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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Un’altra idea di tutor[1]

                  di Giancarlo Cerini

 

Tutor: una parola dal forte impatto emotivo

 

Rafforzare le funzioni di “cura educativa” (di tutoraggio) nei confronti degli allievi rappresenta senza dubbio uno dei punti di svolta della attuale proposta di riforma della scuola, ravvisabile soprattutto nei documenti pedagogici collaterali (Indicazioni, Raccomandazioni, Esemplificazioni, ecc.) prima ancora che nella legge n. 53 del 28-3-2003, che dedica alla questione “tutoriale” poche righe nell’ambito dell’alternanza scuola-lavoro (e della formazione dei docenti).

E’ anche evidente che il “tutor” si inserisce tra gli oggetti della riforma unitamente ad altri “lemmi” del nuovo lessico pedagogico (come personalizzazione, portfolio, progetto di vita, ecc.), quasi a suggellare il ripristino di una supremazia del momento educativo (in una ottica etico-esistenziale, valoriale) su quelli più strettamente culturali e cognitivi. Di qui l’apparente abbandono di termini quali curricolo, istruzione, contesto, ambiente di apprendimento,  in favore dell’elogio dei concetti di sussidiarietà, facoltatività, flessibilità, quasi per alleggerire la “pesantezza” istituzionale del sistema scuola.

Senza dubbio, l’enfasi sulla figura “forte” del docente tutor (perché tale si presenta nella campagna mediatica, oltre che in alcuni passaggi normativi, come gli allegati A-B-C-D al Decreto legislativo 59/2004) nasce sotto il segno di questa nuova stagione culturale. E si carica inevitabilmente di un valore ideologico aggiunto, sia per chi si dichiara favorevole alla sua introduzione, sia per chi la osteggia. In più, nella scuola elementare, la particolare configurazione “forte” e “compatta” assegnata al docente con funzioni tutoriali nelle classi prime, seconde, terze, apre interrogativi immediati sul rapporto tra questo nuovo modello pedagogico (più attento alle ragioni dell’unitarietà) e l’organizzazione modulare legata alla riforma del 1990 (più proiettato verso le ragioni della pluralità).

Anzi, la previsione di un solo tutor-coordinatore per classe sembra smentire clamorosamente tutti gli elementi (pluralità docente, con titolarità didattica, pari responsabilità, ecc.) qualificanti l’innovazione della scuola primaria degli anni ottanta e novanta. E’ anche per questi risvolti storici (legati ad una stagione “positiva” di riforme) che la proposta incontra notevoli perplessità, resistenze, quando non aperta contrarietà) tra gli insegnanti elementari, preoccupati per un possibile arretramento dei livelli di professionalità raggiunti. Questo forte impatto “emotivo” impedisce anche di analizzare a fondo i problemi culturali, pedagogici e didattici connessi alla dimensione tutoriale della relazione educativa che, se correttamente intesa può contribuire a migliorare i livelli di qualità dell’esperienze scolastica. 

Per essere compresa, la questione del “tutor” deve essere smontata nei suoi aspetti pragmatici, evitando di interpretarla in termini ideologici. A ben vedere attorno all’immagine del tutor si celano tre distinti problemi che vanno analizzati con molta attenzione:

-         le funzioni tutoriali (di accoglienza, ascolto, orientamento, accompagnamento, esplorazione delle potenzialità e degli stili di apprendimenti di ogni alunno); sono funzioni talmente intime e connaturate alla qualità di ogni docente che non è pensabile privare qualcuno di questa funzione; meglio condividerle tra i docenti di un team, studiando forme di affidamento tutoriale di gruppi di alunni;

-         il coordinamento di un’equipe docente, di un gruppo di adulti, come capacità di coesione, tenuta del compito, documentazione dei percorsi, ecc.. La domanda diventa: come si possono svolgere tali funzioni, a quali condizioni, con quali responsabilità, con quali vantaggi  per il gruppo docente?

