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Integrazione dei disabili: le proposte
della Fondazione Agnelli
I valori in gioco Ha fatto scalpore la presentazione della ricerca
promossa dalla Fondazione Agnelli sullo stato di salute
dell’integrazione scolastica degli alunni con handicap, sia per
l’autorevolezza dei proponenti (oltre alla Fondazione, che sta svolgendo
una meritoria attività di ricerca sugli aspetti fondamentali della
scuola italiana, anche la Fondazione Treellle, con analoghi intenti, e
la Caritas cioè l’organismo di volontariato cui non mancano certamente i
credits a favore della parte meno protetta della popolazione),
sia per la puntualità e “lucidità” delle analisi accompagnata da
proposte che –in qualche modo – si muovono controcorrente rispetto ad un
certo diffuso “sentire comune”. In sintesi, la tesi che gli estensori del Report
sostengono è che l’integrazione scolastica dei disabili è ancora un
fiore all’occhiello della scuola italiana, un valore complessivo per
l’intera società, dunque da salvaguardare e mantenere, ma le concrete
modalità di realizzazione di tale principio appaiono assai lontane da un
efficace ed efficiente sistema di inclusione. In una emblematica tavola
di raffronto tra le aperture (e le speranze) contenute nel mitico
Documento Falcucci dei primi anni ’70 e le realizzazioni di oggi si
possono registrare molte inadempienze e disillusioni. Dunque, occorre ripensare a fondo il modo in cui la
scuola (e l’intera comunità) si prende carico della questione,
commisurare meglio costi e benefici, chiamare in causa una pluralità di
soggetti (ivi comprese le famiglie ed il volontariato), perché
un’integrazione, anzi, un inserimento, tutto gravato sulle spalle
dell’insegnante di sostegno è improduttivo e finisce con lo smentire
l’assunto di partenza di una vera inclusione. La scuola “reale” I dati sul fenomeno integrazione sono imponenti:
oltre 200.000 allievi inseriti nelle classi comuni, ed una quota di ben
94.000 docenti di sostegno dedicati all’integrazione: a questo si
aggiunge un dato stimato di circa 25.000 addetti (educatori, assistenti,
ecc.) messi a disposizione dagli Enti locali, oltre allo sdoppiamento di
classi, alla fornitura di servizi specialistici. Si tratta di circa il
10 % dell’intero budget a disposizione della pubblica istruzione
italiana, ma non sono molte le analisi sulla qualità e sui risultati
prodotti da questa spesa. E’ pur vero che non ci si può avvicinare a questo
problema con l’occhio ragionieristico dei “conti alla mano”, perché ci
sono in gioco valori di civiltà e solidarietà assai profondi, e bene
fanno i responsabili della ricerca a precisare che le eventuali modalità
alternative di gestione dell’integrazione NON possono comportare una
riduzione del quadro delle risorse attualmente impegnate verso i
disabili, ma solo modificarne la composizione interna. Ci sembra una
dichiarazione indispensabile per fugare il dubbio che una “riforma”
dell’integrazione sia un ennesimo tentativo di ridurre le risorse a
favore della scuola, come è recentemente avvenuto con il piano di
attuazione della legge 133/2008 che ha comportato un drastico
ridimensionamento dei servizi educativi (organici, classi, tempo scuola,
servizi di supporto, compresenze) in grado di mettere in difficoltà
anche il principio dell’integrazione scolastica.[1]
Questa scelta preliminare ci fa dire che ci si muove comunque nell’alveo
del riconoscimento “costituzionale” del principio dell’integrazione, che
rientra ormai a pieno titolo in quei “livelli essenziali delle
prestazioni” che dovranno essere garantiti in ogni territorio ed in ogni
situazione, a prescindere dai vincoli di compatibilità finanziaria[2],
in quanto espressione di diritti civili e sociali fondamentali.[3]
Il come farlo nel migliore dei modi, questo invece può essere oggetto di
riesame e di confronto sulle politiche fin qui realizzate. Una diagnosi impietosa L’analisi contenuta nel Rapporto parte da lontano,
giustamente dalle scelte che furono fatte all’inizio degli anni ’70 in
materia di integrazione e che trovano nella legge 517/1977 un
significativo passaggio, poi ripreso ed ampliato nella legge quadro
104/1992 ed in successive statuizioni normative, come ad esempio la
legge quadro sui servizi sociali, la 328/2000. Non si può dire che
manchino le tutele giuridiche, ma questo non è indice sufficiente per
parlare di una buona integrazione. Intanto l’apparato normativo ha
portato ad un processo di burocratizzazione nella individuazione degli
allievi disabili (attraverso la certificazione), con una incerta
demarcazione tra i casi effettivi di handicap ed invece le più generiche
difficoltà di apprendimento, quando non la deprivazione socio-culturale.
