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SPECIALE 180/Una legge che ha fatto la storia della psichiatria A 28 anni dall’approvazione, storia, origini e principi del moto riformatore che ha portato alla chiusura dei manicomi e a un nuovo concetto di cura. “Il malato è prima di tutto una persona e come tale deve essere considerata”
“Nei casi di cui alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato, possono essere disposti dall’autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura”: si apre così la legge 180, approvata il 13 maggio del 1978 e destinata a non soltanto a rivoluzionare il trattamento medico-psichiatrico della malattia mentale, ma soprattutto a trasformare radicalmente l’impianto teorico della cultura psichiatrica nel nostro paese. L’incompatibilità tra cura della malattia e privazione della libertà, della dignità e dei diritti civili del malato non era in quegli anni un concetto universalmente riconosciuto e accettato. Le condizioni disumane in cui vivevano i pazienti ricoverati negli ospedali psichiatrici solo da pochi anni avevano suscitato qualche perplessità e dato origine alle prime tendenze riformatrici. Franco Basaglia aveva 37 anni quando incontrò per la prima volta la realtà del manicomio: nel 1961, dopo aver rinunciato alla carriera universitaria intrapresa presso l’università di Padova, assunse la direzione dell’Ospedale psichiatrico di Gorizia. L’impatto fu traumatico: il giovane psichiatra osservava con sconcerto le pratiche in uso all’interno del manicomio e i trattamenti vessatori a cui i degenti erano sottoposti. Elettroshock, camicia di forza, contenzione, induzione di febbri malariche erano solo alcune delle torture non soltanto tollerate, ma addirittura prescritte dal regolamento di questi istituti. Basaglia iniziò a guardare con interesse alle correnti psichiatriche di origine fenomenologia ed esistenziale (Jaspers, Minkowski, Binswanger) e provò gradualmente a ricreare, all’interno dell’ospedale psichiatrico, il modello della “comunità terapeutica”, di origine britannica. “Un malato di mente entra nel manicomio come ‘persona’ per diventare una ‘cosa’. Il malato, prima di tutto, è una ‘persona’ e come tale deve essere considerata e curata (...) Noi siamo qui per dimenticare di essere psichiatri e per ricordare di essere persone”, ripeteva il nuovo Direttore ai medici ed agli infermieri del suo manicomio. Iniziò così, all’interno dell’Istituto goriziano – allora abitato da circa 650 degenti – una vera e propria rivoluzione: abolite le pratiche più inumane e lesive della dignità della persona, Basaglia si impegnò a costruire un rapporto tra i pazienti e il personale medico e infermieristico. Ciò richiese naturalmente un difficile lavoro di formazione professionale e culturale, che incontrò non poche difficoltà e opposizioni. Nel 1969 Basaglia lasciò Gorizia, per assumere la direzione dell’ospedale di Colorno e, due anni dopo, del manicomio “San Giovanni” di Trieste. Anche qui lo psichiatra ripropose il modello della “comunità terapeutica” e introdusse laboratori artistici e creativi, capaci di sviluppare e valorizzare le capacità dei pazienti. Fu in quegli anni che Basaglia sentì la necessità di estendere il proprio campo di azione e di cercare di trasformare non soltanto la vita interna agli istituti, ma tutta la cultura e la politica della salute mentale in Italia. Arrivò così a proporre la chiusura dei manicomi, alla luce del fallimento di queste strutture, che di fatto avevano ottenuto l’unico risultato di allontanare il malato dalla società e condannarlo all’isolamento e all’abbandono. Nel 1973 Basaglia fondò il movimento Psichiatria Democratica e quello stesso anno Trieste venne designata "zona pilota" per l'Italia nella ricerca dell'Oms sui servizi di salute mentale. Nel 1977 il manicomio di Trieste fu chiuso e, l’anno successivo, il Parlamento approvò la legge 180, che recepiva le richieste e le idee del nuovo movimento e sanciva la chiusura