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PARMA 6-9 DICEMBRE 2002

Altri mondi sono possibili
no un'altra mondializzazione

di Serge Latouche,
Professore emerito dell'Università di Parigi Sud

"aqui, um outro mundo è possivel se la gente quiser"
Beto Hermann

 

Dopa la farsa di Johannesburg, è importante ripetere che "altri mondi sono possibili", ma nel medesimo tempo prendere coscenza che non si tratta di un altra mondializzazione.

La rivendicazione da parte del movimento "non global" di mondialità o di una "mondializzazione altra (dal basso, umana ecc.) suscita dei dibattiti nell'ambito della società civile (e pensavo più precisamente ai gruppi locali di ATTAC).

Alcuni non si sentano offuscati di essere considerati come "anti mondialisti" - scettici al riguardo di un universalismo di stampo esclusivamente occidentale che senza identificarsi alla tirannia dei mercati porta con se nello stesso modo la traccia dell'imperialismo culturale e dello sviluppo etnocida militano piuttosto in favore di un mondo multipolare, multiculturale

Certo, esiste una quasi-unanimità a sinistra (e anche al centro) per denunciare i danni di una mondializzazione liberale, se non addirittura ultra-liberale.

Questa critica consensuale si articola su questi sei punti:

1) la denuncia delle disuguaglianze crescenti tanto tra il Nord e il Sud, quanto all’interno di ciascun paese.

2) La trappola del debito per i paesi del Sud con le sue conseguenze sullo sfruttamento sconsiderato delle ricchezze naturali e la reinvenzione del servaggio e della schiavitù (in particolare dei bambini).

3) La distruzione dell’ecosistema e le minacce che l’inquinamento fanno pesare sulla sopravvivenza del pianeta.

4) La fine del welfare, la distruzione dei servizi pubblici e lo smantellamento dei sistemi di protezione sociale.

5) “L’onnimarchandisation” (onnimercificazione), con i traffici di organi, lo sviluppo delle “industrie culturali” e uniformizzanti, la corsa alla brevettabilità dell’essere vivente.

6) L’indebolimento degli Stati-nazione e l’aumento di potere delle multinazionali come “i nuovi padroni del mondo”.

I membri del movimento detto antiglobalizzazione (no global) a Seattle, a Genova, a Firenze e altrove che sono i veri nemici della mondializzazione totale gridano a tutto voce che "un altro mondo è possibile" - Questo slogan ottimamente proclamato e gestito è diventato una sorta di inno del popolo anti-mondializzazione a Porto Alegre. Un altro mondo tuttavia, cio' non significa necessariamente un'altra mondializzazione, ma piuttosto un'altra società o meglio ancora "altre" societa'. Siamo logici se la storia non finisce con l'attuale trionfo apparente del coktail democrazia e mercato all'occidentale, c'è posto per degli "altri mondi". E' importante allora chiarire le cose e vedere che cosa puo' significare una mondializzazione non liberale, valutare i punti deboli ed i limiti di un tale progetto e opporgli una vera alternativa plurale.

 

1 Il progetto di una mondializzazione non liberale

Evidentemente, essere contro la mondializzazione impostata dal G.8, il governo americano e le organizzazioni di Bretton Woods non significa in poche parole essere contro ogni forma di mondializzazione.

Si puo' pensare che un altro modo di mondializzare permetterebbe di portare rimedio ai sei mali riconosciuti della liberalizzazione economica planetaria. L'economia capitalista per chiamarla con il suo nome, il mercato ed anche la speculazione hanno potuto essere regolati in passato e circoscritti in maniera relativamente soddisfacente (agli occhi dei beneficiari del primo mondo almeno). Perchè le cose non sarebbero più cosi' oggi-giorno ? Si puo' immaginare con i fautori della sovranità dello stato (souverainistes) che un ritorno a un assetto nazionale rivitalizzato da una ventata di cittadinanza è auspicabile e possibile. Tuttavia se è necessario sicuramente resistere alle offensive che mirano a smantellere tutto cio' che resta della regolazione statale di un tempo, non ci si puo' fare troppe illusioni sul risultato finale di una lotta che si hanno buone ragioni di credere di "retroguardia". In maniera più realista, non si puo' non pensare che l'evoluzione recente è irreversibile e che è urgente smorzare il processo reinserendolo nella società. Lo stesso obiettivo di Porto Alegre 2 non era forse di fare delle proposizioni concrete e costruttive per umanizzare la mondializzazione e contro bilanciare il forum economico di Davos?

La prima forma di reazione alla mondializzazione liberale per un ritorno al nazionale è (o era) molto bene rappresentata in Francia dal progetto chevenementista (dal nome del ex-ministro Jean-Pierre Chevènement).

