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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
- ISSN 1973-252X
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Tempo Pieno al Sud, addio!

Ecco, i tagli agli organici, ancora una volta arrivano come un fiume in piena e sconvolgono le povere scuole primarie del Sud già piene di problemi ed angosciate dalla loro debolezza istituzionale.

Debolezza destinata ad aumentare, fino a diventare insostenibile, quando sarà compiuta la riforma del Federalismo fiscale. Meno risorse ai Comuni, meno risorse alle scuole, l’equazione è semplice e scontata.

Le scuole primarie del Sud che hanno beneficiato per molti anni dell’organico assegnato dalla Legge 148/90, si trovano oggi a pagare il conto di una scarsa considerazione politica che i rappresentanti degli enti locali hanno lasciato in patrimonio ai loro sfortunati eredi, fagocitati da una stagione di riforme e da una frenesia decentralizzatrice che comincia a dare i suoi devastanti esiti.

Negli anni ’90 i direttori didattici, chiamati ad applicare la 148 con i loro collegi dei docenti, dovettero affrontare una battaglia impari contro le amministrazioni comunali, sempre restie a fornire la mensa ed il personale per il pre scuola e il post scuola, prestazioni che avrebbero consentito lo sviluppo di un servizio scolastico efficace e centrato sugli effettivi bisogni educativi dei bambini, peraltro magistralmente interpretati sia dai Programmi ’85 che dalla risplendente riforma ordinamentale del ’90.

Le scuole mancavano (e mancano) di refettori, di spazi attrezzati, di laboratori e di palestre, al punto da rendere difficoltoso qualsiasi progetto formativo degno di questo nome.

Le ASL, incaricate di esprimere pareri sui refettori e sulle mense scolastiche, parevano schierate in maniera “organizzata” contro qualsiasi eccezione o forzatura. La batteria di fuoco burocratico incrociato, costituita dalle allora nascenti leggi sulla sicurezza antincendio e sulla sicurezza dei locali scolastici (il famigerato D.Lvo. 626/94), sconsigliava ogni intento costruttivo per rendere le scuole primarie delle comunità “strutturate” nelle quali la categoria “tempo” potesse trovare compiutezza e distensione plasmandosi sugli emergenti bisogni dei bambini piuttosto che sulla sistematica indisponibilità dei funzionari comunali e sanitari.

Alcune amministrazioni comunali coraggiose, come la prima giunta Bassolino di Napoli, convocarono tavoli tecnici di concertazione e di confronto interistituzionale elaborando protocolli tecnico-sanitari per consentire alle scuole di organizzare gli spazi in maniera funzionale alle esigenze didattiche. Nel perimetro del comune di Napoli diventò possibile, mediante l’applicazione di un rigido formulario igienico - sanitario, utilizzare le aule scolastiche per consentire agli alunni di consumare la refezione anche in mancanza di appositi spazi predisposti.

Le scuole si organizzarono e riuscirono a realizzare mirabili progetti formativi di tempo lungo, peraltro previsti dalla L. 148/90, sfiorando le 40 ore settimanali, rispondendo ai bisogni educativi dei loro alunni ed alle pressanti istanze sociali che si orientavano sempre più su un modello di scuola pregnante e “invasivo” nel senso buono del termine che si riferisce alla capacità, dei docenti e delle loro scuole, di colmare le lacune degli altri soggetti istituzionali coinvolti nell’educazione delle giovani generazioni.

La situazione nella sterminata provincia meridionale risultò, invece, molto diversa. La scarsa propensione degli amministratori ad assumersi responsabilità ed impegni di tipo finanziario, le difficoltà strutturali e le resistenze ad oltranza di molti collegi dei docenti provocarono una falsa applicazione del dettato della legge 148/90, spostando buona parte delle ore di compresenza sulla contemporanea prestazione del servizio degli insegnanti sulla stessa classe ed utilizzando la parte rimanente per le sostituzione dei colleghi assenti. I progetti educativi che ne discesero, pur efficacemente orientati verso l’utilizzo delle risorse nella maniera più ottimale possibile, rinviarono sine die la possibilità per la scuola primaria del Sud Italia di assumersi e perseguire obiettivi di natura sociale, fortemente orientati verso il cambiamento della società, influendo positivamente sulle variabili esterne alla scuola (occupazione femminile, sviluppo economico del territorio, interazione con gli altri soggetti istituzionali coinvolti nel processo formativo).

