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La legge di riforma dei Servizi Sociali Dal centralismo sociale al federalismo solidale di Salvatore Nocera
Scopo dichiarato di questo lavoro è quello di offrire al volontariato organizzato ed ai soggetti operanti nel terzo settore una lettura semplice di una legge assai complessa qual è la L.n. 328/00, che politicamente è denominata “legge Signorino-Turco”, dal nome rispettivamente della presentatrice del testo base di discussione alla Camera, poi integrato e sostituito col testo presentato dall’allora ministro agli affari sociali Livia Turco. Una legge così articolata si presta a numerose letture, da quella tecnico-giuridica, che mi sarebbe più naturale, a quella sociologica che ne evidenzi gli schemi organizzativi e strutturali; da quella storico ricostruttiva che tenta di individuare i precedenti normativi degli istituti transitati nella legge a quella comparativistica che cerca di cogliere analogie e differenze rispetto ad altri sistemi di wellfare. In queste pagine si è voluta fare un’operazione molto più modesta; si è evitato di tentare una ricostruzione sistematica del testo e si è preferito curare un commento per gruppi di articoli, seguendo l’ordine strutturale fornito, dallo stesso legislatore, nella suddivisione in capitoli. L’approccio al testo è quindi simile a quello che i tecnici del diritto definirebbero col termine “esegetico”. Dato il carattere non tecnico del lavoro, in queste pagine si è pure trattato degli atti applicativi della legge di riforma non ancora pubblicati ma che si trovano già alla Corte dei conti per il visto di registrazione ed il cui testo quindi può considerarsi definitivo. Per rendere più comprensibile il contenuto di singole norme o gruppi di esse, ci si è talora soffermati su altre norme direttamente o indirettamente richiamate dal testo. Ciò dà della legge una visione più ampia di quanto non risulti direttamente dal testo approvato, che però consente, specie al lettore non tecnico, di collocare in modo più comprensibile, sul piano operativo, i contenuti delle singole norme. E quello dell’operatività è stato il filo conduttore del lavoro; operatività sociale dei soggetti del terzo settore che dovrebbero trovare in questa come in altre leggi gli stimoli per loro interventi nella progettazione, gestione e verifica di servizi alla persona, specie innovativi e di forte contenuto relazionale. Per questi motivi, seguendo l’insegnamento di Luciano Tavazza che invitava il volontariato a pensare in grande ed a lavorare in piccolo, si è scelto di concludere ogni capitolo con una breve sintesi, quasi per “parole-chiave” del contenuto dello stesso. Con riferimento ai singoli punti di tale sintesi si propongono alcune possibili azioni di intervento dei soggetti del terzo settore, nell’ottica della tutela dei diritti delle persone, utenti dei servizi. Tali proposte non hanno assolutamente la presunzione di esaurire tutta la gamma dei possibili interventi; vogliono solo essere uno stimolo a sollecitare la fantasia, specie del volontariato, che, già ricca in campo progettuale, può trovare nelle norme giuridiche, un supporto al suo dispiegarsi e concreto realizzarsi. Il taglio dato ai contenuti del lavoro trae ispirazione dalla lunga elaborazione culturale in questo campo svolta dal M.O.Vi, dalla F.I.V.O.L. e dalla Fondazione E. Zancan. [1] Ci si augura che questo lavoro riesca a contribuire ad una migliore comprensione del testo della L.n. 328/00, che nel testo verrà denominata, per brevità, “legge di riforma” e quindi al suo concreto calarsi nella prassi quotidiana della vita dei cittadini. Ringrazio quanti mi hanno aiutato ad evitare nel presente commento errori interpretativi ed a renderne più agevole la comprensione. Spero pertanto che, alla fine della lettura del libro, non mi venga rivolta la seguente sentenza che veniva rivolta da alcuni contemporanei a taluni Glossatori medievali: “A chiaro testo non fare oscura glossa”. [1] Cfr in particolare il seminario organizzato sull’attuazione della legge n. 328/2000dalla Fondazione Zancan a Malosco (Tn) dall’8 all’11 luglio 2001. I PRINCIPI GENERALI DEL SISTEMA INTEGRATO (Artt. 1 - 5)
La legge si ispira ad una serie di principi fondamentali che enuncia nei primi cinque articoli e poi sviluppa ulteriormente negli articoli successivi e negli atti applicativi ivi indicati. Questi principi, qui appena enunciati, forniscono un'immagine di facciata alla legge, più che offrire agli utenti, con tale enunciazione, strumenti concreti di carattere giuridico. Tra i principi indicati sembrano particolarmente meritevoli di attenzione quelli riguardanti l'universalità dei destinatari, la programmazione degli interventi, il diritto alle prestazioni, il decentramento amministrativo, l'integrazione delle prestazioni sociosanitarie, la sussidiarietà cosiddetta "orizzontale" ed il pluralismo partecipativo dei soggetti non pubblici.
1 L'universalità dei destinatari
A differenza della precedente normativa in tema di assistenza sociale, la legge di riforma introduce il principio del superamento della logica assistenziale basata sulle "categorie". Infatti il sistema integrato di interventi e servizi sociali viene offerto a tutti i cittadini, ed in taluni casi anche agli stranieri ed agli apolidi, che versino in particolari situazioni di vita. Ciò ha creato durante la discussione in Parlamento un acceso dibattito, giacché si sosteneva da taluni che la scarsità di risorse disponibili non avrebbe potuto garantire a tutti i livelli essenziali delle prestazioni e quindi sarebbero stati danneggiati i più deboli e bisognosi. Il legislatore, che afferma tale principio nell'art.2, comma 2 della legge di riforma, ha ritenuto di superare l'obiezione, inserendo nell'art.2, comma 3, il criterio della priorità obbligatoria di intervento a favore di talune tipologie di utenti, quali poveri, disabili non in grado di lavorare, nonché persone sottoposte ad interventi dell'autorità giudiziaria. Si è obiettato che questa soluzione sarebbe in contrasto con l'art. 38 della Costituzione, che assicura solo agli inabili al lavoro, sprovvisti di mezzi economici, il diritto di assistenza sociale. Il legislatore ha ritenuto di non violare tale norma, dal momento che la stessa legge fa salvi gli emolumenti economici statali per queste persone, espressamente previsti dall'art.38. Si è invece voluto lasciare agli Enti Locali, divenuti titolari della gestione delle politiche sociali, libertà di scelte programmatorie di interventi, fermo restando il rispetto del criterio di priorità sopra riferito. Il Parlamento ha voluto adeguare, e non solo per questo aspetto, la riforma sociale a quella sanitaria già operante. Quest'ultima ha carattere universalistico. Per questo nuovo criterio di interventi, la fondazione Zancan ha coniato a tal proposito il termine di "welfare universalistico selettivo", per contrapporlo a quelle di "welfare residuale", che affida al mercato la soluzione dei problemi sociali ed ai servizi promossi dai soggetti del privato sociale accreditati dagli enti pubblici gli interventi a favore di quanto vengono esclusi dal mercato e "rimangono indietro" nella società; in tale concezione il volontariato in senso stretto avrebbe, come diceva Luciano Tavazza, il ruolo di "barelliere" della storia, che soccorre i feriti sul campo di battaglia della libera concorrenza.
2. La programmazione
La programmazione, espressamente enunciata nell'art. 3, è il principio che attraversa tutto il testo legislativo. Esso è ormai presente da anni nelle varie leggi regionali di riordino dei servizi sociali ed il testo di legge ne ha fatto un suo caposaldo. La programmazione si snoda attraverso successivi livelli istituzionali e territoriali. Lo Stato fissa, nel Piano sociale nazionale, i livelli quantitativi e qualitativi minimi delle prestazioni e dei servizi sociali; le regioni nel Piano sociale regionale individuano l'ammontare delle risorse idonee a garantire livelli di interventi sociali; per la realizzazione coordinata di tutti gli interventi sociali, sanitari, educativi, di politiche attive del lavoro, etc., i Comuni si avvalgono di tutti i mezzi negoziali che favoriscono l'attuazione di servizi in rete far diversi piccoli Comuni e fra gli stessi ed i soggetti del terzo settore; fra tali mezzi viene privilegiato il Piano di zona, che viene approvato o tramite accordi di programma, di cui all'art. 27 L. 142/90 o tramite "intese istituzionali di programma", di cui all'art. 2 comma 203, lett. " b " della L. n. 662/96 che, a differenza dei primi, possono essere sottoscritte anche da soggetti privati, come espressamente detto all'art.3, comma 3 della legge di riforma. La programmazione pertanto non si realizza solo con riguardo ai livelli territoriali, ma anche ai soggetti del "privato sociale", secondo un dialogo interistituzionale che vede il ruolo di questi ultimi riconosciuto a doppio titolo sia come soggetti che avanzano autonome proposte, sia come soggetti cui gli enti locali affidano la realizzazione di interventi. Certo, la responsabilità istituzionale delle decisioni finali di programmazione è attribuita ai soggetti pubblici per il loro ruolo di tutela di tutti gli utenti dei servizi. Si indica l'obbligo dei soggetti pubblici di assicurare il rispetto dei principi di trasparenza, economicità, coordinamento dei diversi servizi in forma unitaria ed integrata secondo specifici progetti di verifica dei risultati secondo criteri di efficienza, efficacia e qualità. La programmazione riguarda non solo gli interventi, ma ancor prima le risorse disponibili ai diversi livelli territoriali e da parte dei diversi soggetti pubblici e privati. I soggetti responsabili dell'attivazione degli interventi e dei servizi sociali integrati sono i comuni singoli ed associati, i quali si avvalgono di risorse proprie di quelle assegnate dalle Regioni, che comprendono i trasferimenti finanziari operati dallo Stato tramite il fondo sociale nazionale, appositamente istituito. Anche le Regioni debbono istituire un fondo sociale regionale.
3. L'esigibilità del diritto alle prestazioni
E' questo il principio che ha suscitato le maggiori perplessità e talune dure contestazioni. Infatti l'art.2 della legge parla addirittura di esigibilità dei diritti alle prestazioni. Ora è noto che si può parlare di un diritto esigibile solo quando il legislatore abbia individuato, non solo il titolare del diritto affermato ed il debitore della prestazione dovuta, ma anche l'ammontare esatto di tale prestazione, le modalità di tempo e di luogo della spontanea esecuzione della prestazione ed i mezzi coattivi di realizzazione dell'interesse del creditore in caso di inadempienza del debitore. Di tutto questo si può parlare solo per le prestazioni economiche di competenza dello Stato, quali pensioni ed assegni. Nulla invece è detto per quanto riguarda le prestazioni e gli interventi relativi ai servizi sociali di competenza dei Comuni. E' vero che la legge ricomprende nell'unica locuzione "interventi e servizi sociali" sia le prestazioni economiche che i servizi sociali propriamente detti, secondo quanto stabilito dall'art. 128 del decreto legislativo n. 112/98. Però la differenza fra questi due tipi di prestazioni è enorme. Infatti le prestazioni economiche statali sono rigidamente regolate da leggi che fissano i requisiti per l'acquisto del diritto, l'ammontare economico del suo contenuto, la copertura finanziaria, i rimedi giudiziari in caso di violazione. Quanto ai servizi sociali a carico dei Comuni, invece la legge ribadisce che essi dipendono dalle disponibilità di bilancio. Non si ha quindi le certezza della realizzazione del diritto alla loro erogazione e quindi non può tecnicamente parlarsi di esigibilità del diritto. Di possibile realizzazione può parlarsi solo se ci si riferisce alla normale dialettica politica che si concretizza nei bilanci dei Comuni. Solo se la sensibilità politica degli amministratori o la forza contrattuale dei cittadini sono tali da inserire nell'agenda politica l'urgenza di certi servizi sociali, si avranno stanziamenti in grado di far fronte alle spese di attivazione dei servizi. In taluni casi potrebbe bastare una diversa allocazione interna delle risorse di bilancio, ivi comprese le somme trasferite dalle regioni. Trattasi però di soluzioni aleatorie, che confermano il giudizio di ritenere improprio per queste prestazioni il riferimento al principio dell'esigibilità del diritto. Ma si tornerà su questo argomento in tema di decentramento "Piani di Zona".
3.1 Il diritto all'informazione per l'accesso alle prestazioni
Presupposto essenziale per la fruibilità dei diritti è la loro conoscenza da parte di chi dovrà esercitarli. Infatti, l'art. 2, comma 5, della legge di riforma, stabilisce che gli erogatori dei servizi, quindi i comuni e gli enti con essi in rapporto di collaborazione, tramite accreditamento e convenzioni, "sono tenuti…ad informare i destinatari degli stessi sulle diverse prestazioni di cui possono usufruire, sui requisiti per l'accesso e sulle modalità di erogazione per effettuare le scelte più appropriate". Il termine tecnico "sono tenuti" è il segno inequivocabile che la legge pone un obbligo di informazione a carico degli erogatori dei servizi e un corrispondente diritto soggettivo pieno ed esigibile a favore dei potenziali utenti, che nella logica universalistica della legge, sono tutti cittadini e, per taluni aspetti, anche gli stranieri. Di questo diritto la stessa legge fissa i contenuti, oltre che i soggetti, e cioè le diverse prestazioni, cui si può avere diritto, i requisiti che i titolari del diritto devono dimostrare di possedere (ad es. situazione di handicap, minore a rischio, immigrato, etc.), ed infine tempi, luoghi e modi di erogazione. Con tale configurazione legislativa, non può dubitarsi che siamo qui in presenza di un diritto soggettivo effettivo e non semplicemente proclamato, di cui gli utenti, ma soprattutto le associazioni, ai sensi della legge n. 281/98, possono pretendere la piena attuazione. Quanto alla esigibilità delle prestazioni, la stessa legge stabilisce all'art. 2, comma 2, secondo periodo, che gli enti locali, le regioni e lo Stato "sono tenuti a realizzare il sistema di cui alla presente legge". Qui il termine "sono tenuti" va inteso nel senso chiarito nel paragrafo precedente, con due precisazioni. La prima è che fra tutte le prestazioni contenute nell'art. 22, quelle indicate nel comma 4 debbono assolutamente essere attuate, in ogni ambito territoriale adeguato (cioè possibile distretto sociale), tramite le leggi regionali e, cioè, il "segretariato sociale", pronto intervento sociale, assistenza domiciliare, strutture residenziali e semiresidenziali, centri diurni. Il segretariato sociale, come si vedrà meglio in seguito, pur avendo un ruolo fondamentale di "accompagnamento" delle persone attraverso la rete dei servizi, ha compiti indispensabili di "informazione" agli utenti. La seconda precisazione concerne la "priorità" nell'accesso ai servizi di alcune tipologie di soggetti rispetto a tutti i potenziali utenti. Tali servizi essenziali e tali priorità di utenti debbono essere indicati sia nel piano sociale nazionale, sia in quelli regionali e, soprattutto, nei "Piani di Zona". Ciò riesce a rendere effettivamente esigibili i diritti che la legge di riforma, da sola, non riesce immediatamente a realizzare.
4. L'integrazione sociosanitaria
L'integrazione fra interventi sociali e sanitari è un altro principio fondamentale della legge di riforma, che viene enunciato nell'art. 3, comma 2, lett. a. Questo principio rinvia ad un apposito atto di indirizzo fra ministro della sanità e ministro degli affari sociali. L'atto di indirizzo è interessante perché individua diverse situazioni, in attuazione dell'art. 3 septies del DPR n. 502/92, come modificato dalla riforma Bindi del servizio sanitario nazionale, attuata col decreto legislativo n. 229/99. Trattasi di prestazioni in cui è difficile distinguere l'incidenza sulla salute degli interventi sociali rispetto a quelli sanitari. Anzi la salute psicofisica è meglio garantita dall'intreccio dei due tipi di interventi. L'atto di indirizzo si riferisce espressamente agli interventi nei confronti dei minori, dei disabili, degli anziani, dei dipendenti da droga, alcool e farmaci, degli effetti da patologie psichiatriche, per i colpiti da AIDS, per i pazienti terminali. Per queste persone si prevedono interventi sociosanitari in fase acuta intensiva, in fase estensiva, più prolungata nel tempo, in fase di lungo degenza, anche senza limiti di durata. Gli interventi sono definiti
4.1 Osservazioni
La tabella annessa al decreto è importante e positiva, ma necessita di qualche precisazione in sede interpretativa. Nella prima tabella concernente l'Area materno-infantile, il penultimo punto riguardante interventi per minori soggetti a provvedimenti penali, civili ed amministrativi, ove si prevede che sono al 100% a carico dei comuni le spese per l'accoglienza in comunità educative o familiari, va collegato con la tabella concernente i disabili, quando un minore sia con disabilità. In tal caso le spese sono a carico del Comune solo in percentuale del 30% e non già del 60%, come previsto dal punto 2 della tabella sui disabili. Infatti il 60%, grava sui comuni solo se trattasi di "servizi di residenza permanente", mentre per i minori, anche se disabili, le residenze debbono avere carattere transitorio. Inoltre, in presenza di persone disabili, quanto alla partecipazione ai costi da parte dell'utente, prevista nella tabella per i disabili, è da tenere presente che il decreto legislativo n. 130/2000, modificando il decreto legislativo n. 109/98, ha stabilito che l'ISE (l'indicatore della situazione economica) della persona disabile è costituito esclusivamente dal reddito e dal patrimonio della stessa e non anche dalla sua famiglie. Passando specificamente all'analisi della tabella riguardante le persone disabili, all'ultimo punto della colonna di destra, dove si prevede che sia al 100% a carico dei comuni la spesa per l'integrazione scolastica e l'inserimento lavorativo, è da fare qualche precisazione. Tale previsione parte dal presupposto che sono al 100% a carico del Servizio Sanitario Nazionale le spese diagnostiche. Ma non è da dimenticare che ai sensi dell'art. 12, commi 5, 6, 8 della L. n.104/92 le Unità multidisciplinari delle ASL debbono limitarsi alla formulazione della diagnosi funzionale, ma anche alla collaborazione con la famiglia e gli operatori scolastici per la stesura e le verifiche del profilo dinamico funzionale e del Piano Educativo Individualizzato. Di ciò non vi è alcun cenno esplicito nella tabella, che va necessariamente integrata con la legge 104/92 per gli aspetti qui segnalati. Inoltre la tabella non cita affatto la nuova legge sull'inserimento lavorativo mirato, L.n. 68/99, che prevede una collaborazione delle strutture delle ASL nel percorso di inserimento lavorativo. Pertanto anche per questo aspetto la tabella va integrata. Nella tabella concernente gli anziani non autosufficienti, al punto primo della colonna di destra, dove si precisa l'obbligo di compartecipazione dell'utente al costo del servizio a carico del comune, è da tenere presente il decreto legislativo n. 130/2000, che fa riferimento all'ISE dell'utente e non anche alla sua famiglia. Nella tabella concernente le patologie per infezione da HIV, al punto 2 concernente programmi eventuali di reinserimento sociale e lavorativo, nell'ultima colonna, dove si prevede una compartecipazione ai costi da parte dell'utente, non deve dimenticarsi che laddove l'utente sia dichiarato disabile, si applica il decreto legislativo n. 130/2000 nella parte in cui prevede che si debba tener solo conto dell'ISE dell'utente e non anche della famiglia.
5. La sussidiarietà
L'articolo 1, comma 3 della legge di riforma individua nella "sussidiarietà" uno dei principi cui la programmazione del sistema integrato dei servizi sociali dovrà ispirarsi. In questi ultimi anni si è acceso un vivace dibattito sul significato, sul valore e sull'ambito di applicazione giuridica del principio di "sussidiarietà"; esso è però stato svolto prevalentemente su un piano ideologico, mettendo in ombra ciò che alcuni ambienti più riflessivi cercavano di fare emergere e cioè che tale principio non ha un valore assoluto ed astorico e che, in termini giuridici, deve essere valutato, non in modo astratto, ma nell'ambito delle specifiche norme in un sistema o in un altro lo fanno proprio. Proviamo a fare il punto della situazione, alla luce del dibattito che si è svolto in sede politica soprattutto in Parlamento in occasione della discussione di numerose leggi lungo tutto il corso degli anni '90 (nel dibattito politico sono intervenuti con toni originali Cotturri e Violante ed in sede culturale si sono avuti numerosi seminari di studio tra i quali uno della fondazione E.Zancan, i cui risultati sono stati utilizzati nello studio di De Stefani e Piazza pubblicato su Studi Zancan n.2/2000). L'origine latina del termine "sussidiarietà" sta ad indicare due significati prossimi, ma distinti: "stare seduti, pronti ad intervenire", "intervenire per per sostenere". Queste azioni, nel campo delle politiche sociali, sono rivolte a vantaggio della Persona umana e dei suoi diritti fondamentali. Chi deve realizzare la "sussidiarietà" è, soprattutto nell'ambito dell'Ottocento, lo Stato; oggi diciamo il potere pubblico nel suo complesso e nelle sue varie articolazioni, specie territoriali. Il fulcro del dibattito si incentra sul ruolo che debba tenere l'apparto pubblico rispetto all'erogazione dei servizi sociali alla persona. E ciò sotto diue distinti profili: quale priorità debba essere riconosciuta dalla normativa agli interventi degli Enti locali rispetto a quelli dello Stato centrale; che sono quindi sussidiari ai primi e quale comportamento normativo debba tenere il settore pubblico rispetto alla libera iniziativa privata nel campo dei servizi sociali, la cui gestione deve essere prioritariamente garantita ai singoli ed ai gruppi del terzo settore dell'ambito pubblico, che quindi svolgerebbe un ruolo sussidiario. Il primo problema viene indicato col termine "sussidiarietà verticale", designando esso lo spostamento dei poteri decisionali dallo Stato centrale verso gli Enti locali territoriali, centri più vicini ai cittadini che sono i destinatari dei servizi. Il secondo problema viene designato col termine "sussidiarietà orizzontale", intendendosi con esso il fatto che gli stessi enti locali, pur essendo i soggetti rappresentanti delle comunità locali dei cittadini debbono lasciare ad essi la priorità nella scelta delle risposte ai propri bisogni sociali. Il problema della "sussidiarietà verticale" concerne sostanzialmente la teoria e la prassi del decentramento amministrativo, che, specie nei Paesi dell'Europa meridionale ha tardato a trovare soluzioni, condizionato prima dalla visione dello stato centrale ottocentesco e poi dall'affermarsi, fra le due guerre, di totalitarismi assolutistici, quali fascismo e nazismo e, in Russia, dal marxismo-stalinista, che ha fatto sentire i suoi effetti ideologici in Italia sino ai giorni nostri. Questa partita sembra ormai vinta a favore del decentramento, che riduce sempre più le funzioni prima accentrate nello Stato. In vero i problemi attinenti alla "sussidiarietà orizzontale" non sono sorti oggi. Essi sono concretamente posti già il secolo scorso, specie in Europa, per l'emergere degli stati nazionali, che avocavano alle loro burocrazie centrali la regolazione ed il controllo dei servizi alla persona, sino ad allora fortemente realizzati dalla Chiesa cattolica. Fu proprio nel clima di questo duro scontro interistituzionale, in cui la Chiesa cattolica fu inizialmente perdente con la pubblicizzazione delle "opere pie", definitivamente operata in Italia con la Legge-Crispi del 1890, che la "sussidiarietà" venne ad assumere in campo cattolico il primo dei due significati sopra indicati, cioè quello di far presente allo Stato che esso doveva astenersi dall'intervenire nel campo dell'assistenza, che era invece geloso patrimonio della Chiesa. Dopo la seconda guerra mondiale due furono gli avvenimenti che rilanciarono il principio di "sussidiarietà": la formazione dei due "blocchi" sovietico ed atlantico, a causa dei quali per i singoli stati si ridusse il margine di manovra politica internazionale ed anche interna, rispetto ai blocchi di appartenenza; la costituzione della Comunità economica europea, che, pur voluta dagli stati fondatori, generava una istintiva ripulsa per la titolarità di poteri "sovranazionali" che si voleva fossero i meno invasivi possibili. In questo clima socio-politico, si accentuò il significato della sussidiarietà come riduzione al minimo dei poteri sovrastatali rispetto agli stati nazionali, che rivendicano spazi di libertà che le "superpotenze" o la Comunità Europea non dovevano conculcare. Questa interpretazione del principio di sussidiarietà come riduzione al minimo dei poteri sovrastatali rispetto agli stati nazionali, che rivendicavano spazi di libertà che le superpotenze" o la comunità europea non dovevano conculcare. Questa interpretazione del principio di sussidiarietà, a ben vedere, si pone in ambiti diversi da quelli del rapporto "pubblico-privato", che erano venuti a svilupparsi all'interno dei singoli stati. In Italia il clima internazionale radicalizzò le posizioni della sinistra schiacciata su una negazione della "sussidiarietà orizzontale" a favore di una visione esclusivamente pubblicistica. Lo slogan che meglio esprime questa posizione era "Nessun pluralismo delle istituzioni, ma solo pluralismo nelle istituzioni" (ovviamente pubbliche). Nell'ambito però della Costituzione, i padri costituenti avevano inserito dei concetti giuridici che possono oggi aiutarci ad una prospettazione equilibrata del principio "sussidiarietà". Infatti nell'art.2 alla programmazione dei "diritti inviolabili dell'uomo", che, se lasciati soli, potrebbero stimolare una visione individualistica esasperata, fa da contrappeso la richiesta di "adempimento degli inderogabili doveri di solidarietà politica e sociale". Nello stesso art. 2 si riconoscono i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo, sia "nelle informazioni sociali ove si svolge la sua personalità". Sono queste le "comunità intermedie" della famiglia, delle associazioni, le confessioni religiose, etc., a difesa delle quali la Chiesa cattolica aveva rivendicato da sempre la non ingerenza dello Stato ed aveva sviluppato il principio di "sussidiarietà orizzontale". Però nell'art. 3, dopo la proclamazione del diritto di eguaglianza formale, la Costituzione introduce il principio di eguaglianza sostanziale, prevedendo che "E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…..". L'art.3 comma 2 della Costituzione introduce lo stesso principio della sussidiarietà orizzontale, colto però nel secondo dei due significati sopra espressi, cioè dell'intervento pubblico a sostegno dei più deboli, affinché possano anch'essi svilupparsi come persone al pari dei più forti. Questa norma che fu voluta da Lelio Basso di cultura socialistica, trovava i suoi postulati ideali nei primi documenti della Dottrina sociale della Chiesa, soprattutto nella "rerum novarum" di Leone XIII e nella "quadragesimo anno" di Pio XI. Pertanto è alla luce di questi principi costituzionali che occorre leggere e comprendere la normativa sulla sussidiarietà che è venuta producendosi, specie in quest0'ultimo decennio del secondo millennio; anche se questa lettura è frutto piuttosto dell'attuale sensibilità, dal momento che sino alla fine degli anni '70, l'accento del dibattito politico era stato posto prevalentemente sulla sussidiarietà verticale. Però negli anni '80 questa stessa viene ad assumere valori più profondi. Infatti lo spostamento della titolarità delle funzioni pubbliche dallo Stato agli Enti locali è giustificato non solo perché essi sono una entità più vicina agli utenti dei servizi sociali, ma ancor di più perché essi sono rappresentativi delle "comunità locali dei cittadini" che, attraverso questa forma di sussidiarietà, possono più democraticamente ed attivamente "partecipare" alla vita della Comunità stessa. Questi orientamenti si erano affermati in Europea ed erano stati consacrati nella "Carta delle autonomie locali" del 1985, i cui contenuti erano stati recepiti in Italia dalla L.n. 439/89 (Cfr. F.Rao, "I principi di riferimento della legge sull'assistenza", in "Animazione sociale", marzo 2001, pag.75). Di cui l'irresistibile ascesa del principio di sussiadiarietà che, introdotto nella L. n.142/90 sulla riforma delle autonomie locali, acquista espresso peso giuridico formale nell'art. 4, comma 3 della Legge Bassanini n.59/97. In