-         la pluralità docente ed i tempi delle discipline, la loro aggregazione in ambiti (che è responsabilità attribuita al collegio dei docenti, in base al Regolamento dell’autonomia), i ritmi della settimana, l’equilibrio di una giornata “distesa, il valore formativo delle singole discipline, la domanda di connessione unitarietà tra i saperi.

Posta in questi termini la questione diventa assai più attraente e profonda, non semplificabile con un ipotetico referendum: “tutor sì, tutor no”, ma bisognosa di ricerche, ipotesi, approfondimenti. In particolare nella scuola elementare il problema “tutor” può diventare un intrigante oggetto analizzatore della storia delle riforme recenti di questa scuola, perché le domande che suscita si riferiscono proprio al senso da attribuire ai cambiamenti avvenuti negli ultimi vent’anni, alla loro verifica, alla loro possibile revisione (o conferma). Soprattutto in tema di pluralità dei docenti, di team, di collegialità.

 

Le ragioni della pluralità docente

 

    A vent’anni di distanza non è inutile ritornare sui nostri  passi e ricostruire le motivazioni di quel progetto (i programmi del 1985 e gli ordinamenti del 1990), che ancora oggi rappresenta il quadro di riferimento più condiviso dalla scuola “primaria” del nostro paese. Detto in altri termini, chi si propone di riscrivere quei programmi e a superare quei modelli organizzativi (come si evince negli allegati “transitori” al D.Lvo 59/2004) non può non misurarsi con quella storia, a partire dall’emblema del cambiamento, cioè il superamento della figura del “maestro” come unico interlocutore della vita cognitiva e affettiva dei ragazzi di una classe, in favore della responsabilità condivisa da parte di un “team” docente.

    Le idee-guida su cui si regge il progetto culturale e didattico della scuola elementare riformata nel 1990 sono abbastanza note eppure ancora da richiamare: si tratta del concetto di alfabetizzazione culturale, da promuovere nel contesto di un equilibrato ambiente affettivo e relazionale. Principi non scontati, non immediatamente popolari, non facili da comunicare all’esterno (ad esempio, ai genitori); spesso fraintesi, qualche volta apertamente osteggiati. L’alfabetizzazione culturale è sembrata privilegiare un astratto “bambino della ragione”, ma la realtà della scuola si è invece misurata con un bambino “intero” e “concreto”, con i suoi vissuti, i suoi interessi, le sue insicurezze, i suoi condizionamenti. L’incontro con le discipline vale se è in grado di fornire agli allievi strumenti di rielaborazione dell’esperienza e di presa di coscienza della realtà.

   Questa impostazione pedagogica implica precise scelte sul piano didattico: le conoscenze si organizzano attorno a primi nuclei di concetti significativi, che diventano elementi ordinatori dell’esperienza. Il processo è graduale: da un’impostazione predisciplinare e integrata si passa ad ambiti disciplinari progressivamente differenziati.

    Ciò richiede una nuova figura di maestro, anzi richiede più maestri con precise competenze, in grado di facilitare l’incontro “formativo” tra il bambino (con i suoi vissuti e la sua esperienza individuale in divenire) ed i saperi (cioè l’esperienza culturale storicamente organizzata nelle discipline).

    I modelli organizzativi della legge 148/1990 (con un tempo scuola più disteso e lungo, il lavoro di team teaching) rappresentano la naturale conseguenza delle premesse “bruneriane” del modello culturale. Ecco perché oggi ci si interroga preoccupati sul significato da attribuire alle proposte di un nuovo tempo scuola (scandito in obbligatorio e facoltativo) ed in una diversa responsabilità dei docenti (con l’accentuazione della figura del tutor).

 

Dal maestro unico al team: una scelta irreversibile ?

