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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
- ISSN 1973-252X
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

I MOLTI VOLTI DELLA VALUTAZIONE
Dalla valutazione degli alunni alla valutazione dei sistemi scolastici: una ricognizione critica

di Paolo Citran

 

Precisazione preliminare sul valutare in generale

Valutare e valutazione non appartengono unicamente al lessico scolastico. Valutare indica un attribuire valore, spesso un valore etico, politico, civico … In questi ultimi anni si parla sempre più insistentemente de “i valori” con ingenuità talvolta, con protervia talaltra, con dogmatismo fideistico assai spesso, quasi che i valori fossero fatti e non valori, come tali soggetti a giudizio non dichiarativo – descrittivo, ma piuttosto basati su una scelta, su un dover essere non verificabile né falsificabile, non confermabile cioè né attraverso il ricorso al ragionamento né il ricorso all’esperienza (al nazista logicamente coerente  possiamo manifestare la nostra ripugnanza ed il nostro rifiuto più radicale dei principi da cui attingono il suo pensiero e la sua azione, ma non possiamo contestare dimostrativamente su base logica  o sperimentalmente su base empirica la non validità dei suoi principi).

Quindi valutare non è stabilire dati di fatto, ma attribuire un valore in base a principi rispetto ai quali si registra di fatto o per convenzione una qualche condivisione. Valutare è anche inevitabilmente un agire interpretativo (non mi limito a registrare un fatto, ma lo valorizzo o meno in base ad un accordo più o meno esplicito o ad una convenzione più o meno condivisa).

Parlare di valutazione scolastica non può prescindere - a mio parere - da tale precisazione di carattere generale.

 

La valutazione scolastica

La valutazione implica sul piano soggettivo un certo contenuto ansiogeno. Non fa mai piacere sentirsi valutati, salvo che non si sappia con certezza e preliminarmente della valutazione positiva che sarà attribuita. Il ricordo dell’esame di maturità è un topos forse scontato, ma è un elemento quasi intrinseco alla valutazione scolastica ed anche un fattore deformante di essa. L’alea che l’accompagna, l’emotività, lo stress od un casuale malessere passeggero possono diventare fattori stravolgenti rispetto ad esiti possibili ed auspicati. Come d’altronde la diffidenza nei confronti degli esaminatori o viceversa il pregiudizio degli esaminatori nei confronti degli esaminandi o della loro scuola.

 Certamente il valutatore non è mai neutro, le vere domande non possono avere solo risposte chiuse e predefinite, l’attesa del valutatore non è detto corrisponda all’unico punto di vista possibile. Ricordo in commissioni d’esame aspri dibattiti sulle correnti in cui collocare personaggi come Rousseau: illuminista o preromantico? Per me è chiaro che fosse essenzialmente un illuminista, se non altro per ragioni anagrafiche, ma anche perché il suo milieu concettuale è illuministico; ma altri pensava altrimenti. O come Freud: positivista deluso o decadentista e sostenitore dell’ irrazionalità umana? A me sembra la risposta sia la prima delle due: la ricerca sull’irrazionale è svolta con la ragione e con metodologia almeno sedicente scientifica; ma da altre ottiche la cosa può essere pensata diversamente. La realtà è poliprospettica e le domande non sempre hanno un’unica solo possibile risposta. Nel valutare e nell’esaminare, l’attesa ermeneutica dell’esaminante si confronta con le risposte possibili del valutato. La precomprensione del valutatore spesso si scontra con la precomprensione  del valutato. E’ per questo che, per cercare di essere meno iniqui, si deve essere consapevoli di che un colloquio od un elaborato debbono vertere sul “che cosa” codificato in un testo, non importa se sia un libro od una lezione, o un programma dettagliato con estrema precisione, che ponga per quanto possibile un limite alla distorsione ermeneutica dell’altro che viene valutato.

Valutazione in contesti scolastici di apprendimento  è un sostantivo che raramente sta da solo: la valutazione scolastica si  accompagna generalmente ad un aggettivo o ad un complemento di specificazione. Se qualche decennio fa si riferiva la valutazione quasi esclusivamente allo scolaro/studente (qualche volta anche al servizio dei docenti), oggi essa si specifica variamente rispetto all’oggetto che viene valutato. Riducendo all’osso, si può parlare di

1.     valutazione del soggetto che apprende,

2.     valutazione dell’operatore della scuola,

3.     valutazione (ed autovalutazione) d’istituto,

4.     valutazione comparativa di sistema/i.

 

              La valutazione del profitto del soggetto che apprende

Ciò a cui lo scrivente (e suppongo anche i lettori di questo articolo) ha generalmente rivolto pensieri e preoccupazioni (da studente, da insegnante, da capo d’Istituto) è stata certamente la valutazione del profitto o del rendimento, proprio od altrui, inclusa quella del comportamento (forse la più aleatoria delle valutazioni).