esso sono espressi i due aspetti della sussidiarietà. Quello verticale dello spostamento dei poteri decisionali amministrativi in ambito più vicini ai cittadini, grazie ad un massiccio intervento di decentramento di funzioni; quello orizzontale, sia pur espresso in un inciso della norma. Infatti nel corpo della frase in cui si attribuiscono alle autorità locali le responsabilità pubbliche, si afferma che ciò avviene "anche al fine di favorire l'assolvimento di funzioni e di compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità". In questa disposizione normativa la sussidiarietà, orizzontale viene vista nel suo significato positivo di intervento del settore pubblico a sostegno delle comunità intermedie e non in quello negativo di semplice astensione da interventi sociali. E ciò è perfettamente in linea con gli artt. 2 e 3 della Costituzione. Una ulteriore esplicitazione del principio di sussidiarietà, come testè espresso, si rinviene nell'art. 2, comma 5 della L. n. 265/99 (che ha modificato, arricchendolo, il testo della legge 142/90, e che così è transitato nel testo unico delle norme sulle autonomie locali, approvato con decreto legislativo n. 267/2000). "I comuni e le province sono titolari di funzioni proprie e di quelle conferite loro con legge dello Stato e della regione secondo il principio di sussidiarietà. I comuni e le province svolgono le loro funzioni anche attraverso le attività che possono essere adeguatamente esercitate dalla autonoma iniziativa dei cittadini e delle loro formazioni sociali". Qui, il principio di sussidiarietà orizzontale, posto per inciso nella norma precedente, acquista una sua piena autonomia da quello di sussidiarietà verticale, o almeno acquista una maggiore evidenza, alla pari col primo. Suscita però perplessità la formulazione di esso, laddove si prevede che i compiti e le funzioni degli enti locali possano essere "adeguatamente" svolti dalla libera autonomia dei cittadini e delle loro formazioni sociali. Chi decide se gli interventi sociali dei singoli cittadini e delle loro formazioni sociali sono adeguati a realizzare i diritti di chi versa in stato di bisogno? Tali diritti sono "i diritti inviolabili dell'uomo", di cui all'art. 2 della Costituzione. Qualora un utente lamenti l'inadeguatezza, per quantità o qualità, di talune prestazioni sociali, è da ritenere che, in forza dell'art. 3 comma 2 della Costituzione, il Comune debba intervenire. L'intervento sarà commisurato alle modalità con cui i comuni "svolgono le loro funzioni attraverso le attività dei privati" infatti, qualora i comuni non esercitino direttamente i servizi sociali, ma li diano eventualmente in concessione, essi perdono ogni responsabilità diretta sul loro funzionamento, essendo tale responsabilità passata al soggetto concessionario. Il cittadino utente dovrà quindi rivolgersi prima al concessionario e, solo in caso di insoddisfazione, dovrebbe rivolgersi al Comune per chiedere il risarcimento dei danni ed eventualmente la revoca della concessione. Qualora invece il comune stipuli una convenzione con un soggetto operante sul mercato o nel terzo settore, il cittadino utente, ha come controparte sempre il Comune, in quanto il soggetto convenzionato agisce per conto del comune. Sembra impensabile che in via di principio il comune possa disinteressarsi della prestazione di servizi sociali, nei quali, secondo la versione più radicale della sussidiarietà orizzontale, si vorrebbe che fosse la libera attività dei privati ad agire, svincolata da ogni intervento, almeno preventivo, degli enti locali. Eppure durante nella discussione della Commissione Bicamerale che avrebbe dovuto modificare la costituzione, introducendo in essa il principio di sussidiarietà orizzontale, maggioranza ed opposizione si sono scontrati proprio su una diversa concezione della sussidiarietà. Per l’allora opposizione di Centro-destra occorreva sancire l’assoluta libertà dei soggetti privati di agire sul mercato dei servizi sociali. Per l’allora maggioranza di Centro-sinistra il potere pubblico non solo doveva aiutare gli interventi dei privati sul mercato, ma poteva intervenire per garantire “l’adeguatezza” dei servizi rispetto ai bisogni degli utenti; ed era esso arbitro circa il giudizio di adeguatezza. Lo scontro fu insanabile, anche per altri aspetti, e la Bicamerale non produsse alcuna modifica. Se fosse prevalsa, o prevalesse in seguito, la concezione di massimo liberismo, si correrebbe, a detta di molti, il rischio di un wellfare “ fai da te”, in cui i servizi sociali vengono venduti sul mercato da chiunque voglia produrli a chi è in grado di poterli acquistare, con il potere pubblico che si limiterebbe a dare agli utenti dei “buoni-acquisto”. Solo a quanti non potessero, neppure coi buoni acquisto soddisfare i propri bisogni essenziali il potere pubblico offrirebbe servizi sociali “residuali”. Comunque, nella Legge Turco n. 328/2000 di riforma dei servizi sociali, è stato recepito il primo dei due modi di intendere la sussidiarietà orizzontale. Infatti l’art.. 1, comma 3 stabilisce che “La programmazione e l’organizzazione del sistema integrato degli interventi e servizi sociali compete agli enti locali, alle regioni ed allo Stato, ….., secondo i principi di sussidiarietà…..”. Qui il concetto di sussidiarietà verticale è chiarissimo; ma è chiarissimo pure il concetto di sussidiarietà orizzontale inteso come presenza attiva del potere pubblico nella “programmazione”. La sussidiarietà orizzontale viene esplicitata nei due commi successivi; nel comma 4 si dichiara che “gli enti locali, le regioni e lo Stato….( cioè i soggetti che hanno il potere della programmazione) riconoscono ed ”agevolano” il ruolo del soggetti del terzo settore”. Il termine “agevolano” è indicativo dei compito di “sostegno” proprio della solidarietà orizzontale. Il sostegno però è fornito ai soggetti del terzo settore, come chiarisce il successivo comma 5 limitatamente alla loro “qualità di soggetti attivi nella “progettazione” e nella realizzazione “concertata” degli interventi. E tutta l’impalcatura della legge si regge su questa visione della solidarietà, ed in particolare sia nel capo II dove sono indicate le competenze istituzionali dei poteri pubblici, sia nel Capo IV, dove si parla del ruolo dei soggetti del privato sociale nel piano di zona. Una esplicitazione inequivocabile di un concetto moderno della sussidiarietà verticale è stata affermata invece nella legge di revisione costituzionale, a favore del federalismo, approvata dalla maggioranza uscente a fine legislatura col voto favorevole, inferiore ai due terzi dei componenti delle Camere e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 59 del 12/3/2001, attualmente in attesa del referendum “confermativo”, ai sensi dell’art. 138 della Costituzione. All’art. 3, comma 1 di tale legge viene capovolto il criterio di ripartizione delle competenze legislative dello Stato e delle regioni. Nel testo dell’art. 117 della Costituzione, ancora in vigore, è stabilito l’elenco delle materie in cui le regioni a statuto ordinario hanno competenza legislativa “concorrente”, cioè possono approvare leggi nel rispetto dei principi fissati con leggi-quadro ( più esattamente “cornice” ) dello Stato. Fra queste materie è prevista “la beneficenza pubblica”, nella quale, come la Corte costituzionale ha chiarito, va ricompresa come “assistenza sociale”. Nel testo introdotto dalla legge di revisione costituzionale, dopo essere state elencate tutte le materie di competenza dello Stato e quelle di legislazione concorrente fra stato e regioni, si stabilisce inoltre che “Spetta alle regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.” Questa formulazione legislativa è basata sul principio di libertà, secondo cui è permesso tutto ciò che non è “espressamente vietato”. Mentre la formulazione ancora in vigore era stata ispirata al principio opposto secondo cui “è vietato tutto ciò che non è espressamente permesso”. Come si può agevolmente osservare la formulazione attuale è veramente innovativa e presenta una formulazione nuova ed avanzata del principio di sussidiarietà verticale. Se la legge di revisione costituzionale verrà confermata dal referendum, il principio di sussidiarietà verticale avrà, come richiesto da molti, il suo riconoscimento di forza costituzionale, cosa che non è stato ancora possibile realizzare per quello di sussidiarietà orizzontale. Se la revisione non venisse confermata dal referendum, bisognerà vedere quale altra formulazione più avanzata verrà proposta in sede parlamentare. Nell’una e nell’altra ipotesi però ci si pone l’interrogativo sul valore delle leggi-quadro attualmente in vigore nelle materie che, non essendo espressamente riservate alla competenza statale, rientrano nella libera competenza legislativa delle regioni. In particolare ci si chiede quale valore conserverà la legge-quadro n. 328/2000 di riforma dei servizi sociali, per la cui approvazione ci siamo impegnati, pur avendo delle riserve su alcuni suoi passaggi. Verrà implicitamente abrogata per contrasto con la libertà piena riconosciuta alla potestà legislativa delle regioni in campo di servizi sociali? I suoi principi, tra cui quello di sussidiarietà orizzontale e verticale, come attualmente accolto da essa, quale valore continueranno a mantenere? Se dovessero perderlo, rimangono pur sempre gli artt. 2 e 3 della Costituzione, come sopra interpretati. Ma se anche questi dovessero essere modificati? Allora…; ma su ciò si discuterà più oltre nell’ultimo capitolo.
5.1. Il decentramento amministrativo
La legge di riforma ricalca l’assetto istituzionale già delineato dalla precedente normativa . Le funzioni in materia di servizi sociali sono dislocate e graduate diversamente a seconda del livello territoriale. Allo Stato è riservata l’attribuzione delle prestazioni economiche di assegni e pensioni. Esso inoltre fissa gli indirizzi per il funzionamento del sistema, i livelli essenziali delle prestazioni tramite il piano sociale nazionale ed eventuali interventi sostitutivi per impedire il blocco organizzativo del sistema a causa di inadempienze di taluni soggetti. Le Regioni, nell’impostare il piano sociale regionale, programmano gli interventi ed i flussi finanziari a favore dei Comuni. Esse quindi non potranno gestire direttamente servizi, dovendosi limitare a fornire le coordinate di funzionamento dei servizi. I Comuni sono i veri titolari, salvo piccole eccezioni, della gestione dei servizi sociali. Si attua nei loro confronti il principio della cosiddetta “sussidiarietà verticale”. Essendo i Comuni gli enti politici esponenziali della comunità locale ad essi spetta la programmazione coordinata e la gestione partecipata dei servizi sociali sul territorio. Il territorio dovrà essere ripartito in aree omogenee che consentano una erogazione di servizi quanto più possibile vicina agli utenti. Questi ambiti territoriali potrebbero essere, secondo le determinazioni delle singole leggi regionali, i distretti sociali, possibilmente coincidenti con quelli sanitari, in cui sono suddivise le Aziende Unità Sanitarie Locali. In questa logica razionale un punto debole rimane quello costituito dalla presenza di migliaia di piccoli comuni, non in grado da soli di gestire servizi efficienti ed efficaci a vantaggio degli utenti. La legge non ha introdotto alcun obbligo di consorziamento o associazione fra essi, come pure avrebbe potuto ai sensi dell’art. 24 L. n. 142/90 e delle successive modifiche fra cui la L. n. 265/99. In questa realtà sarà difficile gestire servizi sociali di un certo livello qualitativo, a meno che le popolazioni non riescano a fare pressioni molto forti sui propri amministratori, vincendo l’assai radicata logica di campanile. Altro aspetto che suscita perplessità è la grande varietà di cultura dei servizi nelle diverse regioni e quindi la diversa quantità di flussi finanziari da esse impegnati, anche in considerazione delle loro diversissime situazioni economico-sociali. E’ stato paventato da alcuni il rischio di risposte assai differenti ai medesimi bisogni a seconda della residenza regionale degli aventi diritto. Il decentramento presente nella Carta costituzionale del ’48 ha avuto una diversa accentuazione con la legge costituzionale n. 1/99 e con la successiva legge costituzionale del 2001 [1] . L’art. 5 di quest’ultima capovolge il precedente criterio di attribuzione della potestà legislativa fra Stato e Regioni, come sopra detto. L’art. 5 comma 2 lett. “l” della legge di revisione costituzionale riserva però allo Stato “la determinazione dei livelli minimi di garanzia da assicurare sul territorio nazionale alle prestazioni concernenti i diritti sociali “. Queste modifiche costituzionali debbono essere tenute presenti nell’interpretazione delle norme della legge n. 328/2000.
5.2. La sussidiarietà orizzontale ed il pluralismo
A partire dagli anni ’90 il legislatore nazionale ha legiferato per assicurare un effettivo pluralismo dei soggetti privati che intervengono nel campo dei servizi sociali. La legge di riforma conferma ed attua ulteriormente tale orientamento. Infatti l’art. 5 è totalmente dedicato ad una pluralità di soggetti che vengono raccolti sotto la rubrica “terzo settore”. In vero non esiste alcuna definizione legislativa che possa connotare unitariamente questo ambito. Il legislatore sembra avere realizzato non un raggruppamento classificatorio con precise connotazioni; pare invece che si sia limitato a mettere insieme soggetti molto diversi, uniti solo dal fatto di non essere soggetti pubblici, né soggetti privati aventi come fine la massimizzazione del lucro. La sempre crescente emersione di nuovi soggetti privati nel campo dei servizi sociali è dovuta anche all’affermarsi del principio del pluralismo associativo e della sussidiarietà orizzontale. Al vecchio principio del “pluralismo nelle istituzioni” si è ormai sostituito quello del “pluralismo delle istituzioni”. La differenza non è di poco rilievo. Ad una vecchia logica statalista e comunque di supremazia dell’intervento pubblico generalizzato, si è sostituito il principio del decentramento o comunque del riconoscimento di spazi di libertà a soggetti privati da parte delle pubbliche istituzioni. Questo riconoscimento è andato di pari passo alla maturazione del bisogno di decentrare in tutte le direzioni funzioni troppo accentrate nel settore pubblico, che non riusciva più ad esercitarle con soddisfazione dei cittadini. Tanto più, questa esigenza si è avvertita ed affermata nel campo dei servizi sociali. Di qui la diffusione sempre crescente di affidamento a soggetti privati di gestione di servizi prima gestiti direttamente dal settore pubblico. Anzi, proprio in concomitanza delle prime leggi regionali sul volontariato e poi sempre più, dopo l’approvazione della L. n. 266/91 (Legge quadro sul volontariato), le istituzioni pubbliche hanno con ritmo crescente appaltato alle organizzazioni di volontariato un crescente numero di servizi alla persona, incuranti di snaturare i valori su cui era nato e si era sviluppato il mondo del volontariato. A questo punto è bene tentare una distinzione fra tutti questi soggetti, anche perché recenti leggi aiutano in questo compito. Nel mondo del diritto le distinzioni sono utili quando contribuiscono a far chiarezza ai fini della determinazione degli effetti diversi derivanti dalle norme. Nel nostro caso la chiarezza è necessaria, specie con riguardo al mondo del volontariato organizzato. Infatti si sente troppo spesso e con troppa facilità parlare da amministratori ed operatori dei servizi di volontariato con un’ampiezza tale da sollevare perplessità e dubbi. Ciò è forse dovuto alla circostanza che la prima legge concernente la regolazione di rapporti di soggetti privati non aventi fini di lucro con gli enti pubblici è stata la legge-quadro sul volontariato n. 266/91. Subito dopo tale legge, fu però approvata la legge-quadro n. 381/91 sulle cooperative sociali ed il mondo dei soggetti del terzo settore si arricchì. Cominciò ad emergere la necessità di distinguere fra questi due tipi di soggetti e si pervenne ben presto ad una chiarificazione almeno fra questi due tipi di soggetti. La recente legge-quadro n. 383/2000 sull’associazionismo di promozione sociale impone di far chiarezza ulteriore proprio nell’ambito del mondo associativo fra quest’ultima tipologia organizzativa e le organizzazioni di volontariato.
5.2.1. Differenza tra il volontariato e le cooperative sociali
I due organismi, pur avendo in comune la finalità di perseguire la solidarietà sociale attraverso interventi a favore di fasce deboli di popolazione, si differenziano nettamente per alcuni aspetti socio-economici, che la normativa giuridica individua in modo netto. Le organizzazioni di volontariato sono organismi senza fine di lucro, nel senso che gli aderenti non possono conseguire per le loro attività introiti economici o vantaggi di alcun tipo. La legge infatti vieta anche finalità di lucro indiretto. Le cooperative sociali invece, pur non essendo imprese commerciali, sono imprese e quindi i soci , ad eccezione di quelli volontari, che però debbono essere una minoranza, hanno lo scopo di ricevere compensi che, pur non essendo il massimo profitto possibile, devono rappresentare una forma di salario. La posizione giuridica dei soci di queste cooperative si è ulteriormente chiarita a seguito della L. n. 142/2001 sulla posizione dei soci lavoratori delle cooperative e quindi anche di quelle sociali. L’art. 1 comma 3 è chiaro; infatti secondo esso, il socio di cooperativa instaura con essa, oltre al rapporto associativo, anche uno di lavoro, nelle più diverse forme, autonomo, subordinato, coordinato e continuativo. Conseguentemente non è corretto che gli enti pubblici affidino ad organizzazioni di volontariato l’attivazione di servizi stabili, che richiedono un’organizzazione aziendale, in modo da assicurarne la continuità e l’efficienza. Trattasi dei cosiddetti “servizi pesanti” svolti in modo fortemente organizzato e di routine, in modo tale da assicurare agli utenti la continuità e l’efficienza, oltre che l’efficacia, delle prestazioni. Sembra difficile che ad es. un’organizzazione di volontariato possa accettare di svolgere un servizio continuativo di assistenza domiciliare a persone non autosufficienti di un certo territorio o un centro diurno per persone con gravi disabilità. Servizi di tal genere non richiedono solo una professionalità che il volontariato di solito possiede; essi richiedono anche una complessa organizzazione che persone impegnate altrove nel proprio lavoro, difficilmente possono garantire. Se il servizio ha carattere sperimentale per la sua novità è bene che sia sperimentato da un’organizzazione di volontariato; una volta provato che la gestione è possibile in termini di efficienza, efficacia ,economicità e qualità, ad es. il ricovero in un istituto di lunga degenza con rette assai alte a carico degli enti locali, sembra più corretto che questo servizio venga assunto dall’ente locale competente ed eventualmente affidato ad una cooperativa sociale. L’organismo di volontariato potrà così dedicarsi ad altre sperimentazioni. In tal senso da anni mons. Giovanni Nervo insiste su queste peculiarità del volontariato organizzato. La metafora da lui diffusa a tal proposito è quella del gruppo di nomadi che nel deserto piantano la tenda la sera, per poi toglierla al mattino per avviarsi verso nuove mete. Su questa stessa lunghezza d’onda è la “carta dei valori del volontariato” presentata il 5 Maggio 2001 a Padova dalla F.I.Vol. e dal Mo.V.I., in occasione dello svolgimento delle manifestazioni di Civitas.
5.2.2. Differenze fra volontariato ed associazionismo di promozione sociale
Ancora più interessante è la L. n. 383/2000 che permette di ridurre ulteriormente il campo di applicazione della legge-quadro sul volontariato. Infatti questi due tipi di soggetti non profit, pur avendo molta somiglianza, quanto alle finalità non lucrative ed al trattamento fiscale di favore, presentano diversità strutturali che li rendono soggetti distinti tra loro. Infatti l’art. 2 comma 1 della L. n. 383/2000 definisce le associazioni di promozione sociale come quelle che prestano attività a favore non solo di terzi, ma anche dei propri associati. La L. n. 266/91, vietando ai propri aderenti il perseguimento di fini di lucro anche indiretto, non prevede che esse svolgano interventi a loro favore. Inoltre l’art. 18, comma 2 della L. n. 383/2000 consente alle associazioni di promozione sociale di avvalersi, sia pur in casi eccezionali, delle prestazioni di lavoro autonomo dei propri associati. Ciò è rigidamente vietato alle organizzazioni di volontariato dalla L. n. 266/91. Infine il fatto stesso che la L. n. 383/2000 preveda un apposito Osservatorio nazionale e che l’art. 16 della stessa preveda rapporti fra gli Osservatori istituiti dalle due leggi, sono elementi a sostegno di una diversa configurazione giuridica. Alla luce di queste considerazioni, la F.I.Vol., che già escludeva dalla banca-dati delle organizzazioni di volontariato censite le cooperative di solidarietà sociale, a decorrere dall’aggiornamento del 2001, esclude anche le associazioni di promozione sociale.
5.2.3. Altri soggetti coinvolti nel sistema integrato
L’art. 1 comma 4 della L. n. 328/2000 prevede inoltre il coinvolgimento degli organismi non lucrativi di utilità sociale. E’ bene intendersi, in quanto non esiste una categoria di diritto privato cui questi soggetti possano unitariamente rifarsi. Il decreto legislativo n. 460/97 utilizza questa locuzione per indicare soggetti diversi, come associazioni e fondazioni, ai soli fini di attuare un regime fiscale di favore per questi soggetti. Quindi, sotto il profilo della tipologia giuridica, si possono aggiungere alle organizzazioni di volontariato, di cui alla L. n. 266/91, alle cooperative sociali, di cui alla L. n. 381/91 ed alle associazioni di promozione sociale, anche le associazioni riconosciute e non riconosciute, ed i comitati, di cui al libro primo del Codice civile. Quanto alle cooperative sociali è da precisare che esse sono di due tipi: quelle di tipo A hanno come scopo l’attivazione e l’erogazione di servizi socio-sanitari ed educativi; quelle di tipo B hanno come finalità l’integrazione lavorativa di queste stesse persone. Trattasi in verità di due tipi molto diversi di cooperative, le prime di servizi, le seconde di formazione e lavoro; le seconde, volute prevalentemente dai gruppi di volontariato di ispirazione cristiana, ma recentemente anche le prime, possono avere al loro interno anche soci volontari; queste cooperative erano inizialmente gli unici soggetti per i quali si era proposta una legge apposita. Ad esse però si aggiunsero le cooperative di tipo A fortemente volute dalle organizzazione di volontariato di ispirazione laica. Malgrado questa differenza iniziale, i due tipi sono venuti avvicinandosi al punto tale che ormai esistono molte cooperative sociali miste. La stessa legge include fra i soggetti coinvolti anche gli istituti di patronato. La L. n. 152/2001 definisce gli istituti di patronato come “ persone giuridiche di diritto privato che svolgono un servizio di utilità pubblica”. Pur essendo soggetti di diritto privato, l’acquisto della personalità giuridica per questi soggetti è diversO da quello previsto per le associazioni e fondazioni indicate dal Codice civile. Infatti per queste basta ormai, ai sensi dell’art. 1 del DPR n. 361/2000, l’iscrizione presso i registri delle Prefetture, dopo una semplice istruttoria che accerti il possesso dei requisiti di legge, senza entrare nel merito delle finalità. Per gli istituti di patronato invece occorre il preventivo riconoscimento del Ministero del Lavoro che vaglia il progetto presentato dalle organizzazioni sindacali che promuovono l’istituto. Solo dopo il riconoscimento, che presuppone quindi una valutazione nel merito delle finalità, si può procedere all’iscrizione nei registri prefettizi. Cioè per gli istituti di patronato rimane in vita un controllo penetrante ormai inesistente per gli altri soggetti privati. Inoltre gli istituti di patronato hanno modalità operative ed organizzative assai diverse anche dagli organismi di volontariato. Infatti l’art. 6 comma 3 della L. n. 152/2001 consente solo in via eccezionale e temporanea l’utilizzo di collaboratori volontari. Inoltre l’art. 6 comma 4 della L. n. 152/2001 consente in via eccezionale la stipula di contratti di lavoro coordinato e continuativo, dovendosi essi avvalere delle prestazioni di dipendenti propri o delle organizzazioni sindacali promotrici. Ed ancora l’art. 1 comma 6 della L. n. 328/2000 include nel disegno di realizzazione del sistema integrato dei servizi sociali anche il contributo delle organizzazioni sindacali, che, pur essendo formalmente associazioni non riconosciute di diritto privato, rivestono un ruolo pubblico per l’importanza del ruolo di contrattazione collettiva e di partecipazione alla “concertazione” delle politiche sociali e del lavoro, loro attribuite dall’art. 39 della costituzione. Lo stesso comma inoltre riconosce come interlocutori importanti per l’attuazione del sistema integrato anche le associazioni di tutela degli utenti. Trattasi delle organizzazioni di cui alla L. n. 281/98 che, similmente ai sindacati promuovono la tutela dei diritti dei cittadini ed a differenza degli altri organismi del terzo settore fin qui esaminati, non gestiscono direttamente servizi sociali alla persona. Il pluralismo e la sussidiarietà vengono qui portati alle loro logiche conseguenze, prevedendosi la partecipazione di soggetti privati senza fini di lucro anche nel campo della produzione di beni immateriali. Ed infine il comma 5 dell’art. 1 della Legge di riforma valorizza “le attività delle persone, dei nuclei familiari, delle forme di auto-aiuto e di reciprocità e della solidarietà organizzata”. Questa formulazione risulta piuttosto vaga. Quanto alle persone si può pensare al riconoscimento del servizio civile dei giovani e delle giovani di età compresa fra i diciotto ed i ventisei anni, operato con la L. n. 64/2001. Trattasi di una legge importante, poiché il servizio civile è riconosciuto come un modo di solidarietà indipendentemente dalla scelta culturale dell’obiezione di coscienza; tanto è vero che può già cominciare ad operare anche durante la vigenza di quelle norme. Questa legge è inoltre importante sotto il profilo della solidarietà, poiché prevede, all’art 5 comma 4 , che al servizio civile volontario possano partecipare, purché idonei al tipo di servizio prescelto, anche le donne e le persone riformate per inabilità al servizio militare, anche successive alla chiamata alla leva. L’inclusione di questi due nuovi soggetti è la piena realizzazione del principio di “non discriminazione e di pari opportunità”, sino ad oggi utilizzato esclusivamente nel campo del lavoro e dei diritti civili. Con questa legge tale principio viene applicato anche ai “diritti sociali” non solo sotto il profilo della fruizione “passiva”, cioè come beneficiari di tali diritti, ma anche sotto quello della titolarità “attiva”, giacché donne e disabili divengono possibili attori volontari di solidarietà. E’ questo un modo nuovo di intendere ed applicare l’art 3 comma 1 della Costituzione. Quanto alla valorizzazione dei nuclei familiari il pensiero va subito alla L. n. 184/83 ed alle modifiche introdotte con la L. n 149/2001, in tema di “affidi familiari per i minori in difficoltà”. Quanto alle “forme di auto-aiuto e di reciprocità”, vien fatto di pensare a forme nuove di solidarietà quali le “banche del tempo” ed alla solidarietà di “vicinato o di strada “ Quanto infine alla locuzione “solidarietà organizzata”, dopo tutta l’elencazione svolta, essa sembra ridondante e pleonastica, giacché o è ripetitiva della realtà dell’auto-aiuto che la precede, o è ripetitiva di tutto quanto già detto. Anche imprecisioni come queste sono la riprova della frettolosità con cui la legge è stata approvata. A meno che la locuzione non intenda riferirsi al cosiddetto “volontariato di vicinato” ed alle cosiddette realtà di “reti informali” di solidarietà. Rientrano ancora nell’ambito del cosiddetto terzo settore le organizzazioni non governative, operanti nell’ambito della solidarietà internazionale, di cui alla L. n. 49/87. Vi entrano ancora , oltre alle associazioni, anche le Fondazioni e le Fondazioni bancarie con espresse finalità sociali. Vi rientrano infine per l’esplicito richiamo operato dall’art. 1, comma 4, della legge di riforma, gli enti riconosciuti delle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti ed intese. Si pensi ad es. ad organizzazioni di volontariato e cooperative sociali, o associazioni promosse dalla Caritas, da parrocchie, dalle comunità israelitica, da chiese protestanti, etc.