Questo progetto si radica anche un po' ovunque in Europa sotto le forme populiste e xenofobe molto più inquietanti (Heider, Bossi, Le Pen, Pays bas, ecc.) e il danno di una tale deriva non è minore anche per lo chevènementismo.

La seconda forma di reazione, quella che domina abbondantemente in seno al movimento del forum sociale, è favorevole a una mondializzazione altra. Si tratta di dare tutto il suo peso alla "società civile globale" per imporre una mondializzazione regolata (non selvaggia). Quest'ultima puo' essere concepita a scelta con un metodo chiaramarente riformista o con degli accenti più marcatamente rivoluzionari. Sopratutto cio' che è denunciato nella mondializzazione attuale è la dittatura dei mercati finanziari, detto altrimenti, la predominanza della sfera speculativa sulla sfera produttiva.

Il progetto potrebbe prendere la forma di un'economia altra, una economia non liberale, rispettosa della riproduzione della biosfera e degli uomini. Si tratterebe di un capitalismo "altro" ? restiamo seri. Sarebbe illusorio ed irresponsabile volerne uscire pensano i defensori dell' "altra" mondializzazione. Nessuno dopo il crollo dell'esperienza socialista rimette veramente in causa ne il "mercato" ne il "capitalismo". Questi qui appaiono come gli orizzonti insuperabili del nostro tempo. Tuttavia non siamo prigionieri della fine della storia e del pensiero unico poichè è possibile ibridare molto questo capitalismo di mercato e una volta per tutte di imporgli delle norme da rispettare. L'ibridazione è per esempio quella che propone Jean-Louis Laville e i suoi soci-collaboratori di una economia plurale e solidale fondata sui tre poli della redistribuzione statale, della reciprocità associativa e del mercato concorrenziale.

Questo emergere di un "terzo settore" nel lato sensu è suscettibile secondo i suoi promotori di umanizzare o civilizzare l'economia soprattutto quando essa è sorretta con delle regole che rimettano nei binari le cieche forze del Mercato.

La regolazione, in quanto tale, sarà quella imposta da una istanza normativa mondiale da porre in opera (a meno di sovvertire quelle che già esistono) [1]. E per esempio, l'OMDS (Organisation mondiale du développement social/Organizzazione Mondiale dello Sviluppo Sociale) proposta da Ricardo Petrella. La base filosofica di questa vera mondialità non è altra che la filosofia dei Lumi con i diritti dell'uomo, la democrazia e l'universalismo.

Sul piano economico questo progetto alternativo si riassume finalmente abbastanza bene nello slogan dello sviluppo sostenibile. Lo sviluppo sostenibile raccoglie in effetti l'insieme delle buone intenzioni dei fautori di un "altra mondializzazione". Senza fare il processo alle intenzioni a queste belle anime è medesimamente tedioso che la Banca Mondiale e lo stesso George W. Bush non dicano altre cose[2] !

 

II Critica di questo punto di vista

Si puo' dubitare della esistenza di un'altra economia come si puo' dubitare dell'esistenza, della consistenza e della pertinenza del soggetto su quale poggia : la "società civile mondiale". La possibilità di fare dell'economia in maniera differente restando del tutto all'interno del paradigma del mercato e del capitale non è evidente. Allo stesso modo, rifiutare l'egemonia dei mercati finanziari conservando del tutto il "buon capitalismo" è ben problematico. Il capitalismo finanziario è inscindibile dal capitalismo produttivo come la speculazione è inscindibile dalla decisione di investire. Credo che c'è nella economia un nocciolo duro di cui si puo' certamente limitare gli effetti ma di cui mi sembra impossibile cambiarne la natura. Aggiungere l'aggettivo sostenibile al progetto sviluppista, in particolare, puo' forse essere il rimedio ai mali denuinciati della mondializzazione detta liberale ?

Tutto sommato, parecchi lo pensano, e in particolare tutti coloro che esaltano “un’altra mondializzazione”. Bisognerebbe ritornare allo sviluppo, già definito come crescita economica umanizzata, correggendolo, se sarà il caso, dei suoi effetti negativi. Uno sviluppo “sostenibile” appare così come una panacea sia per il Sud che per il Nord. É più o meno la conclusione di quello che noi abbiamo sentito a Porto Alegre. Tale aspirazione “ingenua” ad un ritorno dello sviluppo testimonia al tempo stesso una perdita di memoria e un’assenza di analisi sul significato storico di tale sviluppo.