Il fatto è che il numero degli allievi “certificati” negli ultimi dieci
anni è letteralmente lievitato, passando dai 138.648 dell’a.s. 2001/02
ai 200.464 dell’a.s. 2009/10. L’estrema varietà dei comportamenti
“certificativi”, da una provincia all’altra, testimoniano di una
incertezza nei sistemi di classificazione e ricognizione, e nascondono
anche qualche comportamento opportunistico. La restrizione nel rilascio
delle certificazioni, suggerita con il DPCM 23 febbraio 2006, n. 185 ha
comunque accentuato l’effetto di medicalizzazione e non sembra aver reso
più uniformi i comportamenti delle ASL. D’altra parte, lo stesso Report
segnala che la dizione di “bisogni educativi speciali” non può essere
contenuto in una diagnosi prevalentemente medica, perché si riferisce a
categorie assai più ampie (ad esempio, i disturbi specifici di
apprendimento, le dislessie, ecc.), che richiederebbero innanzi tutto un
trattamento pedagogico. La soluzione proposta è radicale: l’abolizione
della certificazione come “pezzo di carta” avente l’effetto legale di
“produrre” docenti di sostegno e affidare invece l’assegnazione delle
risorse aggiuntive ad una valutazione di tipo tecnico-pedagogico. Le
intenzioni sono più che buone, ma chiediamoci: se la barriera “legale”
della certificazione è stata impropriamente oltrepassata con le regole
attuali, cosa potrebbe accadere “liberalizzando” il riconoscimento della
disabilità a scuola? Per un “sostegno” diffuso L’aumento delle certificazioni ha portato anche ad
un forte incremento nell’assegnazione dei docenti di sostegno: un
docente italiano su otto è un insegnante di sostegno. Questo è indice di
attenzione mirata alla disabilità, ma anche foriero di molti equivoci.
Intanto sulla funzione ed il ruolo del docente di sostegno, sulle cui
spalle finisce con il ricadere il peso quasi esclusivo
dell’integrazione, al di là del dato giuridico che comunque parla di
“contitolarità” della classe[4].
Il fabbisogno inesauribile di sostegno, fino all’agognato rapporto 1:1 e
oltre, segnala che forse non si mettono in moto tutti quei sostegni (al
plurale, come afferma da gran tempo A.Canevaro)[5]
che dovrebbero sostanziare l’idea di inclusione: i docenti di classe,
innanzi tutto, i compagni, l’organizzazione dell’aula, le altre figure
di supporto, il personale ausiliario, ecc. Da questa analisi esce
rafforzata l’idea che più che la quantità del sostegno serve una regia
intelligente di tutte le risorse potenzialmente disponibili per
l’integrazione. Insomma, piuttosto che un sostegno generico sarebbe
importante disporre di figure di alta specializzazione, una sorta di
supervisore che predispone tutte le condizioni per una efficace
integrazione, limitando l’intervento diretto sugli alunni. Questa
ipotesi viene ufficializzata nel Rapporto, con la fissazione di una
quota del 20% di docenti ad alta specializzazione per compiti di regia,
mentre la restante quota andrebbe a costituire la dotazione organica di
base (una sorta di organico funzionale di sostegno). Si intuisce,
comunque, che tale quota dovrebbe ridursi nel momento in cui le funzioni
di sostegno fossero distribuite tra una platea più ampia di soggetti
(come abbiamo visto prima). In tal modo si potrebbero convertire
generiche ore di sostegno in interventi a più alta qualificazione. La “fatica” della cura educativa E’ vero che l’area della docenza di sostegno si
presenta oggi con forti problematicità: ampia presenza di personale
precario, non pochi incarichi conferiti a personale privo di titolo di
specializzazione, turn over “selvaggio” dovuto al meccanismo di
assegnazione annuale fuori organico (deroga). Ben vengano proposte
risolutive per stabilizzare e qualificare detto personale, ma sembra
arduo immaginare una riduzione dei docenti compensata dall’idea del
sostegno “diffuso”: in quasi tutti i casi di disabilità non siamo in
presenza solo di problemi di natura apprenditiva e cognitiva (in questi
casi le misure compensative adottabili in classe dai docenti di base
potrebbero rivelarsi molto efficaci), ma anche di una “materialità”
delle cure educative da rivolgere ai disabili: bisogni fisici
(deambulazione, pulizia, alimentazione), tempi più abbreviati di
attenzione, mancanza di autonomia, esigenze di interazione
tonico-affettiva continuativa, ecc. Dunque, non si può ignorare l’esigenza di una
presenza supplementare di personale, che potrebbe anche non essere
rappresentato da insegnanti nel senso classico: ma da educatori,
personale assistenziale, volontari. Si tratta però di risorse non
facilmente disponibili.[6]
Inoltre, l’ipotesi nasconde una insidia, quella della privatizzazione
della figura del sostegno o della sua estinzione in favore di soluzioni
molto più precarie, come quelle prefigurate nella proposta di legge dei
senatori Bevilacqua e Gentile, che va ben oltre l’idea di
“esternalizzazione” del sostegno, che già molti Enti locali praticano
per i loro servizi educativi, fin quasi a sconfinare nell’idea del
“precettore” privato segnalato dai genitori. La natura pubblica dell’insegnamento è un principio
che non dovrebbe mai essere valicato, dunque l’attività curricolare non
può essere privatizzata o delegata a soggetti operanti sul mercato.
