OBBLIGO SI’, OBBLIGO NO:
dopo i quindicenni, toccherà anche ai cinquenni?

di Giancarlo Cerini

Cambiamento e partecipazione

E’ decisivo per il futuro della scuola che i processi di riforma vedano l’attiva e concorde partecipazione di docenti, ricercatori, esperti. Non si tratta di stimolare un generico "movimentismo" dal basso, ma di costruire una vera e propria cultura della riforma, a partire dalla rielaborazione concettuale delle "buone pratiche" e dalla riflessione sulle esperienze professionali più innovative.

In fondo l’autonomia della scuola prima ancora di essere un dispositivo giuridico è un atteggiamento mentale, un’attitudine a farsi domande, a rimettere in discussione abitudini e routines, a immaginare ipotesi e soluzioni per migliorare l’insegnamento e quindi, sperabilmente, l’apprendimento. Ogni scuola, con l’autonomia, è invitata a rafforzare la propria "visibilità istituzionale" (non a perderla) e a dotarsi di una più forte "identità progettuale e culturale". In questo scenario la scuola dell’infanzia deve rivendire un ruolo più incisivo nella formazione di base.

Il timore è che i temi ed i problemi della ‘scuola dei piccoli’ non siano al centro dell’attenzione prioritaria dei nostri decisori politici. Fa più "audience" parlare di riforma della secondaria, dell’università, di snodi verso la formazione professionale, tuttavia il successo formativo si determina a partire da buone condizioni di avvio del percorso educativo e quindi fin dalla scuola dell’infanzia.

Lo scenario dell’autonomia

Oggi, come alla fine degli anni sessanta e all’inizio degli anni settanta, esiste una grande aspettativa nella società per la costruzione di una scuola efficiente, democratica, comunitaria. Si è aperta infatti, dopo 25 anni dai Decreti Delegati del 1974, una nuova stagione di riforme.

L’autonomia scolastica sembra offrire la possibilità di riscoprire il senso di una scuola comunitaria, di un dialogo tra le autonomie culturali (le scuole) e quelle sociali e istituzionali (le comunità sociali). Scuola e comunità, insieme, possono riscoprire le ragioni di un patto educativo condiviso, affinché la formazione dei ragazzi dentro la scuola e negli altri luoghi dell’educazione sia la più efficace possibile.

Non è un caso che discutendo di autonomia emerga subito il problema di un modo diverso di interpretare i rapporti tra i cittadini e lo Stato. Tutti vorremmo un rapporto meno "sonnolento", meno grigio, meno burocratico, con i cittadini non più destinatari passivi delle decisioni delle istituzioni, ma attivi protagonisti, in grado di assumersi, tutti assieme, nuove responsabilità. Questo richiamo alla responsabilità educativa della comunità intera rappresenta già un’affermazione concreta del principio di sussidiarietà che sta alla base dell’autonomia ("… non aspettarti dalle istituzioni lontane quello che puoi realizzare con la tua iniziativa personale e comunitaria…").

In questo contesto si inserisce anche il protagonismo professionale dei docenti, la loro rivendicazione di un diritto di parola di fronte a chi li rimprovera di non sapersi o volersi rinnovare.

Va riconosciuto che la scuola è legata ai suoi ritmi, al suo diritto di non inseguire affannosamente l’attualità, a lavorare sui tempi lunghi. Questo "distanziamento" dal mondo potrebbe non essere sempre negativo. E’ però necessario che grandi riforme come quella dell’autonomia, come il riordino complessivo dei cicli, o i nuovi curricoli di studi, non siano semplicemente preannunciate da leggi o da regolamenti, percepite come decisioni calate dall’alto. La vera riforma sarà quella che, concretamente, gli 800.000 insegnanti italiani riusciranno a costruire, giorno per giorno nelle nostre classi.

Le prospettive dell’anticipo

Dopo aver delineato queste premesse di scenario, possiamo inoltrarci all’interno del problema specifico della scuola di base ed in particolare del nuovo obbligo scolastico e del suo eventuale anticipo a 5 anni, ma soprattutto della possibile interpretazione da attribuire a questo processo.