Il fatto di aggiungere il qualificativo “sostenibile” non fa che imbrogliare un po’ di più le cose. I documenti della conferenza di Johannesburg dimostrano che ormai lo sviluppo sostenibile come mito raccoglie tutte le speranze dei sviluppi "aggetivati". Secondo gli ONG, si tratta di uno sviluppo "economicamente efficiente, ecologicamente sostenibile, socialmente equo, democraticamente fondato, geopoliticamente accetabile, culturalmente diversificato", ovvero, l'araba fenice ! Per gli organizzatori ufficiali, il mettere in primo piano la questione del benessere sociale e della povertà serve a vanificare tutti gli impegni di Rio. Le 2500 raccomandazioni dell'Agenda 21, sono lasciate alla buona volontà degli ONG e al disponzor (eventualmente sovvenzionato) delle imprese trasnazionali e la soluzione dei problemi dell'inquinamento (cambiamento climatico ed altro) è affidata alle forze del mercato.

Lo sviluppo sostenibile è sospetto a priori perchè raccoglie consensi unanimi. I firmatori dell'appello d'Heidelberg cosi' come i loro avversari, ne fanno un'articolo di fede[3]. Una chiave che apre tutte le porte è una cattiva chiave. Un concetto che soddisfa il ricco e il povero, il Nord e il Sud, il padrone e l'operaio, ecc. è un cattivo concetto. Ciascuno ci mette quel che vuole e mentre si ripongono le speranze nelle parole, le pratiche s'incaricano di rubarvi e di strangularvi. Il socialista, amico di Marx, August Bebel, aveva l'abitudine di chedersi che sciocchezza poteva aver detto quando la borghesia la applaudiva nel Reichtag. Gli anti-mondialisti che auspicano uno sviluppo sostenibile dovrebbero essere indotti a porsi delle domande quando vendono il Presidente Jacques Chirac creare un ministero che riprende questo titolo, che Michel Camdessus, l’ex Presidente del Fondo Monetario Internazionale firma un manifesto per uno sviluppo sostenibile che circola tra le celebrità e che i più grandi inquinatori del pianeta, tali British Petroleum, Total-elf-Fina, Suez, Vivendi, ma anche' Monsanto, Novartis, Nestlé, Rhone-Poulenc, Bayer ecc. sono i più grandi difensori dello sviluppo sostenibile e i più grandi vincitori (d'altrondo praticamenti i soli) di Johannesburg. Allora, di chi ci facciamo beffe?

"La forma dei dibattiti lo dimostra, nota Michel Barrillon, la più parte dei detrattori della mondializzazione condividono con i suoi adetti la convinzione che il mondo occidentale è portatore di volori universali : il progresso, la ragione, la scienza, la democrazia, i diritti del uomo, - di cui importa di far beneificiare l'insieme dell'umanita'"[4].

 

III Altre societa' invece sono possibili

  affiancandole un aggettivo : resta pur sempre un'espressione con cui si cerca di mascherare la realtà impietosa dell'aggressione compiuta dalle multinazionali e dall'impero statunitense contro i popoli del mondo. Di fronte a qualsiasi rivendicazione vagamente sociale o ambientale, o anche semplicemente civica, i portavoce "socialisti" dei nuovi padroni del mondo rispondono che purtroppo non è possibile né realistica, che la globalizzazione lo vieta. L'ultimo esempio in ordine di tempo, in Francia, è l'innalzamento dei minimi sociali dei poveri anziché la riduzione delle imposte dei ricchi. Se le cose stanno così, allora siamo obbligati a concludere che la globalizzazione è soltanto quella "realmente esistente", e non il vecchio internazionalismo proletario... La globalizzazione "antiutilitarista" è del resto una contraddizione in termini, cosi' come un'altra "mercificatione" del mondo, e bisogna dunque ammettere che altri mondi sono possibili, anche se si tratta di un'utopia. E' possibile immaginare una rottura con l'occidentalizzazione del mondo, ma bisogna sapere che ciò comporta di uscire dallo sviluppo, anche da quello sostenibile. Uscire dall'immaginario economico ed economicista, dall'universalismo occidentale.

In breve, non sarebbe necessario sognare di sostituire il sogno universalista, tanto deturpato dalle sue realizzazioni ineluttabilmente totalitarie, con un "pluriversalismo" necessariamente relativo, cio è con una vera democrazia delle culture nella quale tutte conservano la loro legetimità senon tutto il loro posto ?

Un tale progetto implica precisamente la rottura con il paradigma economico (dominante) e con la sua ultima metamorfosi, lo sviluppo sostenibile, poiché il nostro modo di vita non é né sostenibile, né giusto, per orientarsi verso un'autentica decrescita che nulla ci impedisce di immaginare conviviale.