5.2.4. Soggetti non rientranti nel terzo settore
Normalmente viene considerato soggetto rientrante nel terzo settore la Caritas italiana, che addirittura l’osservatorio nazionale sul volontariato ha incluso tra i suoi membri. E’ bene tener presente però che la Caritas ai diversi livelli nazionale, regionale, diocesano e parrocchiale, è, per proprio statuto, un organo della struttura della chiesa cattolica, che addirittura, in base al diritto canonico, è un’entità di natura internazionale. Va esclusa dal terzo settore pure la croce rossa italiana, comunemente qualificata come organizzazione di volontariato, forse perché si avvale di molti volontari, i quali però come i membri delle Ong, di cui alla legge n. 49/87 sul volontariato internazionale, percepiscono un compenso, che invece la L. n. 266/91 vieta per i membri delle organizzazioni di volontariato. La Croce rossa italiana, comunque, in base alla normativa vigente è ente di diritto pubblico. Questa esclusione dal terzo settore per i due soggetti cui si è appena accennato, non li esclude però dal partecipare al sistema integrato dei servizi in rete, chè anzi la legge di riforma ne richiede un’attiva partecipazione così come fa pure per le IPAB, istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, anch’esse escluse dal numero di soggetti del privato sociale. Detti soggetti possono però concorrere alla realizzazione del sistema integrato di servizi, così come è previsto espressamente per le IPAB dall’articolo 10 della legge di riforma.
6. I Rapporti fra enti locali ed i soggetti del terzo settore
Per l’affidamento, ai soggetti del terzo settore, di servizi rivolti alla persona i Comuni e gli altri enti pubblici debbono rispettare gli “indirizzi” che ogni Regione dovrà adottare nell’osservanza di un atto d’indirizzo emanato con decreto del Presidente del consiglio dei Ministri. A tal proposito l’art 5 comma 2 della legge di riforma stabilisce che gli enti pubblici, oltre a rispettare le norme in materia di autorizzazione, di trasparenza e semplificazione amministrativa, debbono adottare “forme di aggiudicazione o negoziali rispettose della progettualità“ dei soggetti del terzo settore. Inoltre la valutazione comparativa dei progetti deve tener conto della “qualità e delle caratteristiche delle prestazioni offerte e della qualificazione del personale”. Ciò significa che intanto l’appalto non è l’unico mezzo per la scelta del contraente nell’affidamento di servizi alla persona, potendosi fare ricorso anche a gare fra soggetti preselezionati per la loro specifica professionalità come ad es. la “licitazione privata”. Inoltre non è più consentito agli enti pubblici, nell’indire gare, fissare il solo criterio economico “del maggior ribasso”, ma si deve obbligatoriamente tener conto anche della migliore qualità. In vero questi criteri erano già in uso presso taluni Comuni. L’importanza della norma sta nel fatto che ora questo diviene un criterio obbligatorio sia nell’interesse degli utenti sia in quello degli erogatori dei servizi. Pertanto i partecipanti ad una gara potranno impugnare vittoriosamente avanti al TAR, Tribunale Amministrativo regionale eventuali bandi che non rispettino tali principi; lo stesso potranno fare gli utenti in quanto direttamente interessati a ricevere le migliori prestazioni possibili. Ciò garantisce il pluralismo delle offerte, la consultazione dei diversi soggetti del terzo settore e dei loro organismi di rappresentanza, quali ad es. associazioni di secondo livello, federazioni, consorzi etc, intese fra Comuni ed ASL per la realizzazione di interventi sociosanitari integrati. Dovrebbe pure essere possibile la coprogettazione fra soggetti pubblici e del privato sociale, specie in caso di particolari innovazioni sperimentali. Per assicurare prestazioni di qualità sembrerebbe opportuno che i Comuni differenzino le gare fra le diverse tipologie di soggetti del terzo settore, tenendo conto delle differenze sostanziali che si è cercato sopra di tratteggiare. Inoltre non si potrà non tener conto della qualità organizzativa che riduca al massimo il tourn over degli operatori, che attualmente costituisce una grave limitazione della qualità. La vigilanza dovrà pure riguardare il rispetto delle norme fiscali e previdenziali non tanto per un formale ossequio, quanto anche perché ciò è indice di qualità organizzativa e la verifica dell’inosservanza di tali norme con consenguenti sanzioni, può causare l’interruzione, sia pur temporanea, del servizio con gravi danni per l’utenza. Sembra altresì logico che i Comuni non si debbano limitare all’affidamento di servizi, ma possano anche acquistare gli stessi da fornitori che si impegnino a rispettare taluni requisiti di qualità, a garantire la fornitura completa di un servizio o prestazione, non limitandosi solo ad alcuni aspetti di esse ( ad es. solo prestazione sanitaria per un servizio integrato sociosanitario), ad accettare, in luogo del pagamento , buoni-servizio. Sembra infine normale che, in attuazione dell’apposito atto di indirizzo governativo, le regioni, nel normare le modalità di affidamento o acquisto dei servizi dei soggetti del terzo settore, garantisca loro pure sostegno per la qualificazione professionale degli operatori, per l’accesso al credito agevolato ed ai contributi dell’Unione europea.
7. L'Agenzia per le Onlus
Come si sarà potuto osservare, la logica di uno “stato sociale sempre più leggero“ incrementa il peso quantitativo e qualitativo dei soggetti del terzo settore nel campo dei servizi sociali. Correttamente quindi già con la L.n. 662/96 si provvide alla necessità di istituire un’Agenzia di controllo dei soggetti operanti in questo mercato in tumultuoso aumento. Così l’Agenzia costituita nel 2000, è stata regolata con decreto del presidente del consiglio dei Ministri del 21 Marzo 2001, che ne ha fissato la sede legale in Milano e l’ha posta sotto la propria vigilanza o, per delega, sotto quella congiunta dei Ministri per la solidarietà sociale e delle finanze. Data l’importanza di “autority” attribuita, l’Agenzia è composta da un presidente e dieci membri, nominati dal presidente del consiglio dei Ministri, fra esperti. Quattro dei suoi membri vengono proposti rispettivamente dal Ministro delle finanze, del lavoro, della solidarietà sociale e dalla Conferenza permanente Stato-regioni. Gli artt. 3,4 e 5 del decreto indicano le sue attribuzioni che sono rilevanti. L’Agenzia ha potere d’indirizzo sull’attività delle O.N.L.U.S., al fine di garantire l’uniforme applicazione delle norme fiscali che li riguardano. Ha inoltre potere di proposta in ordine alla normativa di riferimento. Cura ricerche, campagne informative, raccolta di dati sulle O.N.L.U.S., azioni formative sugli standard qualitativi dei servizi da essi resi, conoscenza e collaborazione con analoghi soggetti stranieri. Ma le attribuzioni più importanti riguardano il funzionamento del mercato sociale. Infatti segnala alle Autorità competenti le norme che creano “distorsioni” nel funzionamento delle attività svolte dalle O.N.L.U.S. e propone modifiche ed indirizzi; vigila sull’attività di raccolta fondi, che la principale fonte di finanziamento dei soggetti non profit; elabora proposte per la formazione dell’anagrafe unica delle ONLUS; formula parere “vincolante” alla Presidenza del consiglio ed Ministri delle finanze, del lavoro e della solidarietà sociale circa l’attribuzione dei patrimoni delle O.N.L.U.S. che cessano dalle attività; collabora col Ministro delle finanze per l’uniforme applicazione della normativa tributaria di favore; promuove iniziative di confronto e collaborazione tra le O.N.L.U.S. e le pubbliche amministrazioni. Queste possono chiederle pareri su schemi di propri atti amministrativi; i pareri sono obbligatori nei confronti di atti delle amministrazioni statali in materia di iniziative legislative o di atti generali, di individuazione di soggetti a favore dei quali emanare norme di agevolazione tributaria, di organizzazione dell’anagrafe unica delle ONLUS, di tenuta dei registri ed albi delle cooperative sociali, riconoscimento delle ONG, organizzazioni non governative operanti per progetti nei Paesi in via di sviluppo, di cui alla L. n 49/87, e decadenza dalle agevolazioni tributarie e contabili previste dal decreto sulle ONLUS. Come si può osservare, trattasi di interventi volti a garantire la tutela della pubblica fede nell’allocazione di risorse a favore delle ONLUS e del suo ordinato funzionamento sul territorio nazionale. E’ questo un ambito dell’economia che avrà crescente sviluppo ed è bene che non venga abbandonato a sé stesso, sia per evitare distorsioni del mercato ad opera dei soggetti più forti, sia per la tutela della solidarietà sociale che passerà sempre più attraverso gli interventi di questi soggetti . L’autority è stata costituita per le ONLUS ma, a giudizio di chi scrive, dovrebbe occuparsi anche delle organizzazioni di volontariato che il decreto legislativo n. 460/97 considera ONLUS ai fini delle agevolazioni fiscali. In tal modo la vigilanza tributaria abbraccerebbe tutti i soggetti del privato sociale.
8. In sintesi
La legge di riforma enuncia i principi fondamentali cui dovranno ispirarsi le regioni nella approvazione delle rispettive leggi quadro sul sistema integrato dei servizi sociali. Tali principi sono fondamentalmente: - l’accessibilità ai servizi da parte di tutta la popolazione con priorità per le fasce più deboli quali le persone in stato di povertà e quelle con disabilità.; - la programmazione della rete dei servizi di competenza prevalente degli enti pubblici ai diversi livelli territoriali, la progettazione degli stessi da parte anche dei soggetti del terzo settore e la verifica della loro qualità; - l’affermazione di diritti soggettivi esigibili, che però in concreto va ridimensionata a causa della scarsità di risorse finanziarie disponibili; - l’integrazione dei servizi socio-sanitari; - il decentramento dallo stato e dalle regioni agli enti locali, secondo il cosiddetto principio della sussidiarietà verticale; - il riconoscimento del pluralismo e dell’autonomia dei soggetti del cosiddetto terzo settore, o del cosiddetto “privato sociale”, secondo il principio della sussidiarietà orizzontale; - il perseguimento della qualità dei servizi e non del semplice “maggior ribasso dei costi”, nell’affidamento degli interventi ai soggetti del terzo settore.
9. Possibili azioni per il terzo settore
Nell’ambito del terzo settore dovrebbe finalmente aprirsi un dialogo chiarificatore circa il ruolo dei diversi soggetti, non per semplice gusto di elencazione, ma per evitare confusione nella applicazione delle norme. Ormai per ciascuno dei soggetti del terzo settore esistono degli appositi registri alternativi tra loro nei quali iscrivere solo i soggetti contemplati dalle rispettive leggi. E’ comunque importante che tutti i soggetti del terzo settore seguano l’iter di approvazione delle leggi regionali attuative della legge quadro per verificare se, come e quanto i principi enunciati nella legge di riforma vengano in esse recepiti e per promuovere quindi eventuali integrazioni. Inoltre è necessario che, specie le organizzazioni di volontariato, seguano la formulazione e lo svolgimento delle gare per l’affidamento di servizi, affinchè il principio della “migliore qualità” venga effettivamente applicato, rispetto a quello ancora molto in voga del “maggior ribasso dei costi”. Infine i soggetti del terzo settore dovranno adoperarsi perché l’esigibilità dei diritti degli utenti venga garantita tramite puntuali contenuti dei piani di zona, alla cui formulazione il terzo settore ha diritto di partecipare. [1] La legge di revisione costituzionale è stata approvata in seconda lettura l’8 marzo 2001 dal Senato con una maggioranza inferiore ai due terzi; è stata quindi pubblicata sulla G.U. n. 59 del 12 marzo 2001, in attesa dello svolgimento del referendum confermativo, come richiesto dall’art. 138 della costituzione.
ASSETTO ISTITUZIONALE ED ORGANIZZATIVO DEL SISTEMA INTEGRATO ( Artt. 6 - 13 )
1 Premessa 2 Funzioni dei Comuni 2.1 Il domicilio di soccorso 2.2 Autorizzazione ed accreditamento 3 Funzioni delle Province 4 Funzioni delle Regioni 5 Competenze controverse 6 Funzioni dello Stato 7 Funzioni delle IPAB 7.1 Il decreto legislativo n. 207/01 sulle IPAB 8 Le professioni sociali 9 La carta dei servizi sociali 10 In sintesi 11 Possibili azioni del terzo Settore
1. Premessa
Capovolgendo una sequenza tradizionale circa i livelli territoriali di competenza degli enti pubblici territoriali, la legge di riforma indica dapprima il ruolo dei Comuni, quindi passa alle province, poi allo Stato ed infine alle IPAB, istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza. Questo orientamento è invalso almeno dalla formulazione del Decreto Legislativo n.112/98 e segna l'affermarsi crescente del ruolo del decentramento e degli enti locali nella nuova cultura politica venata di orientamenti "federalisti". Rimane però fuori della sequenza che parte dal basso l'art.10 sulle IPAB, che sono enti di carattere nazionale e locale, e che comunque non hanno natura di Enti Territoriali. La rilevanza data ad esse si spiega con la loro storia travagliata e col fatto che, dati i loro rilevanti patrimoni, esse costituiscono un tipo di soggetti pubblici di notevole importanza per la realizzazione del sistema integrato.
2. Funzioni dei Comuni
I Comuni sono protagonisti della riforma, spetta loro infatti la titolarità delle funzioni in materia di servizi sociali locali e concorrono alla programmazione regionale. Data la loro diversa dimensione territoriale e di popolazione, essi possono programmare i servizi da soli, associandosi con gli altri comuni o decentrando alle circoscrizioni le funzioni dei grandi comuni. Il problema più delicato riguarda le migliaia di piccoli comuni che non sono in grado di realizzare da soli il sistema integrato. E' stata proposta da taluni l'associazione obbligatoria tra i piccoli comuni, consentita dalla legge 142/90; ma a questa soluzione osta una visione quasi sacrale dell'autonomia comunale e soprattutto la difficoltà di ottenere l'obbligatoria associazione di comuni che potrebbero essere retti da maggioranze politiche di diverso colore. Si è così preferito il ricorso a forme di incentivazione economico-finanziaria a favore dei piccoli comuni che si associano spontaneamente. E' questo uno degli aspetti organizzativi ed operativi più delicati per la riuscita della riforma. Tanto più che oltre settecento Unità sanitarie locali previste dalla L.n. 833/78, al momento della loro trasformazione in aziende si sono ridotte ad un centinaio, coincidendo tendenzialmente con le province. Ora, un sistema un sistema che si vuole integrato anche a livello di servizi sociosanitari, si trova paurosamente sbilanciato a favore di quelli sanitari. Infatti l'ampiezza territoriale e l'abbondanza certa di risorse economiche delle ASL pone una seria ipoteca sul ruolo di titolarità dei servizi sociali in capo ad una miriade di Comuni, che per di più hanno mezzi finanziari di gran lunga inferiori e comunque incerti. L'art. 2 comma sexies lett."e" del DPR n. 502/92, come modificato dal Decreto Legislativo n. 229/99 attribuisce alla Conferenza dei Sindaci un potere mediato di vigilanza sulle ASL, tramite l'espressione alla regione di un parere; analogo potere è conferito, dall'art. 3 quater comma 4 dello stesso decreto al Comitato dei sindaci di distretto in merito al piano delle attività territoriali. L'Assessore regionale, acquisiti i pareri, in sede di rinnovo dell'incarico al Direttore Generale della ASL, trascorsi diciotto mesi, può non rinnovargli l'incarico, secondo quanto stabilito dall'art. 3 bis commi 5 e 6 dello stesso decreto legislativo. Questi lievi poteri sono l'unico deterrente concesso ai Sindaci. E' piuttosto poco per dare sostanza alla titolarità delle funzioni sociali e di quelle sociosanitarie e porre su un piano di parità servizi sanitari e sociali, ASL e Comuni. Comunque gli utenti e le organizzazioni del terzo settore sanno che per trattare con le ASL sulla qualità dei servizi integrati possono, malgrado tutto, trovare nella Conferenza dei Sindaci o nel loro Comitato di Distretto un'autorità istituzionale su cui contare per far valere loro rimostranze e diritti. Ovviamente in caso di violazione o diniego di diritti sociosanitari rimane ai cittadini il rimedio di rivolgersi alle organizzazioni di tutela dei Consumatori, di cui alla Legge n. 281/98 ed infine il ricorso alla Magistratura ordinaria o amministrativa. Ai Comuni spetta, oltre alla programmazione e progettazione dei servizi sociali, anche la loro erogazione; spetta anche l'erogazione delle prestazioni economiche diverse da quelle statali e dei buoni servizio. Compete inoltre ai comuni concorrere alla determinazione degli ambiti territoriali minimi ove erogare i servizi sociali di base in modo unitario ed in rete. Tra le funzioni attribuite dalla legge di riforma dei Comuni si segnalano quelle di reperimento di risorse umane e sociali quali forme di auto-aiuto, di coordinamento dei diversi servizi propri ed altrui tramite intese ed accordi operativi. Si ribadisce la necessità di controlli di qualità dei servizi, tramite la predisposizione di strumenti di misurazione della stessa, di consultazione dei soggetti erogatori, acquisizione di pareri degli utenti per acculare il loro grado di soddisfazione. A tali compiti l'art.6 ne aggiunge altri, quali: - La promozione di forme collaborative nell'ambito della società locale. Si indicano forme di auto-aiuto, quali ad esempio associazioni di ex tossicodipendenti, disabili, ecc.. forme di "reciprocità", quali ad esempio le "banche del tempo", - Collegamento fra interventi di carattere sociale con quelli di carattere sanitario, anche tramite intese fra comuni ed ASL; - Adozione di strumenti amministrativi semplificati e finalizzati alla valutazione ed efficacia dei risultati, anche tramite la consultazione dei soggetti erogatori dei servizi e di controllo da parte degli utenti.
2.1 Il domicilio di soccorso
Una competenza importante, che taluni ritengono si sia affievolita, è prevista dall'art. 6 comma 4 della Legge n. 328/00. Trattasi dell'obbligo del Comune nel quale le persone, per le quali si renda "necessario" il ricovero in istituti assistenziali, hanno la residenza prima del ricovero, di provvedere all'accollo delle spese, qualora il Comune ove ha sede l'Istituto richieda il concorso dell'utente alla spesa e questi non sia in condizioni economiche di provvedervi. E' stato obiettato che la formulazione non è sufficientemente cogente e quindi verrebbe meno il diritto al cosiddetto "domicilio di soccorso". E' invece da ritenere che la norma mantiene il carattere cogente, dato l'uso al presente del termine secondo cui il comune "assume gli obblighi", usato dal legislatore. L'attuale legislatore ha invece voluto sostituire il comune di "ultima residenza" con quello di "ultima provenienza", al fine di evitare che persone con scarsa o nulla autonomia personale ed economica si spostassero di residenza presso comuni forniti di istituti assistenziali, per trovare lì il ricovero, gravando notevolmente le finanze del comune di nuova residenza. Il fatto che l'art. 30, comma 1, della Legge n. 328/00 abbia immediatamente abrogato l'art. 72 della legge 6972/1890, relativo alla regolamentazione del "domicilio di soccorso", significa solo che tale regolamentazione fondata sulla residenza è incompatibile con la nuova, che si incentra sul "comune di ultima provenienza", tale abrogazione però relativa solo alle modalità di questo intervento assistenziale, non abroga in nessun modo l'istituto del domicilio di soccorso. Tanto è vero che i comuni stanno già applicando il disposto dell'art. 6, comma 4, della Legge n. 328/00.
2.2 Autorizzazioni ed accreditamento
Essi provvedono inoltre all'autorizzazione dei soggetti erogatori di servizi, previo accertamento dei requisiti richiesti dallo stato e dalla regione; spetta inoltre l'accreditamento dei soggetti ritenuti idonei, sulla base dei livelli qualitativi richiesti dalle leggi regionali, a gestire servizi sociali, strutture residenziali e semiresidenziali. Mentre le autorizzazioni sono figure giuridiche già operanti nel precedente sistema, l'accreditamento è un istituto giuridico del tutto nuovo in campo sociale. Con l'autorizzazione il Comune si limita a riconoscere che un soggetto è idoneo a poter erogare un certo servizio, avendo il possesso dei requisiti minimi fissati dalle leggi nazionali e regionali. Con l'accreditamento la cosa è più complessa. Infatti si tratta di individuare i soggetti che raggiungono livelli di qualità gestionali di certi servizi che li abilitino ad essere erogatori di servizi pagati direttamente o indirettamente dai comuni. Con questo sistema cioè si supera la tradizionale logica delle convenzioni dei Comuni con soggetti pubblici e privati o del privato sociale, per accedere ad una logica più pluralista e di rispetto delle scelte dei cittadini. I cittadini infatti non sono più obbligati a rivolgersi ai soli soggetti convenzionati, ma possono scegliere fra tutti quelli che hanno ottenuto l'accreditamento, spendendo così la quota o il buono servizio posto a loro disposizione dal Comune. Mentre l'autorizzazione riguarda normalmente il previo controllo di requisiti minimi formali, con l'accreditamento si scende a verificare preventivamente e in seguito con periodicità il possesso di livelli di qualità di servizi superiore, secondo standard normalmente indicati da "regole" di buone prassi fissate da organismi spesso soprannazionali. Può così accadere che l'accreditamento possa essere negato ad un servizio proposto da un soggetto pubblico e riconosciuto ad un soggetto privato. L'accreditamento costituisce quindi una garanzia di qualità per i cittadini ed è una forma di tutela dei loro diritti sociali. Infatti laddove i servizi resi da soggetti accreditati non rispondano agli standard indicati nell'atto di accreditamento o nei provvedimenti cui esso si rifà, quale atto presupposto, gli utenti possono rivolgersi al Comune accreditante chiedendo la revoca dell'accreditamento, salvo il risarcimento del danno nei confronti dell'ente accreditato per le prestazioni ottenute difformi da quelle previste. Insomma condizioni per l'autorizzazione possono considerarsi ad es. la presenza di figure professionali munite di un certo titolo di studio, di cui all'art.12 della legge di riforma o il possesso della carta dei servizi di cui all'art. 13 della stessa legge. Per l'accreditamento occorre invece che oltre al titolo di studio gli operatori posseggano ad es. una lunga esperienza in quel campo e che la carta dei servizi sia molto dettagliata circa la fruizione delle prestazioni promesse. L'accreditamento in campo sociale è stato mutuato dalla normativa in campo sanitario, ove è stato introdotto in precedenza. Non si dimentichi che un orientamento ispiratore della legge di riforma sociale è stato anche quello di emulare, per quanto possibile, gli istituti concernenti la qualità dei servizi sanitari. L'art. 11 della legge di riforma detta i principi che permettono alla rete dei servizi di operare in termini di qualità. L'articolo evidenzia un intreccio inter-istituzionale di competenze. Infatti lo stato, tramite il ministro per la solidarietà sociale fissa i requisiti minimi per le autorizzazioni alle strutture residenziali e semi-residenziali; le regioni con propria legge recepiscono ed eventualmente integrano tali requisiti, adeguandoli alle esigenze del proprio territorio; i comuni, vagliate le singole richieste, provvedono in concreto alle autorizzazioni. La legge di riforma, mentre stabilisce che queste procedure siano immediatamente applicabili alle richieste di nuove strutture, concede un periodo di cinque anni a quelle già operanti per mettersi in regola. L'autorizzazione provvisoria per una durata di cinque anni sembra eccessiva, se vista dal punto di vista dell'interesse degli utenti a prestazioni di qualità; pur considerando la necessità di rispettare dei tempi per la riorganizzazione dei servizi, l'attenzione, presente nella legge all'interesse degli utenti, avrebbe potuto suggerire tempi più brevi. La legge però non si limita ad individuare dei requisiti minimali di funzionalità, ma, al pari dei servizi sanitari, introduce il principio della qualifica di soggetti"accreditati" in ragione dell'alto livello di qualità dei servizi prodotti, potranno ricevere dagli stessi le tariffe che saranno corrisposte sulla base dei criteri fissati dalle singole regioni. Pertanto si potranno avere anche livelli di qualità differenti da regione a regione.
3. Le funzioni delle province
L'art. 7 della legge di riforma fornisce della provincia un'immagine istituzionale molto sbiadita. Infatti le sue funzioni vengono ricondotte a quella di raccogliere informazioni sui bisogni e le risorse a livello provinciale, di fornire tali informazioni ai comuni, di partecipare ai piani di zona stipulati dai Comuni ed infine di realizzare corsi di formazione professionale di base. In vero la legge di riforma ha fatto la scelta di individuare nel comune il soggetto titolare della programmazione ed erogazione dei servizi del sistema integrato. Però l'armonia del progetto istituzionale è rotta da norme erratiche che continuano ad attribuire alle Province funzioni di amministrazione attiva e non solo conoscitiva e consultiva come avrebbe voluto l'attuale legislatore. Si pensi ad es. alla Legge n. 23/96 sulla competenza delle province in materia di edilizia scolastica; si pensi al decreto legislativo n. 469/96 che ha decentrato alle Province le funzioni del collocamento per tutti i cittadini, ivi compresi quelli con disabilità, prima di competenza di organi periferici del ministero del lavoro. Si pensi all'art. 139 del Decreto Legislativo n. 112/98 che attribuisce alle province le funzioni di "supporto organizzativo" all'integrazione degli alunni con handicap nelle scuole superiori.
4. Funzioni delle regioni
Se i Comuni sono individuati come centri di realizzazione dei servizi, l'art. 8 della legge di riforma assegna alle Regioni il ruolo primario di centri di programmazione del sistema integrato. Tale ruolo si esplica legiferando, formulando indirizzi per l'attività degli enti locali e tessendo strategie di coordinamento fra essi. Il ruolo programmatorio si estende anche alla consultazione dei soggetti del terzo settore per ottenere la partecipazione alla realizzazione del sistema integrato, anzi si è già visto come questo aspetto è uno degli snodi fondamentali della riforma. La legislazione dell'ultimo decennio è andata sempre più orientandosi verso l'accentuazione del ruolo programmatorio delle Regioni, in precedenza spesso confuso con una loro diretta partecipazione all'attività gestionale di servizi. Il ruolo programmatorio si è accentuato soprattutto negli ultimi due o tre anni, in cui l'accento politico è stato particolarmente posto sul valore ed il significato del federalismo non solo politico ma anche fiscale. La diversificazione di maggioranze politiche fra le regioni, specie negli ultimi anni, ha prodotto anche una diversificazione nelle politiche di welfare regionale con una più accentuata scelta di sussidiarietà verticale a favore degli enti locali. Ed il tema dei rapporti fra Regioni ed Enti locali è il problema più delicato che dovrà essere risolto nelle singole realtà. Infatti i comuni hanno molto apprezzato le scelte parlamentari di decentramento che sottraevano allo Stato, considerato talora "padrone" lontano, poteri per ripartirli verso il basso fra Regioni ed Enti locali. Si è però aperto un nuovo fronte di confronto fra gli stessi Enti locali, divenuti il centro dell'organizzazione dei servizi e le Regioni che sempre più rivendicavano il ruolo programmatorio non semplicemente orientativo, ma anche talora penetrante. Se il secolo scorso si è caratterizzato per la lenta, ma inarrestabile emersione politico istituzionale del ruolo delle Regioni e della loro emancipazione dall'uniformità burocratica dell'amministrazione statale, il nuovo si caratterizzerà, pare per il rafforzamento del ruolo attivo degli Enti locali, rispetto al rischio di essere omologati dalle Regioni. Ma, a mano a mano che si rafforza il ruolo delle regioni, un nuovo fronte si apre concretamente specie nelle politiche sociali, quello della dialettica fra la volontà politica di autonomia e diversificazione di ciascuna regione e la necessità che sia garantito a tutti i cittadini un livello essenziale di servizi sociali, ovunque si trovino a vivere. E' questo il problema più delicato, perché non si gioca solo sul tavolo dei sommi principi delle autonomie locali, ma va ad incidere concretamente sulla vita di ciascuna persona e sul suo diritto di eguaglianza non tanto formale, quanto sostanziale . La legge di riforma, come si vedrà meglio in seguito, ha tentato una soluzione di questo problema; ma i referendum proposti sulla recente legge costituzionale sul "federalismo regionale" lasciano aperto il problema a diverse possibili soluzioni. Ciò posto, vediamo in dettaglio quali funzioni l'art. 8 della legge di riforma assegna alle regioni in materia di politiche sociali. Il primo compito in ordine cronologico, oltre che logico, è quello della suddivisione del territorio in "ambiti omogenei" per la realizzazione dei servizi sociali in rete. Strumenti per facilitare l'aggregazione di piccoli comuni in un unico bacino di utenza sufficientemente ampio per ridurre le spese generali, ma non tanto vasto da rendere difficoltoso l'accesso degli utenti ai servizi, sono la consultazione degli Enti locali, titolari del potere di istituzione dei servizi e gli incentivi economici per facilitare l'aggregazione. L'orientamento della legge è di far possibilmente coincidere l'ambito territoriale dei servizi sociali in rete con quello dei distretti sanitari di base, già operanti da tempo. E questo orientamento dovrà facilitare l'altro obiettivo consistente nell'integrazione di tutti i servizi territoriali alla persona, dopo l'avvio della riforma dell'autonomia scolastica. L'attivazione concreta del sistema integrato dipende sostanzialmente dalla competenza tecnica di impostazione e dalla capacità di drenare risorse economiche, le quali, se scarseggiano in Italia, specie nel Sud, abbondano in Europa e non vengono intercettate da molte realtà italiane, proprio a causa spesso di scarsa competenza nell'impostazione, anche burocratica, dei progetti. Il ruolo di consulenza delle regioni qui diviene fondamentale, ma occorrerà attrezzare in tal senso gli appositi uffici regionali con esperti ed un buon sistema informativo. Perché queste politiche siano vincenti occorre però che le regioni si attrezzino per saper effettuare verifiche di efficacia degli interventi e valutazioni di risultati in merito alla dialettica costi-benefici. Queste procedure presuppongono una chiara consapevolezza delle modalità organizzative per la realizzazione dei servizi di qualità valutabile oggettivamente. Pertanto la legge impone alle Regioni di fissare i criteri per l'attivazione dei registri relativi ai soggetti che siano in grado di rispondere ai requisiti richiesti e di erogare servizi qualitativamente valutabili. Questo è uno degli aspetti più delicati della riforma, in quanto in precedenza i controlli avevano un carattere burocratico di mera legittimità formale sull'efficienza, mentre ora si richiedono verifiche di qualità sull'efficacia e sulla soddisfazione degli utenti. Le regioni dovranno inoltre regolare le modalità di finanziamento dei servizi, anche col concorso alla spesa da parte degli utenti ed il ricorso a buoni-servizio, nonché le tariffe previste a favore dei soggetti accreditati all'erogazione di servizi di qualità. Deve essere infine realizzato un programma di formazione ed aggiornamento di quanti operano nel campo dei servizi sociali. Il discorso non riguarda solo gli operatori, ma anche i funzionari e le agenzie specializzate, spesso preparate per il vecchio modo di gestire le politiche sociali. Per rendere operante la riforma, le leggi regionali dovranno trasferire agli Enti locali le funzioni prima da esse esercitate direttamente o per delega, con il conseguente corredo finanziario e di personale. Ciò renderà effettiva la titolarità delle funzioni attribuite direttamente agli Enti locali, che potranno così esercitare concretamente la propria autonomia. Opportunamente la legge prevede che, in caso di inadempienze da parte degli Enti locali, intervenga la regione con il potere di sostituirsi nel porre in essere gli atti non adempiuti, ad es. tramite la nomina di "commissari ad acta". Questo è un aspetto delicatissimo per l'esigibilità dei diritti da parte degli utenti. Le ultime leggi in campo istituzionale sempre più frequentemente prevedono il ricorso a queste forme di garanzia circa l'efficienza dei servizi. Le condizioni e le modalità di esercizio di un tale potere di controllo sostitutivo è rimesso alle leggi regionali, che dovranno quindi regolamentare in modo utile per la soddisfazione dei bisogni sociali degli utenti.