E’ necessario ritornare al 1996, l’anno in cui (dopo la vittoria elettorale dell’Ulivo e l’insediamento del Ministro Berlinguer) ha preso avvio il dibattito sul riordino complessivo dei cicli. In particolare, il 1996/97 è stato un anno "vissuto pericolosamente" dalla scuola dei piccoli, avendo visto l’avvio di un dibattito che poggiava sull’idea che fosse necessario anticipare la scuola elementare a cinque anni, per poter rinnovare l’intera architettura del sistema scolastico italiano. Una scelta tipicamente elitaria come è sempre stata quella di anticipare la frequenza della scuola elementare avrebbe così potuto essere estesa, in chiave democratica, a tutti i ceti sociali, come opportunità di un precoce sviluppo culturale e formativo.

Molti hanno però considerato strumentale la proposta di costruire l’assetto della nuova scuola italiana proprio su una operazione di anticipo delle uscite scolastiche a "cascata" (da 19 a 18 anni, da 14 a 12 anni, da 6 a 5 anni), anche perché dietro la tendenza all’ "anticipo" si scorge con facilità il rischio di un modello competitivo, che accelera le tappe dello sviluppo e chiede ai nostri ragazzi di arrivare prima a conseguire un risultato (ma quale?).

Dovremmo, ad esempio, meglio riflettere sull’ipotesi di completare il percorso scolastico a 18 anni, anziché a 19. Questo fatto può essere letto in termini positivi, come riconoscimento dell’autonomia di un giovane di 18 anni ormai maggiorenne, non più trattenuto sui banchi di scuola, ma capace di fare le sue scelte - con piena consapevolezza - nel mondo dello studio, del lavoro, o verso altre alternative (che – a dire il vero - spesso in Italia non esistono). Ma è possibile anche una lettura del tutto diversa: quella di accelerare i tempi, per diventare competitivi ad ogni costo, inserendosi presto nel mondo del lavoro, nella produzione.

Molte delle scelte di politica scolastica di questi anni presentano il rischio di una opposta interpretazione. Per questo dobbiamo approfondirle, arricchirle di riflessioni culturali; questo è già un buon risultato, per ‘un anno vissuto pericolosamente’.

Sulla questione dell’obbligo il punto di partenza era l’idea di una collocazione del bambino di 5 anni nell’ambito della scuola elementare.

Cosa sarebbe rimasto della scuola dell’infanzia ridotta ad un biennio? Qualcuno aveva azzardato, in questa rincorsa all’anticipo, l’ipotesi di far slittare verso i due anni l’avvio della scuola dell’infanzia. Nulla di scandaloso: in Francia si prevede anche una sezione di accoglienza per bambini di 2 anni. Sappiamo che ci sono alcuni Comuni che hanno ampliato la possibilità di iscrizione prima del compimento dei 3 anni. Si conoscono anche le propensioni delle scuole materne private, che spesso cercano di scavalcare le regole, pur di essere competitive sul "mercato" dei servizi educativi.

Si manifesta una domanda crescente di nuovi servizi educativi, anche nelle regioni come la Toscana e l’Emilia Romagna, dove c’è già una grossa presenza di asili nido. Questo fenomeno è meno conosciuto in altre regioni, dove invece si registra un anticipo strisciante all’interno della scuola dell’infanzia. Nulla di scandaloso, nemmeno dal punto di vista pedagogico o culturale, però è certamente fuorviante pensare di inserire un bambino di 2 anni nella scuola dell’infanzia, in un gruppo di 28 coetanei, con le strutture attuali.

L’eventuale scelta di anticipare l’ingresso di un bambino di 2 anni nella scuola dell’infanzia richiederebbe un ripensamento totale delle strutture di accoglienza, della cultura dei servizi, della formazione dei docenti, dei modelli pedagogici, impensabile in questo momento.