Sono vissuto di valutazioni numeriche e di ansie connesse (al cubo all’esame di maturità, a cui giunsi così lunare e fantasmatico che di me si vedeva soprattutto la grande cartella nera che mi trascinavo dietro) quand’ero studente.

Negli anni Settanta, insegnando nella scuola media, fui fra coloro che – propugnando l’abolizione del voto – si impegnarono nella produzione di giudizi verbali meritori nelle intenzioni, quantunque arbitrariamente psicologizzanti nei fatti. poco distinguendo tra profitto e comportamento, come peraltro ancor oggi sovente si fa.            

Negli anni Ottanta mi imbarcai nella produzione di prove di livello disciplinari molto calibrate, revisionate e sofferte. Seguii anche un faticoso corso a distanza sulla valutazione gestito da illustri docimologi. Non avendo neanche lì trovato la Verità docimologica,  mi produssi un po’ alla volta un autonomo modellino personale (che da un certo punto della mia attività di insegnamento riproposi, con adattamenti alle situazioni – chissà se qualcuno l’ ha mai letto! -  nelle mie relazioni annuali ed interiorizzai nelle mie mappe mentali), a cui - pragmaticamente ed in base per così dire ad una convenzione con me stesso - feci ricorso per diversi anni. Anche se, ovviamente, i voti restavano; ma li consideravo segni di significati utili (non necessariamente veri).

Mi ero reso conto comunque, sin dai primi anni d’  insegnamento alla Superiore, che si era comunque assai lontani da quell’ intersoggettività della valutazione che reclamavo ai miei presidi od ai colleghi più anziani, ricavando sorrisi di compatimento. E non è che le cose cambiarono di molto quando s’introdussero i PEI, i POF e declinazione di rosari di obiettivi più o meno uguali per tutte le classi.

 

Voti e giudizi

Convenzionalità della valutazione: ecco un primo punto fermo del mio discorso.

Un secondo punto è: valutare non è misurare. O non lo è necessariamente.

Mi ero a suo tempo quasi istintivamente schierato a favore dei giudizi e contro i voti. Ma il sentimento giovanile richiedeva approfondimenti maggiori.

Infanzia, adolescenza e giovinezza le avevo attraversate in compagnia dei voti. Di solito buoni o discreti, i miei, ma sempre conditi con una certa dose d’ ansia.

Qual è il ruolo dei voti (o di equivalenti giudizi sintetici) nella scuola attuale? Tendenzialmente hanno la funzione di far raggiungere agli allievi almeno la sufficienza ricorrendo alla competizione piuttosto che alla cooperazione. Credo che principalmente svolgano il ruolo definito  comportamentisticamente rinforzo (positivo o negativo). Il voto negativo in particolare può avere una doppia valenza psicologica: quella dell’autosvalutazione che porta alla rinuncia o quella della motivazione alla competenza che sospinge l’allievo a migliorare le proprio prestazioni cercando di conseguire il successo. Purtoppo molto spesso nella scuola il rinforzo (la gratificazione estrinseca, segno convenzionale per “promozione”, o simili) è l’unica motivazione all’apprendimento.

Per questo molti credo debbano farsi un esame di coscienza (non parlo solo di coloro che lavorano nella scuola: i genitori – sponsor dei propri figli - sono spesso invasati da una logica competitiva terrificante! vogliamo dar colpa al sistema? diamogliela pure, tanto non ci sente). In fondo non sarebbe così  difficile adottare un minimo di coerenza nell’assegnare voti, così, pragmaticamente, mettendosi d’accordo tra colleghi/e ed applicando le indicazioni del POF, se sono sensate. Invece c’è sempre chi dà il sei politico, chi usa solo tre numeri (5, 6, 7) e chi fa l’ammazzasette.

Giudizi, profili e simili mi sono sempre sembrati più attendibili, ma …. Agli esami di maturità modello Sullo - Misasi si accompagnava l’ammissione o la non ammissione con dei giudizi per disciplina ed un giudizio sintetico, che venivano espressi mediante degli indicatori abbastanza laschi. Io ero diventato bravino nello scrivere questi giudizi, a rendere le nuances, a sfumare il giusto ed il dovuto. Ma quel che mi dava fastidio era che, dopo tanto lavoro descrittivo e di categorizzazione mi venisse richiesto come essenziale il solito quasi discreto, o più che buono, o quasi sufficiente. D’altronde il tutto ciò si sarebbe tradotto alla fin fine sui voti del tabellone ….

L’esperienza delle schede più o meno sperimentali adottate nella Scuola Media (e per poco alle Elementari) abortì dopo aver fatto sorgere qualche speranza. Ricordate? Si individuavano degli obiettivi – indicatori, a ciascuno dei quali si faceva corrispondere una lettera indicante il livello di raggiungimento di ciascun obiettivo specifico. Si sarebbe dovuta probabilmente eliminare qualche macchinosità, ma il principio era utile. Naturalmente qualcuno riuscì a fraintendere tutto ed a ritornare alla logica dei voti: chi trovava sulla scheda tutte “a” era il top in quella materia, alla faccia degli obiettivi e della loro funzione di indicatori! Chiuse il discorso consule Maragliano il neoministro Luigi Berlinguer, tornando all’Ottimo - Distinto – Buono ….. Insomma, ai voti.

