Riflessioni sui modelli di sviluppo

 

VERSO QUALE MODELLO DI SVILUPPO OCCORRE TENDERE?

Dei problemi dell'ambiente si parla con grande insistenza e frequenza e se ne parla come di una somma di questioni da affrontare separatamente una per una, tanto sul piano tecnico che sul piano economico o culturale. Tutto questo in apparenza rende superfluo aggiungere ulteriori voci ad un dibattito già in corso e in cui tutte le posizioni sono rappresentate.

In realtà però ciò che viene lasciato da parte in questo dibattito, o per inopportuno sottinteso o per insipienza o per esplicito rifiuto, è proprio l'essenziale.

Sotto l'etichetta della questione ambientale sta in realtà la crisi di un modo di vivere, pensare, produrre e consumare diffuso e dominante a scala mondiale.

Oggi è stato sancito il fallimento storico dell'economia del cosiddetto socialismo reale e da più parti si inneggia al trionfo del suo antagonista storico: il modello capitalista. In realtà entrambi i tipi di economia, coi rispettivi modelli di società, condividevano alcuni difetti di fondo che ora, nell'apparente sopravvivenza di un'unica via, emergono in modo esplosivo sotto forma di conflitto tra gruppi umani e delle generazioni presenti contro quelle future.

La nostra economia, quella che sta alla base dei prodigiosi risultati conseguiti fino a oggi dopo la rivoluzione industriale, si fonda, tanto in regime di mercato quanto in condizioni di monopolio generale dello stato, su una serie di presupposti e ha delle caratteristiche insostenibili in senso stretto e in senso lato.

· La nostra è un'economia dominata tuttora dalle quantità.

· La struttura stessa dell'economia vuole che essa funzioni solo realizzando una crescita continua.

· Questo sistema economico, quando è localmente efficace, garantisce abbondanza di beni e di servizi alla maggioranza dei membri della società: rimane strutturalmente esclusa dall'accesso alla ricchezza prodotta una minoranza di cittadini.

· Considerato il consumo pro capite di energia e risorse a cui sono giunti i paesi più sviluppati, il loro tipo di economia risulta materialmente non generalizzabile a tutta l'umanità oggi vivente.

· Il modello economico dominante non è nemmeno trasmissibile a lungo alle generazioni future in quanto si è intaccato e si sta consumando un patrimonio di risorse sostanzialmente non rinnovabili.

Questi punti che indicano l'insostenibilità sia materiale che umana del nostro modello sono sempre stati veri, ma cominciano oggi a manifestare in forma acuta la natura della crisi anche agli occhi dei più distratti. Ciò avviene attraverso trasformazioni globali dell'ambiente ed in particolare del clima, che, oltre che prevedibili, cominciano ad essere rilevabili con gli strumenti della scienza:

· Attraverso disastri ambientali ricorrenti ed endemici;

· Attraverso fenomeni economico-sociali a scala mondiale cui non si riesce a far fronte, come il mostruoso inurbamento nelle megalopoli del terzo mondo e la incontrollabile e crescente pressione migratoria dai paesi poveri, tanto del sud quanto dell'est, verso i paesi ricchi

 

QUALI ALTERNATIVE?

Nel chiedersi come far fronte a questo stato di cose (posto che l'analisi sia sostanzialmente corretta) appare chiaro che non si tratta di introdurre dei correttivi marginali ad una macchina che tutto sommato funziona, né di attivare tecnologie e scienze perché facciano il miracolo di rendere compatibile ciò che non lo è.

Ciò che è richiesto è una trasformazione in profondità dei meccanismi dell'economia. Occorre trasferire lo sviluppo (che l'esperienza mostra essere indispensabile per la salute di un'economia) dal piano della quantità a quello della qualità. La "produzione" e la vendita di qualità, o in generale di beni immateriali, non è assente dal nostro sistema economico, ma la scena è ancora dominata dalle quantità.

Dobbiamo costruire un'economia delle quantità materiali costanti, perché queste sono governabili, mentre non vi sono limiti alla qualità. Anche perché il concetto di qualità è in larga misura socialmente definito, ossia dipende dalla percezione sociale che se ne ha.