Anche le indicazioni della Caritas a proposito dell’apporto del
volontariato, contenute nel Report, non si spingono oltre
l’individuazione di un supporto integrativo e di facilitazione per le
famiglie e non avvallano l’impiego in classe dei volontari. Intuizioni e prospettive L’analisi della Fondazione Agnelli sullo stato di
salute dell’integrazione è certamente controcorrente, non fosse altro
perché mette in mostra alcune crepe del sistema educativo italiano, che
si vorrebbe celare, forse per non mettere in crisi l’intero impianto
dell’edificio. Non molti giorni fa un autorevole rappresentante della
maggioranza ha sentenziato che il tempo dell’inclusione è finito, e che
la scuola deve preoccuparsi in primo luogo di merito e di eccellenza. Ma a parte la diagnosi rigorista sul cattivo uso
delle risorse, si fa apprezzare l’idea di un pieno coinvolgimento della
comunità (famigliare, sociale, scolastica, professionale) nella presa in
carico dei soggetti disabili, l’individuazione delle molte “pigrizie”
che contraddistinguono il nostro sistema educativo (ad esempio, la
denuncia di un preoccupante ritorno delle didattiche frontali e
tradizionali, che certamente mettono a repentaglio le strategie di
integrazione), la mancanza di raccordi effettivi tra i diversi soggetti
che dovrebbero occuparsi dell’integrazione, l’enfasi sul sostegno come
unica strategia didattica di fronte ai bisogni educativi speciali. La proposta di costituire appositi centri risorse
per l’integrazione suggella emblematicamente la proposta di un
intervento più professionale (il centro dovrebbe aiutare l’aggregazione
di effettive specializzazioni, a partire dai docenti di sostegno
“master”), più condiviso (in quanto tale struttura dovrebbe essere lo
snodo di molteplici competenze istituzionali e non), più equo (grazie
alla capacità di leggere le situazioni ed assegnare le risorse
effettivamente necessarie, cercando di elevare il “tono” della qualità
del sostegno). In uno scenario di crisi del welfare e di riduzione
di tutte le strutture che dovrebbero aiutare la scuola ad uscire da un
improduttivo isolamento (anche nel campo dell’integrazione), è
apprezzabile lo sforzo di scommettere ancora sulle capacità progettuali,
di ricerca, di formazione, della nostra scuola e degli enti locali, su
un tema delicato e sensibile come è l’integrazione nella scuola di
tutti, anche se la terapia proposta appare assai dolorosa e non immune
da qualche rischio. Loretta Lega
[1] Ad onor del vero va
precisato che l’ammontare complessivo dei docenti di sostegno
presenti nella scuola italiana non è stato intaccato dalle
manovre finanziarie di questi anni, stando ai dati ufficiali
comunicati dal MIUR (e che abbiamo già fatto oggetto di una
precedente analisi: cfr. L.Lega, Il punto sull’integrazione
scolastica, in “Rivista dell’istruzione”, n. 2, marzo-aprile
2011). In particolare, nell’a..s. 2010-11 risultavano in
servizio ben 94.430 docenti di sostegno, a fronte dei 90.031
dell’anno precedente. Ma, appunto, questo dato non spiega di per
sé la qualità dell’integrazione, che potrebbe essere messa in
discussione, invece, dall’aumento del numero degli allievi per
classe (innegabile), dalla riduzione del personale ausiliario
(già operante), dalla quasi scomparsa della compresenza”
(inserito in legge). Insomma, l’integrazione non si gioca solo
sull’aumento del “sostegno”: questa è la tesi di fondo della
Fondazione Agnelli e non si può non condividerla.
[2] Questo appare essere
l’orientamento della Corte Costituzionale che nella sentenza n.
80/2010 ha considerato incostituzionale il tetto imposto dal
legislatore alle deroghe per i casi di effettiva gravità,
contenuto nella legge finanziaria per il 2008 (commi 413 e 414
dell’art. 2 della lege 244/2007).
[3] A.Poggi, LEP -
Livelli essenziali, in G.Cerini, M.Spinosi, Voci della
scuola, X, Tecnodid, Napoli, 2011.
[4] T.Nocera, Insegnante
di sostegno, in G.Cerini, M.Spinosi, Voci della scuola, X,
Tecnodid, Napoli, 2011.
[5] A.Canevaro, Dal
sostegno ai sostegni, dal contesto ai contesti, in “Rivista
dell’istruzione”, n. 2, marzo-aprile 2011.
[6] Il Rapporto presenta una
tavola con i dati sulla presenza di personale di supporto
educativo (educatori, facilitatori della comunicazione,
assistenti, ecc.), che appaiono nettamente sbilanciati a favore
delle regioni del nord.
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