E voti siano, ma diamoli in scienza e coscienza, almeno.

 

Voti, punteggi, griglie

Qualche rimedio all’alea dei numeri (o degli aggettivi in scala) esiste certamente. Ma leggendo ed ascoltando i docimologi ho capito che non esistono toccasana:  ho avuto modo di ascoltare Mario Gattullo - il mago delle risposte  multiple e dei punti zeta -  sostenere che più vari sono i tipi di prove che si somministrano agli allievi, meglio riescono a valutare.

In effetti il faticoso trattamento statistico dei dati delle cosiddette prove oggettive (che peraltro, se ben costruite, possono permettere di valutare anche abilità complesse), magari supportato da un buon programmino per la valutazione – che ti faceva la traduzione in voti, secondo criteri predefiniti più o meno generosi -  nel tuo PC, a qualcosa poteva servire. Ma valeva la pena? Tanta fatica per mettere un voto …..

All’Esame Conclusivo di Stato targato Berlinguer  si abolirono i voti e comparvero … i punteggi. Si davano sempre i numeri! Ma con un meccanismo intelligente ed abbastanza efficiente rispetto allo scopo. Non si valutava certo il processo … ma nemmeno si pretendeva di farlo. E le modalità di svolgimento del colloquio erano solitamente abbastanza soft senza essere lassiste.

Ma non si tiri fuori una pseudo - oggettività che sarebbe stata garantita dalle griglie! Ho visto troppi commissari d’esame mettere alla griglia prima  il punteggio - esito e poi i punteggi specifici delle singole voci. Il che conforterebbe un’osservazione di Luigi Calonghi: la correzione analitica e quella globale di un elaborato danno risultati valutativi pressappoco equivalenti, per cui, in sede sommativa (come agli esami) è più efficiente e conveniente perché più rapida la seconda modalità (la griglia analitica si giustifica piuttosto per analizzare il tipo di errori commessi e le qualità specifiche di un elaborato).

 

La valutazione dello studente tra misurazione, ermeneutica, certificazione

La valutazione dello studente è un fatto complesso. Per questo bisogna sospettare di procedure troppo automatiche e troppo lineari e semplicistiche. E va ribadito che la valutazione non è misurazione - od almeno non lo è principalmente - e che i criteri di valutazione sono convenzionali, pertanto più valgono in quanto più sono condivisi in base a sensati pensieri, prassi ed esperienze.

A maggior ragione tale convenzionalità va affermata a proposito di standard o di livelli minimi. Insomma, la valutazione, ed in particolare la definizione del livello di sufficienza è essenzialmente un problema di decisione.

Va certamente reso un importante riconoscimento a Roberto Maragliano ed a Benedetto Vertecchi per avere introdotto nell’ambiente pedagogico italiano il concetto di valutazione formativa,  intendendosi per tale non una verifica immobile, puntuale e talvolta paralizzante di uno stato di fatto, ma un’ attività che fornisce all’insegnante  un feedback connesso ad un intervento della scuola che tenga conto dei risultati in funzione della successiva operatività didattica (teorizzata per la metodologia democratica - ma forse un po’ troppo lineare - del mastery-learning, la cui filosofia sta ancor oggi alla base di quella didattica modulare talvolta un po’ grossolana a cui ampiamente si ricorre soprattutto negli Istituti Professionali).

Ciò non esclude momenti di valutazione sommativa: ma la valutazione iniziale ed intermedia dovrebbero avere una funzione fondamentalmente dal punto di vista didattico – operativo, quindi essere formativadiagnostica, prognostica e terapeutica, programmatoria e progettuale. Questo significa che la valutazione dovrebbe essere per lo più di processo e non solo di prodotto.

Ho letto a suo tempo con grande piacere ed interesse il libro a cura di Piero Bertolini La valutazione possibile (La Nuova Italia 1999), alternativo a ad una valutazione che oggettiva può esser detta solo in base a criteri convenzionali che la possono rendere intersoggettiva e quindi condivisibile in quanto frutto di concertazione e/o di accordo su un piano pragmatico. La lettura di quel libro faceva respirare aria pura piena di ricca umanità, in alternativa alla saturazione numeratoria dei voti e dei punteggi: si proponeva una valutazione qualitativa, ermeneutica, fenomenologica, descrittiva, narrativa, empatica, postmoderna,  fondata su una progettazione non lineare sensibile alla complessità. Posizioni suggestive e che possono entusiasmare, ma applicabili in contesti particolarmente favorevoli, tendenzialmente con soggetti in età infantile, quasi un ideale regolativo di valutazione non giudicante rispetto ad una quotidianità generalmente assai più prosaica. Posizioni certo unilaterali e non sempre realistiche nel loro soggettivismo talvolta persino un po’ misticheggiante nella sottolineatura di quanto di mistero rende problematica la comprensione dell’identità personale: inadatta certamente ad ogni discorso tendente alla certificazione di competenze.