5. Competenze controverse
La legge di riforma all'art. 8, comma 5 stabilisce che la legge regionale dovrà attribuire due tipi di competenze particolari ai comuni e agli enti locali. Quest'ultima espressione assai generica può comprendere province, comunità montane, consorzi tra province e comuni o fra province. I due tipi di competenze particolari sono: A) L'assistenza ai minori figli di ignoti ed alle minori gestanti e madri nubili, di cui al regio decreto - legge 8 maggio 1927, n. 798, convertito dalla legge 6 dicembre 1928, n. 2838. Per questi casi esiste un groviglio di competenze frantumate fra province e comuni. Basti pensare ad esempio che se un minore di genitori ignoti viene riconosciuto dalla solo madre, purché il riconoscimento intervenga prima del compimento del sesto anno di vita, la competenza assistenziale è data dalla provincia. Se però il minore viene successivamente riconosciuto anche dal padre la competenza assistenziale passa al comune. Qualora però uno od entrambi i genitori naturali disconoscano il figlio la competenza assistenziale passa alla provincia. La formulazione dell'art. 8, comma 5 non scioglie questi ed altri nodi, lasciando aperte tutte le possibili soluzioni. B) L'assistenza scolastica ai ciechi e ai sordi; questa in forza dell'art. 144 del regio decreto n. 383/34, spettava alle province. Con la legge 142/90 essa è attribuita ai comuni, ma a seguito delle lagnanze dell'UIC e dell'ENS che ritenevano inidonei i piccoli comuni a provvedere seriamente a tale compito, tale competenza è stata trasferita alle province con la Legge n. 67/93, che consente però alle regioni di adottare soluzioni diverse. L'art. 8 della Legge di riforma lascia aperto anche questo problema. Il comma 5 dell'art. 8 si conclude precisando che la legge regionale nel definire le competenze trasferisce ai rispettivi enti locali le risorse umane e finanziarie necessarie alla copertura dei costi calcolati alla data di entrata in vigore della legge quadro. Se i piccoli comuni sono inidonei a gestire competenze complesse per gruppi di soggetti quali i ciechi, i sordi e le minori gestanti e madri nubili, a causa della loro notevole dispersione sul territorio, e se le province sono individuate dalla nuova legge di riforma prevalentemente come soggetti di programmazione, sembra opportuno forse individuare in ogni regione alcuni comuni capofila che possano svolgere queste funzioni assistenziali.
6. Funzioni dello Stato
Il decentramento già realizzato e quello in atto non debbono far pensare che le competenze statali siano quasi scomparse. E' bene tener presente che ai sensi dell'art. 129 del decreto legislativo n. 112/98 rimangono ancora in capo allo Stato notevoli funzioni di amministrazione attiva in materia di stranieri, profughi, rifugiati, vittime del terrorismo e della criminalità organizzata, protezione agli appartenenti alle forze armate, di polizia o ai corpi militarizzati e loro familiari, delle pensioni ed assegni alle persone con disabilità. Ha inoltre le competenze per i rapporti internazionali ed in particolare con l'Unione Europea. Con riguardo più specifico alle politiche sociali del sistema di servizi ed interventi sociali in rete, lo Stato esercita una serie di funzioni di indirizzo e coordinamento che possono così sintetizzarsi secondo quanto indicato nell'art. 9 della legge 328/00 e che costituiscono il contesto generale entro cui si esplica l'autonomia delle singole Regioni: - Coordinamento e circolazione dei dati informativi necessari alla programmazione delle politiche sociali; - Fissazione dei principi e degli obiettivi delle politiche sociali nazionali, attraverso l'approvazione del Piano sociale nazionale; - Fissazione dei livelli essenziali ed uniformi dei servizi sociali; - Fissazione dei requisiti minimi strutturali ed organizzativi per le autorizzazioni all'esercizio dei servizi sociali e delle strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale; - Individuazione del profilo professionale degli operatori sociali e dei requisiti per accedere a tali professioni; - Ripartizione fra le Regioni delle risorse finanziarie del Fondo sociale nazionale; in vero trattasi di risorse molto scarse rispetto ai bisogni da soddisfare. A differenza del fondo sanitario nazionale, le risorse per i servizi sono scarsissime, essendo quasi totalmente assorbite dagli emolumenti economici alle persone con disabilità. Nell'esercizio di molte di queste funzioni lo Stato deve tener conto della Conferenza Stato-regioni, sia per acquisirne i pareri, sia, talora, per "concordare" intese. Ciò è ulteriore riprova di come sia divenuto strutturale ormai il principio del decentramento. - Interventi di controllo sostitutivo in caso di inadempienze delle regioni ai propri compiti istituzionali. Questa ultima funzione è importante perché evita il blocco del funzionamento del sistema integrato, in caso di omissioni delle Regioni che sono i centri di programmazione di tali politiche. A tal proposito è da tenere presente che in questi casi di omissione, i cittadini non hanno strumenti legali per sbloccare l'inerzia eventuale di una regione, a differenza di casi di inerzia di enti locali, contro i quali, il singolo può agire giudizialmente per la realizzazione di un suo diritto o interesse legittimo. Pertanto queste forme di intervento sostitutivo dello Stato costituiscono l'unica garanzia giuridica per i cittadini, ai quali altrimenti rimarrebbe solo l'arma politica del voto. Per realizzare le funzioni statali, l'art. 29 della legge di riforma ha previsto un concorso straordinario a cento posti bandito dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri per persone "dotate di professionalità ed esperienza in materia di politiche sociali", in particolare detto personale dovrà occuparsi degli aspetti amministrativi, di "adozioni internazionali, politiche di integrazioni degli immigrati e tutela dei minori non accompagnati". Le procedure concorsuali sono state avviate dal governo uscente già nel maggio 2001. Quanto invece all'eventuale necessità di personale aggiuntivo richiesto per l'esercizio delle funzioni attribuite o trasferite alle regioni ed agli enti locali, dovranno provvedere gli stessi anche per la relativa copertura finanziaria.
7. Funzioni delle IPAB
l'art. 10 della legge di riforma è totalmente dedicato alle IPAB, istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza. E' un articolo complesso che ha tentato, riuscendovi, di trovare delle soluzioni compatibili col rispetto della volontà dei fondatori, con l'ossequio alle sentenze della Corte Costituzionale, specie la n. 173/81 e soprattutto la n. 396/88 e la necessità di inserire ingenti patrimoni nella rete di risorse del sistema integrato dei servizi sociali. La legge delega al Governo la trattazione specifica della delicata materia nel rispetto di alcuni principi orientativi.
Il legislatore ha delegato al Governo la puntuale regolamentazione della materia, col rispetto dei principi che seguono: Le IPAB vanno trasformate o in soggetti strumentali di diritto pubblico o in soggetti di diritto privato, fondazioni o associazioni, a seconda della forma giuridica originariamente scelta dai fondatori. In caso di trasformazione in soggetti di diritto pubblico, deve essere assicurata agli stessi una particolare autonomia statutaria, patrimoniale, contabile, gestionale, e tecnica. Anche i controlli sugli statuti, sulla gestione patrimoniale e sui beni sulle loro alienazioni o permute, sulla verifica dei risultati debbono essere compatibili con la loro autonomia. I rapporti col personale saranno regolati secondo principi di diritto privato, criterio ormai riguardante tutto il pubblico impiego, al fine di assicurare una maggiore efficienza nei servizi resi. Le IPAB che chiedono ed ottengono la trasformazione in soggetti di diritto privato, criterio ormai riguardante il pubblico impiego, al fine di assicurare una maggiore efficienza nei servizi resi. Le IPAB che chiedono ed ottengono la trasformazione in soggetti di diritto privato, secondo i principi fissati dalla Corte Costituzionale ed i conseguenti orientamenti legislativi, debbono comunque continuare a rispettare i "vincoli di destinazione" voluti dai fondatori. Sia i nuovi soggetti pubblici che quelli privati, risultanti dalle trasformazioni, debbono inserirsi nella rete dei servizi alla persona. Ovviamente ciò non avverrà in modo coattivo, occorrerà una concertazione simile, ma più rigida rispetto a quella della partecipazione dei soggetti del terzo settore, giacché qui si tratta di patrimoni con ben precisi vincoli di destinazione. Le IPAB che erano state costituite solo per gestire patrimoni, di cui erogare rendite ai beneficiari, debbono introdurre nei nuovi statuti regole di controllo di trasparenza, di efficienza ed efficacia dell'amministrazione. Occorre facilitare la fusione fra IPAB con analoghe finalità per una maggiore efficacia dei loro interventi. Occorre realizzare, ove possibile, la separazione della gestione dei servizi, da quella dei patrimoni, questo è un criterio utilizzato anche ad es. dalle Fondazioni bancarie. Infatti la gestione dei patrimoni è informata a criteri di redditività massima, quella dei servizi deve perseguire obiettivi di efficacia e qualità crescente. Comunque i patrimoni e la loro gestione debbono essere finalizzati alla realizzazione del sistema integrato di servizi alla persona. Qualora un 'IPAB risulti inoperante da almeno due anni o abbia esaurito le finalità per cui fu costituita, essa va sciolta. Il suo patrimonio va assegnato ad altra IPAB, prioritariamente operante sullo stesso territorio, che svolga attività assimilabili a quelle esaurite, onde evitare la dispersione di patrimoni ed il loro effettivo utilizzo nell'ambito della rete dei servizi locali. Il riferimento operato dall'art. 10, comma 2, lett. h ad "altra IPAB", va inteso in senso logico, cioè ad altra ex IPAB, trasformata in azienda di servizi o in associazione o Fondazione di diritto privato, giacché, essendo stata abrogata dall'art. 30 della legge di riforma la precedente normativa sulle IPAB, non possono né sussistere, né costituirsi ormai delle IPAB.
7.1. Il Decreto legislativo n. 207/01 sulle IPAB
in attuazione di tali principi il Governo Amato ha predisposto il testo del Decreto legislativo n. 207/01. Il decreto legislativo è stato preceduto ed accompagnato da ampia consultazione. Hanno espresso parere favorevole la apposita Commissione Parlamentare e la Conferenza unificata Stato-Regioni-Città, che però ha posto delle condizioni per una maggiore presenza delle regioni e degli Enti locali nelle vicende di questi nuovi enti. Anche l'UNEBA, che è un ente di coordinamento e tutela di numerosi organismi del privato sociale e delle IPAB, ha espresso parere favorevole, proponendo emendamenti circa una maggiore equiparazione fiscale dei nuovi enti alle ONLUS, già in parte introdotta dal Decreto legislativo. Nonché per una maggiore facilitazione nella privatizzazione. In tutta questa vicenda le regioni hanno poteri notevoli, procedendo esse alle trasformazioni e quindi provvedendo a facilitare la migliore efficacia della rete dei servizi integrati. Il Decreto legislativo n. 207/01 ha disciplinato in modo minuzioso la trasformazione delle IPAB in "aziende pubbliche di servizi alla persona" o in "associazioni o fondazioni di diritto privato", prevedendosi esenzioni fiscali per gli atti di trasformazione e l'estensione agli enti trasformati dei benefici concessi alle ONLUS. Gli articoli da 5 a 15 riguardano le aziende pubbliche di servizi. Entro due anni debbono essere avviate le procedure di trasformazione e debbono essere concluse entro due anni e mezzo. Sono soggette all'obbligo di trasformazione le IPAB che 2svolgono direttamente attività di erogazione di servizi assistenziali", ad eccezione di quelle escluse da tale obbligo ai sensi del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 16/02/90, poiché originariamente di natura privata o a finalità religiose o educative. Gli statuti originari debbono essere modificati dai consigli di amministrazione ed approvati dalle regioni. E' introdotta la distinzione fra responsabilità politiche dei vertici dell'azienda e responsabilità amministrativa degli amministratori, come il direttore, che rende questi ultimi sottratti a vincoli di dipendenza gerarchica dai primi. Si distingue fra beni del patrimonio indisponibile, perché direttamente impiegati nell'erogazione dei servizi assistenziali e beni del patrimonio disponibile, che possono essere alienati, ma con obbligo del reinvestimento delle somme ricavate per le finalità statutarie. Le relative delibere debbono essere invitate alla regione e se questa non effettua rilievi entro trenta giorni acquistano definitiva efficacia. Questa previsione, che potrebbe suscitare preoccupazioni per la possibile dispersione dei patrimoni, paventata da più parti, trova un correttivo nell'art. 20, secondo il quale la Regione non solo non possono nominare "commissari ad acta" in caso di ritardi ed inadempienze degli organi delle aziende di servizi, ma anche intervenire per atti contrari alla legge. Non si dimentichi che per il Codice civile gli atti contrari alla legge sono "nulli" e possono quindi essere dichiarati inefficaci senza limiti di tempo. Le aziende, una volta costituite possono anche creare fondazioni e società private strumentali al fine di svolgere le loro attività. Nella gestione del patrimonio sono espressamente richiamate le norme concernenti i patrimoni delle Aziende sanitarie locali ed ospedaliere. Ciò rinforza la convinzione che si sia voluta imitare con questa legge, per quanto possibile, la normativa relativa ai servizi sanitari. E' consentito infine alle IPAB che non gestiscono servizi assistenziali, ma rendite, di trasformarsi in aziende pubbliche. In mancanza possono trasformarsi in fondazioni di diritto privato, purché ciò non sia vietato dai fondatori. Gli artt. Da 16 a 19 regolano la trasformazione in soggetti di diritto privato, che deve essere deliberata entro due anni dalla data di entrata in vigore del Dlgs. N. 207/01; trascorsi sei mesi da tale termine, provvede il Prefetto. Le modificazioni statutarie debbono essere deliberate dai Consigli di amministrazione. Di tali consigli non potranno più far parte istituzionalmente enti pubblici. Possono esservi presenti solo se gli enti pubblici contribuiscano finanziariamente al patrimonio o al reddito del nuovo ente ed a condizione che non rappresentino la maggioranza rispetto ai consiglieri liberamente scelti dai privati. I nuovi enti privati debbono curare un elenco dei beni necessari allo svolgimento delle finalità statutarie, che debbono comunque essere rispettate e mantenute nei nuovi statuti. In caso di vendita di tali beni, occorre una maggioranza qualificata dei membri del consiglio di amministrazione. Contro il rischio che così potrebbe aversi una dispersione dei patrimoni, il decreto si limita a richiedere che la vendita non debba determinare riduzione del valore patrimoniale dell'ente privato trasformato. Ciò significa, alla luce dei principi di diritto civile, che, pur non potendosi entrare nel merito delle scelte operate dagli amministratori, in caso di danni arrecati alla consistenza patrimoniale dell'Ente, ci si potrà rivolgere all'autorità giudiziaria ordinaria per ottenere la dichiarazione di nullità del contratto di alienazione per contrarietà al divieto disposto dall'art. 17 comma 2 del decreto. Tutti gli atti che incidono sulla consistenza patrimoniale debbono essere trasmessi alla regione. Comunque la regione, in caso di atti contrari alla legge, ai regolamenti, allo statuto, deve trasmettere le delibere al pubblico ministero, ai sensi dell'art. 23 del Codice Civile, espressamente richiamato dall'art. 18 del decreto, perché venga promossa l'azione di nullità. Una tale azione, è da ritenere, possa essere esercitata anche dalle associazioni degli utenti ai sensi della L.n. 281/98 e da quelle di promozione sociale di cui alla L. 383/00, trattandosi di interessi diffusi che possono essere danneggiati dalla dispersione di beni delle ex IPAB. Gli articoli da 20 a 22 trattano non solo dei poteri regionali, ma anche rinviano agli statuti delle regioni a statuto speciale, per la regolamentazione della materia nei loro ambiti territoriali e consentono in via transitoria l'applicazione della legge Crispi, abrogata in materia di IPAB dalla L. n. 328/00, sino al termine fissato per le trasformazioni delle IPAB.
8. Le professioni sociali
L'art. 12 affronta il delicato tema delle professioni degli operatori sociali. E' stata da lungo tempo denunciata la diversa attenzione che il legislatore ha posto alle professioni sanitarie, attentamente disciplinate e a quelle sociali, per le quali mancano, tranne che per gli assistenti sociali, serie regolamentazioni normative. La legge di riforma assegna ad un decreto del presidente del consiglio, di concerto coi ministri per la solidarietà sociale, della sanità, della pubblica istruzione, del lavoro e della previdenza sociale, dell'università e della ricerca scientifica e tecnologia e per le pari opportunità, il compito di normare tutta la materia. Il riferimento al gran numero di ministeri coinvolti tiene conto delle diverse sfaccettature che tali professioni comportano; in particolare il concerto con il ministro della sanità è richiesto dalla logica dell'integrazione socio-sanitaria e quindi dalla necessità che i professionisti nel campo dei servizi sociali sappiano professionalmente correlarsi con quelli sanitari e siano in grado di operare compiutamente nell'ambito dei servizi integrati. Il decreto deve regolare sia i contenuti delle nuove professioni sociali, sia il profilo professionale dei nuovi operatori, nonché i criteri per la formazione di base, quella superiore e la formazione ricorrente in servizio. Inoltre nello stabilire i requisiti di accesso e la durata dei percorsi formativi, il decreto dovrà anche fissare i criteri per il riconoscimento dei crediti formativi maturati in altri ambiti e contesti culturali e lavorativi. Il riconoscimento dei crediti formativi è un principio che va sempre più generalizzandosi nell'area dei paesi dell'unione europea e necessitano di grande attenzione nell'individuare l'equivalenza tra un percorso formativo già svolto e quello che la nuova normativa richiede. Attenzione pure richiederà la formulazione dei criteri per il riconoscimento e l'equiparazione ai nuovi profili professionali di quelli già esistenti. Come per le strutture residenziali e semi-residenziali, anche per le nuove professioni, occorre evitare il rischio di una equiparazione generalizzata, magari in tempi piuttosto lunghi, che potrebbe tradursi in una semplice sanatoria che offrirebbe scarse sicurezze agli utenti sulla qualità di prestazioni erogate. Onde evitare una eccessiva diversificazione nell'individuazione delle figure professionali, la legge richiede che il decreto dovrà rispettare i criteri concordati dalla Conferenza permanente "Stato-Regioni". Inoltre, sempre per il rispetto del principio dell'integrazione dei servizi, il decreto concernente la formazione del personale socio-sanitario, deve essere adottato di concerto col ministro per la solidarietà sociale. La legge rinvia infine ad un decreto interministeriale delle solidarietà sociale e della funzione pubblica le modalità di accesso del personale sociale alla dirigenza. E' singolare però che la legge stabilisca che tutto il rinnovamento previsto dall'articolo debba avvenire senza oneri aggiuntivi a carico dell'erario statale. Ciò significa pertanto che queste specifiche riforme potranno avvenire solo sulla base delle risorse aggiuntive che le regioni vorranno mettere in campo, accresciute da quelle notevoli messe a disposizione dall'Unione europea. A tal fine rimangono timori per l'attuazione di questa parte della riforma specie nelle regioni del sud, laddove oltre alle scarse risorse finanziarie disponibili, non sempre si riesce ad accedere con successo ai fondi strutturali europei. Comunque sino ad oggi è stato adottato unicamente il profilo professionale degli assistenti sociali, ai quali è aperto pure l'accesso alla dirigenza purché muniti di laurea.
9. La carta dei servizi sociali
Il quadro della proposta riforma dei servizi sociali si completa con la previsione della emanazione dello "schema generale di riferimento" della carta dei servizi sociali da emanarsi dal Presidente del consiglio dei ministri entro centottanta giorni. Ciascun ente erogatore di servizi sociali ha un termine massimo di altri sei mesi per adottare la propria carta dei servizi sulla base dello schema generale. Pur nella varietà delle formulazioni rimessa all'autonomia dei soggetti erogatori, la legge fissa i contenuti minimali delle carte dei servizi. Esse debbono almeno contenere norme specifiche concernenti: - le modalità di accesso ai servizi sociali; - le modalità di funzionamento; - i criteri per valutarne la qualità e la soddisfazione da parte degli utenti e delle associazioni che li rappresentano; - le norme di tutela degli utenti. Si pensi ad esempio alla previsione della modulistica per le domande di accesso e gli sportelli informativi; al regolamento circa gli orari di funzionamento; agli indicatori strutturali, di processo e di esito relativi alla qualità delle prestazioni e dei servizi medesimi, ai reclami ed alle eventuali sanzioni in caso di inadempienze da parte degli enti erogatori o dei loro operatori. Trattasi di un complesso di norme che, contenute nelle singole carte dei servizi, costituiscono come la proposta di un contratto che si perfeziona con l'accettazione dell'utente e che quindi diviene vincolante per l'ente erogatore. Fermo comunque restando il diritto per l'utente insoddisfatto di rivolgersi al giudice ordinario per ottenere eventuali risarcimenti del danno, la carta dei servizi costituisce per un verso una specie di "biglietto da visita" dell'ente erogatore, per altro verso una forma di tutela rapida del consumatore che senza la necessità del patrocinio di avvocati, può ottenere in tempi rapidi l'eliminazione di prestazioni scorrette o inadeguate ed eventualmente forme forfetarie di piccoli risarcimenti pecuniari. L'assenza della carta dei servizi era da lungo tempo lamentata a proposito dei servizi sociali ed è merito della legge di riforma averne posto le fondamenta.
10. In sintesi
La nuova legge di riforma individua nei comuni gli enti di gestione dei servizi sociali, nelle province gli enti di programmazione territoriale, nelle regioni gli enti di programmazione politica e finanziaria. Agli enti locali sono affiancate le IPAB per l'erogazione di servizi; esse possono trasformarsi o in aziende di diritto pubblico, come enti strumentali dei comuni o in associazioni o fondazioni di diritto privato, quando risulti chiaro dall'atto costitutivo o dalle tavole di Fondazione che la volontà dei fondatori era indirizzata alla creazione di soggetti privati. Comunque rimane fermo in ogni caso il vincolo di destinazione voluto dai fondatori a favore di determinate fasce deboli di popolazione. Anche le IPAB debbono inserirsi organicamente nel sistema integrato di interventi e prestazioni sociali. Per garantire la qualità dei servizi sociali da chiunque erogati, la legge prevede la definizione dei profili professionali degli operatori sociali e la adozione di carte dei servizi sociali da parte di ciascun ente erogatore.