Questo “provincialismo” organizzativo, proprio di buona parte delle scuole meridionali, forzato dall’inadeguatezza delle risorse messe a disposizione dagli Enti locali ed alimentato dalla storica rassegnazione e dal radicato fatalismo delle popolazioni, sostenne gradualmente la convinzione, ormai propria degli attuali decisori politici, che nella scuola primaria vi fossero sprechi e dispersioni forsennate della finanza pubblica.

Oggi, il risultato è sotto gli occhi di tutti, la scuola nostrana ha ormai due facce che si possono leggere agevolmente sulla cartina geografica dell’Italia utilizzando il solito fiume Garigliano come confine per dividere i due modelli organizzativi prevalenti.

Al Centro - Nord la maggior parte delle scuole funziona a tempo pieno, al Sud il 98% funziona a tempo “normale”, inteso come minimo, essenziale, ridotto all’osso.

Eppure le richieste di tempo pieno nella scuola primaria da parte dei genitori dei bambini meridionali sono considerevoli. Risulta che, in qualsiasi scuola, almeno il 40% dei genitori propenda per questa modalità organizzativa in ragione di istanze sociali e di bisogni educativi che si possono difficilmente soddisfare in maniera diversa. La propensione è soltanto teorica poiché gli organici dei docenti assegnati alle scuole non consentono in nessun modo di soddisfare questi impellenti bisogni e motivate istanze. Solo le scuole che hanno il Tempo pieno “ storico” cioè presente da molti anni nella definizione degli organici, continuano a conservarlo mentre è del tutto impossibile ottenere nuove istituzioni di classi a tempo pieno. Alla luce degli ultimi tagli, non è più possibile nemmeno organizzare classi a tempo pieno utilizzando le ore di compresenza eventualmente disponibili poiché non ce ne sono affatto. I dirigenti scolastici ed i collegi dei docenti dovranno ricorrere a difficilissime opere di ingegneria organizzativa affidandosi, tra l’altro alla speranza che gli alunni aderiscano compatti all’insegnamento della Religione Cattolica poiché è questo l’unico modo per avere qualche ora di tempo scuola da aggiungere al curricolo.

Nei venti anni di storia che ci separano dalla prima realizzazione della Legge 148, il nostro Paese è cambiato profondamente. Ci sarebbe stato bisogno, nel frattempo, di una riforma che fosse partita da un’analisi articolata e coerente dei cambiamenti sociali ed economici con relativi provvedimenti in materia di politica scolastica. Sarebbe bastato considerare che le aree geografiche del Paese nelle quali oggi si taglia tempo scuola a tutto spiano, sono le stesse individuate dall’UE come aree sottoutilizzate e perciò destinatarie di interventi e finanziamenti mirati a colmare il gap esistente con il resto delle regioni europee.

Com’è possibile che le scuole della Campania, della Puglia, della Calabria e della Sicilia, possano restare aperte di pomeriggio (pochi pomeriggi nell’anno scolastico e per pochi alunni, in verità) soltanto grazie ai finanziamenti dell’Unione Europea mentre lo Stato continua a fare di tutto per farle funzionare solo in tempo antimeridiano?

E quando dico Stato, intendo tutte le istituzioni coinvolte nella realizzazione degli scopi costituzionali a cui la scuola deve rispondere primariamente ma, evidentemente, non da sola.