La valutazione possibile presentava il fascino di una valutazione umanistica ed idiografica, rifuggente da ogni standardizzazione, suggerendo una proposta qualificante per l’azione didattica ed educativa, ma per definizione non adattabile a certificazioni.

A meno che non si ponga l’accento soltanto sulla componente descrittiva di tale tipo di valutazione, da collegare con chiarezza agli obiettivi verso cui essa  tende: questa mi segua una via praticabile

Prescindendo infatti dagli aspetti troppo soggettivi di tale proposta docimologica, sarebbe possibile – prendendo da essa l’avvio -  giungere alla formulazione di quelle competenze che permettano di certificare anche solo segmenti di percorso scolastico che hanno portato ad un successo formativo anche solo parziale, che ha condotto peraltro ad alcune competenze cosiddette capitalizzabili.

Alla necessità di certificare competenze – con parametri nazionali ed internazionali comuni - si può pensare :

·        ad una certificazione di tipo comportamentale (descrizione di un saper fare visibile ed  oggettivabile, per esempio: saper aggiustare un pneumatico);

·        ad una certificazione di tipo cognitivo, attinente

1.     a conoscenze procedurali (saper andare in bicicletta, ma anche saper leggere, saper scrivere, possedere gli automatismi delle quattro operazioni);

2.     ad operazioni cognitive elevate e complesse, quali il comprendere, l’interpretare, l’argomentare, l’operare illazioni, ecc.);

3.     alla metacognizione.

Se l’ osservabilità del comportamento permette la descrizione di operazioni semplici e percepibili, la valutazione di competenze relative a contenuti concettuali di apprendimento permette la formulazione di giudizi meno diretti e maggiormente opinabili, ma comunque necessari.

Una valutazione descrittiva si presterà anche alla valutazione di aspetti non strettamente cognitivi e/o metacognitivi, quindi agli aspetti comportamentali, affettivi, relazionali, psicomotori …..

Con tutto ciò la valutazione tramite i voti, aboliti nella scuola dell’obbligo, potremmo dire che c’entra come i cavoli a merenda.

 

Standard di apprendimento

L’apprendimento si realizza sempre in un contesto. Perciò una valutazione dell’apprendimento che non prenda in considerazione le variabili assegnate  (di contesto scolastico, ambientale, economico, familiare, socioculturale …), nonché quelle (pure connesse al contesto) specificamente individuali, sarà inevitabilmente incompleta. Essenziale per descrivere e comprendere i processi di apprendimento e di sviluppo personale, il richiamo al contesto ed alla variabili assegnate rende abbastanza problematica una statuizione di obiettivi minimi e di standard di riferimento che non corrispondano al contesto dato. Dal punto di vista strettamente didattico, appare quindi problematica la decontestualizzazione del prodotto degli interventi didattici operati dalla scuola.

E’ un problema che si pone quando si tratti della valutazione comparativa delle competenze in ricerche comparative nazionali ed internazionali.

Da un punto di vista didattico scuole e docenti dovrebbero essere impegnati nella valutazione di obiettivi specifici di apprendimento relativi a conoscenze e competenze, siano esse desunte direttamente da comportamenti osservabili e routines acquisite stabilmente, sia indirettamente tramite la ricognizione di  operazioni cognitive e metacognitive, cognizioni e metacognizioni, desunte da comportamenti complessi, magari preventivamente definiti tramite una gamma di categorie e/o di operazioni (per esempio: ragionare, argomentare, esporre in maniera terminologicamente propria, risolvere problemi in maniera convergente/divergente, individuare strutture di un discorso, pensare creativamente ed in modo originale).

L’esigenza di fornire ciascun cittadino di una documentazione valida a livello nazionale ed europeo in merito alle competenze acquisite è da molto stata affermata nella prospettiva di una crescita degli apprendimenti nel corso di tutta la vita, ma siamo al momento in una situazione di impasse, almeno per quanto riguarda una condivisione a livello di sistema scolastico, nel vuoto prodotto dall’ultimo tentativo di grande riforma sedicente epocale legata al nome di Letizia Moratti.

Standard minimi sono invece già vigenti nel sistema della formazione professionale regionale.

Ed anche in molti POF.

 

La valutazione del docente e del dirigente scolastico

Pare legittimo nelle scuole autonome un monitoraggio che coinvolga docenti e dirigenti scolastici nell’espletamento dei loro specifici ruoli.

La questione è notoriamente delicata ed ha trovato un momento di particolare criticità in occasione del cosiddetto Concorsone voluto e promosso da Luigi Berlinguer, con esiti catastrofici per il netto rifiuto di esso manifestata da gran parte della categoria. Poco sono piaciuti la distinzione tra docenti con o senza il bollino blù ed il discrimine fra docenti bravi che rientrano nella percentuale stabilita e docenti mediocri che non vi rientrano.