In nome della legge: e spuntò l’obbligo

Sul tema della riforma (e dell’estensione dell’obbligo) la scuola dell’infanzia ha partecipato intensamente al dibattito e non solo nelle tradizionali roccaforti. Migliaia di insegnanti hanno affrontato il problema della riforma con una vivacità che non è stata riscontrata nella scuola media o in altri settori scolastici, pur essi chiamati a ripensarsi in una prospettiva di grande cambiamento.

Alla fine di questo dibattito registriamo un più forte riconoscimento della scuola dell’infanzia, con la conferma della sua integrità triennale, ed un "via libera" alla proposta dell’ultimo anno obbligatorio. L’obbligo è stato associato all’idea di una promozione culturale ed istituzionale della scuola materna, una sorta di ammissione al piano "nobile" del sistema formativo, passando dall’ingresso principale: dunque, non più "asilo", ma vera e propria "prima" scuola.

Si tratta di una forte legittimazione sociale e pedagogica della scuola dell’infanzia, perché il messaggio implicito è molto chiaro: frequentare una scuola materna a cinque anni non è tempo perso, è una scelta importante, decisiva, tant’è vero che viene resa obbligatoria. E’ un segnale rivolto anche ai genitori e all’opinione pubblica, anche se è stato presto distorto dai grandi mezzi di informazione. "Bambini sui banchi di scuola a cinque anni" hanno titolato alcuni giornali, quasi veicolando l’immagine dell’obbligo scolastico come una costrizione, come apprendimento coatto sui banchi di scuola. Altri giornali hanno spiegato che "i bambini impareranno a leggere e a scrivere a cinque anni". Il messaggio è dunque diventato ambiguo: la scuola materna è stata considerata una esperienza formativa importante, ma la sua identità, i suoi compiti, gli obiettivi, sono stati spesso travisati ed omologati a quelli della scuola elementare.

Un’occhiata all’Europa

Ma è proprio necessaria una nuova legittimazione, "in nome della legge", del ruolo sociale della scuola dell’infanzia ? Oggi, in Italia, gli ultimi dati ci dicono che i bambini dai tre ai cinque anni frequentano la scuola dell’infanzia in una misura ormai vicina al 93% della popolazione di età interessata (99 % per i 5 anni). Il primo giorno di scuola, in Italia, comincia proprio a tre anni. Questo dato rende il dibattito che si è animato sui mass-media sull’ "andare a scuola a cinque anni" in qualche modo parziale, perché in realtà già oggi si va a scuola a tre anni. Il 93% di bambini che frequenta la scuola dell’infanzia costituisce uno standard superiore alla media europea (v. tab. 1).

Tab. 1 – I tassi di frequenza in Europa
(in % per fasce di età)

  Italia Francia Germania Inghilterra Danimarca Olanda
3 anni 89 99 47 45 60 Nd
4 anni 96 100 71 94 79 97
5 anni 99 100 77 100 81 99

Fonte: Commissione Europea-Eurydice, Le cifre chiave dell’istruzione nell’Unione Europea ‘97, Bruxelles, 1997.

Nella stessa Inghilterra, ove l’obbligo inizia a 5 anni nella "infant school" (una scuola cuscinetto tra la materna e l’elementare per i bambini di 5-6 anni) si sono poi ritrovati sguarniti di servizi nella fascia di età dei 3 anni. L’esperienza inglese ci mette in guardia dal possibile rischio di una scuola dell’infanzia a due velocità: una scuola per i 5 anni, già inserita nel panorama dell’obbligo; una scuola per i 3-4 anni, con un ritmo molto diverso, più "naturalistico" e "ludico". Con una battuta un po’ ironica dovremo forse chiederci: "I bambini di 5 anni potranno continuare a giocare con quelli di 3 e di 4 anni nella nuova scuola dell’infanzia ?". Solo per alcuni il curricolo è obbligatorio ? Solo a loro sarà richiesto il potenziamento delle abilità e delle competenze ? Ci sarà una scheda di valutazione? Ci saranno dei traguardi, degli standard da raggiungere, ecc.? Le necessarie risposte coinvolgono il piano pedagogico e culturale, prima ancora che quello politico e legislativo.