Una trasformazione dell'economia si consegue naturalmente attraverso un complesso di provvedimenti, interventi, atti di governo progressivi che tengano ben presenti tanto i vincoli materiali quanto le inerzie proprie del sistema che si vuole trasformare. Non ci si può però illudere che basti qualche economista o qualche governante illuminato.

Nessuna scelta, per quanto razionalmente corretta, può sperare di produrre degli effetti durevoli se non è sostanzialmente condivisa dagli esseri umani i cui problemi è destinata a risolvere.

Questo significa che occorre conseguire una modifica degli stili di vita agendo sul piano etico e culturale oltreché su quello politico. In termini economici possiamo dire che se non si cambia la struttura della domanda non si otterrà gran che. Se l'appagamento e la sicurezza, posto che siano tali, restano affidati alla quantità di consumi materiali che ci si può permettere la battaglia è persa in partenza.

Al nostro modo di vivere lo spreco è strutturalmente connesso in quanto ciascuno si proietta nei propri consumi e si esprime ed afferma socialmente tramite essi. Solo rientrando in se stessi e riattribuendo ai consumi e agli oggetti il valore meramente strumentale che gli spetta si può sperare di veder accettare una politica che, mirando a spostare l'accento dalla quantità alla qualità, si proponga sostanzialmente l'obiettivo di una riduzione dei consumi materiali.

In un quadro come questo si possono inquadrare e acquistano un senso non episodico le miriadi di singoli provvedimenti proposti da tecnici, ambientalisti, amministratori, politici. Si apre allora una fase storica di trasformazione in cui è la globalità degli scenari e degli interventi a dominare l'orizzonte e in cui il contesto umano è quello planetario anche quando si interviene su di un problema locale all'interno di un paese ricco.

 

QUALE PESO ASSUME LA QUESTIONE ENERGETICA?

La questione energetica è il nocciolo e il simbolo dei problemi connessi con l'attuale modello di sviluppo e con la sua trasformazione.

Nel nostro paese dopo il referendum sulle centrali nucleari il consumo pro capite di energia ha continuato a crescere, mostrando come ad una reazione di rigetto dettata dalla paura non ha fatto seguito alcuna reale modifica di atteggiamento nei confronti del consumo di energia. D'altra parte si continua spesso e volentieri, come è avvenuto ancora recentemente attraverso i mezzi di comunicazione di massa, a preferire la rincorsa mitica e miracolistica di qualche inesistente fonte di energia "inesauribile e a costo zero".

Norme oggi in vigore danno finalmente qualche prospettiva all'incentivazione del risparmio di energia. Politiche di questo tipo sono importanti e vanno perseguite perché il risparmio può produrre risultati spettacolari in un sistema energetico come il nostro in cui gli sprechi sono giganteschi. Bisogna però avere ben presente che, se non si stabilizzano i consumi globali, il risparmio è tutt'al più un modo per guadagnare tempo, non per risolvere il problema.

Come le finanziarie cercano di porre un tetto alla spesa pubblica, così il piano energetico nazionale dovrebbe cercare di porre un tetto ai consumi energetici. Il bilancio energetico del paese è altrettanto importante di quello dello stato.

E' fra l'altro il caso di ricordare che, senza stabilizzazione dei consumi, non esistono fonti di energia "pulite": nemmeno il sole, l'idroelettrico o l'eolico lo sono. Solo in condizioni di stabilità tutti gli elementi che compongono il sistema mondo hanno la possibilità di assestarsi in una configurazione di equilibrio dinamico; se l'equilibrio non è conseguibile qualsiasi cosa inquina.

 

Note :

I trasporti.

Il settore dei trasporti è luogo di grandi sprechi ed irrazionalità, in cui lo stile di vita ha un peso determinante; esso assorbe circa il 30% dell'energia consumata in Italia.

Tanto per cominciare, 24.000.000 di autovetture, in un paese delle dimensioni e con le caratteristiche del nostro, sono troppe. Sono fisicamente troppe, cosa di cui dovrebbe facilmente convincersi chiunque desse un'occhiata da una finestra in una qualunque città o cittadina d'Italia.