Il problema è cruciale: tutti sanno che gli insegnanti non sono soldatini tutti uguali e basta talvolta annusare l’aria per capire la qualità dell’insegnamento legata ad un certo docente o ad una comunità professionale. Ma evidentemente esser valutati è un rischio che nessuno vuol correre, tanto più in quanto i criteri di valutazione sono indefiniti ed ondivaghi. Eppure in una scuola quasi sempre tutti sanno quali sono gli insegnanti gravemente inadeguati. Pur tuttavia c’è il rischio che si venga valutati su fattori magari importanti ma di dettaglio, come la tenuta del registro, la qualità formale dei documenti di programmazione individuale, della relazione finale e dei  programmi svolti, oppure su modalità didattiche e relazionali non condivise dai valutatori.

Per gli insegnanti l’operazione valutativa più efficace potrebbe  essere forse data dall’osservazione – magari strumentale – dei comportamenti in classe per un periodo sufficientemente lungo (cosa che però puzza  un po’ di Grande Fratello), magari con l’impiego di check-list con griglie di osservazione del comportamento in classe. Questionari ed interviste potrebbero essere proposti agli studenti o – meglio ancora - agli ex-studenti.

Anche il profitto di studentesse e studenti potrebbe essere assunto a parametro di valutazione del docente. E’ chiaro che non dovrebbero bastare per stabilire ciò la bassa dispersione o l’alta media dei voti: sarebbero un’istigazione ad adottare il 6 (ma anche il 7, l’8, il 9) politico. Inoltre non si potrebbe prescindere in una tale valutazione dal riferimento alle caratteristiche socioculturali del territorio, alle modalità d’insegnamento attivate nell’istituto (un insegnante valido in un ambiente scolastico degradato o caratterizzato da conflitti e rancori atavici fra colleghi sarà fortemente danneggiato nello svolgimento del proprio lavoro).

Sembrerebbe essenziale nella valutazione dei docenti il ricorso a valutatori soprattutto esterni, che operino in maniera non inquisitoria e formulino delle valutazioni contestuali in merito all’attività didattica. La terzietà di valutatori non guidati da intenti acriticamente punitivi potrebbe rappresentare  una relativa garanzia di credibilità. Si tratterebbe poi del famoso o famigerato amico critico, che accompagna per un certo periodo lo sviluppo e la crescita di un’istituzione  scolastica.

Per quanto riguarda poi i capi d’Istituto, sono cronaca recente le prove comparative di ammissione ai corsi che ne porteranno una parte alla dirigenza. Come e anche più che in altre occasioni concorsuali, è da pensare ad una notevole cogenza dei parametri ideologico-giuridici di che pensa al dirigente scolastico secondo modelli più o meno dominanti, in un contesto ministerialburocratico in cui si individua in lui il decisore responsabile in base a parametri largamente predefiniti, o ad indirizzi provenienti dall’alto, o all’attesa dei valutatori, elemento cruciale in quelle forme di valutazione in cui si dia spazio a risposte cosiddette “libere” e “personali”, che devono comunque corrispondere alle convinzioni od alle consegne ricevute dei valutatori (e qui la selezione ideologica può essere pesantissima[1]).

La valutazione del servizio dei D. S. è prevista per definizione dal momento in cui è stata loro attribuita la qualifica dirigenziale: devono (dovrebbero) rispondere in ordine ai risultati ed essere valutati da un nucleo di valutazione (art. 21 del D. lgs. 165/201). Anche su questo fronte l’aspetto attuativo è ancora solo aurorale. Quello che mi pare ovvio è che anche in questo caso il parametro non può essere dato dal numero delle promozioni o dalla valutazione media degli studenti, in cui il livello del profitto è facilmente falsabile e largamente  aleatorio, ma piuttosto dalle modalità organizzative messe in atto e dal valido ricorso alle risorse disponibili o procurabili, prima di tutto quelle umane – studenti inclusi.

Piuttosto che richiamarsi alle valutazioni assegnate agli studenti ed all’esito degli esami, sarebbe a mio avviso essenziale il livello delle prestazioni o dei servizi che il dirigente scolastico è in grado di garantire, dati un certo contesto ed una situazione scolastica ben precisa. Ci si può domandare: ci sono attività di recupero sistematiche? Come sono organizzate ed in base a quali criteri? Si svolgono attività di potenziamento cognitivo? La progettazione d’Istituto determina  un rafforzamento degli obiettivi curricolari di apprendimento? ….. E’ ovvio che neanche qui possono essere trascurate le variabili assegnate ed in generale di contesto e le caratteristiche del corpo docente (stabilità, pendolarismo, turn-over, disponibilità a svolgere attività aggiuntive, ecc.).