11. Possibili azioni del terzo settore
I soggetti del terzo settore dovrebbero aprire tavoli di negoziazione con le giunte e con i consigli regionali per l'individuazione dei contenuti e degli schemi organizzativi del sistema integrato dei servizi sociali. Essi dovrebbero chiedere alle province di essere consultati sulla ripartizione degli ambiti territoriali degli interventi, evitando il rischio di suddivisioni a tavolino per motivi burocratici che ignorino gli effettivi bisogni degli utenti. I soggetti del terzo settore che sono fortemente radicati sul territorio possono fornire indicazioni utili anche ai comuni singoli o associati per l'impostazione dei servizi di rete. Quanto alle competenze controverse tra province e comuni di cui si è già detto sarebbe opportuno che i soggetti del terzo settore prendano esempio dall'ANFAA (Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie) e dal CSA (Coordinamento Sanitari Assistenza) di Torino, che hanno già predisposto concrete proposte normative, su cui chiedere deliberazioni degli organi regionali. La documentazione è disponibile sulla rivista "Prospettive Assistenziali" o può essere richiesta alla sede dei due organismi di volontariato in via Artisti, 36. Quanto alla formulazione governativa dei profili degli operatori sociali, sarebbe importante che gli organismi del terzo settore formulino delle proposte ai ministeri competenti, basate sulla grande esperienza da essi maturata nella prassi quotidiana del loro lavoro. La stesura delle carte dei servizi sociali dovrebbe vedere in prima fila i soggetti del terzo settore nell'avanzare proposte concrete; ciò non solo a tutela degli irrinunciabili diritti di partecipazione del terzo settore alla progettazione ed alla realizzazione dei servizi, ma anche e soprattutto per individuare strumenti ed azioni concrete di tutela dei diritti degli utenti, dei quali soprattutto gli organismi di volontariato debbono essere i più sinceri alleati nel contestare l'eventuale scorretta gestione di servizi, anche quelli gestiti dai soggetti del terzo settore. Dal momento che la legge non risolve in tempi ed in modi rapidi il problema della associazione dei piccoli comuni, sarebbe opportuno che i soggetti del terzo settore operanti sul territorio si facciano tramite del dialogo tra i diversi piccoli comuni, affinché pervengano in tempi brevi all'individuazione di bacini territoriali ottimali per la realizzazione dei servizi in rete alla persona. PARTICOLARI INTERVENTI DI INTEGRAZIONE E SOSTEGNO SOCIALE ( artt. 14 - 17 )
1 Progetti individuali per persone con disabilità 2 Progetti individuali per persone anziane 3 Valorizzazione e sostegno delle responsabilità familiari 4 Titoli per l'acquisto dei servizi sociali 5 Brevi osservazioni conclusive 6 In sintesi 7 Possibili azioni del terzo settore
1.Progetti individuali per persone con disabilità
Il capo terzo della legge di riforma, rompendo lo schema organizzativo di impianto, introduce alcune tipologie di interventi e servizi, dalla cui lettura comunque si possono desumere dei principi generali, primo fra tutti quello degli interventi realizzati sulla base di appositi progetti per persone con disabilità. La prima tipologia di interventi riguarda le persone con disabilità. Si prevede che per garantire la loro piena integrazione sociale, debba essere predisposto per ciascuno un "progetto individuale", che contiene una analisi diagnostica delle difficoltà, non solo sanitarie, le potenzialità attivabili, non solo con interventi riabilitativi, ed il percorso di integrazione nel tessuto familiare, nel mondo scolastico, in quello formativo, lavorativo e sociale. La norma dell'art.14 chiaramente risente del lavoro culturale e della conseguente elaborazione normativa che a partire dai primi anni settanta ha avviato in Italia la destituzionalizzazione e l'integrazione sociale delle persone con disabiltà, facendo leva sull'integrazione nelle scuole comuni di ogni ordine e grado. Il riferimento al "progetto individuale" è chiaramente mutuato dagli articoli 12 e 13 della legge n.104/92, che fanno espresso riferimento al progetto globale di vita delle persone con disabilità. L'articolo 14 della legge di riforma amplia questo percorso personalizzato sia proiettandolo verso il futuro, sia attraverso strumenti operativi aggiuntivi quali ad esempio interventi economici mirati. La legge di riforma fa altresì tesoro della legge 162/99 che ha previsto per le persone con handicap "di particolare gravità" percorsi personalizzati al fine di garantire una loro maggiore autonomia sia nella vita in famiglia, sia in percorsi di vita autonoma da adulti, sia in piccoli gruppi da anziani, quando verrà meno o l'autonomia propria o il sostegno dei genitori, a causa della loro scomparsa. Il "progetto individuale", predisposto a livello istituzionale con la collaborazione di diversi soggetti pubblici e privati accreditati, secondo le competenze di ciascuno, è impostato e coordinato dal comune di appartenenza dell'interessato. Alla luce anche di quanto detto in materia di carta dei servizi, il"progetto individuale" può intendersi come un contratto stipulato tra comune e utente, il quale avrà nel primo la controparte in caso di disservizi. E' questo l'aspetto contrattualistico che si coglie in più punti della legge che deve essere valorizzato ed ulteriormente esplicitato, anche dalle associazioni degli utenti e dei consumatori. E' la formulazione chiara del "progetto individuale" con le indicazioni delle prestazioni e dei servizi di ciascun ente erogatore, che costituisce la garanzia vera per la esigibilità dei diritti sociali troppo ampollosamente enfatizzata nei primi articoli della legge di riforma. Ogni utente con disabilità che voglia avere la certezza di diritti esigibili deve contrattare col comune, per quanto possibile anche nei minimi dettagli, le modalità di realizzazione del progetto individuale. Solo in presenza di un progetto ben articolato sottoscritto dal comune, che si fa garante anche delle altre parti firmatarie, l'utente con disabilità può vantare dei diritti alle prestazioni previste e, in forma specifica di quanto promesso o il risarcimento dei danni. Per facilitare l'individuazione dei bisogni e delle condizioni della persona con disabilità che spira alla realizzazione del progetto individuale, la legge di riforma ha previsto il rilascio di una tessera magnetica che, nel rispetto delle norme sulla privacy ai sensi della L.n. 675/96, presenti tutti i dati informativi riguardanti il soggetto.
2. Progetti individuali per persone anziane
Più dettagliato è l'art. 15 con riguardo ad interventi progettuali per le persone anziane non autosufficienti. Innanzitutto è ribadito il principio della spettanza al fondo sanitario per gli interventi sociosanitari per le persone anziane non autosufficienti, con riguardo alle "patologie acute e croniche". Sul diritto delle persone anziane non autosufficienti alle cure sanitarie gratuiti anche in caso di cronicità, hanno sostenuto una lunga battaglia il coordinamento sanità e assistenza e la rivista "prospettive assistenziali" di Torino. La legge di riforma fa proprio il principio la cui completa attuazione dovrà essere però verificata caso per caso. Quanto all'attuazione dei progetti, la norma regola in modo particolareggiato la costituzione di appositi finanziamenti presso ciascuna regione. Infatti si prevede un decreto del ministro della solidarietà sociale di concerto col Ministro della sanità, sentita la conferenza Stato-Regioni, che provvede alla assegnazione di fondi sulla base dei seguenti criteri: - Quantità della popolazione; - Fasce di età; - Percentuali degli anziani sulla popolazione residente; - Percentuale tra questi ultimi di non autosufficienti; - Percentuale di anziani non autosufficienti con redditi più bassi. La ripartizione viene effettuata annualmente. In sede di prima applicazione essa va effettuata entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della stessa, che è il 28 novembre 2000. La norma prosegue precisando che i progetti per gli anziani sono finalizzati a realizzare servizi in rete fra soggetti pubblici e privati volti a mantenere le persone anziane in condizioni di vita autonoma e nel proprio contesto familiare. Precisa ulteriormente che, in prima applicazione, sarà data priorità a servizi di assistenza domiciliare integrata sociosanitaria. La norma si conclude con la previsione di una procedura di controllo sull'operato delle regioni in merito "all'impegno" delle somme assegnate dal Ministero. Il controllo sembra molto penetrante ed evidenzia una serie di poteri dello Stato che sembra ridurre di molto l'ambito dell'autonomia amministrativa regionale. Infatti le regioni entro il 30 giugno di ogni anno debbono comunicare come sono stati effettuati gli interventi. Qualora una regione non abbia "impegnato", cioè deliberato la destinazione delle somme ricevute per determinanti progetti, essa subisce l'azzeramento della somma assegnata che viene rassegnata alle altre regioni, sentita la conferenza Stato-Regioni. Questa soluzione è sembrata molto strana. Infatti si è obiettato che in tal modo le persone anziane di una regione così pulita, ricevono un doppio danno: uno perché la regione non ha utilizzato le somme ricevute; un secondo perché tali somme vengono definitivamente perdute a favore delle altre regioni. Una soluzione più favorevole agli anziani utenti sarebbe stata quella di prevedere un controllo sostitutivo dello Stato, cosa già prevista in via generale dal decreto legislativo n. 112/98 ed in particolare dall'art. 9 della legge di riforma. Si è invece preferita una soluzione che appare in vero irrazionale, poiché apparentemente punisce gli amministratori regionali inattivi, ma in sostanza incide negativamente, riducendone l'ammontare e la qualità sui servizi essenziali per le persone anziane. Queste, oltre ad avere il danno di amministratori inefficienti, subiscono anche la beffa di vedersi private di servizi che loro spettavano. Visto dal lato degli utenti, tale prescrizione normativa, lungi dal garantire diritti esigibili, sopprime quelli che erano loro stati attribuiti con la ripartizione dei fondi. Sembra assurdo che un diritto a dei servizi, assicurato con la copertura finanziaria e quindi esigibile, si vanifichi per un comportamento omissivo non già dei titolari, ma di chi avrebbe dovuto porre in essere le azioni amministrativo-contabili per realizzare tale diritto. Ci si augura che il nuovo Parlamento elimini questa assurdità.
3. Valorizzazione e sostegno delle responsabilità familiari.
L'articolo 16 è dedicato soprattutto dal ruolo svolto dalle famiglie nel perseguire la coesione sociale. Si afferma di voler sostenere i molteplici compiti svolti dalle famiglie sia nella vita quotidiana, sia nei momenti critici di disagio. Si aggiunge di voler sostenere la cooperazione ed il mutuo aiuto tra famiglie e il loro associazionismo. Si insiste sull'attenzione alle proposte ed ai progetti delle famiglie per l'offerta e la valutazione dei servizi. Si prevede pure un coinvolgimento delle famiglie nell'organizzazione dei servizi. Si prevede una direttiva per la formulazione del piano sociale nazionale e dei conseguenti piani regionali nel senso di favorire la solidarietà fra generazioni, le pari opportunità fra uomini e donne e l'autonomia di ciascun componente della famiglia. Trattasi, fin qui, di norme programmatiche che rinviano alle leggi regionali ed agli atti amministrativi successivi l'attuazione di questi principi. Nella logica della scelta operata per un "welfare universalistico selettivo", si forniscono però alcune indicazioni di priorità di interventi che rendono meno generica la formulazione fin qui descritta: a) L'erogazione di assegni aggiuntivi a quelli previsti dalle leggi n. 1204/71, sui congedi e permessi per maternità, n.285/97 sulle politiche a favore dell'infanzia e dell'adolescenza, n. 448/98, da realizzare attraverso l'integrazione di servizi sociosanitari e socio educativi. b) Attuazioni di politiche di conciliazione fra gli impegni di lavoro e quelli di cura a carico dei membri delle famiglie; tali politiche possono anche essere concordate con gli Enti locali. A tal proposito si ricorda che l'articolo 14 della legge n. 53/2000 stabilisce che gli orari dei servizi sono fissati dal sindaco secondo i bisogni degli utenti. Inoltre per una visione completa di questo delicato ambito è opportuno tener presente il Testo Unico dei congedi parentali, approvato con decreto legislativo n. 151/01. c) Facilitare servizi informativi e formativi alle genitorialità, anche attraverso forme di auto-aiuto. Quanto ai servizi informativi si può pensare ai servizi attuativi della legge n. 150/00, specie per l'apertura di sportelli informativi da parte degli Enti locali o delle ASL. Quanto al mutuo aiuto è certamente da considerare l'intervento del volontariato organizzato nelle forme di volontariato di famiglie. E' questo un campo piuttosto recente nel mondo del volontariato, di anticipato forse dall'associazionismo consentente le famiglie con persone disabili. Il problema del sostegno formativo a queste famiglie, specie nel momento dell'insorgenza della minorazione è stato in Italia molto trascurato dalle pubbliche autorità. Si deve all’autonomia progettuale del volontariato familiare se stanno cominciando a diffondersi servizi di sostegno psico educativo, assai preziosi. d) Interventi di sostegno all'assistenza domiciliare sia per i propri familiari che per soggetti esterni, che siano con disabilità, o con altri bisogni o anziani. Si pensi sia alle agevolazioni fiscali per le spese di collaboratori familiari, sia alla legge n. 149/01 sull'affido familiare di minori. e) Affiancare alle famiglie con responsabilità di cura a membri in difficoltà, servizi di sollievo. Si pensi ad esempio ai progetti previsti dalla legge n. 162/98 a favore di persone con handicap in situazione di particolare gravità e dall'art. 80 comma 1 della legge finanziaria n. 388/00 per finanziamenti a favore di gruppi di volontariato e soggetti del privato sociale che svolgono a favore di tali famiglie. f) Attivare servizi informativi e formativi a favore delle famiglie affidatarie. Trattasi dell'ulteriore esplicitazione di quanto contenuto alla lett. "d" . E' questa un ulteriore riprova della fretta con cui il testo è stato approvato alla camera e dell'impossibilità di emendamenti, anche di mero coordinamento testuale al Senato; ciò talora rende il testo poco chiaro, talora lo appesantisce per ridondanze e ripetizioni. Si prevede inoltre la concessione di "prestiti d'onore" a tasso zero e con tempi di restituzione concordati a favore di persone o famiglie, specie con un solo capofamiglia, di solito donne, o coppie giovani con figli di gestanti in difficoltà, di famiglie che hanno a carico persone con gravi situazioni economiche. Si stabilisce che una quota del fondo sociale nazionale debba essere riservata a coprire parzialmente le somme per interessi che vengono posti a carico dei comuni. E' in vero strano che una legge statale, in materia di totale discrezionalità amministrativa, dia indicazioni alle scelte politiche degli Enti locali, sia pur prevedendo una partecipazione finanziaria dello Stato. La norma sembra pertanto orientare con l'incentivo parziale dello Stato, delle linee di politiche di welfare locale. Si consente inoltre ai comuni di realizzare agevolazioni fiscali e tariffarie rivolte a famiglie con "specifiche responsabilità di cura". Anche questa norma ancor più della precedente, sembra invadere la sfera di autonomia politico-amministrativo dei comuni. I comuni sono inoltre autorizzati a ridurre "ulteriormente" l'aliquota ICI per la prima casa. Qui, forse, l'invasione di campo sembra giustificata dalla circostanza che, essendo l'ICI un'imposta introdotta e regolata da legge Statale, che prevede lo Stato come creditore dell'imposta, pur se il suo gettito va a favore dei Comuni, era necessaria una espressa norma autorizzatoria per derogare alle prescrizioni finanziarie. L'ultimo comma dell'art. 16 rinvia alla legge finanziaria per il 2001 l'adozione di misure agevolative "per le spese sostenute per la tutela e la cura dei componenti del nucleo familiare non autosufficienti o disabili". Tale legge finanziaria n. 388/2000, all'art. 80, commi 4 e 5 invero si limita ad attribuire una somma forfetaria di £ 200.000 mensili ( rivalutati )a favore dei nuclei familiari con reddito non superiore al livello minimo di sussistenza, calcolato in base all'ISE, senza far riferimento alla presenza di persone handicappate. Invece ad esse si fa riferimento nell'art. 80, comma 20, che prevede finanziamenti per il pagamento della pigione a favore di nuclei familiari che hanno a carico tali persone. Ma tutto ciò non ha nulla a che fare con la previsione programmatica dell'ultimo comma dell'art.16 della legge di riforma. Sembra pertanto che l'impegno politico preso con tale norma sia rimasto totalmente inadempiuto e la cosa è tanto più grave in quanto questo testo sostituisce quello della prima formulazione del disegno di legge-quadro, ben più puntuale e stringente, secondo il quale "le detrazioni fiscali stabilite ai sensi dell'art. 1, comma 1, lettera c, della legge 13 maggio 1999, n. 133, comprendono anche quelle relative alle spese per prestazioni a pagamento sostenute dai soggetti titolari della potestà per i minori di tre anni nonché alle spese sostenute per la tutela e la cura di componenti del nucleo familiare ultrasettantenne non autosufficienti o disabili". Se la sostituzione di tale testo programmatico è stato frutto di un compromesso politico, esso non è stato onorato ed è passato sulla testa dei diretti interessati, che a buon diritto ingrosseranno le file degli scontenti della legge in questione.
Infine è consentito ai Comuni procedere, su richiesta degli interessati, al rilascio di " titoli validi per l'acquisto di servizi sociali" erogati dai soggetti accreditati, in sostituzione di prestazioni economiche. E' questa una novità del nostro attuale sistema di welfare. Trattasi di quello che comunemente viene chiamato "bonus". In termini tecnico giuridici più che "titoli di credito" rappresentano dei "documenti di legittimazione nominativi". Nella situazione di scarse risorse sono interessanti, perché consentono la libera scelta degli utenti fra i soggetti accreditati, evitando per un verso l'obbligo di doversi avvalere solo delle prestazioni del soggetto pubblico o di quello unico con esso convenzionato e per altro verso superando il rischio che l'attribuzione diretta di una somma di denaro possa essere spesa per finalità diverse da quello per cui è stata erogata. Questa modalità se fosse stata generalizzata e in sostituzione di tutte le prestazioni economiche cui un utente può avere diritto avrebbe di molto risolto il problema delle scarse risorse finanziarie dei Comuni. Invece vengono escluse da queste modalità sia il reddito minimo di inserimento, di cui all'art.24 della legge di riforma, sia "il reddito minimo per la disabilità totale e parziale", che sostituisce pensioni e assegni di invalidità. Il legislatore specie sotto la pressione delle associazioni dei disabili, ha ritenuto di lasciare i titolari di emolumenti liberi di spenderli nel modo più opportuno, dato il carattere di immediatezza assistenziale degli stessi. Nessun divieto ha invece posto per "l'indennità per favorire la vita autonoma e la comunicazione….a soggetti e con gravi limitazioni per l'autonomia", di cui al punto 3) della stessa lettera "a" del comma 1 dell'art. 25. Questo capitolo della legge si chiude con la direttiva data alle regioni di normare le modalità per il rilascio di tali "titoli", purché inseriti in un percorso di integrazione o reintegrazione sociale. Questo espresso riferimento all'inserimento sociale impedisce di confondere questo strumento con una mera elargizione economica non finalizzata, sostitutiva di servizi.
5. Brevi osservazioni conclusive
La lettura di queste norme suscita qualche riflessione. La prima, cui si è già accennato, concerne la regolamentazione troppo penetrante delle modalità esecutive di competenza dei Comuni. In clima di accentuato decentramento amministrativo e di avvio del "federalismo fiscale" sembra eccessivo scendere in dettagli tanto minuti che senza sopprimerla, riducono però di molto l'autonomia amministrativa riconosciuta ai Comuni. La seconda concerne il significato tecnico-giuridico da attribuire al termine "famiglie", cui questi articoli fanno continuo riferimento. Ci si è infatti chiesto se tale termine debba essere limitato esclusivamente alla "famiglia fondata sul matrimonio", di cui all'art. 29 della Costituzione o possa essere inteso in senso estensivo anche alle cosiddette "famiglie di fatto", cioè convivenze stabili di persone di sesso diverso, spesso con figli. Mentre è da escludere, per carenza assoluta di una normativa in materia, l'applicazione della normativa a coppie omosessuali, non sembra potersi escludere la sussunzione sotto tale normativa delle "famiglie di fatto". Infatti la legge n. 149/01 contempla espressamente tali famiglie a proposito della loro idoneità a divenire affidatarie di minori. Inoltre statisticamente sono assai numerose famiglie simili che versano spesso in gravi situazioni economiche. Sembrerebbe troppo riduttivo in una riforma generale dei servizi sociali, che si sforza di dare risposte ai problemi sollevati da una società in rapida trasformazione, limitare gli interventi di sostegno solo alla famiglia legittima. Si obietta che ciò potrebbe favorire il diffondersi delle famiglie di fatto ma è ragionevole ritenere che non siano gli scarsi interventi economici a sollecitare la costituzione di convivenze stabili che trovano altrove le loro ragioni.
6.In sintesi
Questa parte della legge di riforma pone l'accento su alcuni interventi specifici quali: - progetti personalizzati per l'integrazione sociale, lungo l'arco della vita, delle persone con disabilità; - progetti personalizzati per garantire la domiciliarità a persone anziane non autosufficienti, - interventi a sostegno del nucleo familiare, - titoli sostitutivi di prestazioni economico in un percorso di socializzazione di persone in difficoltà.
7. Possibili azioni del terzo settore
Con riguardo ai progetti per persone con disabilità, il terzo settore dovrebbe intensificare la sua progettualità sulla fase di vita riguardante il cosiddetto "dopo di noi", cioè il loro mantenimento al domicilio o in piccole strutture residenziali dopo la morte dei genitori. E' questa la parte della vita meno coperta a livello normativo e finanziario, le cui carenze favoriscono il rientro nel circuito dell'istituzionalizzazione di quanti erano riusciti ad evaderne o ad evitarlo. L'esperienze delle piccole case famiglie gestite da cooperative sociali, in rete con gli Enti locali ed organizzazioni di volontariato, vengono sempre affiancate da piccole famiglie gestite da "Fondazioni di comunità", cui partecipa la società di una certa zona attraverso interventi di singoli, ma soprattutto di altri organismi del terzo settore. Quanto ai percorsi di domiciliarità degli anziani non autosufficienti, questi sono pericolosamente posti a rischio dalla previsione dell'art. 15, che prevede la sottrazione di fondi a quelle regioni ignave, che non provvedono al loro impiego entro i termini assegnati. Su questo il terzo settore a livello nazionale deve assolutamente battersi affinché il nuovo Parlamento corregga questa assurdità a livello locale deve vigilare sulle regioni, sollecitandole, in caso di pericolosi ritardi. Quanto agli interventi di sostegno a favore dei nuclei familiari, il Terzo Settore deve farsi parte diligente nell'impostazione di progetti in rete a sostegno delle famiglie in difficoltà, siano esse legittime o di fatto, e specie di quelle mono-parentali, onde evitare sia il ricorso all'aborto, sia all'inserimento dei neonati nel circuito dell'istituzionalizzazione. E' questo uno dei compiti di maggiore delicatezza, cui sono chiamati tutti i soggetti del terzo settore ma, soprattutto il volontariato organizzato e quello di tipo familiare, per l'inventività, la duttilità e la personalizzazione dei singoli casi implicano. Quanto infine ai titoli per l'accesso ai servizi sociali è importante che il Terzo Settore vigili sul rispetto della legge di riforma, che vuole il loro inserimento in progetti di socializzazione, senza di che si tornerebbe alla vecchia logica degli ECA, enti comunali di assistenza. Qualora ciononostante singole regioni o Enti locali non rispettino la legge di riforma, i soggetti del Terzo Settore dovrebbero intervenire, pretendendo, eventualmente anche con ricorsi giurisdizionali, la legittima applicazione della legge. GLI STRUMENTI PER IL FUNZIONAMENTO DEL SISTEMA INTEGRATO DELLE PRESTAZIONI E DEI SERVIZI (artt. 18 – 22)
1. Premessa
E’ questa la parte più innovativa della legge, poiché predispone per gli amministratori gli strumenti giuridici e finanziari per l’attuazione della riforma, secondo i principi della copertura finanziaria, della programmazione coordinata della sussidiarietà. Il sistema poggia sulla formulazione di un piano sociale nazionale, finanziato da un fondo sociale nazionale di nuova istituzione. Sulla base delle indicazioni contenute nel fondo sociale nazionale ogni regione approva un suo piano sociale regionale sostenuto da un fondo sociale regionale risultante sia dai trasferimenti statali, che da risorse proprie della regione.
2. Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali: procedura di approvazione
Il governo approva ogni tre anni il piano sociale nazionale recante la strutturazione della rete degli interventi e dei servizi. Il carattere triennale è da collegarsi alla analoga scansione temporale del bilancio triennale statale collegato ed aggiornato annualmente con la approvazione della legge finanziaria e di bilancio. La procedura, prevista dall’articolo 18 della legge di riforma, prende le mosse dalla proposta del ministro per la solidarietà sociale, passa per i pareri di vari ministeri, è oggetto dell’intesa con la conferenza unificata stato-regioni, è sottoposta ai pareri degli enti ed associazione di promozione sociale previste dalla legge n. 476/87 ed ora anche dalla legge n. 383/2000. Non tutte le associazioni nazionali però sono chiamate ad esprimere un parere, ma solo quelle “maggiormente rappresentative”. Fra queste associazioni un ruolo importante ricoprono quelle di persone disabili o loro familiari. Fra queste si segnalano le cosiddette “associazioni storiche”, quali l’Associazione nazionale mutilati ed invalidi civili (ANMIC), l’Associazione nazionale mutilati ed invalidi del lavoro (ANMIL), l’Unione nazionale mutilati ed invalidi per servizio (UNMIS), l’Ente sordomuti (ENS) e l’Unione italiana ciechi (UIC), che, prima del D.P.R. 616/77, svolgevano funzioni pubbliche di tutela e rappresentanza di tutte le rispettive categorie e che oggi, in forza dei rispettivi statuti, svolgono compiti di tutela e rappresentanza solo nei confronti dei propri iscritti. Il fatto che il legislatore si riferisca solo a quelle “maggiormente rappresentative” non può intendersi, nel campo dell’handicap, con riferimento esclusivo alle associazioni “storiche”. In forza dei principi del pluralismo associativo e della maggiore rappresentatività dovranno essere sentite anche organizzazioni molto rappresentative quali ad esempio la F.I.S.H., Federazione italiana per il superamento dell’handicap, che raggruppa moltissime associazioni nazionali e federazioni regionali di associazioni “non storiche”. A tali pareri si aggiungono anche quelli delle “associazioni di rilievo nazionale che operano nel settore dei servizi sociali”; questa formulazione molto ampia riguarda l’ampio mondo del volontariato, ma anche quello delle associazioni professionali degli operatori sociali. La formulazione letterale non sembra potersi riferire anche al mondo delle cooperative e soprattutto a quello delle cooperative sociali; ma la loro esclusione da questa consultazione sembra irragionevole e quindi al termine “associazioni” si potrebbe dare un’interpretazione logica ed estensiva. Il successivo riferimento però ai pareri delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale lascia propendere invece per l’inclusione dei consorzi nazionali di cooperative e cooperative sociali in questo ambito, che contiene ovviamente non solo i sindacati dei lavoratori, ma anche dei datori di lavoro operanti nel campo dei servizi sociali. A ciò induce ulteriormente la lettura della recente legge n. 142/2001 sui soci lavoratori di cooperative. Infine la teoria dei pareri si conclude con quelli delle associazioni di tutela degli utenti di cui alla legge n. 281/98, il cui avviso è assai più importante essendo essi i destinatari delle prestazioni e dei servizi. Ovviamente tutti questi pareri sono obbligatori da acquisire ma non sono vincolanti. La lunga procedura prosegue con la sottoposizione dello schema di piano nazionale così eventualmente riformulato al parere delle “competenti commissioni parlamentari”, che deve essere espresso entro trenta giorni. Questo termine sembra non essere rigido o, come si usa dire in gergo tecnico, “perentorio”, poiché non è qui ripetuta la formula secondo la quale, trascorso inutilmente tale termine, il governo adotta comunque le proprie decisioni. La lunga procedura si conclude quindi con la deliberazione del consiglio dei ministri che adotta definitivamente il piano.
3. Contenuti del piano nazionale
Il piano sociale nazionale deve contenere alcuni elementi essenziali: a. “le caratteristiche ed i requisiti delle prestazioni sociali comprese nei livelli essenziali previsti dall’art. 22” della stessa legge di riforma; b. le priorità degli interventi a favore di persone in stato di povertà o di difficoltà psico-fisica, tramite la formulazione di progetti obiettivo; c. le modalità di realizzazione dei servizi sociali integrati con quelli sanitari e con gli altri operanti nel territorio; d. gli indirizzi per assicurare le necessarie informazioni ai cittadini; e. gli indirizzi per le sperimentazioni innovative e per la concertazione pluralistica dei soggetti che intervengono; f. due ordini di indicatori per la valutazione dei risultati ottenuti: - indicatori di efficacia per calcolare la qualità dei servizi realizzati rispetto a quelli previsti; - indicatori di efficienza per calcolare il rapporto costi-benefici dei singoli servizi; g. i criteri generali per la partecipazione economica degli utenti al costo dei servizi; su questo punto si tornerà subito; h. gli indirizzi ed i criteri generali per l’emissione di titoli di cui all’articolo 17, della legge di riforma, e dei prestiti sull’onore di cui all’articolo 16, della stessa legge; i. gli indirizzi per gli interventi progettuali a favore delle persone anziane non autosufficienti; j. gli indirizzi relativi alla formazione di base che deve essere posseduta dagli operatori sociali; k. i finanziamenti corrispondenti ai livelli essenziali delle prestazioni sociali. Dato il continuo riferimento nel testo ai “livelli essenziali” delle prestazioni erogabili è opportuno, prima di proseguire soffermarsi su questo nodo fondamentale della riforma, anticipando qui la trattazione dell’articolo 22, della stessa legge.
