza delle parole!) resistette. Ora per fortuna sempre meno: oggi si parla di persone Down e di soggetti affetti da trisomia 21, da quando nel 1959 l’equipe di Lejeune ha individuato la presenza di una anomalia cromosomica in questi individui.

Le cause della sindrome non sono ancora note; si è focalizzata l’attenzione prevalentemente sull’età della madre: le donne dopo i 35 anni hanno una maggiore probabilità di concepire figli Down ma, come è risaputo, se si cerca l’ago in un pagliaio, dando fuoco al pagliaio e usando una calamita (è il metodo preferito del grande Tex Willer), anche l’ago finirà per essere ritrovato.

In realtà i fattori causali della sindrome di Down sono ancora ignoti.

Non solo non esiste una prevenzione sicura (prima del concepimento), ma non è neppure applicabile una cura primaria: non è possibile distruggere dall’esterno quel cromosoma in più, non c’è una cura secondaria che dovrebbe consistere nel riequilibrare il metabolismo sconvolto dall’irruzione del cromosoma stesso.

Una volta questi ragazzi arrivavano raramente all’età adulta.

Nei primi del Novecento la percentuale di sopravvivenza si attestava intorno ai 15 – 18 anni. Oggi le aspettative di vita sono cresciute, attestandosi intorno ai 55 anni. Ciò è positivo ed è dovuto ai progressi della medicina (una persona Down non moriva perché era Down, ma per tutte le patologie correlate alla sindrome, che riguardavano la respirazione, il sistema cardiaco, ecc.).

Oggi potrai vedere quel ragazzo anche dopo la conclusione del ciclo scolastico.

Ma ogni medaglia ha sempre il suo rovescio: prima i genitori erano sicuri che avrebbero assistito il figlio per tutta la vita, oggi non lo sono più.

E allora, quando incontri i genitori del ragazzo Down, trattali con il rispetto che si deve a chi si chiede ogni giorno, drammaticamente, disperatamente: <<E quando io avrò chiuso gli occhi?...>>.

Lo so, non lo chiamerai mongoloide o mongolino, ma non dovrai chiamarlo neanche Down o soggetto affetto da trisomia 21.

Chiamalo per nome.

Non solo quando parli con lui, ma anche quando parli di lui.

A proposito: non prestarti a conversazioni su quel ragazzo – ma questo vale per tutti gli alunni disabili, specie quelli che ci appaiono persi fra le nuvole – quando quel ragazzo è presente.

L’alunno Down, quando arriva, non passa inosservato.

Non far finta che sia come tutti gli altri. Se non riesce in qualcosa, parlagli con parole di verità.

E se ti chiede che cosa ha di diverso, diglielo: un’anomalia cromosomica. Sforzati di spiegarglielo. Non riesci? Digli che per te è difficile, parlagli della tua difficoltà. (15)

di Vito Piazza

Per chi suono la campanella? Erickson


Vito Piazza, Le mele di Lucio. In Attè ti picchia Luigi? Milano, & Castaldi, 1992.

 


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