degli ospedali psichiatrici. “E’ vietato costruire nuovi ospedali psichiatrici, utilizzare quelli attualmente esistenti come divisioni specialistiche psichiatriche di ospedali generali, istituire negli ospedali generali divisioni o sezioni psichiatriche e utilizzare come tali divisioni o sezioni neurologiche e neuropsichiatriche (…). Negli attuali ospedali psichiatrici possono essere ricoverati, sempre che ne facciano richiesta, esclusivamente coloro che vi sono stati ricoverati anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge e che necessitano di trattamento psichiatrico in condizioni di degenza ospedaliera”. La psichiatria e, in generale, la cura della malattia mentale, dovevano dunque uscire dall’isolamento in cui fino allora erano state costrette, per essere affidate a “specifici servizi psichiatrici di diagnosi e cura (…) organicamente e funzionalmente collegati, in forma dipartimentale, con gli altri servizi e presidi psichiatria esistenti nel territorio”. Nel novembre del 1979 Basaglia si trasferì a Roma, dove assunse l'incarico di coordinatore dei servizi psichiatrici della Regione Lazio, ma appena un anno dopo morì. A 28 anni dall’entrata in vigore della legge 180, molti restano i nodi irrisolti nella cura della malattia mentale e tanti i problemi ancora aperti nella cultura psichiatrica del nostro paese. “Superabile” ha incontrato alcuni testimoni di questa cruciale trasformazione, è entrato in alcuni dei luoghi in cui questa “rivoluzione” si è compiuta e ha provato a raccontare alcuni frammenti di questa complessa realtà. (Chiara Ludovisi) Superabile ha scelto per voi alcuni brani tratti dall’omonimo libro di Franco Basaglia, che definiscono le “istituzioni della violenza” e già intravedono la svolta tecnicista e farmacologica delle nuove forme di esclusione nella società del benessere
Nel libro manifesto "L'istituzione negata" del 1968, Franco Basaglia formula il concetto di “istituzioni della violenza” definendole come le istituzioni sociali - quali la famiglia, la scuola, il carcere, il manicomio - laddove violenza ed esclusione sono giustificate dall’educazione, dalla colpa e dalla malattia. Ma la prospettiva del professore è lungimirante e già avverte la svolta tecnicista in atto nella società del benessere. Non potendo accettare aperte forme di esclusione gratuita – onde evitare profonde contraddizioni al suo interno –, la società appalta nuove forme di violenza alla scienza e alla definizione tecnica di nuove deviazioni fino ad allora nella norma.
“Gli esempi potrebbero continuare all’infinito, toccando tutte le istituzioni su cui si organizza la nostra società. Ciò che accomuna le situazioni limite riportate, è la violenza escogitata da chi ha il coltello dalla parte del manico, nei confronti di chi è irrimediabilmente succube. Famiglia, scuola, fabbrica, università, ospedale, sono istituzioni basate sulla netta divisione dei ruoli: la divisione del lavoro (servo e signore, maestro e scolaro, datore di lavoro e lavoratore, medico e malato, organizzatore e organizzato). Ciò significa che quello che caratterizza le istituzioni è la netta divisione fra chi ha il potere e chi non ne ha. Dal che si può ancora dedurre che la suddivisione dei ruoli è il rapporto di sopraffazione e di violenza fra potere e non potere, che si tramuta nell’esclusione, da parte del potere, del non potere: la violenza e l’esclusione sono alla base di ogni rapporto che si instauri nella nostra società.
I gradi in cui questa violenza viene gestita sono, tuttavia, diversi a seconda del bisogno che chi detiene il potere ha di velarla e di mascherarla. Di qui nascono le diverse istituzioni che vanno da quella familiare, scolastica, a quelle carcerarie e manicomiali; la violenza e l’esclusione vengono a giustificarsi sul piano della necessità, come conseguenza le prime della finalità educativa, le altre della «colpa» e della «malattia». Queste istituzioni possono essere definite come le istituzioni della violenza.