Attualmente la valutazione dei dirigenti scolastici è effettuata soltanto a titolo sperimentale e volontario, attraverso l’analisi della conformità o meno ad una serie di descrizioni “virtuose” di possibili attività del dirigente, con modalità sia autovalutative che di valutazione esterna, che configurano di fatto degli standard, accompagnate da consistente produzione cartacea.

 

La scuola valuta se stessa

Affrontando la questione della valutazione dei docenti e dei dirigenti siamo lentamente scivolati sulla questione della valutazione delle scuole autonome.

La valutazione di una scuola può essere progettata ed effettuata dagli stessi operatori scolastici, tenuti ad un monitoraggio del funzionamento dell’Istituto, oppure da soggetti ed agenzie esterne.

Nel primo caso si parla di una pratica relativamente diffusa in Italia: l’ autovalutazione d’Istituto. In proposito abbiamo spesso letto o sentito l’affermazione che si tratta di una forma di valutazione amichevole, soft.

La mia personale esperienza sembrerebbe contraddire quest’idea. Specialmente se il collegio docenti e più in generale il personale non è disponibile a sottoporsi al giudizio altrui (in primis quello degli studenti) e soprattutto diviso (la conflittualità interna alla scuola rappresenta oggi una piaga per molti istituti, soprattutto per quelli che – pur di dimensioni modeste – hanno subito accorpamenti in sede di razionalizzazione della rete scolastica o di dimensionamento preliminare all’ istituzione delle scuole autonome).

Ciò non esclude la possibilità di positivi riscontri in realtà diverse e l’utilità del ricorso all’autovalutazione d’Istituto.

Alcune realtà hanno affidato ad un esterno, uno psicologo per esempio, l’elaborazione di strumenti di autovalutazione, anziché affidarla ad una commissione mista e/o ad un docente con funzione obiettivo. Potrebbe essere un modo per non sentirsi giudicati dai colleghi o dagli studenti, con una garanzia (del tipo placebo) di una scientificità garantita da un operatore esterno.

 

Che cosa rende una scuola di qualità?

L’ autovalutazione d’Istituto può servire per valutare la qualità della scuola.

Tuttavia è possibile che la valutazione di qualità sia anche esercitata da (o col supporto di) agenzie e soggetti  esterni.

Una prima idea è che la qualità della scuola sia valutabile a partire dai risultati dell’insegnamento/apprendimento. Attualmente ci troviamo in una situazione in cui la Scuola della Repubblica non possiede standard di apprendimento validati e condivisi. Spesso obiettivi o standard minimi sono indicati dai POF delle singole istituzioni scolastiche, costituendo, almeno in teoria, un punto di riferimento ai fini dell’assegnazione dei voti. Tale operazione comporta a mio avviso un vantaggio e due rischi:

può essere un vantaggio

·        l’adeguamento alle caratteristiche socioculturali del territorio;

possono essere dei rischi

·        la disomogeneità e quindi la mancanza di equità di una valutazione con criteri variabili da scuola a scuola (magari dello stesso ordine  e grado);

·        l’effetto boomerang del possibile abbassamento del livello degli apprendimenti conseguito non in base ad obiettivi di grande respiro, ma perseguito dagli allievi      in base ad una ricerca calibrata della stretta sufficienza con il minimo sforzo possibile.

Senza escludere a priori – pur con le riserve sopra enunciate - la possibilità di un’ ampia condivisione di standard di apprendimento (condivisione che peraltro oggi ancora non esiste nella scuola italiana), ritengo che la qualità della scuola potrebbe essere collegata soprattutto alla qualità dei livelli di prestazione che l’ istituzione offre:

·        insegnamento curricolare di qualità, calibrato sui soggetti e sul contesto;

·        occasioni metodologicamente e culturalmente qualificate di approfondimento dell’ apprendimento curricolare;

·        interventi compensativi ben finalizzati ed organizzati in base alle carenze evidenziate da ciascun singolo alunno;

·        pratica della didassi del potenziamento cognitivo;

·        particolare attenzione rivolta agli apprendimenti che sono basilari ad ogni livello scolastico: le competenze alfabetiche diversamente declinate secondo l’ordine ed il  grado delle scuole;

·        progettazione extracurricolare di alto livello, correlata al curricolo,  in funzione della crescita culturale e civica dell’alunno piuttosto che dell’immagine della scuola.

Si tratterebbe insomma non solo di garantire quei livelli essenziali di prestazione che il sistema scolastico dovrebbe vedere garantiti in tutte le sue scuole, ma anche, evitando il gioco al ribasso, di garantire livelli elevati di prestazione (di alto standard).

Volendo evidenziare un ulteriore indicatore della qualità della scuola, questa volta legato ai risultati nell’apprendimento, può essere segnalato

·        il valore aggiunto, che indica un aumento della qualità o - facendo riferimento ad un’istituzione scolastica - un aumento medio della qualità dell’apprendimento, dovuto all’efficacia dell’intervento della scuola, superiore a quanto ci potesse attendere in base al backgrund del soggetto che apprende[2].