Il consumo di carburanti per autotrazione nel nostro paese ha ormai superato i 30.000.000 di tonnellate all'anno e continua a crescere al ritmo approssimativo di 1.000.000 di tonnellate in più all'anno. Le cifre testimoniano di un uso dell'auto che cresce più in fretta del numero stesso delle auto e che assorbe e surclassa anche i migliorati rendimenti dei motori con l'annessa riduzione dei consumi specifici per chilometro di strada percorso. Il consumo di carburante è fra l'altro il miglior indicatore dell'inquinamento atmosferico prodotto e del suo costante incremento. Se le cose continuano così non vi è marmitta catalitica, benzina verde, auto elettrica o motore "pulito" che possano produrre alcunché di duraturo.

Occorrono scelte politiche che vadano ad intaccare il forsennato pendolarismo che caratterizza ormai il nostro modo di vivere in ogni suo momento, dal lavoro al tempo libero. Nulla è stato fatto fin qui per scoraggiare un modo di porsi sul territorio e di fruire dei servizi tale da portare a vivere in un luogo, mandare i figli a scuola a 10 Km di distanza in una direzione, fare la spesa a 10 Km in un'altra direzione e lavorare a 10 in un'altra ancora.

E' chiaro in questo caso più che mai che poco si può ottenere senza una reale disponibilità del cittadino comune a modificare uno stile di vita ormai radicato e se non si riesce a far vedere a tutti che, ad esempio, le isteriche migrazioni settimanali non migliorano la qualità della vita ma se mai la compromettono. La ricorrente fuga dalle città verso un altrove migliore rende l'altrove sempre più simile a ciò che si fugge; è la vivibilità delle città che occorre rivendicare e conseguire.

Gli interventi di razionalizzazione del sistema dei trasporti, come ad esempio il trasferimento di merci e passeggeri su ferrovia piuttosto che su strada, hanno valore e senso se pensati come sostitutivi, non aggiuntivi, rispetto al trasporto privato.

 Dissesto idrogeologico.

Nel nostro paese ogni primavera ed ogni autunno, o comunque ogni volta che piova per più di mezza giornata di fila, si verificano dei disastri; ed ogni volta si sprecano le geremiadi di coloro che lamentano la scarsità, per non dire l'assenza, di interventi a tutela del territorio. La verità è che in Italia vi sono costruzioni e manufatti ovunque: sui fianchi e sulla sommità dei monti, nei canaloni, negli alvei dei fiumi, lungo le coste. Gli insediamenti continuano a crescere e a proliferare e per far fronte ai dissesti si rivendicano opere ulteriori. Per quanto riguarda le coste, tra l'altro, va ricordato che il livello del mare è salito di circa 18 cm nell'ultimo secolo e che la crescita continua a ritmo accelerato. Questo fatto, legato all'effetto serra, unito all'abusivismo più sfrenato cui gran parte delle coste sono state abbandonate (anche molti interventi "legittimi" hanno la loro parte) sta producendo la riduzione e tendenzialmente la scomparsa di molte spiagge. Non sono certo i condoni a permettere di far fronte alla situazione.

Il carico dell'edificato sul territorio è semplicemente eccessivo. A fianco di opere di protezione, in alcuni casi necessarie, l'intervento più efficace non può che essere l'alleggerimento del carico stesso. D'altra parte i piani regolatori continuano invariabilmente a prospettare crescite dell'edificato. La vecchia idea secondo cui il mattone è manifestazione di prosperità dovrebbe rapidamente essere rivista se non si vuole continuare a rincorrere una serie infinita di guai. Tanto più che nel nostro paese vi è una risorsa fondamentale che sta divenendo sempre più scarsa: si tratta dello spazio. Questa risorsa va salvaguardata, in nome della qualità dell'esistenza per tutti, contro le continue "valorizzazioni" che la consumano. Vi è amplissimo spazio di intervento per la razionalizzazione e sostituzione dell'edificato esistente, mentre la sua espansione è un lusso che non ci possiamo più permettere.

Le grandi opere.

Nel nostro paese e nel nostro sistema politico l'importanza di una pubblica amministrazione si riconosce e il giudizio sul suo operato si formula sulla base delle "grandi opere" realizzate o avviate, si valuta insomma sulla scorta degli appalti e della loro entità.

In realtà le grandi opere sono il canale principale attraverso cui questo sistema politico si alimenta e si riproduce, anche quando non si abbiano violazioni di legge. Con una frequenza per altro impressionante poi gli appalti danno luogo a fenomeni di corruzione e, in una parte non trascurabile del paese, alimentano la malavita organizzata.