Questa la storia recente (in parte attuale) di una società organizzata sulla netta divisione fra chi ha (chi possiede in senso concreto, reale) e chi non ha; da cui deriva la mistificata suddivisione fra il buono e il cattivo, il sano e il malato, il rispettabile e il non rispettabile. Le posizioni sono – in questa dimensione – ancora chiare e precise: l’autorità paterna è oppressiva e arbitraria; la scuola si fonda sul ricatto e sulla minaccia; il datore di lavoro sfrutta il lavoratore; il manicomio distrugge il malato mentale.
Tuttavia, la società cosiddetta del benessere e dell’abbondanza ha ora scoperto di non poter esporre apertamente il suo volto della violenza, per non creare nel suo seno contraddizioni troppo evidenti che tornerebbero a suo danno, ed ha trovato un nuovo sistema: quello di allargare l’appalto del potere ai tecnici che lo gestiranno in suo nome e continueranno a creare – attraverso forme diverse di violenza: la violenza tecnica – nuovi esclusi.
Il compito di queste figure intermedie sarà quindi quello di mistificare – attraverso il tecnicismo – la violenza, senza mai arrivare a prenderne coscienza e poter diventare, a sua volta, soggetto di violenza reale contro ciò che lo violenta. Il compito dei nuovi appaltatori sarà quello di allargare le frontiere della esclusione, scoprendo, tecnicamente, nuove forme di deviazione, fino ad oggi considerate nella norma.” (L’istituzione negata, 1968, Franco Basaglia) (Gabriele del Grande) “Motivo del ricovero: idee politiche” 41 padiglioni per tre categorie: “agitati, tranquilli e sudici”. La storia del manicomio romano Santa Maria della Pietà, da piazza Colonna a Monte Mario Era in aperta campagna e ci si arrivava solo col tram “35”: per questo motivo, ancora oggi in alcune tradizioni popolari il 35 evoca “il matto”. Il manicomio di Roma era nato a metà del 1500, come ricovero per barboni e vagabondi: in occasione dell’Anno Santo del 1550, la Chiesa aveva stabilito che le persone di dubbia moralità e dai costumi deplorevoli che vivevano sulle strade della città fossero sottratti alla vista dei pellegrini e accolti all’interno del “Santa Maria della Pietà”. Che, a quel tempo, si trovava nel cuore di Roma, a piazza Colonna. Fu il Cardinale Barberini a dettare il Codice che conteneva le regole per il controllo e la gestione di questa struttura, la quale ben presto si specializzò nell'accoglienza dei "poveri pazzi".
Nel 1725, iniziò il progressivo allontanamento del “manicomio” dal centro della città: la struttura fu infatti trasferita a via della Lungara, dove ora sorge l’ospedale Santo Spirito. Una zona a quell’epoca, decisamente periferica e marginale. Il Santa Maria della Pietà, unica struttura pubblica per il ricovero di malati psichiatrici, viveva allora una situazione assai difficile: mentre il numero di malati aumentava inesorabilmente, nel 1798 fu sospesa ogni forma di contributo statale a suo favore. Al tempo stesso, l’atteggiamento caritatevole e assistenziale lasciava il passo ad un approccio sempre più “clinico” alla malattia, con l’introduzione della camicia di forza – che sostituisce le catene – e l’obbligo della visita medica quotidiana.
Dopo l’unità d’Italia e la fine dello stato pontificio, la gestione dell'istituto fu affidata prima ad una commissione parlamentare, poi alla Provincia di Roma, ma bisognò attendere il 1904 per avere la prima legge che regolamentasse l’istituto manicomiale: la cosiddetta “legge Giolitti”, che all'articolo 1 disponeva l'internamento "per le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale". Internamento e dimissione potevano essere richiesti dalla famiglia, ma anche disposti, in casi di “urgenza”, dalle autorità di pubblica sicurezza. E’ così che l’istituto psichiatrico andò somigliando sempre più a un vero e proprio carcere, che col tempo venne popolato non soltanto da malati psichiatrici, ma soprattutto da persone sole, povere, emarginate e, col passar degli anni, dai tanti orfani di guerra.