 

    La novità più evidente della riforma del 1990 è costituita dal superamento della figura unica del docente a favore di una pluralità di insegnanti (il team) responsabili della conduzione di una classe (o meglio, di un modulo, cioè di una aggregazione di classi). Se infatti l’orizzonte culturale della scuola elementare diventa l’educazione alla conoscenza tramite le “discipline”, cioè la padronanza di linguaggi e codici (ognuno capace di fornire un modo diverso di organizzare e rappresentare le conoscenze), allora cambia anche la figura del maestro. Sono infatti necessarie più figure (in possesso di adeguate conoscenze e competenze) in grado di spiegare ai bambini le diverse “illustrazioni” del mondo, consentire l’accesso ai saperi, andare al di là dei vissuti personali, allenare i bambini a muoversi tra i diversi sistemi rappresentativi.

    La pluralità dei docenti può stimolare un approccio multilaterale e flessibile alle conoscenze, favorire interesse, attenzione, impegno degli alunni.

    L’ipotesi originaria (e ottimale) prevista dalla legge del 1990 era quella di un team di tre docenti che si alternano nella vita di due classi abbinate in un “modulo” (si tratta del cosiddetto “modulo 3 su 2”).Si tratta di un modello complesso, che se non ben governato può creare situazioni di disorientamento e di disagio, soprattutto negli adulti che si trovano a lavorare in un gruppo. Occorre un forte senso di responsabilità professionale, una deontologia del team che sappia interpretare in maniera corretta i concetti di contitolarità, corresponsabilità e collegialità, che sono alla base del lavoro di gruppo dei docenti (team teaching). In primis, va garantita l’unitarietà del progetto educativo attraverso un’aperta disponibilità degli insegnanti ad interagire, comunicare, programmare insieme.

    Solo a queste condizioni la pluralità si trasforma in una risorsa a disposizione degli alunni, in una spinta verso livelli più avanzati di qualità didattica. Per gli insegnanti elementari il lavoro di team diventa un’occasione irripetibile di emancipazione culturale, professionale e sociale.

    Oggi questa innovazione viene difesa con molta enfasi dagli operatori della scuola elementare, ma non sempre si riflette criticamente su quanto è effettivamente avvenuto nella scuola primaria con l’introduzione dei nuovi modelli organizzativi.

 

Scuola elementare e potenzialità dell’autonomia

 

    Un’occasione di ripensamento per un’organizzazione didattica divenuta inaspettatamente rigida (con il modulo di 3 insegnanti ogni 2 classi, appesantito dalla comparsa di numerosi altri docenti: di religione, di sostegno, di lingua straniera e con la variante dei moduli a scavalco, in verticale, ecc.) è stata rappresentata nella seconda metà degli anni novanta dall’avvio dell’autonomia scolastica e dai primi tentativi di organico funzionale.

L’idea centrale del team come fulcro dell’innovazione viene rispettata, ma “adattata” alle concrete situazioni operative. Ormai le eccezioni al modello-base di 3 docenti ogni due classi parallele erano più numerose della regola stessa: la verticalità del modulo, le classi dispari (con adozione del modulo “4 su 3”), l’ eccessiva presenza di specialisti, le particolare condizione didattica del tempo pieno. In questi casi è risultato più che mai opportuno abbandonare modelli rigidi e imboccare la strada della flessibilità.

    Questa prospettiva stava alla base della CM n. 116 del 22-3-1996, che suggeriva un approccio più “aperto” alle questioni degli ambiti disciplinari, degli orari, dei modelli organizzativi. Facendo cadere prescrizioni minute e particolareggiate di comportamenti organizzativi, si privilegiavano i momenti progettuali (i criteri “regolativi”) e quelli valutativi (i fattori di qualità, gli standard, i risultati conseguiti).

Nelle indicazioni fornite dal Ministero sul finire degli anni novanta non si ripropone il ritorno al docente unico, tuttavia si ipotizzano forme più graduali di organizzazione della pluralità, che non escludono ad esempio la articolazione del team su due docenti, cui affidare rispettivamente l’ambito umanistico-linguistico (con prevalenza in una sola classe) e quello matematico-scientifico (operante su due classi), come nella tradizione della scuola a tempo pieno.