In Inghilterra, per esempio, l’aver anticipato a 5 anni il percorso formativo scolastico non ha di per sé risolto il problema della prevenzione delle disuguaglianze, anzi un fenomeno che si osserva nell’ Infant School (ove si avvia la formalizzazione delle richieste di apprendimento che vengono poste ai bambini) è l’emergere già a 5 anni delle differenze tra chi riesce a reggere un certo ritmo nell’acquisizione delle abilità di lettura e scrittura e chi, invece, comincia a marcare le prime difficoltà di percorso.

La raccomandazione è dunque di mantenere un approccio pedagogico molto aperto, molto generoso, non chiuso nella richiesta di competenze di tipo strumentale. Questo è l’insegnamento che ci deriva dai Paesi che hanno tentato di accelerare i tempi, per formalizzare precocemente l’incontro con gli apprendimenti.

Un problema di qualità del contesto educativo

In alcune ricerche italiane è emerso che, al termine della 5^ elementare, i bambini che avevano iniziato il percorso delle elementari a 5 anni, anziché a 6, registrano a 9 anni una lieve flessione negli apprendimenti di matematica e di lingua.

La precocità dell’intervento non è di per sé garanzia di prevenzione del disagio scolastico; importante è piuttosto la qualità dell’esperienza che un bambino può vivere in un ambiente educativo correttamente organizzato per far fronte ai suoi bisogni.

In un’indagine di fonte ufficiale, curata dal Ministero della Pubblica Istruzione (1993), è stato notato che in 1^ elementare il modello organizzativo, veicolato dalla riforma dei moduli (Legge 148/90), spesso ha irrigidito la scansione e la qualità pedagogica dei tempi. Il tempo del gioco sembra diminuire, come pure quello per il lavoro di gruppo. Non sempre le classi sono ambienti caratterizzati da situazioni di tipo operativo, sociale, e da metodologie attive. Spesso prevale un’interpretazione rigida, frammentaria, frantumata del progetto culturale sotteso alla riforma del 1990.

Ecco perché è importante, quando si parla di scuola dell’infanzia e di obbligo a 5 anni, curare con molta attenzione il modello pedagogico, le condizioni di un "buon" ambiente di apprendimento. Queste condizioni le troviamo certamente delineate negli Orientamenti del 1991 e dovremmo attenerci di più nell’interpretazione del modello pedagogico a quel documento, forse ancora poco conosciuto ed applicato nella nostra scuola.

Si afferma negli Orientamenti che la scuola dell’infanzia è un ambiente di apprendimenti, di relazioni, di vita: in queste tre parole si coglie immediatamente l’indispensabile equilibrio tra le diverse forme di sviluppo della personalità di un bambino. Non può esserci accelerazione solo sugli apprendimenti cognitivi, né tanto meno sugli apprendimenti di abilità strumentali. Se l’apprendimento nasce attraverso la relazione, il "faccia a faccia" tra l’adulto e il bambino, tutto questo implica una cura particolare nell’organizzazione del contesto educativo.

Dovremo anche superare una certa rigidità nell’organizzazione della vita della scuola. Lo stesso concetto di "sezione" non può rimanere l’unico parametro di riferimento per la costruzione degli organici del personale docente. Un organico funzionale (come è ormai previsto dalla Legge 59/97 per tutti i livelli scolastici) dovrà essere commisurato al tempo scuola, al numero dei bambini, alle condizioni organizzative, al disagio socio-educativo. La legge 59/97 prevede anche il passaggio –per gli insegnanti- da una titolarità di sezione o di plesso, ad una di circolo, per favorire una distribuzione più equa delle risorse umane, professionali, all’interno della scuola stessa.

Un buon contesto educativo è condizionato dalla qualità degli ambienti, dagli spazi, dalle attrezzature, dai materiali che i bambini possono trovare all’interno della scuola. Tutto questo deve far pensare che le grandi riforme non possono essere frutto di un colpo di bacchetta magica, quasi che bastasse ridisegnare gli ordinamenti ed i cicli (dai 3 ai 5 anni, dai 6 ai 12, dai 12 ai 15 e così via). Non è solo definendo una cornice diversa che si possono risolvere i problemi di qualità della proposta e dell’offerta formativa.