Nel 1913 fu compiuto l’ultimo atto di “marginalizzazione” del manicomio: l’istituto viene infatti trasferito a Monte Mario, che allora si trovava all’estrema periferia della città. La struttura è immensa: 41 padiglioni e un ampio parco circostante, dal quale però i pazienti sono separati da reti invalicabili. Nel 1960 i pazienti sono circa 3.000, divisi in “agitati”, “tranquilli” e “sudici”. Il padiglione 18 è riservato ai criminali, mentre nel nono sono accolti i bambini, condannati all’inattività per tutto il giorno. Della malattia mentale si aveva, in quegli anni, una concezione assolutamente organicista: tutto proveniva dal cervello e nulla derivava dal contesto sociale. Conseguenza di questa impostazione era la negazione totale dei rapporti con l’esterno ma anche delle relazioni interne al carcere e la riduzione del malato ad un oggetto, destinatario di trattamenti per lo più disumani: entrando nel manicomio, il paziente si lasciava alle spalle la propria identità, la propria umanità, i propri ricordi. Nella “fagotteria” doveva depositare tutti i suoi oggetti personali, tra cui le foto dei suoi cari, ed indossare la divisa e le scarpe dell’istituto.
Da quel momento in poi, le sue giornate sarebbero trascorse nell’inattività assoluta, quasi sempre in stanze affollate da centinaia di persone e in assenza di qualsiasi stimolo e possibilità di espressione. Qualsiasi infrazione alle regole, o anche soltanto uno stato di agitazione o un segno di malessere, sarebbero stati “curati” e repressi con le tecniche più spietate: l’elettroshock, la camicia di forza, ma anche la “sala di contenzione” qui i pazienti venivano legati a un letto con cinghie che impedivano qualsiasi movimento: si poteva restare così per uno o due giorni, ma anche per uno o due anni, con gravissime conseguenze sulla salute del corpo e della mente. Era poi in uso la “malaroterapia”, cioè l’induzione di febbri malariche tramite il contagio trasmesso dalle zanzare anofele appositamente allevate all’interno dell’istituto. Il regolamento scoraggiava qualsiasi forma di relazione umana all’interno della struttura: uomini e donne vivevano separati e non potevano incontrarsi – questa regola valeva anche per gli infermieri – e tra personale medico e pazienti non doveva esserci nessun tipo di rapporto.
La “vacchetta”, cioè il registro in cui erano annotati i nomi e le malattie dei pazienti ricoverati, racconta ancora le assurdità e le contraddizioni che hanno scandito la storia del manicomio. Nel fascicolo del 1863 si legge: “Frassinelli padre Davide; professione sacerdote; motivo del ricovero: idee politiche; natura della malattia; errore d’intelletto”.
Il manicomio di Roma chiuse nel 1999, quasi 20 anni dopo l’approvazione della legge 180. Non fu facile dimettere centinaia di pazienti, molti dei quali erano cresciuti all’interno del manicomio e non avevano alcun punto di riferimento all’esterno di esso. La maggior parte di loro sono oggi ricoverati in case famiglia o altri istituti di cura, solo pochissimi sono rientrati nella propria casa. Alcuni tornano ogni giorno, per portare il cane al parco o saluta l’infermiere di allora, che nonostante le difficoltà e le regole del manicomio, era riuscito a costruire un rapporto e ha conquistato l’affetto dei suoi pazienti.
La storia e la vita del manicomio di allora può essere ancora oggi in parte ripercorsa, grazie al Museo della Mente ospitato all’interno della struttura. Per informazioni e prenotazioni, telefonare al numero 06.68352857, oppure 06.68352927 (Chiara Ludovisi)
“La malattia fisica o mentale non può essere motivo di declassificazione” Gianni Tognoni, Direttore del Consorzio Mario Negri Sud e Segretario generale del Tribunale dei popoli, racconta storia, principi e prospettive della legge 180, a 28 anni dalla sua approvazione E’ direttore del Consorzio Mario Negri Sud e Segretario generale del Tribunale permanente dei popoli. Esperto di cure e di diritti, il professor Gianni Tognoni è una voce autorevole per tutto ciò che riguarda la tutela delle salute nel nostro paese. A lui abbiamo chiesto di illustrarci il valore storico e culturale della legge 180/1978 e lo stato di applicazione di questa fondamentale riforma.