Quale stagione di regresso attende la società del Sud Italia? Con una scuola primaria che dovrà progettare e realizzare curricoli necessariamente “blindati”, caratterizzati soltanto dalla ristrettezza delle risorse dei docenti, che sarà chiamata a misurarsi con i parametri di qualità richiesti ai sistemi formativi europei, che si impegnerà faticosamente ad elevare i livelli di apprendimento dei propri alunni con gli strumenti ridotti al minimo. Non ci saranno tempi migliori ma solo ennesimi fallimenti e clamorosi passi indietro per le giovani generazioni che vivono sotto il 41° parallelo.

Non è convinzione comune che il tempo pieno nella scuola primaria sia la panacea di tutti i suoi mali. Tuttavia, in una stagione di riforme che stanno strozzando l’Autonomia scolastica - vanificandola, riproponendo un centralismo subdolo e insidioso, proprio per questo ancora peggiore di quello legittimato dalla precedente normativa - quale scuola può essere progettata se non vi sono risorse da impiegare e da declinare nell’uno o nell’altro modo, come la sacrosanta autonomia suggerirebbe?

All’atto della riforma di cui alla legge 53/03, la scuola dei bambini dai sei agli undici anni venne definita “primaria” non solo per la propria collocazione di primo gradino del sistema scolastico e formativo ma anche in ragione del proprio ruolo che assume valore e significato fondamentale per le giovani generazioni. Da sempre si conviene che le basi del sapere, le competenze essenziali e le abitudini di studio, di ricerca e di corrette relazioni con gli altri, sulle quali si incardina lo sviluppo pieno e completo della persona, vengano acquisite e sedimentate nel periodo dell’età evolutiva che coincide con la frequenza della scuola dell’infanzia e primaria.

Le attuali negative condizioni sociali ed economiche che tutti conosciamo e che si acuiscono, nel tenore e nella gravità, proprio nelle zone meridionali dell’Italia, se non affrontate immediatamente con una risposta di portata epocale in termini educativi, rischiano di far affondare definitivamente ogni speranza di progresso sociale ed economico delle popolazioni.

In barba alle esigenze di bilancio dello Stato ed alle ristrettezze delle casse comunali, - che saranno sì importanti ma lo sono molto meno se messe a confronto con il diritto ad apprendere dei discenti e non lo sono per nulla di fronte al dettato dell’art. 3 della Costituzione che impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che impediscono l’uguaglianza dei cittadini, - sarebbe urgentissimo ed indifferibile di fronte all’addio al tempo pieno, ormai decretato per legge ed imposto alle scuole senza il parere delle rispettive comunità scolastiche, un cambiamento di rotta.

Navigheranno i piccoli discenti della primaria del Sud negli impetuosi oceani delle incertezze attraverso arcipelaghi di certezze? Diciamo che per il momento essi si trovano su barconi sgangherati e senza speranza se non quella di attraccare ad un porto sicuro, qualunque esso sia.

E fuor di metafora, senza scomodare oltre né Morin né i poveri nordafricani in cerca di buona sorte, la classe politica che ci ritroviamo dovrebbe rinvenire un po’ di lungimiranza (ma ne occorre proprio poca) magari sostituendola alla fin troppo evidente cattiveria, mostrata sovente verso la scuola statale in generale e verso quella del Sud in particolare, affinché l’addio al tempo pieno possa trasformarsi in un “arrivederci a presto”.

Contrariamente, dovremo dare credito a chi sostiene che queste manovre e questi tagli sono strumentali al rafforzamento della scuola paritaria che gode, come noto, della più ampia autonomia e della più alta considerazione dei nostri decisori politici.

E dovremo aprire un altro capitolo nefasto della scuola italiana grazie agli scrittori sgrammaticati che, senza possedere né gli strumenti né la competenza per farlo, pretendono di scriverne la storia stringendo semplicemente i cordoni della borsa, come una matrigna che acconsente alle nozze della figliastra purché siano festeggiate con i fichi secchi!

Napoli, 24 aprile 2011

Domenico Ciccone


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