4. Livelli essenziali delle prestazioni
Dal momento che ogni regione adotterà un piano sociale regionale, il legislatore ha voluto prevedere un elenco di prestazioni “essenziali” che assolutamente debbono essere garantite su tutto il territorio nazionale. La legge usa ampollosamente il termine “livelli essenziali delle prestazioni”. E’ chiaro che i livelli essenziali debbono essere garantiti dalla individuazione di livelli qualitativi minimi realizzati con fondi finanziari certi e sufficienti. Ciò è ad esempio realizzato per i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie, che sono state assicurate sino al 2001 da un Fondo sanitario nazionale flessibile secondo le necessità programmatiche. Dal 2001 in poi, in forza dell’articolo 83 della legge finanziaria n. 388/2000 il fondo sanitario regionale, finanziato dal bilancio statale, viene abolito; esso verrà finanziato con quota dei tributi erariali assegnati alle regioni, le quali sono però tenute a garantire le stessa quantità di prestazioni precedentemente erogate. Ciascuna regione però, con proprie risorse aggiuntive potrà elevare i livelli minimi delle prestazioni ritenuti essenziali. Diversa è la situazione per il Fondo sociale nazionale che gode di una disponibilità molto più limitata e quindi per la realizzazione dei livelli essenziali delle prestazioni ogni regione dovrà provvedere con proprie risorse aggiuntive. Pertanto l’elencazione contenuta nell’articolo 22, malgrado i termini usati, non riguarda livelli essenziali di prestazioni, ma prestazioni e servizi che necessariamente debbono essere attivati in ogni regione: a. misure di sostegno per l’infanzia, l’adolescenza e le responsabilità familiari, tramite servizi, misure economiche e compatibilità dei tempi di lavoro con quelli di cura familiare; b. sostegno a minori e adulti parzialmente o totalmente non autosufficienti, privi di famiglia o con difficoltà familiari, tramite affidi ed accoglienza a persone o a famiglie ed inserimenti in “strutture comunitarie di accoglienza”. Per i minori, ai sensi della legge n. 149/2001 le strutture di accoglienza debbono essere di tipo familiare. Per gli adulti la formulazione del test rimane troppo generica e presta il fianco a timori per il rischio di forme di neo-istituzionalizzazione; c. misure di contrasto alla povertà di cittadini impossibilitati a produrre reddito; si pensi ad esempio al “reddito minimo di inserimento”, in fase di sperimentazione in alcuni comuni; d. misure economiche per garantire a persone non autosufficienti una vita per quanto possibile autonoma o la permanenza nel proprio domicilio; si pensi ad esempio alle indennità di “accompagnamento” per le persone con gravi disabilità; e. servizi di aiuto alla persona per garantire la permanenza a domicilio di “persone anziane, disabili e con disagio psico-sociale”, anche con servizi innovativi. Il termine disagio psico-sociale non ha precedenti nella legislazione vigente e probabilmente può essere interpretato con riguardo a persone che pur non essendo accertate clinicamente come minorate, versano in gravi difficoltà socio-relazionali. Trattasi comunque di un’ampia fascia di popolazione che sarà bene venga meglio delimitata; f. accoglienza in strutture residenziali e semi-residenziali per persone anziane e disabili non assistibili a domicilio; anche qui per le strutture non è espressamente previsto che siano piccole e permangono pertanto le perplessità precedentemente espresse. Inoltre la frase “non assistibili a domicilio” è equivoca, poiché il più delle volte è la mancanza di servizi territoriali in rete che non consente alla famiglia di assistere a domicilio una persona non autosufficiente; g. informazione e consulenza alle persone per favorire la fruizione dei servizi territoriali. Si pensi a sportelli informativi consultabili anche via internet, gestiti talora da comuni o altri enti locali e più spesso, specie al sud, da organizzazioni di volontariato. Trattasi di un servizio essenziale perché condiziona l’accessibilità dei servizi territoriali da parte degli utenti, e deve quindi essere necessariamente istituito; h. interventi di prevenzione e recupero dalle dipendenze da droghe, alcol e farmaci; i. interventi socio-sanitari per assicurare l’integrazione sociale delle persone con disabilità. Di tutti i servizi indicati l’articolo 22, della legge di riforma, si preoccupa che in ogni ambito sociale in cui è suddiviso il territorio della regione siano previsti dalle leggi regionali almeno i seguenti interventi, che pertanto potremmo definire “irrinunciabili”: a. segretariato sociale di informazione e consulenza; b. interventi di emergenza per pronto soccorso sociale; c. “assistenza domiciliare”; d. “strutture residenziali e semiresidenziali per soggetti con fragilità sociali”; e. “centri di accoglienza residenziali o diurni a carattere comunitario”.
4.1. Il segretariato sociale
Data la novità di questa struttura organizzativa, sarà opportuno dedicarvi qualche riga. Questo ufficio di nuova istituzione serve sia a fornire informazioni agli utenti, che ad “accompagnarli” nel loro percorso di fruizione dei servizi sociali. Per i servizi sociali a rilevanza sanitaria è però da tener presente che occorrerebbe realizzare un “interfaccia” tra il segretariato sociale e quello sanitario, già esistente ai sensi del decreto legislativo n. 229/99, che si occupa delle prestazioni sanitarie a rilevanza sociale e di quelle sanitarie ad alta integrazione socio-sanitaria. Dal momento che nel mondo sanitario esiste già un’unica soglia di accesso agli stessi, la nuova legge di riforma ha previsto la stessa cosa anche per i servizi sociali con la costituzione del segretariato sociale. A questo punto, dato il principio dell’integrazione socio-sanitaria, posto a base della legge di riforma, sembrerebbe opportuno un collegamento organico tra il segretariato sanitario, che abbraccia l’utenza di un distretto sanitario di base, ed il segretariato sociale, che riguarda un adeguato bacino di utenza, che si auspica possa coincidere col distretto sanitario di base. Entrando in quest’ordine di idee, sarebbe opportuna la realizzazione in ogni ambito territoriale adeguato di un unico “segretariato”, comprendente i due uffici. In tal senso è chiaramente orientato il primo piano sociale nazionale 2001 – 2003 di cui qui di seguito. E’ piuttosto da precisare che il segretariato sociale è ben diverso dall’ufficio di relazioni per il pubblico, resi obbligatori ed aggiornati dalla L. n. 150/2000. Infatti questi uffici si limitano a svolgere un ruolo informativo degli utenti, anche via internet, tramite appositi portali, mentre il segretariato sociale ha un compito ben più delicato che è quello di prestare consulenza circa la messa a fuoco dei bisogni degli utenti, circa l’avvio di un progetto personalizzato di fruizione dei servizi, circa le verifiche intermedie e finali degli stessi.
5. Il primo piano sociale nazionale 2001 – 2003
Pur prevedendo l’articolo 18, comma 4, un termine di dodici mesi per l’adozione del primo piano sociale nazionale, il Governo nello scorcio di fine legislatura ha ritenuto suo dovere adottarlo in un tempo dimezzato rispetto a quello massimo consentito. E’ stato chiaramente un atto di responsabilità politica che però risente della fretta di elaborazione e del mancato necessario approfondimento nella formulazione degli effettivi livelli essenziali degli interventi e dei servizi sociali rispetto alla elencazione delle prestazioni essenziali indicate nell’articolo 22, della legge di riforma. Il documento approvato preliminarmente dal Governo il 16 febbraio 2001, ha un ampio respiro socio-politico, ma rimane piuttosto superficiale per gli aspetti giuridici. Per dare un’idea del suo contenuto si riporta di seguito l’indice:
Parte I – Le radici delle nuove politiche sociali Parte II – Obiettivi di priorità sociale 1. Valorizzare e sostenere le responsabilità familiari 1.1 Promuovere e sostenere la libera assunzione di responsabilità 1.2 Sostenere e valorizzare le capacità genitoriali 1.3 Sostenere le pari opportunità e la condivisione delle responsabilità tra uomini e donne 1.4 Promuovere una visione positiva della persona anziana 2. Rafforzare i diritti dei minori 2.1 Consolidare e qualificare le riposte per l’infanzia e l’adolescenza 3. Potenziare gli interventi a contrasto della povertà 4. Sostenere con servizi domiciliari le persone non autosufficienti (in particolare le disabilità gravi) 5. Altri obiettivi di particolare rilevanza sociale Parte III – Lo sviluppo del sistema integrato di interventi e servizi sociali 1. Il livello essenziale delle prestazioni 2. La programmazione partecipata 3. Il finanziamento delle politiche sociali 3.1 Schema generale del processo di allocazione delle risorse 3.2 Metodologia e criteri di riparto 3.3 Sostegno e revoca in caso di mancato utilizzo dei finanziamenti 4. la qualità del sistema integrato 4.1 Requisiti minimi, autorizzazione e accreditamento 4.2 Professioni e risorse umane 5. Rapporti tra enti locali e terzo settore 6. La carta dei servizi sociali 7. Il sistema informativo dei servizi sociali
Il documento fornisce dati informativi molto significativi circa i bisogni delle fasce deboli di popolazione. Ad esempio le famiglie aventi nel proprio nucleo una persona disabile sono 2 milioni 396 mila, pari all’11,2% del totale; quelle con almeno un disabile grave sono 1 milione 403 mila, pari al 6,6 %; quelle con più di un disabile nel proprio nucleo sono 246 mila. In presenza di tali dati significativi però, se si va a cercare nell’obiettivo 4 della parte seconda del piano quali siano i livelli essenziali delle prestazioni e dei servizi, si rinviene solo un elenco di obiettivi da realizzare quali ad esempio permanenza delle persone handicappate nel proprio nucleo familiare o l’accoglienza in piccole comunità di tipo familiare; non si precisa ad esempio quale debba essere, come livello minimo irrinunciabile, il numero di operatori per l’assistenza domiciliare in proporzione ad un certo numero di utenti, la loro professionalità minima, il numero di piccole comunità residenziali per un tot numero di abitanti, ecc. Si riproduce cioè nel piano l’elenco dei servizi e delle prestazioni essenziali, ma non il loro livello di qualità che invece la legge affida espressamente al Piano sanitario nazionale (art. 18, comma 3, lett. a ed art. 20, comma 4). Il ministro per gli affari sociali è tenuto a presentare annualmente una relazione sullo stato d’attuazione del piano nell’anno precedente.
6. Fondo nazionale per le politiche sociali
L’art. 20 della legge di riforma prevede a sostegno del Piano sociale nazionale l’istituzione di un fondo sociale nazionale per il quale è indicata la copertura dei finanziamenti per il triennio 2000-2003. Il quarto comma dell’articolo 20 testualmente stabilisce che “la definizione dei livelli essenziali di cui all’articolo 22 è effettuata contestualmente a quella delle risorse da assegnare al Fondo nazionale per le politiche sociali tenuto conto delle risorse ordinarie destinate alla spesa sociale dalle regioni e dagli enti locali, nel rispetto delle compatibilità finanziarie definite per l’intero sistema di finanza pubblica dal Documento di programmazione economico-finanziaria”. Le somme che confluiscono nel Fondo sociale nazionale sono indicate nell’art. 4, comma5, della legge n. 328/2000 come segue: “Ai sensi dell’articolo 129 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, competono allo Stato la definizione e la ripartizione del Fondo nazionale per le politiche sociali, la spesa per pensioni, assegni e indennità considerati a carico del comparto assistenziale quali le indennità spettanti agli invelidi civili, l’assegno sociale di cui all’articolo 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335, il reddito minimo di inserimento di cui all’articolo 59, comma 47, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, nonché eventuali progetti di settore individuati ai sensi del Piano nazionale di cui all’articolo 18 della presente legge” ( [1] Per un’analisi più dettagliata di tali risorse occorre però fare riferimento all’art. 59,comma 44, della legge n. 449/97 espressamente richiamato dall’art. 133 del decreto legislativo n. 112/98. Gli stanziamenti del Fondo, con le rispettive fonti legislative sono indicati nel successivo comma 46 dell’articolo 59 della legge n. 449/97, come segue: “A decorrere dall’anno 1998 gli stanziamenti previsti per gli interventi disciplinati dalle leggi 19 novembre 1987, n. 476, 19 luglio 1992, n. 216, 11 agosto 1991, n. 266, 5 febbraio 1992, n. 104, 28 agosto 1997, n. 284, 28 agosto 1997, n. 285, e dal testo unico approvato con decreto dal Presidente della repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, sono destinati al Fondo di cui al comma 44.” A tali voci ne vanno aggiunte altre due indicate dal comma 3, dell’articolo 133 del decreto legislativo n. 112/98, che sono “gli stanziamenti previsti per gli interventi disciplinati dalla legge 23 dicembre 1997, n. 451 e quelli del Fondo nazionale per le politiche migratorie di cui all’articolo 43 della legge 6 marzo 1998. N. 40”. Coerentemente con quanto sopra, l’articolo 30, comma 1, della legge di riforma abroga il comma 45 dell’art. 59 della L. n. 449/97, concernente l’elencazione delle finalità del Fondo sociale nazionale, in quanto esse sono ormai riformulate in via definitiva nell’articolo 20 della stessa legge. A queste voci va aggiunta anche quella relativa al “Fondo nazionale per il servizio civile”, di cui all’art. 11 della legge n. 64/2001).
7. Regolamento esecutivo
La ripartizione del fondo nazionale ai fondi regionali viene effettuata, con apposito regolamento, sulla base dei seguenti criteri: a. razionalizzare l’allocazione delle risorse, evitando sprechi e sovrapposizioni; b. prevedere, nei singoli fondi regionali, una quota di risorse per incentivare la programmazione e l’erogazione di servizi dei piccoli comuni associati; c. garantire che i progetti siano frutto di cofinanziamento tra finanza erariale e regionale e degli enti locali, nonché di soggetti del privato sociale disposti a porre a disposizione proprie risorse; d. prevedere forme di controllo e di verifica dei risultati , nonché procedure di revoca dei finanziamenti in caso di ritardi o inadempienze da parte delle regioni; e. individuare con un regolamento le norme che si ritengono abrogate in attuazione della legge n. 328/2000.
8. Piano sociale regionale
La legge di riforma si limita a stabilire che le regioni, sulla base delle indicazioni contenute nel piano nazionale, sono tenute ad adottare il proprio piano sociale regionale entro centoventi giorni dall’adozione di quello nazionale. Aggiunge inoltre che il piano va redatto “nell’ambito delle risorse disponibili”; indicazione pleonastica e che comunque, in mancanza di chiare indicazioni sui livelli qualitativi e quantitativi minimi delle prestazioni essenziali, non offre alcuna certezza circa l’esigibilità dei diritti a tali prestazioni. Nel trasferimento di fondi dal piano nazionale a quelli regionali deve essere mantenuto come unico vincolo di destinazione quello delle erogazioni delle ex pensioni indennità ed assegni economici alle persone con disabilità, ridefiniti dall’art. 24 della legge di riforma come “reddito minimo per la disabilità totale e parziale e indennità per favorire la vita autonoma e la comunicazione” anche a favore di persone anziane non autosufficienti. Queste sono infatti le uniche prestazioni, come detto, che hanno inequivocabilmente le connotazioni di diritti soggettivi pieni ed esigibili. Quanto a tutti gli altri vincoli di destinazione derivanti dall’appartenenza delle somme a specifici fondi confluiti nel Fondo sociale nazionale, questi sono stati praticamente soppressi con un ordine del giorno votato dal Senato all’unanimità in sede di approvazione definitiva della legge-quadro n.328/2000. Con ciò le regioni acquistano una piena disponibilità del fondo sociale regionale in modo d’avere maggiore libertà nella programmazione dei servizi in rete. Si è trattato di un accordo compromissorio fra la maggioranza che voleva assolutamente approvare la legge di riforma e l’opposizione che vi era contraria soprattutto per i notevoli vincoli imposti alle scelte discrezionali delle regioni. Resta però fermo in capo alla Stato un potere di controllo sostitutivo. Infatti il comma 11 dell’art. 20 della legge 328/2000, prevede che in caso di mancato “impegno contabile” delle somme assegnate nei termini prefissati, il ministro per la solidarietà sociale, di intesa con la conferenza Stato-regioni, provvede alla riassegnazione dei fondi di quell’anno alle altre regioni, fermo restando l’obbligo di garantire nel triennio l’ammontare globale delle somme previste.
9. I piani di zona
L’articolo 19 introduce quale strumento innovativo di programmazione delle politiche sociali locali il “piano di zona”. Titolari della sua redazione sono il comune singolo, se grosso, o i comuni associati in un ambito territoriale adeguato fissato con legge regionale; nella definizione dei suoi contenuti i comuni collaborano con le unità sanitarie locali e con gli altri soggetti pubblici e privati del territorio. Il piano contiene: a. gli obiettivi e gli strumenti per realizzarli; b. le modalità organizzative dei servizi, le risorse finanziarie, strutturali e professionali e i requisiti di qualità; c. i dati informativi relativi a bisogni e risorse; d. le modalità per garantire l’integrazione tra servizi e prestazioni; e. le modalità di collegamento in rete tra servizi degli enti locali e quelli degli organi periferici delle amministrazioni centrali; f. le modalità di collaborazione fra enti locali e soggetti del terzo settore; g. le forme di concertazione con le ASL; h. le forme di concertazione con i soggetti del terzo settore. Come si può notare i soggetti del terzo settore vengono previsti due volte, sia nell’ambito della “concertazione”, che in quello della collaborazione; trattasi di due aspetti distinti ed assai delicati. Infatti l’articolo 19, comma 2, prevede che il piano di zona è “di norma” adottato con accordo di programma ai sensi dell’articolo 27 della legge n.142/90. Ora gli accordi di programma, nella fase concertativa, possono essere stipulati solo da enti pubblici; ciò escluderebbe dalla fase concertativa i soggetti del terzo settore che però il comma 3 dello stesso articolo espressamente prevede a tal fine. Se si vuole dare un’interpretazione logica al comma 3 e ee non si vuole attribuire alla fase concertativa solo il significato della concertazione politica che si ferma alle soglie di quella giuridica, occorre che i soggetti del terzo settore vengano rimessi in circuito anche in questa fase e ciò può avvenire solo con uno strumento tecnico-giuridico che è l’accordo di programma quadro previsto dall’art. 2, comma 203, della legge n. 662/96, espressamente richiamato, proprio per la metodologia della programmazione, dall’articolo 3, comma 3, della legge di riforma. In tal modo i soggetti del terzo settore acquistano pari dignità giuridica nella approvazione del piano di zona, in attuazione del principio ispiratore della “sussidiarietà orizzontale”, ferma restando la maggiore responsabilità ed autorità politica del comune o dei comuni proponenti il piano. Quanto alle modalità collaborative nella fase attuativa del piano, queste sono rimesse ai normali strumenti delle “intese” e delle convenzioni bilaterali o plurilaterali da stipularsi con il comune e/o altri soggetti pubblici e privati coinvolti . Il piano pertanto deve realizzare un coordinamento di servizi locali complementari e flessibili; deve altresì responsabilizzare i cittadini nella programmazione e nella verifica della qualità degli stessi; il piano deve inoltre far confluire per la realizzazione dei suoi obiettivi le risorse umane e finanziarie messe a disposizione sul territorio da soggetti pubblici e privati. Il piano inoltre deve contenere la ripartizione delle spese ed il loro ammontare specifico fra i diversi soggetti pubblici e privati firmatari; nell’ambito di tale previsione possono essere stabiliti specifici vincoli di destinazione voluti dalle parti. Infine il piano deve prevedere iniziative di formazione per gli operatori in esso coinvolti. Come si può osservare trattasi di uno strumento di programmazione delineato in modo non generico, ma con obiettivi, contenuti e mezzi organizzativi puntuali. Nel piano pertanto dovrà essere previsto il ruolo importante del segretariato sociale e, ancor meglio, del “segretariato” per l’accesso unitario ai servizi socio-sanitari del territorio. Esso costituisce una garanzia di buona amministrazione locale, ma anche di “welfare-comunity”, che è il modo nuovo col quale la società si sta organizzando per rispondere ai bisogni non solo delle fasce deboli di popolazioni, ma anche di una migliore qualità della vita di tutti i suoi membri. Il piano di zona infine, se stipulato con le puntuali precisazioni degli obblighi di ciascuna parte dei loro precisi contenuti in termini finanziari e di prestazioni umane, costituisce anche una garanzia di esigibilità dei diritti ivi indicati e che, come detto, la legge di riforma da sola non è in grado di assicurare.
10. Sistema informativo dei servizi sociali
Per impostare seriamente il piano sociale nazionale, quelli regionali e quelli di zona è indispensabile un sistema informativo in rete su tutto il territorio nazionale per la conoscenza dei vari tipi di bisogni presenti, delle possibili risposte fornite dai servizi operanti, delle carenze riscontrate a livello quantitativo e qualitativo in alcune zone. L’articolo 21 della legge di riforma prevede l’istituzione del sistema informativo nazionale. Ad esso sovraintende una commissione di esperti nominati dal Ministro per la solidarietà sociale e i cui membri durano in carica due anni. E’ previsto uno stanziamento per la copertura dei costi che però viene ritagliato nell’ambito del Fondo sociale nazionale che, come già detto, non gode di grandi disponibilità. Il funzionamento coordinato del servizio informativo nazionale in rete è regolato da un decreto del Presidente del consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per gli affari sociali, sentite la conferenza unificata stato-regioni-città e l’Autorità per l’informatica. Ovviamente l’organizzazione del sistema informativo al livello locale viene definita autonomamente da ciascuna regione. Gli oneri relativi al funzionamento di un così complesso sistema informativo gravano sul Fondo sociale nazionale per la parte afferente allo stato e su quelli regionali per la parte di loro competenza.
11. In sintesi
Questa parte della legge di riforma predispone gli strumenti operativi per la sua concreta attuazione, che sono: - il piano sociale nazionale, con la previsione dei livelli essenziali delle prestazioni e dei servizi sociali; - il fondo nazionale per le politiche sociali, che garantisce un minimo di quote capitarie da assegnare alle regioni; - il piano sociale regionale, che imposta le politiche sociali secondo gli orientamenti e le esigenze delle popolazioni e della classe politica delle stesse; - il fondo sociale regionale, che va incrementato con le risorse proprie delle singole regioni; - i piani di zona, che costituiscono il progetto operativo degli enti locali, singoli, se grossi o medi, ed associati, se piccoli; - il sistema informativo nazionale, reticolo fondamentale per l’acquisizione, trasmissione e confronto dei dati statistici, indispensabili per le politiche programmatorie ai diversi livelli territoriali.
12. Possibili azioni per il terzo settore
I soggetti del terzo settore, in sede di consultazione su progetto di piano sociale nazionale, su quelli regionali e su quelli dei piani di zona, debbono assolutamente insistere sulla necessità che vengano in essi individuati effettivamente i livelli quantitativi e qualitativi minimi delle prestazioni essenziali. Senza di ciò l’esigibilità dei diritti, tanto conclamati dalla legge di riforma, rimane lettera morta, non potendosi seriamente realizzare tramite i piani di zona. Qualora gli enti pubblici sostengano l’insufficienza dei finanziamenti disponibili, sarà importante che i soggetti del terzo settore insistano per una diversa allocazione delle risorse finanziarie da finalità meno urgenti a quelle dell’attivazione di servizi sociali in rete. I soggetti del terzo settore inoltre debbono offrire la loro collaborazione al sistema informativo pubblico, per una puntuale segnalazione, individuazione e quantificazione dei bisogni esistenti sul territorio, specie dei territori più lontani dai grossi centri e spesso non sufficientemente conosciuti dagli amministratori dei capoluoghi regionali e locali. ACCESSO AGLI INTERVENTI SOCIALI E PRESTAZIONI ECONOMICHE (artt. 23 - 26)
1. La partecipazione economica degli utenti dei servizi sociali
Nel capitolo precedente si è accennato a questo tema; è il caso adesso di approfondirlo, anche perché l’articolo 25 della legge di riforma stabilisce espressamente che occorre fare riferimento all’ISE per l’accesso dei richiedenti alle prestazioni sociali del sistema integrato. Dato l’alleggerimento dello stato sociale ed il principio universalistico della riforma non è possibile assicurare a tutti i potenziali utenti l’accesso gratuito al sistema di interventi e prestazioni sociali. Occorre pertanto individuare dei criteri per la selezione di quanti in forza di condizioni di reddito e di patrimonio sono in grado di contribuire in parte o totalmente all’ammontare dei costi di erogazione dei servizi richiesti; a ciò ha provveduto il parlamento e conseguentemente il governo (Cfr la legge n. 449/97, art. 59, comma 51, il decreto legislativo n. 109 del 1998, come modificato dal decreto legislativo n. 130 del 2000 ed il regolamento esecutivo emanato con decreto del presidente del consiglio dei ministri n. 221 del 1999, come modificato dal decreto del presidente del consiglio dei ministri del 7 marzo 2001).
Il principio che regola la materia è fondato sul presupposto che nell’ambito di un nucleo familiare si debba tener conto non solo della situazione di reddito, ma anche del patrimonio disponibile e che la situazione economica di una persona è influenzata da quella economica complessiva del nucleo familiare di appartenenza. Il nucleo familiare è costituito dalle persone risultanti dalla situazione anagrafica e da quelle fiscalmente a carico del capo famiglia. I figli minori sono a carico del genitore col quale risiedono, anche se risultano fiscalmente a carico di altra persona. I minori in affido familiare a terzi fanno parte del nucleo familiare di questi, anche se anagraficamente o fiscalmente risultino a carico di altre persone. Il minore affidato ad una comunità di accoglienza è considerato esso stesso nucleo familiare. Le persone con handicap in situazione di gravità e le persone ultrasessantacinquenni non autosufficienti, anche se vivono in famiglia sono considerate nucleo familiare a sé stante in forza dell’art. 3, comma 2-ter, del decreto legislativo 3 maggio 2000, n. 130. Quanto al calcolo della effettiva situazione economica del singolo nucleo familiare essa si determina con riferimento alla situazione economica di nuclei familiari tipo. Il reddito che contribuisce a determinare l’indicatore della situazione economica equivalente a quella del nucleo familiare tipo è quello indicato nella dichiarazione dei redditi. Il reddito può essere ridotto dell’ammontare delle spese di locazione della abitazione sino ad un massimo di £ 10.000.000. Ad esso si somma il valore dei beni patrimoniali costituito da abitazioni, terreni e beni mobiliari quali ad esempio azioni ed obbligazioni. Dal valore dei beni immobili risultanti dalla dichiarazioni ICI relativa all’anno precedente quello in cui si presenta al comune la domanda di ammissione alle prestazioni sociali agevolate, si decurta il valore dei mutui contratti per l’acquisto della casa d’abitazione. Una volta calcolato, con la somma del reddito e del patrimonio complessivo, l’indicatore della situazione economica della famiglia di chi richiede una prestazione sociale agevolata, occorre determinare la situazione economica effettiva del richiedente la prestazione. Questo calcolo si effettua utilizzando una scala di equivalenza a seconda che trattasi di famiglie composte da una o più persone e che nel loro nucleo siano presenti o meno persone con disabilità. Concretamente si divide la somma sopra calcolata per un coefficiente che progressivamente decresce al crescere del numero dei componenti della famiglia. Tale coefficiente viene maggiorato con un coefficiente correttivo in presenza di membri disabili. In tal modo aumentando il denominatore il quoziente si riduce e quindi l’indicatore della situazione economica effettiva del richiedente è più basso se nel suo nucleo familiare è presente una persona disabile rispetto ad un nucleo numericamente identico privo di tale persona. Al fine della ammissione alle prestazioni agevolate i comuni formulano una scala di scaglioni per redditi crescenti e, a seconda che il richiedente si collochi nella fascia più bassa o in quella più alta, gode di agevolazioni maggiori, minori o nulle. Si riporta la scala di equivalenza con i coefficienti correttivi come fissata nel Dlgs n. 109/98.
2. La scala di equivalenza
Numero dei componenti Parametro
- - 1 1,00 2 1,57 3 2,04 4 2,46 5 2,85
Maggiorazione di 0,35 per ogni ulteriore componente. Maggiorazione di 0,2 in caso di assenza del coniuge e presenza di figli minori. Maggiorazione di 0,5 per ogni componente con handicap psico-fisico di cui all’art. 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, o di invalidità superiore al 66%. Maggiorazione di 0,2 per nuclei familiari con figli minori, in cui entrambi i genitori svolgono attività di lavoro e di impresa.