Professor Tognoni, la legge 180 ha rappresentato nel nostro Paese una svolta dal punto di vista medico, sociale e culturale. In base alla Sua esperienza diretta, come giudica il passaggio dagli ospedali psichiatrici alle nuove strutture?
La legge 180 ha rappresentato il momento in cui si è applicato in modo esemplare il concetto che la salute è un diritto fondamentale, costituzionale, inviolabile. In altre parole, la legge sancisce un principio preesistente: il problema fisico o mentale non può determinare la declassificazione della persona. Un principio talmente ovvio che è incredibile che ci sia voluto tanto tempo per definirlo.
Gli anni successivi all’approvazione della legge hanno portato effettivamente trasformazioni in linea con i principi da essa espressi? La legge ha innanzitutto avuto le sue lentezze di applicazioni, anche perché portava con sé una trasformazione culturale di ampia portata. Gli anni successivi hanno di fatto tradito lo spirito della legge, sottraendo priorità al concetto di salute come diritto fondamentale e riducendo il sistema sanitario a qualcosa di molto simile ad un’azienda, in cui ciò che conta sono le prestazioni e i farmaci, prima ancora che le persone: esattamente il contrario di ciò che Basaglia chiedeva.
Cosa non ha funzionato nel passaggio dagli ospedali psichiatrici alle nuove strutture? Le strutture di per sé non sono un problema: sono stati realizzati servizi psichiatrici territoriali e comunità alloggio, per esempio,. Ciò che manca è però la continuità assistenziale e una corretta interpretazione dei criteri stabiliti nella legge.
Cosa c’è che non funziona, concretamente? Un esempio per tutti: ancora oggi esistono luoghi di “cura” in cui è generalizzata la pratica di legare le persone. I responsabili, da parte loro, si giustificano con la mancanza di personale. Di fatto, siamo di fronte a una vero e proprio boicottaggio della logica della 180.
Ragioni di mercato? Sì, indubbiamente molto dipende dalla mancanza di un investimento finanziario specifico. Va anche detto che la medicina, in questo campo, è ancora molto ignorante e in questi anni ha fatto modestissimi passi avanti. Prevale, in ogni caso, la preoccupazione pere l’efficienza, intesa per lo più in termini economici. Ciò che manca è, in sintesi, un piano sanitario specifico. Sebbene esistano esperienze di tutto riguardo, come quella triestina, tuttavia si rischia nel nostro Paese un ritorno alla marginalizzazione dei pazienti psichiatrici.
La legge 180 è stata spesso accusata di scaricare tutte le responsabilità dei pazienti psichiatrici sulle famiglie. Condivide questa affermazione? No. Se qualcosa di positivo è stato fatto in questi anni, questo stato proprio l’incremento della partecipazione delle famiglie nella valutazione e nella programmazione dei servizi.
Cosa si auspica per il prossimo futuro? Che sia riconosciuta l’abilità sociale del paziente psichiatrico e che si dia continuità alla vita di queste persone. Resta poi un serio problema da risolvere, che è quello del paziente con cronicità. Occorre interpretare la legge in modo flessibile per adattarla alle condizioni specifiche, garantendo il supporto necessario anche alle famiglie”.