 

Certificazioni di qualità

Sono praticate in Italia in talune scuole certificazioni internazionali della qualità delle stesse ad opera di valutatori esterni in base a modelli di derivazione aziendale che fissano determinati standard relativi soprattutto ad esigenze di efficienza un po’ tayloristiche, puntando particolarmente sulla determinazione di routines e sulla proceduralizzazione di operazioni e processi interni alla scuola, che devono essere documentate rigorosamente e pertanto rientrare per così dire nella tradizione di un’istituzione scolastica ed essere uniformemente ripetute anche a prescindere dal turn-over dei docenti e del personale in generale, con esiti presunti – nel lungo periodo - di semplificazione e di risparmio di tempi.

Ciò che lascia perplesso chi ha sempre cercato, e non per seguire la moda, di aderire alla problematicità, alla flessibilità, alla complessità del reale e di quella sua parte che sono l’essere-scuola ed il fare-scuola in tutte le loro valenze è la perdita di anima che con un simile approccio rischia di far implodere una scuola che deve essere – anche – scuola della motivazione, scuola dell’empatia, scuola della cura di sé e dell’altro, scuola del curioso, dell’interessante, dell’imprevedibile e del creativo. Si ha quasi l’impressione che la scuola andrebbe molto meglio se a scuola ci fossero solo clienti psicologicamente lontani piuttosto che studentesse e studenti, incasinati o casinisti, appassionati od ignavi, partecipi o mentalmente assenti, che comunque interagiscono con altri soggetti umani che non sono primariamente impegnati ad attivare automatismi, ma s’impegnano nella difficile impresa (che non è certo azienda) che è l’insegnamento[3].

         Il criterio principale in ultima istanza sembra essere la soddisfazione del cliente, rispetto a cui tutto il resto sembra essere finalizzato. E a volte si confonde questo con la centralità dello studente e con il rispetto delle scelte delle famiglie, in una logica di concorrenza tra scuole che rischia di essere una guerra tra poveri. Così vengono assunti indicatori del tipo:

·        fedeltà del cliente,

scandito in

1.  intenzione di rinnovare l’iscrizione,

2.     orientamento a raccomandare la scuola ad altri.

Oppure tra le

·        misure di prestazione

si annotano

1.       riconoscimenti e premi ricevuti

3.     attenzione ricevuta da parte dei media

4.     occasioni di visibilità nel territorio

5.     ecc. ecc.

Detto ciò non va escluso che alcuni indicatori delle certificazioni internazionali di qualità possano essere utilizzati per definire sul piano organizzativo i livelli delle prestazioni che la scuola garantisce, per esempio in relazione a

1.     documentazione,

2.     procedure,

3.     organizzazione in dipartimenti,

4.     valorizzazione delle competenze del personale,

5.     qualità dei rapporti scuola – famiglia,

6.     ecc. ecc.

 

La valutazione comparativa di sistema/i

Un concetto poco fa richiamato, quello di valore aggiunto, conduce direttamente a toccare il tema della valutazione comparativa, con la quale si mettono a confronto più scuole di un determinato territorio, o di un sistema scolastico, come è avvenuto recentemente in Italia attraverso la recente somministrazione delle prove INVaLSI, ovvero si confrontano tra loro più sistemi scolastici, come nel caso delle ricerche OCSE-PISA.

Una valutazione di sistema si è inteso effettuare in Italia mediante le prove INVaLSI, corollario della Riforma Moratti, la quale prevedeva momenti standardizzati di una valutazione atta a mettete a fuoco, con esiti alquanto discussi[4], i livelli di apprendimento in relazione a quanto delineavano le Indicazioni Nazionali[5]. E’ da notare che una somministrazione di prove chiuse a risposta multipla, come quelle proposte in tale caso, è soggetta all’effetto boomerang, cioè inevitabilmente si avrà una retroazione nel senso che gli insegnanti tenderanno a preparare gli allievi in maniera specifica a rispondere a quel determinato tipo di prove, trascurandone altre più atte a valutare, per esempio, la capacità di scrittura,

la capacità di elaborare risposte divergenti, ecc. ecc.

C’è una differenza tra le prove comparative  nazionali e quelle comparative internazionali. Nel primo caso è plausibile infatti che si faccia riferimento al curricolo nazionale (core curriculum) valido per tutte le scuole di un determinato sistema scolastico. Al contrario il riferimento ad una base nazionale non è ovviamente possibile per le indagini internazionali.

In ogni caso non necessariamente è in gioco la definizione di standard di apprendimento se non su base statistico - comparativa, oppure in base ad un convenzione condivisa rispetto ad un’attesa predeterminata. 