L’ammissione alle prestazioni agevolate secondo le fasce di reddito previste dai singoli comuni avviene con istanza dell’interessato cui va allegata una dichiarazione sostitutiva della propria situazione economica. Gli enti locali erogatori dei servizi possono adottare altri criteri integrativi dell’ISEE per la selezione dei beneficiari, specie anche a seguito di rilevanti variazioni della loro situazione economica successive all’autocertificazione (Cfr con quanto stabilito dall’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n. 109/98, come modificato dall’articolo 3, comma 2, del decreto legislativo n. 130/2000 Tale istituto è stato avviato in via sperimentale in alcuni comuni dal decreto legislativo n. 237/98 in attuazione dell’art. 59, commi 47 e 48 della legge n. 449/97. Vediamo per sommi capi come opera questa misura di contrasto della povertà)
Questa parte della legge di riforma prende in considerazione due categorie di soggetti titolari di particolari prestazioni sociali: le persone povere e quelle disabili. L’art. 23 prevede l’estensione e la graduale generalizzazione dell’istituto del “reddito minimo di inserimento” per le persone povere
Nell’ambito dei comuni prescelti i cittadini residenti da almeno dodici mesi e gli stranieri o gli apolidi residenti da almeno tre anni possono chiedere l’ammissione a questo beneficio a condizione che mediamente ciascun membro della famiglia abbia un reddito non superiore a £ 500.000 mensili, considerata soglia di povertà nell’anno 1998, con lievi maggiorazioni per gli anni successivi. Anche qui opera l’indicatore della situazione economica e la scala di equivalenza. Ciascun membro della famiglia richiedente ha diritto alla erogazione di un assegno integrativo del reddito minimo da esso posseduto, pertanto in caso di assenza totale di reddito a ciascun membro della famiglia spetta la somma di £ 500.000 per il 98; in caso di reddito che però non raggiunge le £ 500.000 il comune è tenuto ad erogare la differenza sino a raggiungere un reddito minimo di inserimento personale di £ 500.000. Nella assegnazione di tale beneficio godono di priorità le famiglie con minori o persone disabili. Questa modalità dovrebbe divenire uno strumento generale di contrasto della povertà, alla quale ricondurre pure gli altri interventi di sostegno del reddito, quali gli assegni di cui all’art. 3, comma 6 della legge n. 335/95, e le pensioni sociali di cui all’art.26 della legge n.153/69, e successive modificazioni.
3. Gli emolumenti economici alle persone disabili ed ultrasessantacinquenni non autonome
L’art. 24 della legge di riforma è dedicato espressamente a questa materia che è assai complessa e delicata ed è stata oggetto di una dura negoziazione con le più grosse associazioni dei disabili. La norma è stata costruita tenendo conto della normativa in vigore e tende a mantenerne in vita gli effetti pratici, pur nel mutato quadro di riqualificazione degli emolumenti, consistenti nelle “pensioni”, “assegni” ed “indennità”. La materia è rimessa all’emanazione di un decreto delegato che deve realizzare alcuni principi. Innanzi tutto si richiama il rispetto della distinzione fra previdenza ed assistenza. Infatti, malgrado la denominazione, le pensioni, gli assegni ed indennità a favore delle persone disabili, non hanno nulla a che fare con le pensioni conseguenti alla cessazione di un rapporto di lavoro. Queste ultime sono frutto del versamento di contributi durante l’arco del rapporto lavorativo ed attengono quindi al campo della previdenza. Le cosiddette pensioni per l’invalidità civile, la cecità civile ed la sordità sono invece commisurate a requisiti assai diversi, quali l’alta percentuale d’invalidità e le basse condizioni economiche del richiedente. Inoltre la riqualificazione degli emolumenti economici non deve produrre incrementi di spesa pubblica. Sono queste le nuove classificazioni degli emolumenti economici: 1)Reddito minimo per la disabilità totale, comprendente le pensioni assegnate a persone riconosciute invalide al 100% o a causa dell’impossibilità di produzione di reddito conseguente alla gravità della minorazione. In tal caso esso è cumulabile con “l’indennità per l’autonomia di disabili gravi o pluriminorati”, di cui al successivo punto n.3. Tale emolumento si inquadra nella logica del “reddito minimo di inserimento”.; 2)Reddito minimo per la disabilità parziale, che comprende gli attuali assegni a favore di disabili ai quali sia stata riconosciuta un’invalidità superiore al 74%, ma inferiore al 100%. In tali casi l’emolumento economico rientra in un progetto d’inserimento lavorativo, anche tramite l’utilizzo di contratti di formazione e lavoro o di borse lavoro. Una volta realizzato il definitivo inserimento lavorativo, l’assegno perde la sua funzione e viene a cessare. 3)”Indennità” per favorire la vita autonoma e l’assistenza a persone non autosufficienti. La legge distingue due tipi di indennità; quella indicata al punto 3.1 che sostituisce l’indennità di “accompagnamento” ed è concessa alle persone disabili gravi , cioè ciechi, sordi, non deambulanti. Tale indennità rimane concessa “al solo titolo della minorazione”, è cioè sganciata dal possesso di un qualsiasi reddito o patrimonio del titolare; essa è finalizzata al mantenimento della persona nel proprio domicilio; 3.2 ”indennità di cura e di assistenza” per persone ultrassessantacinquenni totalmente dipendenti. Anche questa indennità, che sostituisce l’indennità di “accompagnamento” è finalizzata a mantenere l’anziano nel proprio domicilio. Gli emolumenti economici sono garantiti anche alle persone disabili gravi o agli anziani ricoverati in strutture residenziali, per realizzare le pari opportunità con quanti non vi risiedono. Sino ad oggi solo questi ultimi percepivano l’indennità di “accompagnamento” , ora, col riconoscimento anche ai ricoverati, si precostituisce per essi un introito certo mensile che, secondo quanto stabilito dalla legge di riforma viene riservato in parte a favore dell’ente ospitante, come partecipazione dell’utente al costo del servizio. Rimane però garantita all’utente la piena disponibilità di una somma pari al 50% del reddito minimo d’inserimento, di cui all’art 23. Gli altri principi direttivi cui deve ispirarsi il decreto delegato sono i seguenti: 1) Mantenimento del livello degli attuali trattamenti economici, incrementati esclusivamente degli oneri di adeguamento all’inflazione, secondo la vigente normativa. Inoltre nella riclassificazione si deve tener conto della diversa natura dei benefici economici considerati. Così alcuni, come le cosiddette pensioni hanno funzione di contrasto alla povertà, mentre le indennità svolgono una funzione di valorizzazione delle capacità e di sostegno alla potenziale autonomia psicofisica delle persone disabili o anziane. 2) Bisognerà fissare i requisiti per l’accesso agli emolumenti economici. Questi requisiti saranno, come ora, di due tipi: quelli di carattere sanitario e quelli economici. I primi consistono nelle minorazioni accertate. Attualmente questi si fondano sulla percentuale di invalidità. A seguito di un grande dibattito culturale e politico, conseguente anche ai nuovi criteri di classificazione fissati dall’ONU ( i cosiddetti ICIDH), si dovrà tener conto soprattutto delle capacità e delle potenzialità. Si dovrà quindi predisporre un percorso d’integrazione sociale che, sulla base dei nuovi criteri di accertamento, prevederà gli emolumenti economici come mezzi di sostegno dello stesso percorso. I requisiti di carattere economico, che, come detto, riguardano solo le due forme di “reddito minimo” per la disabilità totale o parziale, saranno calcolati secondo i criteri dell’ISE., indicatore della situazione economica, di cui al decreto legislativo n. 109/98, di cui si è precedentemente parlato. E’ però da tener presente che, secondo le modifiche introdotte dal decreto legislativo n. 130/00, si dovrà tener conto solo della situazione economica dell’interessato e non del suo nucleo familiare. 3) Occorrerà corrispondere ai nuovi beneficiari gli emolumenti entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore del decreto delegato; le autorità competenti dovranno reinterpretare le domande, presentate anche prima dell’entrata in vigore della legge di riforma, alla luce delle nuove disposizioni, evitando così una inutile ripresentazione delle domande con inevitabili ritardi. 4) Quanti invece percepiscono emolumenti alla data di entrata in vigore del decreto delegato, dovranno avere la riqualificazione degli stessi entro un anno dalla stessa data. 5) In via transitoria sono fatti salvi gli assegni e le indennità godute da quanti avevano i requisiti sulla base della precedente normativa, ma non li avrebbero in forza della nuova normativa. 6) Occorrerà individuare uno “sportello unico” per la presentazione delle domande di fruizione dei diversi benefici connessi all’esistenza di una minorazione, attualmente assai diversificati. Ciò in attuazione del principio della semplificazione amministrativa. 7) Viene affermato un principio innovativo secondo cui occorrerà unificare in un’unica Commissione gli accertamenti sanitari e si individua a tal fine la Commissione introdotta dall’art. 4 della Legge-quadro sull’handicap n. 104/92. In tal modo tale Commissione unifica in sé tutte le competenze, ivi compresa quella per l’individuazione della capacità lavorativa ai sensi della L. n. 68/99. 8) Occorrerà infine definire le modalità di verifica della permanenza dei requisiti sanitari e di reddito. Questa è una materia assai travagliata che deve trovare una soluzione tale da soddisfare per un verso al bisogno di certezza del diritto per evitare i “falsi invalidi “ o i falsi “poveri” e per altro verso superare una prassi persecutoria nei confronti di invalidi continuamente sottoposti a visite mediche di controllo. Trattandosi di aspetti assai delicati che coinvolgono interessi di diversa natura, la legge di riforma stabilisce che lo schema di decreto legislativo sarà sottoposto all’intesa con la Conferenza unificata Stato-regioni-Città ed ai pareri delle organizzazioni sindacali nazionali maggiormente rappresentative, nonché delle associazioni degli utenti, che sono regolate in via generale dalla L. n. 281/98. Inoltre deve essere acquisito il parere delle associazioni di “promozione sociale”. Su questo aspetto si è svolta una dura contrapposizione fra le associazioni “storiche” e quelle aderenti alla F.I.S.H.. Infatti le prime sostenevano di essere le uniche titolari ad esprimere il parere, in quanto associazione di “tutela e rappresentanza “ della categoria degli invalidi. La F.I.S.H. sosteneva che, in forza del principio costituzionale del pluralismo associativo, non poteva essere mantenuto un regime di “monopolio”. La soluzione adottata dal legislatore è nel senso del rispetto del principio costituzionale. E’ ovviamente da tener presente che potranno essere consultate solo le associazioni nazionali e, dopo l’entrata in vigore della L. n. 383/00, solo di quelle iscritte nel Registro nazionale, che debbono pertanto svolgere attività in almeno cinque regioni e venti province. L’art. 24 della legge di riforma si conclude con prescrizioni relative all’iter di procedura di approvazione del decreto legislativo.
4.Fondi integrativi per prestazioni sociali
L’art. 26 della legge di riforma si occupa di una materia del tutto nuova in campo sociale. Trattasi dei “fondi integrativi”, già regolati per l’ambito sanitario all’art . 9 del decreto legislativo n. 229/99, al quale espressamente rinvia. Come si è accennato non tutte le prestazioni essenziali previste dall’art. 22 sono gratuite per gli utenti. Anzi, ad es. per quelle a prevalente rilevanza sociale, poste in parte a carico dei Comuni, può essere prevista la partecipazione ai costi da parte degli utenti. Talora può trattarsi di costi assai alti. Si pensi alla retta giornaliera per disabili totalmente non autosufficienti o anziani malati cronici in strutture residenziali o in centri diurni. Per sostenere almeno in parte tali costi una persona previdente e dotata di buone condizioni economiche può provvedere stipulando un contratto di rendita o di assicurazione. Ma per persone in gravi condizioni di salute assai precaria, normalmente le assicurazioni richiedono un corrispettivo assai elevato, al quale solo pochi possono provvedere. Da qualche anno finalmente in Italia si è cominciato a parlare di fondi pensione integrativi, rispetto a quelli per le assicurazioni obbligatorie. Dal momento che la legge di riforma si riferisce per le prestazioni sociali ai fondi previsti dal decreto legislativo n. 229/99, sembra opportuno farne cenno, tenendo presente che le prestazioni sociali che possono rientrare nella copertura assicurativa di tali fondi sono solo quelle per “programmi assistenziali intensivi e prolungati” che hanno lo scopo di mantenere i disabili o gli anziani nel proprio domicilio o in strutture residenziali o semiresidenziali. Il principio che regola i fondi integrativi del servizio sanitario nazionale e, quindi per l’espresso richiamo dell’art. 26 della legge di riforma, anche quelli per i servizi sociali, è quello che non debbono effettuare “selezione” dei rischi. Infatti se uno di tali fondi potesse rifiutarsi di assicurare una persona perché il rischio si prevede troppo alto, questa nuova forma assicurativa risulterebbe inutile, giacchè è stata voluta dal legislatore proprio per i casi più gravi. I fondi possono essere pubblici e privati. Le fonti giuridiche per la loro costituzione possono essere una delle seguenti: a) accordi o contratti collettivi nazionali o anche stipulati a livello aziendale; b) accordi fra lavoratori autonomi o professionisti promossi dai loro sindacati a livello almeno provinciale; c) regolamenti regionali o di enti locali; d) delibere di organizzazioni non lucrative operanti nel campo dell’assistenza sanitaria o socio-sanitaria. e) società riconosciute di mutuo soccorso; f) altri soggetti pubblici e privati, a condizione che non effettuino discriminazioni tramite l’esclusione di particolari rischi o di particolari gruppi di soggetti. Quest’ultima previsione è importante sia perché ribadisce il principio della non discriminazione che viene esteso anche a particolari gruppi di soggetti (si pensi ad es. a soggetti con pluriminorazioni o anziani incontinenti, etc), sia perché amplia senza particolari limitazioni il numero e la tipologia dei soggetti possibili promotori. Fra tali soggetti potrebbero essere anche le organizzazioni di volontariato. Il decreto legislativo n. 229/99 prevede che la materia venga disciplinata da un decreto e da un regolamento del Ministro della Sanità e che i fondi integrativi del servizio sanitario nazionale godano di agevolazioni fiscali. Per i fondi integrativi dei servizi sociali occorrerà pure una serie di atti amministrativi generali che è da presumere siano in buona parte di competenza del Ministro della solidarietà sociale.
5. In sintesi
Per accedere alle prestazioni del sistema integrato di interventi e servizi sociali occorrerà anche in parte far ricorso alla partecipazione degli utenti ai costi, secondo i criteri dell’indicatore della situazione economica che classificheranno gli utenti secondo fasce di reddito individuate dai comuni singoli o associati. La riclassificazione delle prestazioni economiche per le persone disabili ed anziane non autosufficienti avverrà con un decreto delegato, emanato dopo l’acquisizione dei pareri resi anche dalle organizzazioni di promozione sociale. Per ottenere la copertura di costi di prestazioni non assicurate gratuitamente dal sistema integrato, saranno attivati i fondi integrativi per i servizi sociali.
6. Possibili azioni del terzo settore
Con riguardo all’I.S.E. i soggetti del terzo settore dovrebbero intervenire con proprie proposte nella formulazione dei criteri di partecipazione degli utenti ai costi dei servizi agevolati, con particolare attenzione alle fasce degli utenti a più basso reddito. Con riguardo all’emanazione del decreto delegato sugli emolumenti economici, le associazioni nazionali di promozione sociale “non storiche” dovrebbero intervenire specie con riguardo alla formulazione dei nuovi criteri di accertamento dell’invalidità fondati sulle capacità più che sulle percentuali di invalidità. Con riguardo alla costituzione dei “fondi integrativi” i soggetti del terzo settore, specie a livello locale, dovrebbero intervenire per facilitare la creazione di fondi provinciali ed aziendali che più agevolmente possono sviluppare programmi aderenti al profilo dei bisogni delle famiglie delle singole realtà. LA LOTTA ALLA POVERTA’ E DISPOSIZIONI FINALI (ARTT. 27 – 30)
1. Interventi contro la povertà estrema
La parte conclusiva della legge di riforma è stata destinata ad affrontare i problemi della povertà estrema, di cui i soggetti senza fissa dimora sono una componente significativa. L’art. 27 prevede la costituzione di un’apposita Commissione, composta da esperti, col compito di ricerca sulla povertà e l’emarginazione in Italia, di promuoverne la conoscenza nelle istituzioni e nell’opinione pubblica, di formulare proposte per rimuoverne le cause e le conseguenze, di promuovere valutazioni sull’effetto dei fenomeni di esclusione sociale, di predisporre per il Governo rapporti e una relazione annuale sulla povertà. La Commissione, i cui membri, nominati con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, durano in carica tre anni, è finanziata con il fondo sociale nazionale. Una tale commissione già esisteva da anni, ma era regolata da atti amministrativi e quindi esposta alle scelte discrezionali dei Governi che si succedono. Merito della legge di riforma è averla definitivamente istituzionalizzata, fornendo a Governo e Parlamento un organo di consulenza tecnica indispensabile per serie politiche di contrasto della povertà. L’art. 28 prevede un apposito stanziamento triennale di interventi urgenti di contrasto alla povertà estrema. Il governo uscente ha rispettato l’obbligo previsto dalla legge di provvedere al riparto tra le regioni di tali fondi, al fine di consentire agli enti locali, alle organizzazioni di volontariato, alle Onlus e alle IPAB di presentare progetti concernenti la realizzazione di servizi di pronta accoglienza, interventi socio-sanitari, servizi per l’accompagnamento e il reinserimento sociale (Il riparto è avvenuto con il decreto del Presidente del consiglio dei ministri 15 dicembre 2000, G.U. n. 69 del 23/3/2001).
I progetti ammessi al finanziamento debbono possedere i seguenti requisiti: - individuazione di un’area territoriale secondo indicatori che rilevino la presenza di persone senza fissa dimora frequentanti prevalentemente quel territorio o di famiglie in stato di bisogno primario; - scarsità di servizi in detta area territoriale idonei a contrastare la povertà; - indicazione puntuale degli obiettivi che il progetto intende perseguire e dettagliata elencazione delle spese occorrenti per ciascun progetto; - documentazione della esperienza nel settore relativa ai soggetti che presentano il progetto; - documentazione circa il collegamento con altre iniziative eventualmente presenti nel territorio, concernenti la riqualificazione delle aree urbane, l’assistenza economica ed altri interventi e servizi idonei a realizzare le finalità dei servizi proposti. Ai fini della formulazione di graduatoria fra i proponenti il decreto indica i seguenti elementi che danno diritto a preferenza: - realizzazione del progetto in rete con altri soggetti pubblici e privati del territorio; - attuazione del progetto per ambiti integrati socio-sanitario e formativo; - previsione di percorsi di accompagnamento delle persone assistite per un loro definitivo inserimento sociale; - integrazione di questi specifici progetti in progetti più ampi di intervento sociale, che favoriscono l’uscita degli interessati dalla povertà estrema e dagli interventi di emergenza; - individuazione di criteri di autovalutazione circa l’efficacia degli interventi proposti e realizzati. I criteri di riparto delle somme fra le regioni sono i seguenti: - il 75% delle somme disponibili alle regioni in cui si trova almeno un comune capoluogo di area metropolitana, in cui a causa della forte densità di un alto numero di abitanti è più facile il fenomeno della emarginazione a causa della povertà estrema; - tale somma viene ripartite fra le regioni in proporzione al numero dei loro abitanti; - il residuo 25% è suddiviso tra tutte le regioni in proporzione alla rispettiva popolazione residente, destinato dalle regioni con priorità alle grandi aree urbane. I progetti vanno presentati annualmente entro il 30 giugno. Gli enti che ottengono il finanziamento debbono presentare semestralmente una relazione, in cui vanno indicati il numero delle persone assistite, divise per sesso, i percorsi dei progetti avviati e il progress del budget finanziario. Le regioni potranno individuare ulteriori elementi di monitoraggio. E’ fatta salva l’autonomia delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e Bolzano nel regolare i rispettivi bandi.
2. Articolo 29: “disposizioni sul personale” (rinvio)
Per l’analisi di tale articolo si rinvia a quanto scritto nel capitolo tre, alla fine del paragrafo concernente le “Funzioni dello stato”.
3.Articolo 30 “abrogazioni” (Rinvio)
Per l’analisi di tale articolo si rinvia rispettivamente a quanto scritto nel capitolo tre, nel paragrafo concernente le “Funzioni delle IPAB”, nel capitolo tre, alla fine del paragrafo concernente “il domicilio di soccorso” dei comuni, nel capitolo cinque, in nota, alla fine del paragrafo relativo al “Fondo nazionale per le politiche sociali”, nonché nel capitolo sei, nel paragrafo concernente “Gli emolumenti economici alle persone disabili ed ultrasessantacinquenni non autonome”.
4. In sintesi
Per la lotta alle povertà estreme, con particolare attenzione anche ai soggetti senza fissa dimora, la legge di riforma ha: - istituzionalizzato la Commissione di indagine sulla esclusione sociale; - previsto una serie di interventi urgenti, finanziati ed in fase di espletamento immediatamente dopo l’entrata in vigore della legge stessa.
5. Possibili azioni del terzo settore
Le associazioni e gli organismi appartenenti al forum del terzo settore dovranno offrire la loro collaborazione e vigilare sulle attività della commissione nazionale; a livello regionale e locale gli stessi soggetti, avvalendosi soprattutto delle proprie informazioni rivelate sui territori in cui operano, dovranno formulare osservazioni e proposte da trasmettere spontaneamente alla commissione nazionale e dovranno, sulla base di queste, effettuare la loro vigilanza continua.
1. Premessa
I problemi che la nuova legge apre sono forse più numerosi di quelli che risolve. Ciò non significa che sarebbe stato meglio non approvarla, come alcuni scontenti chiedevano. Ogni legge, e specie quelle di principi, arreca al sistema normativo nel suo complesso un valore aggiunto, poiché costringe gli interpreti a rileggere tutta la vecchia normativa alla luce delle novità, sia pur piccole, intervenute. L’ordinamento giuridico è un insieme in continua mutazione che risente nel suo complesso delle norme che vengono abrogate e di quelle che si aggiungono. Tutto ciò crea problemi interpretativi ed applicativi per ogni nuova norma che non poggia ancora su una consolidata prassi applicativa o su una consolidata giurisprudenza. Ecco perché la legge di riforma crea a numerosi nuovi problemi. Proviamo ad accennare ai principali, tenendo presenti alcune basilari nozioni di teoria generale del diritto. E’ comune affermazione che una nuova legge toglie efficacia ad una precedente in caso di contrasto con essa. Ciò però è vero se trattasi di leggi di pari grado. Infatti nel nostro ordinamento esiste quello che i giuristi chiamano il principio della “gerarchia delle fonti giuridiche” ; cioè esistono norme di diversi gradi di importanza che possono modificare quelle di grado inferiore e non essere modificate da queste. In questa gerarchia il primo posto spetta alle norme della Costituzione, alle quali sono equiparate le sentenze della Corte costituzionale. Vengono quindi le leggi ordinarie, alle quali sono equiparate i decreti legge, cioè decreti del Governo adottati in via d’urgenza che debbono essere approvati dal Parlamento entro 60 giorni dalla loro adozione, pena la loro decadenza; appartengono allo stesso grado i decreti legislativi, cioè decreti adottati dal Governo nel rispetto dei principi e dei tempi fissati dal Parlamento con la legge di delega. Al terzo posto si pongono gli atti amministrativi, e le sentenze dei TAR e del Consiglio di Stato che possono annullarli. Al quarto posto si pongono le sentenze definitive dei giudici ordinari civili e penali della Corte di Cassazione e della Corte dei Conti, limitatamente ai casi oggetto delle controversie decise. In una posizione immediatamente intermedia fra le norme costituzionali e quelle ordinarie si pongono i regolamenti dell’Unione europea, che entrano immediatamente in vigore nel nostro sistema con la stessa efficacia di leggi ordinarie, ma non possono essere da queste modificate. Si è accennato a tutto ciò perché alcuni problemi possono sorgere a causa di questo nostro sistema gerarchico.
2. Atti applicativi
Come si è più volte detto, la legge di riforma necessita di numerosi atti applicativi di natura legislativa ed amministrativa per poter essere pienamente attuata. Si indica l’elenco di essi. [1] Le scadenze della Riforma dell'"assistenza":
Entro 2 mesi - Il Ministro della solidarietà sociale nomina una Commissione tecnica con il compito di formulare proposte per dare attuazione ai diversi livelli operativi del sistema informativo dei servizi sociali.
Entro 3 mesi - Con decreto del Ministro della sanità di concerto con il Ministro della solidarietà sociale sono definite le modalità per indicare nella tessera sanitaria (su richiesta dell'interessato) i dati relativi alla condizione di non autosufficienza o di dipendenza per facilitare la persona disabili nell'accesso ai servizi ed alle prestazioni sociali. - Il Ministro della solidarietà sociale di concerto con quelli della sanità e per le pari opportunità, nell'ambito del Fondo nazionale sulle politiche sociali determina la quota da riservare ai servizi a favore del sostegno familiare delle persone anziane non autosufficienti (successivamente la quota viene definita annualmente). In sede di prima applicazione le risorse sono finalizzate al potenziamento delle attività di assistenza domiciliare integrata. Entro il 30 giugno di ogni anno, le regioni destinatarie dei finanziamenti trasmettono una relazione al Ministro della sanità e della solidarietà sociale in cui espongono lo stato di attuazione degli interventi. - Il Ministro della solidarietà sociale provvede alla ripartizione del Fondo nazionale per le politiche sociali (successivamente la ripartizione viene fatta annualmente). - Il Consiglio dei ministri su proposta del Ministro per la solidarietà sociale definisce i criteri del riparto tra le regioni dei finanziamenti volti al potenziamento dei servizi destinati alle persone senza fissa dimora o che vivono in situazione di povertà estrema.
Entro 4 mesi - Le regioni adottano indirizzi per regolamentare i rapporti tra enti locali e terzo settore con riferimento ai sistemi di affidamento dei servizi alla persona.
Entro 6 mesi - Le regioni determinano gli ambiti territoriali per la gestione unitaria del sistema locale dei servizi sociali. - Il governo è delegato ad emanare un decreto legislativo recante nuova disciplina delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza (IPAB). Entro 6 mesi dall'emanazione del Dlgs le regioni adeguano le proprie normative ai principi contenuti nel Dlgs. - Il Ministero della solidarietà sociale, definisce i profili professionali delle figure professionali sociali. Sempre con la stessa scadenza con decreto dei ministri della solidarietà sociale, del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e per la funzione pubblica, sono individuate per le figure professionali sociali e le modalità di accesso alla dirigenza. - Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri è adottato lo schema di riferimento generale della Carta dei servizi sociali. Entro i successivi 6 mesi ogni ente erogatore dei servizi adotta una Carta dei servizi sociali. - Il governo è delegato ad emanare un decreto legislativo recante norme per il riordino degli assegni e delle indennità riguardanti l'invalidità.
Entro 1 anno - Il governo predispone il Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali (successivamente il Piano viene predisposto ogni 3 anni). Entro 4 mesi dall'adozione del Piano le Regioni adottano il Piano regionale degli interventi e servizi sociali. Il Ministero della solidarietà sociale, predispone annualmente una relazione al Parlamento sui risultati conseguiti rispetto agli obiettivi fissati dal Piano nazionale.
2.1 Gli atti amministrativi: osservazioni
Dal momento che alcuni atti sono stati emanati dal precedente Governo di centro-sinistra, gli altri saranno adottati dal nuovo Governo di centro-destra. Il contenuto di questi ultimi deve certo rispettare i principi direttivi indicati nella legge di riforma. Però il contenuto di tali atti può essere modulato in modo diverso a seconda delle diverse sensibilità di un Governo o di un altro. Pur nel rispetto della legge di riforma, negli atti applicativi l’accento può essere posto più su un aspetto che su un altro, le procedure e le modalità attuative possono avere una previsione più rigida nella convinzione di una maggior tutela degli utenti o più a maglie larghe nel presupposto di un maggior rispetto della loro libertà. Non è infine da dimenticare che il nuovo Governo potrebbe offrire una interpretazione delle norme della legge-quadro da applicare diversa da quella che vi avrebbe data la maggioranza che le ha approvate; e ciò certamente produrrà effetti applicativi diversi da quelli che potevano originariamente prevedersi- Potrebbe addirittura a qualcuno, che si sentisse danneggiato da questa diversa interpretazione applicativa, venire il desiderio di impugnare per illegittimità avanti al TAR taluno degli atti applicativi ritenuti lesivi dei propri interessi. Addirittura qualche altro potrebbe sollevare, rispetto agli atti delegati, la questione di illegittimità costituzionale per eccesso o difetto di delega. Tutte queste che sono attualmente semplici ipotesi di scuola potrebbero divenire concrete attualità, come è già accaduto con altre norme. In tali eventualità, l’iter applicativo della legge subirebbe ulteriori intoppi e ritardi. Né si dica che questa è fantascienza giuridica, poiché casi del genere, nella prassi del diritto, sono più frequenti di quanto non si creda. Per chi crede che la nuova legge, malgrado tutto, abbia delle potenzialità positive, non resta che sperare che tutto ciò non avvenga e che la legge possa esplicare tutti i suoi possibili effetti in tempi brevi.