    Si tratta di un realistico richiamo alla gradualità nella differenziazione del gruppo docente, che dovrebbe evolversi in parallelo alla progressiva articolazione delle conoscenze e degli apprendimenti. Ecco perché la questione tutoriale (nel senso di comunità tutoriale) non si può risolvere solo con la richiesta di stabili e univoci punti di riferimento emotivo-affettivi-comportamentali per gli allievi (questo è solo un versante del problema), ma implica un diverso assetto degli insegnamenti (che richiede tempi distesi e non troppo separati per dar spazio a vissuti, dialogo, operatività, linguaggi), che non sempre è garantito da una frettolosa alternanza di docenti (come spesso capita nei moduli con una eccessiva presenza di figure).

    Se l’obiettivo è quello di “garantire maggiore unitarietà, coerenza ed equilibrio nella gestione delle relazioni sociali e degli insegnamenti”, allora sono legittime soluzioni organizzative diverse, nell’ottica di una contitolarità flessibile e di una articolazione graduale degli ambiti di insegnamento.

 

Discipline e metodo di lavoro: che succede in classe ?

 

    I decreti attuativi della riforma del 1990 si erano mossi sulla scia di una estrema fedeltà ai programmi del 1985, garantendo un’ adeguata “visibilità” oraria ad ogni disciplina, e ipotizzando gli ambiti come “contenitori-perimetri” di discipline già ben caratterizzate ed autonome. Di qui l’insistenza sulle singole discipline, fin dalla denominazione dell’ambito (ambito della storia, della geografia,... e non ambito “antropologico”; ambito della matematica, delle scienze... e non ambito “matematico-scientifico”; ambito della lingua, dell’educazione a... e non ambito “linguistico-espressivo), e nella scansione di orari settimanali rigorosamente distinti. 

    La motivazione era più che corretta (far fruttificare il valore gnoseologico di ogni disciplina, lasciarne emanare il “sapore” bruneriano), ma la sua applicazione pratica ha finito col produrre un’organizzazione didattica del tutto simile allo schema orario settimanale a scacchiera, tipico della scuola secondaria,  e dal quale anche quest’ultima cerca di uscire con proposte di orario più flessibili e “modulari”. 

    A disturbare non è tanto il foglietto con le ore (a volte i minuti) attribuiti ad ogni materia, che fa bella mostra sulle porte delle aule,  ma l’”indotto”  metodologico e didattico che si intravede dietro quelle tabelle e quegli schemi. E cioè: una settimana scolastica troppo frastagliata, una successione scadenzata di attività spesso non ben equilibrate, un alternarsi eccessivo di insegnanti nella classe.

    Avere il tempo “spezzato”, anzi, percepire di avere “poco” tempo (spesso succede anche nelle classi a tempo pieno), porta inevitabilmente a didattiche di tipo espositivo, frontali, con uno stile “direttivo” di conduzione delle attività. Ogni insegnante cercherà di sfruttare al meglio il proprio tempo, avvalendosi al massimo grado della lezione frontale (della sua voce, piuttosto che di supporti visivi, manipolativi), imperniata sullo schema emittente-ricevente (insegnante-alunni), piuttosto che su scambi circolari in piccoli gruppi; su un bambino ascoltatore o lettore o scrittore (seduto al banco), piuttosto che attivo,  curioso, indagatore. Un tempo scuola “corto”, invita a tagliare attività considerate secondarie e poco importanti (es. il gioco, la conversazione, le uscite, la lettura “disinteressata” dell’insegnante), per ricercare il massimo dell’efficienza “insegnativa”. 

    Si tratta di constatazioni ampiamente riportate nei rapporti di ricerca sullo stato di salute della scuola elementare dopo la riforma del 1990[2], in cui si lamenta la precoce formalizzazione degli insegnamenti e degli apprendimenti, l’uso eccessivo di schede, di fotocopie, di quaderni, di testi scritti, fin dalla prima classe elementare.