In generale non è vero, nemmeno in campo ambientale, che l'efficacia di un intervento si misuri dalla entità della spesa. Provvedimenti mirati a riorganizzare l'uso dell'esistente, a razionalizzare il funzionamento dei servizi o a indurre modifiche nel comportamento dei cittadini possono ottenere risultati estremamente importanti. Anche nell'ambito delle pubbliche amministrazioni bisogna spostare gli interventi dal piano materiale a quello immateriale.

Le grandi opere sono di per sé spesso un aggravio del carico ambientale, ma esse acquisiscono un carattere particolare di ambiguità e negatività quando sono nominalmente dirette ad affrontare problemi ambientali. Da questo punto di vista l'ambiente si è trasformato in una occasione ulteriore di affari e di autoalimentazione del sistema politico. L'Italia è ad esempio piena di depuratori non funzionanti e i casi di imprese per il trattamento di rifiuti o per il risanamento ambientale cui direttamente o indirettamente partecipino dei politici sono tutt'altro che infrequenti.

Lo sfruttamento delle tematiche ambientali a scopi affaristici è particolarmente evidente in un certo terziario, legato a studi su problemi dell'ambiente o alla cosiddetta valutazione di impatto ambientale. Qui da anni ormai studi e società "specializzati" compaiono dal nulla come funghi, giusto in tempo per ricevere da qualche sollecita amministrazione questo o quell'incarico professionale.

DOMANDIAMOCI:

Quando una qualsiasi "grande opera" viene proposta (si tratti di un'autostrada, di uno stadio, di un sottopasso, di una ferrovia ad alta velocità, di un depuratore, di un ospedale o di qualsiasi altra cosa) quanto pesa, fra le motivazioni dell'opera, l'opera in sé? In altre parole, non sarà qualche volta più importante "fare qualcosa", piuttosto che chiedersi a cosa serva quello che si fa?

Il guaio è che le "grandi opere", specie in un ambiente congestionato e già ampiamente compromesso come il nostro, producono in genere anche grandi impatti, cioè grandi e durevoli danni a carico della collettività. Infatti oltre al costo vivo delle "intermediazioni improprie" e del gonfiarsi della spesa per interventi inutili, c’e’ anche il costo , meno quantificato ma più rilevante, del danno ambientale.

COME SI APRONO I CANTIERI DELLE GRANDI OPERE?

Qualche "promotore" lancia l'idea, una opportuna campagna sancisce l'indispensabilità dell'opera, vari amici politici vengono mobilitati per premere a Roma e nelle singole regioni affinché venga stanziato il denaro. Ciò avviene spesso con una legge speciale (si vedano i mondiali, le colombiane, ma anche gli uffici giudiziari o i passanti ferroviari) che stabilisce quanto, a chi e per cosa. In generale viene coinvolta qualche grossa società pubblica del gruppo IRI (o similare in sede regionale) che, attraverso l'istituto ormai imperante della concessione, diviene di fatto il gestore unico del denaro che viene redistribuito a coloro che davvero faranno i lavori.

Il peso di tutto questo è ormai schiacciante e gli effetti collaterali sono devastanti: il meccanismo perverso che al sud alimenta la criminalita’ organizzata ,attraverso le opere pubbliche ,è attivo anche al nord.

C'è un disperato bisogno di spazzar via questo incantesimo maligno.

Bisogna potersi chiedere ad ogni passo perché si fa quel che si fa e a che deve servire, ma certo una risposta a queste domande comporterebbe per molti la necessità di trovarsi un lavoro

Una bonifica radicale della politica è condizione indispensabile oggi anche per il risanamento ambientale.

Rifiuti e dintorni.

Una società caratterizzata da consumi crescenti di oggetti non può non essere affetta dal problema di una mole crescente di rifiuti. Ciò è vero tanto per i rifiuti "civili" (nell'ordine di 1 Kg al giorno per persona), quanto per quelli industriali. D'altra parte una disponibilità limitata di spazio e la crescita costante degli insediamenti fa esplodere dovunque la contraddizione tra il rifiuto delle discariche e degli impianti di ritrattamento e la richiesta di tutti quei prodotti che sono all'origine della produzione di rifiuti.