3. Leggi-quadro regionali
Come si è più volte detto la nuova legge di riforma è una legge-quadro, cioè di principi, che necessita, per la sua attuazione piena, di leggi regionali. Queste leggi, secondo quanto stabilito anche dal decreto legislativo 112/98, espressamente richiamato dall’art 8 della L. n. 328/00, debbono provvedere a riattribuire agli enti locali le competenze amministrative ad esse decentrate dallo Stato, dotandoli di risorse. Potrebbe accadere che qualche regione ritenga i principi fissati dalla legge di riforma troppo penetranti e dettagliati, tali cioè da invadere la propria autonomia normativa e pertanto decida di sollevare questione di legittimità costituzionale con riguardo ad alcune sue norme. Ma potrebbe pure accadere che qualche soggetto, persona o ente possa ritenere che le norme di qualche legge regionale non rispettino alcuni principi fissati dalla legge di riforma e, ritenendo cioè lesivo di un diritto proprio o “diffuso”, cioè riguardante interessi generali, decida di sollevare questione di costituzionalità relativa alle norme regionali avanti la Corte costituzionale, incidentalmente nel corso di un giudizio. In tali ipotesi si avrebbero ulteriori ritardi applicativi della legge di riforma, almeno nell’ambito della regione la cui legge è posta in discussione. Molto più delicato è il problema che si pone a seguito dell’approvazione della recente legge di revisione costituzionale che, modificando l’art. 117 della Costituzione, ha sostituito la “competenza legislativa ripartita” delle regioni con la competenza “piena” in alcune materie, quali proprio i servizi sociali. Le regioni cioè in tale materia potrebbero legiferare senza l’obbligo di rispettare alcun principio fissato dallo Stato. A seguito di ciò i principi fissati dalla legge di riforma verrebbero vanificati. Non si avrebbe però la “babele” normativa regionale a seguito della quale ogni regione potrebbe comportarsi a suo totale arbitrio. Infatti la stessa legge di revisione costituzionale, all’art.3, comma 1, stabilisce che rimane comunque di competenza dello Stato la fissazione dei criteri relativi ai livelli essenziali ed uniformi dei servizi sociali su tutto il territorio nazionale, con ciò rafforzando a livello di fonte costituzionale il principio già fissato nell’art. 8 della legge-quadro n. 328/2000. Inoltre rimane, secondo il principio della gerarchia delle fonti giuridiche, il principio secondo il quale le leggi regionali debbono sempre rispettare le norme della Costituzione e prima fra esse l’art. 2 che a tutti cittadini ed enti “ richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale “. Il mancato rispetto di tali doveri da parte di qualche legge regionale potrebbe determinarne l’eliminazione con l’intervento della Corte costituzionale, sia su richiesta di altra regione, sia durante un giudizio su ruchiesta di una delle parti o autonomamente da parte del giudice. Estremamente delicato diverrebbe invece questo problema, qualora, come si è pure affermato da alcuni partiti dell’attuale maggioranza, che vada riveduta non solo la seconda parte della Costituzione, ma anche la prima. In tale malaugurata ipotesi, verrebbe meno anche l’ultimo baluardo al dovere “inderogabile” di solidarietà e si porrebbero non più semplici dubbi, ma serie certezze di involuzione civile, almeno secondo i criteri che hanno guidato l’Italia a partire dall’approvazione della Carta costituzionale. In tale ipotesi, forse, l’unica difesa per le fasce più deboli di popolazione, potrebbe venire dalla normativa dell’Unione europea, specie per la parte del trattato dell’Unione che assicura il principio della “non discriminazione” e dalla “Carta sociale “ di Nizza, approvata nell’incontro dei partners europei del 2000. Infatti l’Italia, facendo parte dell’Unione deve rispettarne le norme costitutive.
4. Le diverse preesistenti leggi-quadro di settore
Taluno si è posto il problema se l’approvazione della Legge-quadro n. 328/2000 abbia implicitamente abrogato le norme delle singole leggi-quadro preesistenti concernenti diversi settori, quali la legge n. 104/92, concernente i diritti delle persone handicappate, la L. n. 285/97 sulle politiche giovanili, le leggi di contrasto alle tossicodipendenze, etc. Secondo i principi generali dell’interpretazione delle norme giuridiche fissate nelle “disposizioni preliminari al Codice civile “, si deve ritenere che ciò non sia possibile, giacchè quelle leggi sono “norme speciali”, che non possono essere abrogate da una legge “generale”, qual è certamente la l. n. 328/2000. Si porranno certo problemi di coordinamento, in modo che i principi generali della nuova legge di riforma prevalgano su tutti gli altri principi in tema ad es. di programmazione delle politiche sociali, mentre i principi sanciti dalle singole leggi regolerebbero gli ambiti dei rispettivi “progetti-obiettivo” contenuti o conseguenti al Piano sociale nazionale.
5. Problemi di finanziamento
Come si è più volte detto, la scarsità dei mezzi finanziari è l’aspetto più delicato che rende inesigibili numerosi dei diritti sociali proclamati. Tale problema difficilmente sarà risolvibile con notevoli incrementi del fondo sociale nazionale con aggiunte di risorse pubbliche. Infatti l’Italia è vincolata dal “patto di stabilità”, concordato fra tutti i Partners europei, che ci impongono non solo di non incrementare la spesa pubblica, ma di destinare annualmente parte delle entrate alla riduzione del colossale debito pubblico. Normalmente si possono avere in bilancio maggiori spese, purchè coperti da un aumento delle entrate. Ora, la nuova maggioranza ha fissato come principio innovativo quello di “ridurre le tasse”. Quindi questo strumento di politica fiscale non sarà utilizzato. Da numerosi anni si sostiene da più parti che il wellfare state deve sempre più rapidamente essere sostituito dal “wellfare-comunity”; cioè alla spesa pubblica in campo sociale va sostituita in percentuale crescente l’intervento del privato-sociale, cioè di servizi offerti sul mercato dai soggetti del terzo settore, i cui prezzi saranno differenziati a seconda dei soggetti che li offrono. Il volontariato organizzato chiederà solo il rimborso delle spese vive e delle quote di ammortamento; le associazioni di promozione sociale chiederanno di solito qualcosa in più per la copertura dei costi dei possibili dipendenti; le cooperative sociali chiederanno, oltre alla copertura dei costi, fra i quali si debbono calcolare anche quelli della remunerazione dei soci lavoratori, pure la copertura degli investimenti come avviene in ogni impresa e le cooperative certamente gestiscono imprese sociali; il privato profit si regolerà secondo la libera legge della domanda e dell’offerta. Ciò significa inoltre che gli utenti saranno sempre più chiamati a concorrere alle spese dei servizi sociali richiesti, con agevolazioni per talune tipologie di utenti, graduate comunque secondo fasce di indicatori di situazione economica, alla cui crescita si accompagnerà un maggiore concorso nella spesa. Sino ad oggi per le prestazioni sociosanitarie riguardanti fasce deboli di popolazione , quali ad es. le persone con disabilità, si provvedeva con esoneri totali o parziali dal pagamento delle prestazioni. Ma, a partire della legge finanziaria per il ’98 n. 449/97, art. 8, è stato introdotto massicciamente un criterio nuovo e più in linea con una società “opulenta”. Tale criterio consiste nel consentire agli interessati “un credito d’imposta sui redditi” pari ad una certa percentuale delle spese sostenute. Questo nuovo criterio giova certamente ad utenti che, a causa dei loro discreti redditi, sono dei contribuenti. Ma se, come succede nella maggioranza dei casi, gli utenti in stato di bisogno hanno redditi così bassi da non essere soggetti passivi di imposte, il credito offerto non produce alcun effetto positivo sulla loro situazione economica. Ma c’è di più. Sino ad oggi il sistema fiscale esenta parzialmente o totalmente dalle imposte di donazione e successione il trasferimento di beni o somme di denaro a favore di enti pubblici e di soggetti del privato sociale. [2] Ciò ha incrementato le risorse economiche offerte dalla società civile, senza gravare sulle pubbliche finanze, secondo i criteri del wellfare-comunity. Ora, la nuova maggioranza ha ripetutamente affermato, durante la campagna elettorale, ed anche dopo, che avrebbe abolito le imposte di donazione e successione e, ovviamente, con esse anche le agevolazioni precedentemente concesse. Se ciò avverrà, sarà rimosso un forte incentivo ad offrire risorse ai soggetti che erogano servizi sociali, come è stato osservato da più parti.
6. Diversità dei welfare regionali
La storia pre e postunitaria delle diverse regioni italiane ha fatto sì che la cultura e la prassi dei servizi in genere e di quelli alla persona in particolare si sia affermata in esse in modo assai differenziato. Infatti fra le regioni del Nord e quelle del Sud c’è spesso una notevole differenza sia circa l’efficienza dei servizi, sia per l’ammontare delle risorse investite. Ciò fa si che i residenti nelle regioni del Sud hanno a disposizione un wellfare-regionale molto più povero ed insoddisfacente. Ciò condiziona fortemente le modalità attuative della nuova legge di riforma, che proprio alla capacità organizzativa ed all’efficienza dei servizi territoriali affida il suo successo. La previsione dei “livelli essenziali delle prestazioni” dell’art. 22 della L. n. 328/2000, a parte quanto detto circa la loro genericità, non offre sufficienti elementi per la soluzione di questo problema. Tale problema verrà ulteriormente inasprito se la nuova maggioranza dovesse fare abrogare col referendum la recentissima legge di revisione costituzionale sul cosiddetto “federalismo “, facendone approvare una che rafforzi il federalismo regionale con quello fiscale, che ridurrebbe ulteriormente le risorse disponibili a favore delle regioni del Sud e quindi anche le possibilità di ammodernamento dei sistema dei servizi territoriali.
7. Eccessivo numero di comuni singoli
La situazione può aggravarsi ulteriormente, anche nel Nord, a causa dell’altissimo numero dei comuni piccoli, i quali non saranno mai in grado di programmare ed erogare da soli servizi efficienti ed efficaci per i propri cittadini in stato di bisogno, a causa degli alti costi. La legge di riforma ha individuato nei comuni spontaneamente associati il fulcro di attuazione del sistema integrato dei servizi sociali; ma è proprio nell’eventualità di tale spontanea associazione il tallone di Achille di tutta la riforma. Si è forse temuto di invadere la sfera dell’autonomia degli enti locali; ma così facendo, si è posta una pesantissima ipoteca sul suo successo. Infatti, probabilmente le regioni del Nord, con maggiore esperienza dei servizi e con maggiori risorse pubbliche e private, potranno più agevolmente trovare delle soluzioni a questo problema. Nelle regioni del Sud è da temere, ragionevolmente, un grave ritardo nell’attuazione della riforma anche a causa delle maggiori difficoltà a raggiungere ambiti territoriali accettabili in cui la riforma possa trovare soddisfacenti soluzioni.
8. Esigibilità dei diritti
E’ certo questo il problema più delicato, non nel senso che la legge di riforma abbia reso meno esigibili i diritti realmente tali in precedenza, ma nel seno che, dopo aver fin dall’inizio sbandierato tale esigibilità, poi in concreto non riesca direttamente a realizzarla. Si è già detto che per superare questo aspetto, bisognerà fare assegnamento su puntuali contenuti degli accordi di programma ed accordi di programma quadro, che recepiranno i “piani di zona”, previsti dall’art 19 della legge di riforma. Ma grava anche su questa soluzione la diversità dei sistemi istituzionali dei servizi fra Nord e Sud. Infatti nei Comuni del Sud, a differenza di quelli del Nord, sarà difficile programmare piani di zona che siano valida tutela dei diritti degli utenti.
9. Il rischio di strumentalizzazione del volontariato
In queste situazioni problematiche si accentua il rischio, non evitato già da parte di moltissime amministrazioni anche di centrosinistra, che si deleghino ed appaltino alle organizzazioni del terzo settore ed in particolare al volontariato organizzato, dati i suoi più bassi costi, quasi tutti i servizi alla persona, trattenendo la gestione diretta solo di quei servizi di bassa qualità rivolti alle persone con maggiori bisogni. Per le altre si provvederebbe secondo la logica della libera concorrenza nell’ambito del mercato sociale. In questa logica anche le organizzazioni di volontariato verrebbero risucchiate nel sistema delle imprese sociali di tipo routinario e tradizionale. Così come nel campo delle imprese commerciali sono quelle innovative che producono un innalzamento della qualità, anche le imprese sociali gestite dal volontariato debbono essere innovative e quindi produttive di valore sociale aggiunto. Se esse invece si lasciano tentare dal miraggio di gestione di servizi routinari e tradizionali, meno costosi e più agevolmente remunerati dal mercato o da “bonus” rilasciati agli utenti più poveri, il tradimento dei loro valori fondativi non tarderà ad evidenziarsi, annullando così il lungo cammino fatto nei decenni scorsi per emergere come nuovo soggetto “sociale” e come nuovo soggetto “politico”. Anzi verrà azzerato il significato di primo soggetto storico ad aver avviato l’esperienza di imprese sociali di qualità, dalla quale esperienza si è poi sviluppato il fenomeno della cooperazione sociale e dell’associazionismo sociale.
10. In sintesi
La nuova legge di riforma deve affrontare moltissimi problemi per una sua piena attuazione. Questi riguardano:
- atti applicativi - leggi-quadro regionali - problemi di finanziamento - diversità dei wellfare regionali - eccessivo numero di comuni singoli - esigibilità dei diritti - rischio di strumentalizzazione del volontariato.
11. Possibili azioni per il terzo settore
I soggetti del terzo settore in genere dovranno sforzarsi, secondo le proprie possibilità, di aiutare nella soluzione dei problemi prospettati e di altri, individuabili da studiosi ed operatori più attenti di chi scrive. In particolare però il volontariato ed anzi i diversi volontariati [3] , hanno il dovere di confrontarsi con la legge di riforma e, suo tramite, con la nuova società in cui essa è chiamata ad essere attuata. In questo confronto i volontariati dovranno tener presente il patrimonio di valori che hanno maturato e verificare sino a che punto essi si possano attualizzare nella nuova società che si prospetta, senza perdere il loro senso propulsivo iniziale. Per facilitare questo compito, si conclude questa rapida rassegna, con la pubblicazione della “Carta dei valori del volontariato”, alla quale anche i diversi soggetti del terzo settore dovranno ispirarsi.
12. La carta dei valori del volontariato [4]
I. PRINCIPI FONDANTI 1. Volontario è la persona che liberamente e gratuitamente, adempiuti i propri doveri civili e di stato, si pone a disposizione della comunità, promuovendo risposte efficaci e creative ai bisogni del territorio. Egli dunque ispira e motiva la propria vita a fini di solidarietà, responsabilità e giustizia sociale, utilizzando le proprie capacità e competenze in iniziative a favore degli altri e del bene comune. 2. Il volontariato è l’azione gratuita che i volontari possono compiere individualmente, attraverso aggregazioni spontanee o in forme organizzate. 3. Il volontariato concorre alla crescita della solidarietà e della responsabilità attraverso la partecipazione. Mira anzitutto alla formazione di cittadini responsabili, premessa indispensabile per promuovere l'impegno gratuito e spontaneo; pertanto non si occupa solo di coloro che sono esclusi o in stato di disagio, sofferenza e abbandono o di problemi sociali, ambientali e di emergenze, ma si rivolge anche agli inclusi e a tutti i cittadini perché si facciano carico dei problemi del territorio di appartenenza. 4. Il volontariato è pratica di cittadinanza solidale liberamente organizzata e variamente motivata ma comunque finalizzata all’allargamento della sfera pubblica e dei beni comuni e allo sviluppo della comunità e dei suoi membri. Impegnandosi a rimuovere le cause delle diseguaglianze economiche, culturali, sociali e politiche e concorrendo alla formazione e alla tutela dei beni comuni, il volontariato da una parte svolge opera costante di denuncia di tutte le forme di degrado e delle sue cause, e dall’altra coinvolge la popolazione nella costruzione di una giustizia globale. La cittadinanza è la visibilità della dignità della persona e dei suoi diritti nella comunità in cui risiede. È altresì la garanzia che i diritti umani fondamentali della persona vengano garantiti e tutelati e che ogni persona possa partecipare allo sviluppo civile della comunità. I diritti fondamentali e la cittadinanza ad essi collegata è tale sempre, anche se: si è privati di libertà; si è in condizione di esclusione sociale e di marginalità; si è in un paese diverso da quello di origine; e, infine, anche in mancanza di una categoria della cittadinanza che superi gli stessi confini di nazione. 5. Il volontariato si basa sulla solidarietà, che significa operare per la crescita e lo sviluppo della comunità e dei suoi membri a partire dagli ultimi. Una solidarietà che chiede di essere vissuta nella molteplicità dei suoi significati: essa è accompagnamento delle persone, azione di tutela, di inclusione sociale, di promozione, di prevenzione, di partecipazione, di salvaguardia e valorizzazione dei beni comuni. 6. Il volontariato è azione gratuita. La gratuità è l’elemento caratterizzante l’agire volontario, e lo distingue dalle altre forme di impegno civile e da quello delle altre (differenzia il volontariato da altre forme di impegno civile e dalle altre) componenti del terzo settore. Essa significa assenza di guadagno economico, ma anche assenza di rendita di posizione, libertà da ogni forma di potere, assenza di vantaggi diretti e indiretti. È testimonianza di libertà rispetto alle logiche dell'utilitarismo economico e dell'assolutizzazione del profitto. Nel volontariato la gratuità è dono. 7. Il volontariato è condivisione. Al centro del suo agire c’è la persona considerata nella sua dignità umana e nella sua unità, nel suo contesto e nel territorio in cui agisce singolarmente e collettivamente. Ciò significa considerare ogni uomo come soggetto di diritti, tutelando l'esercizio concreto e consapevole di questi fino al traguardo di un'autonoma capacità di autoprogettazione. La crescita di ciascuna persona non è però pensabile al di fuori dello sviluppo della comunità territoriale di appartenenza. 8. Il volontariato ha un ruolo politico nel sollecitare e verificare la realizzazione dei diritti positivi, nell’essere testimone attento dai bisogni e dei fattori di emarginazione e degrado, nell’individuare soluzioni e servizi, nel progettare e valutare le politiche sociali. 9. Il volontariato ha una funzione culturale nel proporre e diffondere stili di vita e valori caratterizzati dal senso della responsabilità, dell’accoglienza e della solidarietà, in modo che diventino patrimonio comune di coloro che vivono sul territorio.
II. ASPETTI REGOLATIVI 10. L’attività di volontariato è nello stesso tempo azione e proposta culturale, è testimonianza saldata al fare, capace di proporre stili di vita e valori senza i quali non si realizzano giustizia sociale, pluralismo culturale ed etnico, difesa dell'ambiente, miglioramento della qualità urbana, tutela e valorizzazione dei beni culturali, protezione civile, partecipazione alla vita sociale, e una politica intesa come organizzazione della speranza per un’azione di sviluppo e di maggiore giustizia. 11. L'azione del volontariato è orientata alla trasformazione del contesto sociale, e fornisce un contributo al miglioramento della qualità della vita, in tutti gli ambiti della comunità. Il volontariato si adopera perché si attivino tutte le risorse del territorio al fine di fronteggiare "insieme" i meccanismi che costituiscono svantaggio, sofferenza, discriminazioni sociali, diseguaglianze sostanziali o degrado ambientale e culturale. 12. L'azione volontaria, quando è relazione d’aiuto, è accompagnamento rispettoso e non impositivo, reciprocamente arricchente, disponibile ad affiancare l'altro senza volerlo plasmare a propria immagine o sostituirsi a lui. Essa dilata la libertà di tutti i soggetti, riconoscendo ad ogni individuo, senza discriminazione, la dignità e la capacità di essere attivo e responsabile protagonista della propria storia. 13. Il volontariato sta dalla parte di coloro che hanno bisogno sviluppando interventi e servizi di accoglienza, primo aiuto e ascolto, di tutela e promozione, di informazione e consulenza, di orientamento e animazione, di accompagnamento e sostegno. Opera perché le istanze e i problemi del territorio vengano considerati, valutati, proposti alle istituzioni competenti e affrontati con originalità di soluzione ed efficacia operativa. 14. L'azione volontaria guida e anticipa l'innovazione socioculturale a partire dalle condizioni e dai problemi esistenti. Il volontariato sperimenta interventi e rischia per conto della comunità, attrezzandosi con gli strumenti della progettualità, della verifica dei risultati e del controllo di gestione. Anche quando si fa carico degli esclusi evita di produrre percorsi segreganti e opera per il miglioramento dei servizi per tutti. 15. Il volontariato collabora con le altre forze del territorio e con le istituzioni nella definizione delle politiche sociali e nella programmazione degli interventi. Rifiuta però un ruolo di supplenza delle eventuali carenze delle istituzioni pubbliche, esercitando un continuo ruolo di critica e di proposta, perché adempiano al loro dovere di garantire i diritti di tutti i cittadini. Il volontariato non deve rinunciare alla propria autonomia in cambio di sostegno, economico o politico che sia. 16. Il volontariato svolge un'azione di mediazione, sviluppando la capacità di aprire confronti e dialoghi, di ridurre lacerazioni, di aprire forme nuove di comprensione e di conoscenza, di incontro tra diverse fedi, norme e valori, abitudini e costumi per superare un rapporto tra gruppi sociali segnato da diffidenza, competizione, violenza, insicurezza. 17. Per il volontariato giustizia e legalità sono concetti strettamente connessi tra loro. Sul fondamento della giustizia la legalità diventa lo strumento indispensabile - anche se non esclusivo - perché equità e uguaglianza siano valori realmente perseguiti. Il volontariato avversa ogni tipo di formalismo astratto e burocratico, che risulta contrario alla giustizia. 18. Per il volontariato trasparenza significa apertura all'esterno, disponibilità a sottoporsi ad un controllo diffuso di coerenza tra l'agire quotidiano e i principi enunciati.
III. GLI ATTORI I volontari Doveri 19. I volontari devono conoscere fini, obiettivi, struttura e programmi della formazione sociale alle cui attività partecipano in modo attivo e creativo. 20. I volontari svolgono i loro compiti con competenza e responsabilità, valorizzando il lavoro di équipe, e impegnandosi per garantire la continuità dei progetti. 21. Nello sviluppo responsabile della loro azione, i volontari si impegnano a mantenere una totale riservatezza rispetto alle informazioni ed alle situazioni di cui sono venuti a conoscenza. 22. Per svolgere nel modo migliore la loro azione, i volontari si impegnano a formarsi con continuità e serietà. 23. I volontari riconoscono, rispettano e difendono la dignità delle persone che incontrano e pongono sempre al centro del loro impegno lo sviluppo integrale dei destinatari della loro azione. 24. I volontari che operano dentro le organizzazioni di terzo settore devono realizzare pienamente il loro ruolo sociale sostenendone la finalità e l'attenzione ai bisogni più trascurati, rafforzando l'autonomia dell'organizzazione e il legame al territorio, contribuendo a motivare i lavoratori remunerati e il clima di lavoro, permettendo e favorendo l'innovazione, la progettualità e l'assunzione del rischio di impresa se è necessario per dare risposte ai bisogni. Diritti25. L'impegno di ogni volontario, in quanto ha valore di un diritto-dovere di cittadinanza, deve essere tutelato e promosso rispettandone lo spirito, le modalità operative e l'autonomia organizzativa. 26. I volontari hanno diritto a partecipare attivamente a tutti i momenti di vita e organizzazione dell'associazione, gruppo o comunità in cui operano, nel pieno rispetto delle regole e delle responsabilità in essi definiti. Hanno diritto ad essere ascoltati nelle organizzazioni in cui operano. 27. I volontari hanno diritto a ricevere l'informazione, il sostegno e la formazione necessari per la loro crescita e per l'attuazione dei compiti di cui si assumono la responsabilità, nella piena libertà di non essere coinvolti in attività per cui non si sentano sufficientemente preparati. 28. I volontari hanno diritto ad essere risarciti per i danneggiamenti che subiscono nella realizzazione della loro azione volontaria, e a ricevere la copertura assicurativa per i danni economici e morali che potrebbero causare a terzi. Possono ricevere il rimborso delle spese realmente sostenute per le attività di volontariato, ma non hanno diritto a rimborsi spese forfettari.
Le organizzazioni di volontariato 29. Le organizzazioni di volontariato si ispirano ai principi della partecipazione democratica valorizzando e promuovendo il contributo ideale e operativo di ogni aderente. È compito dell'organizzazione riconoscere e alimentare la motivazione dei propri aderenti attraverso un lavoro di inserimento e affiancamento, e una attività costante di formazione, sostegno e supervisione. 30. L'organizzazione di volontariato non è il solo attore delle politiche sociali, non si sostituisce agli altri soggetti responsabili, ma collabora con tutte le realtà che compongono la società, nella prospettiva di fondere sforzi comuni. Il volontariato ha grandi potenzialità, ma riconosce i propri limiti ed evita di accollarsi e di farsi carico di impegni che sono in prima istanza responsabilità di altri soggetti. 31. Le organizzazioni di volontariato perseguono i propri fini statutari senza chiudersi nello stretto recinto del proprio operare, promuovono connessioni e alleanze con altre organizzazioni di volontariato e di terzo settore e partecipano a coordinamenti e consulte che permettono azioni collettive e forza di pressione. Le organizzazioni di volontariato sociale sono luoghi permanenti di dialogo per formare un orientamento pubblico a beni comuni. 32. Per il suo ruolo politico il volontariato ha diritto ad essere riconosciuto come soggetto di partecipazione nelle sedi appropriate di programmazione e valutazione delle politiche sociali e del territorio e quindi di prendere parte ai processi di cambiamento. 33. La formazione deve accompagnare l'intero percorso dei volontari e sostenere costantemente le loro azioni, favorendo la coscienza delle proprie motivazioni ad operare solidaristicamente, fornendo la conoscenza profonda delle cause dell'ingiustizia sociale o dei problemi del territorio e le capacità e le tecniche specifiche necessarie per il lavoro e per la valutazione dei risultati. 34. Le finalità sociali del volontariato non possono prescindere da una moderna cultura della comunicazione intesa come strumento di relazione, di promozione culturale e di cambiamento nella misura in cui realizzi attività di sensibilizzazione sui temi e problemi del sociale e favorisca la costruzione di rapporti e sinergie sul territorio. Il volontariato può così interagire al meglio anche con il mondo dei mass media e dei suoi operatori per motivarli a veicolare messaggi ispirati dall'etica del volontariato e far conoscere azioni, interventi e finalità del proprio operare. 35. Legalità e trasparenza nell'uso corretto del denaro, nei bilanci e nella distribuzione del lavoro e degli incarichi sono le condizioni imprescindibili perché le organizzazioni del volontariato sociale divengano "segno" visibile e credibile di libertà, giustizia, partecipazione e gratuità.
[1] L’elenco è stato scaricato dal sito internet www.comune.jesi.ancona.it/grusol, che è il portale curato dall’associazione “Solidarietà” di Moie di maiolati (An) e dalla sua rivista “Appunti”. [2] Questo sistema, introdotto dalla L. n. 266/91, a favore delle organizzazioni di volontariato è stato esteso a tutte le organizzazioni non lucrative di utilità sociale, Onlus, dal decreto legislativo n. 460/97 ed è stato generalizzato con l’art. 68 bis della L. n. 342/2000. [3] Cfr Achille Ardigò, “I volontariati e la globalizzazione”, ed. Dehoniane, Bologna, 2001. [4] A tale testo è possibile proporre miglioramenti sino a dicembre 2001, partecipando al forum aperto dalla F.i.vol. sul proprio sito internet, www.fivol.it . |
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