 

Un team “ragionevole”

 

    Il modo di porre la questione tutoriale, nella scuola elementare a differenza di altri gradi scolastici, si collega certamente alla valutazione dei cambiamenti avvenuti negli ultimi anni. Il fatto è che l’organizzazione a moduli, scaturita dalla riforma del 1990, non ha mai goduto di una buona immagine, soprattutto tra i cosiddetti “opinionisti”. Vista essenzialmente come escamotage per salvaguardare gli organici dei docenti anche a fronte del vistoso calo demografico, piuttosto che conseguenza naturale della nuova impostazione culturale dei programmi didattici del 1985[3].

    Una simile prospettiva è stata evocata con molta enfasi anche all’interno dei documenti che hanno preparato la proposta di riforma Moratti. Infatti, nel Rapporto Bertagna (dicembre 2001)[4] si ipotizza che nelle prime classi elementari sia più opportuna la presenza di un docente con una forte (quasi esclusiva) presenza oraria, che possa ricondurre ad unità il progetto educativo e didattico della classe. Infatti gli estensori del documento raccomandano di:

“…identificare sempre, in ogni gruppo docente di una classe della scuola primaria, un docente coordinatore che, fatto salvo il ruolo insostituibile dell’equipe pedagogica nei compiti di insegnamento, assuma una funzione temporalmente prevalente nel primo biennio (21 ore di insegnamento frontale in una classe e 3 ore delle sue ore di servizio dedicate al coordinamento dell’equipe pedagogica della classe stessa…”

    La proposta, ripresa anche nei successivi documenti di lavoro e nei decreti relativi alla sperimentazione dei nuovi ordinamenti) non appare mai esplicitamente argomentata. Ci si dilunga sui modelli esemplificativi, sulle alchimie organizzative degli orari di servizio e degli intrecci nelle presenze, finanche sui percorsi universitari e contrattuali necessari per formare/potenziare la figura del docente-tutor; quando si entra nel merito della questione non si va al di là di un richiamo alle “alte dimensioni deontologiche, e squisitamente ‘professionali’ della funzione docente”, richiedendo alla nuova figura “una disponibilità di fondo quasi vocazionale al recupero della gratuità dell’educare, del coaching e dell’holding formativo nei confronti delle nuove generazioni”[5].

    La proposta esprime certamente un disagio che si vive nella scuola (non solo in quella elementare). Si è assistito a volte al proliferare delle figure docenti, ad una frammentazione che ha portato alla secondarizzazione degli insegnamenti fin dalla prima elementare: troppi insegnanti (fino a 5-6), troppi quaderni, troppe “materie”, ognuna con le sue esigenze di tempo, le sue attività, le sue esercitazioni. Un mix non sempre coerente con un’organizzazione formativa delle discipline.

    Certamente, nei documenti che hanno accompagnato la legge 53/2003, viene espressa una valutazione negativa dell’organizzazione modulare introdotta nella scuola elementare con la riforma del 1990 (legge 148), suggerendo l’opportunità di superare il sistema della pluralità docente e dell’insegnamento in team. Ma gli eccessi, se ci sono stati, si possono correggere; a maggior ragione, oggi, con gli spazi di autogoverno e di autoregolazione consentiti dall’autonomia.

    Un team “ragionevole” può prevedere una pluralità limitata nei primi anni, ad esempio, due docenti come nelle classi a tempo pieno, quasi a presidiare le due grandi aree della conoscenza, quella del quaderno a righe (le competenze logico-linguistico-espressive) e quella del quaderno a quadretti (le competenze logico-critico-matematiche), che via via si arricchiscono con l’intervento di altre figure, altre discipline, altre opportunità, secondo un’ipotesi organizzativa che interpreta e accompagna lo sviluppo del curricolo verticale, e che interagisce anche con la scuola media (non solo nella realtà degli istituti comprensivi).

La figura del tutor non può rappresentare la soluzione apparentemente salvifica dei problemi cognitivi, relazionali, gestionali di classi elementari sempre più complesse.

La solidità dell’esperienza del tempo pieno o della scuola dell’infanzia può essere una “buona pratica” da utilizzare per ripensare alla configurazione di un’equipe docente che via via si arricchisce (andando verso la quinta classe) di nuove presenze, di nuovi insegnanti, di nuovi laboratori, di nuovi quaderni.