Cosa risponde a chi invoca la riapertura dei manicomi? Il ripristino degli ospedali psichiatrici sarebbe un esempio di stupidità istituzionale, oltre che un errore tecnico. Ovviamente, è fuori discussione. (Chiara Ludovisi) Tommaso Losavio, direttore del progetto che portò alla chiusura del manicomio di Roma alla fine del 1999, ricorda le condizioni in cui trovò il Santa Maria della Pietà, le ultime dimissioni e lo stato dell’arte della salute mentale in Italia alla luce delle idee di Franco Basaglia Santa Maria della Pietà ha ospitato il manicomio di Roma dal 1914 al 1999, quando sotto la direzione di Tommaso Losavio ha definitivamente chiuso i battenti. Oggi ospita i padiglioni della Asl, e un museo che racconta la vita delle migliaia di persone che vi furono recluse negli anni. Losavio - oggi presidente del Centro studi e ricerche Santa Maria della Pietà – venne nominato direttore del progetto di superamento del manicomio nel 1993. Quindici anni dopo la legge 180, che definiva la chiusura dei manicomi, al Santa Maria della Pietà vivevano 500 persone, parte del “residuo manicomiale” che in quegli anni contava circa 20mila tra uomini e donne in tutta Italia.
Dottor Losavio nel 1978 viene approvata la legge 180, ma il Santa Maria della Pietà chiude solo 21 anni dopo. Un po’ tardi non crede? Nel 1980 sono cessati soltanto i ricoveri e la riduzione delle persone avveniva soprattutto attraverso i decessi dei più anziani. C’era chi sosteneva che il manicomio si sarebbe chiuso con la morte dell’ultimo ricoverato. Non è andata così, ma all’inizio i colleghi della vecchia guardia non erano d’accordo. Insieme a due infermieri del mio servizio territoriale, travestito da ingegnere che doveva mettere un termosifone, nel 1982 ho occupato abusivamente un appartamento abbandonato di proprietà del comune di Roma. Cinque ore dopo ci abbiamo portato 5 signore del manicomio. Nel 1982 serviva rompere l’ordine delle cose, con l’incarico del 1993 la chiusura divenne l’obiettivo del progetto che dirigevo.
Come si presentava il Santa Maria della Pietà nel 1993? Quando sono arrivato ho trovato una paziente, di nome Giuseppina, 44 anni, legata a un termosifone, nuda. Era un pomeriggio di luglio del 1994. Giuseppina era l’emblema del manicomio. Oggi non è guarita, malata era e malata resta, fra l’altro con danni istituzionali gravissimi, ma è stata restituita alla vita sociale. Aver chiuso i manicomi non significa la guarigione, ma la cura della malattia mentale non può prescindere dal rispetto dei diritti delle persone.
Quali sono state le dimissioni più difficili? Quelle dei pazienti più adattati, che più avevano introiettato le regole manicomiali, che apparentemente stavano meglio. Molti erano qui da bambini, l’idea di andare in un fuori minaccioso li spaventava.
All’ingresso in manicomio le persone abbandonavano tutti i loro oggetti personali e indossavano una divisa identica per tutti. È stato facile per chi è uscito ricostruirsi un’identità? Ai pazienti che dimettemmo dopo la chiusura chiedemmo di scegliere mobili e lampadari della nuova casa. Spesso erano di un kitsch orribile, ma erano personalizzati. Ognuno arredava la stanza come meglio credeva, gli facevamo spendere i loro soldi per comprare l’arredamento, perché il senso d’appartenenza fosse più alto. Dovevamo permettere a delle identità annullate dall’istituzione manicomiale di rigenerarsi, e allora andava bene anche il veneziano arabescato o il lampadario barocco, perché lo avevano scelto loro. Persone molto regredite tornavano ad avere desideri, il problema era che molti infermieri opponevano resistenza, e più in generale si rifiutavano di lavorare in modo diverso.
Parliamo della legge 180, domani è il 28° anniversario della sua approvazione. Che bilancio ne fa? Da un punto di vista organizzativo la legge è applicata nelle varie realtà regionali, la rete di servizi alternativa al manicomio è stata creata. Ma a distanza di tanti anni, secondo un parere personale ma condiviso con chi partecipò alla fase iniziale della deistituzionalizzazione, ci possiamo ritenere completamente insoddisfatti. L’alternativa al manicomio non poteva essere di nuovo l’abbandono di persone in grave difficoltà, né l’aggravio dei problemi sulle famiglie, e tanto meno la riproposizione di nuove forme di tipo manicomiale, camuffate sotto forma di ghetti protetti dove i pazienti sono privati dei loro diritti.