Nelle valutazioni a livello internazionale, non essendo a disposizione un curricolo di base come riferimento comune all’universo considerato, più il campo d’indagine è ampio, più si deve ricorrere ad un minimo denominatore comune ai diversi contesti scolastici esplorati, rendendo il meno possibile influenti le variabili collegate a contenuti e metodi d’insegnamento ed a situazioni ambientali diverse. Ed in effetti il PISA non fa riferimento a curricoli o programmi, ma piuttosto a valutare competenze utili per svolgere un ruolo consapevole e attivo nella società per affrontare le sfide del domani ed a  verificare l’intera realtà culturale di un paese ed anche la scuola stessa, in funzione della preparazione dei giovani per la vita, utilizzando anche items a risposta aperta, con la finalità di fornire suggerimenti per l’azione ai decisori politici, valutando gli esiti anche con la considerazione di indicatori di contesto e di indicatori di tendenza.[6] E’ proprio a fattori socioculturali - che il PISA indaga con appositi questionari compilati sia dagli studenti che dai capi d’Istituto -  che possono essere ricondotti gli esiti non brillanti degli studenti italiani (particolarmente nel Sud e nelle Isole) nelle abilità di lettura nei quindicenni esplorate dall’indagine OCSE-PISA del 2000; inoltre si è considerato come un handicap il tipo di quesiti proposti, a volte non corrispondenti al tipo di prove più diffuse in Italia[7].

La comparazione dei sistemi scolastici può così raggiungere elevati livelli di raffinatezza, potendo inserire gli esiti acquisiti all’interno di una valutazione che si affianca al riferimento a specifici contesti di riferimento. In tal modo è possibile valutare esiti diversi in un medesimo backgrund, sia quando si fa riferimento ad una scuola che quando si fa riferimento ad un singolo soggetto dell’apprendimento.

Tuttavia un quid di decontestualizzazione appare inevitabile e coessenziale a tali prove, per cui alcune caratteristiche di un determinato sistema scolastico non rilevate in un primo momento possono  essere sottoposte ad un’ interpretazione successiva più attenta.

Così, a proposito dei sopra citati risultati OCSE-PISA del 2000, Benedetto Vertecchi ha rilevato che

se lo strato più debole della popolazione italiana di quindici anni era posto a confronto con gli strati più deboli di altri paesi, come gli Stati Uniti o il Regno Unito, che pure presentavano livelli medi più favorevoli, emergeva una minore dispersione. In altre parole, i risultati italiani erano il risultato di una politica di sviluppo del sistema scolastico in cui la preoccupazione prevalente era stata rivolta ad offrire condizioni positive di educazione a tutta la popolazione, e in particolare a quanti si trovavano in posizione di maggiore difficoltà[8].”

 

Accountability? Sì, grazie. Ma …

Questa espressione anglofona che possiamo tranquillamente tradurre con rendicontabilità od anche con trasparenza è auspicabile - a mio avviso - che venga a considerare una caratteristica delle istituzioni autonome del nostro sistema scolastico, non in una logica di marketing dell’orientamento, che inevitabilmente è falsante rispetto ad un discorso di qualità reale, in quanto fa trasparire solo ciò che si vuol far trasparire, in una situazione in cui l’identificazione tra qualità ed immagine corre facilmente il rischio di essere una mistificazione.

 


 

[1] Il problema comunque si pone sempre in maniera più o meno marcata. La difficoltà di apprezzare adeguatamente il pensiero divergente od anche le proposizioni considerate politicamente scorrette è uno dei problemi critici nella valutazione, anche nella valutazione degli studenti. Chi valuta ha delle attese, quasi sempre discutibili. Il problema è se si debbono accettare risposte anche ottuse ma pertinenti o risposte magari divergenti od anche solo sensate, ma considerate impertinenti.

 

[2] Cfr. E. Gori – D. Vidoni, Valutazione dei risultati scolastici e misurazione del valore aggiunto, in N. Bottani – A. Cenerini, Una pagella per la scuola. La valutazione tra autonomia e equità, Erickson 2003 (pgg.185-226).

 

 

 [3]Non so poi quanto ciò possa conciliarsi con quella che era una delle promesse della nascente autonomia: che si addivenisse nella scuola a prassi semplificate che riducessero al minimo indispensabile la verbalizzazione degli atti.

 

 

[4] Cfr. il dossier del CIDI di Torino: M. Ambel (a cura di) A prova di INVaLSI, Ciid, settembre 2005

[5] Né diversamente poteva accadere, se le Indicazioni nazionali erano un “surrogato” del curricolo nazionale di cui parla il Regolamento dell’autonomia.

[6] Cfr. M. Teresa Siniscalco, Cosa è PISA, in  INVALSI, Il livello di competenza dei quindicenni italiani in matematica, lettura, scienze e problem solvine.  Rapporto nazionale di OCSE-PISA 2003, Armando 2006 (pagg.9-23)

[7] Cfr. M. Teresa Siniscalco, La valutazione della competenza di lettura dei quindicenni italiani nell’indagine internazionale OCSE-PISA, in N. Bottani – A. Cenerini, Una pagella per la scuola. La valutazione tra autonomia e equità, Erickson  2003 (pgg. 289-337)

[8] B. Vertecchi, La scuola disfatta, Angeli 2006 (p. 23).

 


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