Bisogna dare un’anima a queste cornici, e quindi un PROGETTO CULTURALE ED EDUCATIVO: bisogna chiarire e decidere cosa fare per i bambini ed i ragazzi nei diversi livelli scolastici ed investire decisamente sulle risorse, sulla qualità dell’ambiente, sulla formazione degli insegnanti. E’ scandaloso, ad esempio, che solo dall’anno accademico 1998/99, dopo otto anni dall’approvazione della legge 341/90, siano stati avviati i corsi universitari per la formazione degli insegnanti di scuola materna ed elementare.

Come interpretare la nuova identità della scuola dell’infanzia?

Di fronte ai grandi cambiamenti che attendono la scuola italiana, non possiamo chiuderci a riccio, sulla difensiva, quasi a preservare uno stato di natura del bambino dai 3 ai 6 anni. Non è più sufficiente che ogni scuola dichiari i propri meriti: "…noi della materna facciamo un buon lavoro… noi delle elementari abbiamo fatto da poco una riforma molto impegnativa… la scuola media ha avuto la sua riforma… la secondaria ha le sue sperimentazioni…".

E’ ormai superato il tempo delle nicchie, ove ognuno guarda solo al piccolo segmento di casa sua. La sfida è quella di un percorso formativo coerente. Se ci sono delle difficoltà scolastiche a 15 anni, non possiamo addebitarle solo a quello che succede nella scuola dei quindicenni, dobbiamo andare a cercarle molto prima, nella storia e nella preistoria cognitiva di ogni allievo.

I cosiddetti Saggi, messi al lavoro dal Ministro Berlinguer nella primavera del 1997, per definire l’intelaiatura di questo progetto culturale, addebitano alla scuola il fatto che bambini e ragazzi non imparino più ad argomentare oralmente e per iscritto, anzi che ormai le competenze linguistiche siano irrimediabilmente compromesse.

Diamo per scontato che ci sia del vero in questa analisi: da alcune ricerche internazionali emergono punti di crisi nella produzione scritta, nella comprensione dei testi, specie di quelli argomentativi, ecc. Che fare di fronte a queste constatazioni? Aumentare i corsi di recupero alle superiori, rendere più selettiva la scuola, differenziare i percorsi, oppure coinvolgere tutto il sistema rispetto a questo obiettivo, dalla materna alle superiori ? Se pensiamo che argomentare per iscritto significhi anche argomentare con le parole, descrivere, narrare, allora un buon programma di lavoro sull’argomentazione deve essere senz’altro affrontato fin dai primi anni della scuola dell’infanzia.

Ci dovremo sentire parte integrante di un curricolo unitario che va, a pieno titolo, dai 3 ai 18 anni, attraverso un itinerario coerente, senza sovrapposizioni e ridondanze, che sappia cogliere con molta precisione ciò che si può fare nelle varie fasce d’età e, proprio per questo, vada ad alleggerire l’eccessiva quantità di contenuti, per concentrarsi sulle abilità e competenze essenziali.

Su questo punto la scuola dell’infanzia dovrebbe riscoprire la propria specificità. Già alla fine degli anni ’60 Bruno Ciari , grande pedagogista italiano, in un documento intitolato "Per la ricostruzione della scuola di base" (1969), individuava proprio questo percorso basilare dai 3 ai 16 anni. Un tema di estrema attualità, perché oggi stiamo ripensando ad un nuovo percorso formativo unitario, che ci chiarisca quale possa essere il ruolo della scuola di base. Il dibattito non può dunque gravitare solo sul futuro del bambino di 5 anni; va considerato, piuttosto, il contributo complessivo che la scuola dell’infanzia può offrire al disegno di rinnovamento del curricolo dai 3 ai 18 anni, a prescindere dalla durata dell’obbligo legale.