Intende dire che la rete dei servizi di salute mentale non è ancora in grado di assolvere ai suoi compiti? E perché? Di fatto non lo è, e non tanto per un problema di quantità quanto di qualità delle funzioni e delle competenze. Non possiamo riproporre modelli che pretendono di curare la malattia senza prendersi cura delle persone. E non bisogna spostare l’attenzione sul dibattito pro o contro la legge 180, perché non fa altro che creare alibi di disattenzione. Il problema non è cambiare o non cambiare la legge, il problema è fare politiche corrette di salute mentale non solo destinando fondi, ma anche progettando servizi e determinando competenze, il che chiama in causa gli amministratori, Regioni in primis.
Ma quei servizi e quelle competenze non sono affidati ai Centri di salute mentale (Csm)? Sì, ma il problema è legato alla formazione e all’organizzazione di un servizio di qualità. Nel Lazio ci sono una cinquantina di Csm, un numero sufficiente e rispettoso degli standard stabiliti dai progetti obiettivo. Ma un Csm non è un ambulatorio psichiatrico e non deve riproporre a livello di comunità uno studio specialistico. Deve invece essere un centro che produce salute mentale nella comunità, che accoglie le domande che arrivano, ed eroga risposte, anche non programmate. Serve quindi una strutturazione molto diversa da quella che nel Lazio stanno assumendo scimmiottando un modello organizzativo di tipo privato. In Friuli, Campania, Toscana, alcuni Csm sono aperti 24 ore su 24, quando nel resto del Paese lo sono solo alcune ore del giorno e chiudono il sabato e la domenica. In questo modo succede che in situazioni momentanee di difficoltà, non sempre dovuta a un problema di gravità o di disturbo, la persona è ospitata per due, tre giorni senza ospedalizzarla. Questo garantisce di evitare rischi di nuove forme di sequestro e di abbandono, perché le famiglie non sono lasciate da sole.
Dunque esiste ancora il rischio di riproporre un modello di intervento che tende a curare la malattia senza prendersi cura della persona e del contesto in cui vive? Sì, con la pratica basagliana abbiamo imparato che prendersi cura della persona che sta male significa interagire con la famiglia e con il mondo di relazioni del contesto in cui la persona vive. Curare soltanto la malattia è inefficace, e il manicomio ha dimostrato il fallimento di questo modello.
Ma una buona legge basta da sola a cambiare certi modelli professionali? No, a Roma ad esempio molti colleghi nel privato usano ancora l’elettroshock. Certi modelli teorici non si modificano con battaglie ideologiche, ma organizzando servizi capaci di dare risposte diverse. Basaglia modificò e poi smantellò i manicomi lavorando dall’interno.
Alcuni accusano Basaglia perché mettendo al centro i diritti dei malati, avrebbe di fatto negato la malattia mentale. Cosa ne pensa? La messa tra parentesi della malattia mentale è servita per riscoprire la persona malata. Il sintomo della malattia non è ciò che devo curare, ma ciò che devo capire. Il linguaggio incomprensibile di un delirio, di un’allucinazione o di una depressione non è soltanto un’espressione malata ma un’espressione di senso. Mettere tra parentesi la malattia restituisce senso alla sofferenza di una persona, che appare incomprensibile perché io non la capisco e non perché appartenga ad un mondo alieno. Il che non significa negare la malattia. Altrimenti la semplificazione è che tu soffri e io ti do le pillole per eliminare la tua sofferenza, che è quello che avviene oggi in una psichiatria che tende a riproporre modelli biologici e organicistici, evidentemente con grande interesse dell’industria farmaceutica. (Gabriele Del Grande)
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