La nostra sovracrescita economica supera già largamente la capacità di carico della terra. Se tutti gli abitanti del mondo consumassero come l’americano medio, i limiti fisici del pianeta sarebbero largamente superati14. Se si prende come indice del “peso” ambientale del nostro stile di vita “l’impatto” ecologico di questo sulla superficie terrestre necessaria, si ottengono risultati insostenibili sia dal punto di vista dell’equità rispetto ai diritti di prelievo sulla natura, sia da quello della capacità di rigenerazione della biosfera. Se si considerano i bisogni di materiali e di energia necessari per assorbire i rifiuti e gli scarti della produzione e dei consumi, e a ciò si aggiunge l’impatto ambientale e delle infrastrutture necessarie, i ricercatori che lavorano per il World Wild Fund (WWF) hanno calcolato che lo spazio bioproduttivo dell’umanità è di 1,8 ettari a testa, mentre un cittadino degli Stati Uniti consuma in media 9,6 ettari, un canadese 7,2, un europeo medio 4,5. Siamo dunque molto lontani dall’uguaglianza planetaria è più ancora da uno stile di civilizzazione sostenibile che dovrebbe limitarsi a 1,4 ettari, ammesso che la popolazione attuale resti stabile15. Queste cifre si possono discutere, ma esse sono sfortunatamente confermate da un numero considerevole di indici (che d’altra parte sono serviti a stabilirle).

Per sopravvivere o andare avanti, è dunque urgente organizzare la decrescita. Quando si è a Roma e si deve prendere il treno per Torino e si sale per errore su quello per Napoli, non è sufficiente rallentare la locomotiva, frenare o anche fermarsi, bisogna scendere e prendere un altro treno nella direzione opposta. Per salvare il pianeta e assicurare un futuro accettabile per i nostri figli, non bisogna soltanto moderare le tendenze attuali, bisogna decisamente uscire dallo sviluppo e dall’economicismo, come bisogna uscire dall’agricoltura produttivista, che ne è parte integrante, per smetterla con le mucche pazze e le aberrazioni transgeniche.

Organizzare una societa' di decrescita significa anche' riscoprire la vera ricchezza nel fiorire delle relazioni sociali conviviali in un mondo sano, può essere realizzata con serenità nella frugalità, nella sobrietà cioè con una certa austerità nel consumo materiale, la simplicita' volontaria.

Altri mondi implicano come orizzonte l’uscita dall’economia e dall’economicismo. Il nostro mondo attuale è in effetti ammalato di economia, e non solo di economia liberale. Occorre fare uscire dalle nostre menti il prisma deformante che ci fa analizzare tutto da un’angolazione economica.

In altri termini occorre decolonizzare il nostro immaginario perché l’economico si reincastri concretamente nel sociale. Questa uscita dalla storia unidimensionale moderna e occidentale consentirebbe da sola di riaprire il futuro e di riscoprire la diversità dei possibili modi di vivere.



[1]"Bisogno, scrive Pierre Tartakowski, segretario generale di Attac, riformare totalmente le istituzioni percè esse ricucano realmente le disugualiglianze, ripensare il W. T. O. perché essa non si occupi soltanto del suo vitello d'oro, democratizzare il I.M.F - spingere la banca mondiale a occuparsi realmente dello sviluppo". Proposizioni citate da Barillon, op. cit. p. 34.

[2]George W. Bush dichiarava il 14 febbraio 2002 a Silver Spring davanti all'amministrazione della metereologia che "Perché essa è la chiave del progresso ambientale, perché essa fornisce le risorse che permattano di investire nelle tecnologie pulite, la crescita è la soluzione, non il problema" (Le Monde du 16/2/2002).

[3]Appel d'Heidelberg : "Nous attirons l'attention de tous sur l'absolue nécéssité d'aider les pays pauvres à atteindre un niveau de développement durable et en harmonie avec celui du reste de la planète, de les protèger contre les nuisances provenant des nations développées, et d'éviter de les enfermer dans un réseau d'obligations irréalistes qui compromettrait à la fois leur indépendance et leur dignité".

Le contre appel des scientifiques français intitulé "Appel à la raison pour une solidarité planétaire" : "Nous affirmons au contraire la nécessité de prendre pleinement en compte l'ensemble des critères culturels, éthiques, scientifiques et esthétiques pour engager le monde dans la voie d'un développement équitable et durable". Et comme si ce n'était pas suffisant, on ajoute : "faire reculer la pauvreté dans le monde et promouvoir un développement diversifié et durable des sociétés humaines dans le respect de l'environnement" (cela n'allait pas de soi, par conséquent...). Archimède et Léonard, N° 10, hiver 1993-94, p. 90 et 91.

[4]Michel Barrillon, op. cit. p. 187.

14 Si troverà una bibliografia esaustiva dei rapporti e dei libri... sul tema dopo il famoso rapporto del Club di Roma, in Andrea Masullo Il pianeta di tutti - Vivere nei limiti perché la terra abbia un futuro - Bologna 1998.

15Gianfranco Bologna - Italia capace di futuro, Bologna 2001, pp. 86-88.


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