La questione dei 5 anni

Esploriamo ora la questione del bambino di 5 anni. Dopo l’anno scolastico (1996/97) "vissuto pericolosamente" ci sono stati successivi aggiustamenti di tiro, miglioramenti notevoli nella proposta di legge sul riordino dei cicli (giugno 1997). Mentre nel documento introduttivo del gennaio 1997, in maniera un po’ azzardata si parlava di scuola dell’infanzia come di una scuola "preparatoria", nell’art. 5 del Disegno di legge in discussione al Parlamento (1999), sembra più chiara l’identificazione di un corretto modello pedagogico, quando si afferma che la scuola dell’infanzia concorre ("promuove" sarebbe risultato più incisivo) allo sviluppo affettivo, cognitivo e sociale dei bambini.

"AFFETTIVO, COGNITIVO, SOCIALE": sono tre aggettivi che implicano un’attenzione molto ampia alla personalità del bambino, non certamente alla sola dimensione cognitiva, in piena sintonia con gli Orientamenti del 1991, ove si richiama anche il concetto di POTENZIALITÀ", cioè il dinamismo di un investimento educativo sul futuro di ogni bambino.

Mentre il disegno di legge si riferisce alle "potenzialità di autonomia, conoscenza e creatività", negli Orientamenti si cita la triade "autonomia, competenza, identità". Troviamo dunque aggiunto il termine CREATIVITA’ che, legato al termine potenzialità, va a sottolineare il bisogno di mantenere molto plastico ed aperto il processo di interazione tra adulto e bambino a questa età. Non dobbiamo soffermarci su abilità precocemente convergenti. Gli stessi obiettivi della prevenzione e della compensazione vanno "armeggiati" con notevole cautela.

Questa è dunque l’identità della nuova della scuola dell’infanzia che si è venuta delineando dopo gli Orientamenti del ’91, pur in assenza di una nuova legge di ordinamento.

Il futuro della scuola dell’infanzia è ora racchiuso dentro la più ampia proposta di riforma della scuola: dobbiamo esserne consapevoli; coglierne il senso e le conseguenze sul piano delle scelte politiche. Nel nuovo scenario dell’autonomia nessun Parlamento scriverà più una legge di dettaglio, che prescriva quante ore è aperta una scuola, quanti minuti di compresenza si potranno fare.

Avremo leggi-quadro snelle, di finalità, che proporranno un modello organizzativo assai flessibile. Saranno poi fissati, anche a scadenza pluriennale, alcuni (pochi) indicatori di funzionamento, molto precisi e cogenti: per es. il numero medio di alunni per sezione (che nella scuola materna è più alto di quello degli altri livelli scolastici, mentre un documento europeo sulla qualità della scuola definisce ottimale una presenza media di 20 alunni per sezione nella scuola dell’infanzia). Spetterà poi all’amministrazione rispettare tali standard, verificarli, riadattarli. Cambia dunque lo stesso concetto di "politica scolastica". Meno leggi "fumose" e comportamenti operativi più "puntuali".

In questa ottica, l’articolo della legge sui cicli che si riferisce alla scuola materna, sembra eccessivo, soprattutto per l’insistenza sull’ultimo anno di frequenza obbligatoria, ove "… salvaguardando la continuità educativa dell’intera scuola dell’infanzia" si potenzia il conseguimento degli obiettivi cognitivi e relazionali.

Il termine di preparazione è stato quindi sostituito dal termine potenziamento, quasi a rendere più visibili e "pesanti" i traguardi di apprendimento. Sembra invece assicurato l’equilibrio tra obiettivi cognitivi e relazionali, perché la proposta comunque rispetta un delicato equilibrio nella formazione del bambino dai 3 ai 6 anni, senza sbilanciarsi esclusivamente sulle abilità di tipo strumentale.

Non solo obbligo

In merito alla scelta dell’obbligo per il bambino di 5 anni c’è poi da chiedersi: se il 93% dei bambini va già alla scuola materna, chi è quel 7% che noi adesso vorremmo obbligare –in nome della legge- ad andarvi ? Le statistiche ci riferiscono che si trovano soprattutto nelle grandi città del Sud (ad es.: Napoli) dove spesso le domande non possono essere accolte per mancanza di posti, di sedi, di strutture.

L’obbligo va allora pensato soprattutto per le istituzioni, per garantire l’apertura della scuola in quelle situazioni dove c’è una richiesta che non viene soddisfatta. Sono le istituzioni obbligate a realizzare la scuola dell’infanzia laddove non c’è ancora e a garantire buoni livelli di qualità per quelle esistenti. Questi sono i principi che vanno scritti sulla legge: "… ai bambini dai 3 ai 6 anni va offerta una scuola dell’infanzia al massimo livello di qualità possibile...". In questo modo arriveremmo al 100% di frequenza anche senza ricorrere ad una prescrizione di obbligo.

In fondo l’obbligo scolastico è un vecchio arnese di fine ‘800. Anche l’elevamento dell’obbligo a 15 anni (in uscita dal ciclo di base) ci fa rimanere desolatamente ultimi in Europa. Dobbiamo perciò puntare al traguardo dei 18 anni, non tanto come obbligo di stare seduti dietro ad un banco di scuola, ma come diritto alla formazione fino a 18 anni anche in forme assai differenziate (a tempo pieno, a tempo parziale, in alternanza con l’apprendistato, ecc.).

Il percorso dai 3 ai 18 anni configura il diritto ad una formazione per tutti lungo un itinerario di opportunità diverse che le istituzioni devono garantire. In questa prospettiva "lunga" si smonterebbero molte delle preoccupazioni circa una scuola materna a due velocità (obbligatoria e non), con i fraintendimenti sul piano educativo che abbiamo riferito in precedenza.

La scuola dell’infanzia garantirebbe così un suo percorso unitario, senza quell’accelerazione dei ritmi che ha portato –nel citato documento del gennaio 1997- a ipotizzare interventi di sostegno per i bambini non in grado di "decollare" verso gli alfabeti ! L’obbligo nella scuola dell’infanzia non può attrarre i bambini di 5 anni nell’alveo della alfabetizzazione scritta, cioè di un precoce approccio agli alfabeti tipici della scuola elementare.

Il momento della verità sarà però quando Direttori didattici, Amministratori locali, genitori proporranno di sperimentare un biennio ponte 5° anno/1^elementare". In effetti, il ritmo biennale 3-4 anni, 5-6 anni, 7-8 anni ecc., che è una delle novità del percorso proposto nel disegno di legge sui cicli, può consentire –se ben interpretato- tempi più distesi per far fronte ai diversi compiti di apprendimento tipici per ogni biennio. Ad esempio tra i 5 e i 6 anni l’apprendimento della lettura e della scrittura potrebbe non concentrarsi tutto sui primi mesi della classe prima.

Ma come saranno fisicamente organizzate (ambiente, spazi, tempi) queste due classi-ponte ? Cosa troveremo in una 1^ elementare? Ci sarà l’integrazione degli insegnanti (i cosiddetti ‘prestiti professionali’, che sono già previsti dalla normativa vigente per gli istituti verticali) ? Quali saranno le modalità di valutazione ?

Sarebbe un indicatore di qualità per un progetto "ponte" trasformare una 1^ classe elementare "sfruttando" quelle caratteristiche di accoglienza, di vivacità, di situazioni di apprendimento in gruppo, di ricchezza di sollecitazioni e di stimolazioni tipica di una "buona" scuola materna.

In conclusione si può affermare che il dibattito di questi mesi ha dato ragione al carattere fondativo della scuola dell’infanzia nell’ambito del sistema formativo di base; si è affermato il riconoscimento di una scuola che conta, decisiva nella formazione dei bambini. Inoltre, nella proposta di riforma si dice che TUTTA la scuola dell’infanzia conta e che, quindi, bisogna promuovere le condizioni migliori per tutte le scuole del nostro Paese, quelle statali, quelle comunali, quelle private. Questa dichiarazione, infine, implica impegni precisi per la formazione degli insegnanti, gli investimenti finanziari, la qualità delle strutture.

Tutto questo va garantito e realizzato prima ancora di scrivere per legge che è obbligatorio frequentare l’ultimo anno di questa scuola. Ma allora avremo già oltrepassato il 100 % dei frequentanti…



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