 

La ricerca dell’unitarietà

 

Oggi emerge una più forte richiesta di unitarietà nell’esperienza di apprendimento dei bambini. Si percepisce il rischio di un sapere frammentato in nicchie disciplinari (ma non saranno solo gli insegnanti ed i bibliotecari a voler classificare il sapere in scaffali separati, in cattedre e discipline scolastiche?). Dobbiamo certamente ripensare al nostro rapporto con i saperi disciplinari, al loro valore formativo, più gnoseologico che epistemologico: la pulizia epistemica dei saperi (che vale soprattutto per gli adulti) deve scendere a patti con i vissuti dei bambini, con la loro esperienza, con le dinamiche relazionali ed affettive in classe: in definitiva, al primo Bruner (lo strutturalista dell’”insegnare tutto a tutti” con molto ottimismo) dovremmo affiancare il secondo Bruner (quello della “conoscenza come comprensione”, dell’arte della “narrazione” attorno al “significato” dei saperi).

La “nuova” scuola elementare potrebbe ripartire di qui, da un’approfondita riflessione culturale e pedagogica, non dall’inconfessabile desiderio di una “rivincita” nei confronti della riforma del 1990. Ci dovremmo chiedere: l’unitarietà dell’esperienza di apprendimento è assicurata dal rigore della progettazione del team degli insegnanti (competenti ed appassionati dei loro saperi, per coinvolgere ed appassionare i ragazzi) o dalla presenza di un unico docente o di un docente fortemente prevalente (con il rischio di una competenza superficiale, generica ed affrettata sui saperi) ?

    E’ emblematico il quadro delle abilità matematiche individuate dal sottogruppo integrato di lingua-matematica che operò nella prima fase dei lavori della Commissione De Mauro. Nel documento del gruppo, datato settembre 2000, si leggono tra gli obiettivi di un ideale curricolo di matematica le seguenti competenze: “leggere e comprendere forme di rappresentazione diverse;  usare un linguaggio chiaro e rigoroso; avere il senso del numero e del simbolo; contare ed avere la consapevolezza delle operazioni; fare congetture e dimostrazioni;  costruire modelli interpretativi della realtà; rappresentare dati, informazioni, usando diversi concetti e strumenti;  eseguire stime, avendo coscienza delle approssimazioni e del tipo di errori;  valutare dati e attribuire probabilità; risolvere problemi”. Si tratta di competenze che non appartengono al solo campo matematico, ma che possono essere interpretate come delle vere e proprie abilità trasversali, che sono alla base della capacità di apprendere in ogni campo del sapere: possiamo inquadrarle in almeno due grandi assi: quello logico-linguistico-espressivo e quello logico-critico-esplorativo. Questa duplice matrice potrebbe motivare anche una diversa organizzazione didattica, con il riferimento a due grandi ambiti, quello linguistico e quello matematico (e ad una possibile struttura binaria del team docente, almeno nei primi anni della scuola di base).

    Un buon team di scuola elementare rappresenta un ambiente ideale per lo sviluppo di una professionalità docente responsabile, che evita la solitudine dell’insegnante unico (sia pur bravo) e lo impegna nella ideazione, gestione e verifica di un progetto didattico condiviso.  Insomma, il team diventa un ottimo indicatore di benessere “cognitivo” e “affettivo”, per gli insegnanti e (quindi) per i bambini.

    E’ importante che ad esprimersi in questo senso siano stati i genitori che, interpellati dall’ISTAT nel dicembre 2001 (sondaggio pre-riforma) circa l’eventuale ritorno del maestro unico, hanno mostrato di preferire per i loro figli il lavoro a team degli insegnanti (il 60 % dei consensi).

 

                            Tavola 1 – La didattica nella scuola elementare

Nei primi 4 anni della scuola elementare è preferibile avere:

Docenti

Studenti

Genitori

Un unico maestro

   16,7

    17,8

   26,4

Un maestro che svolga la maggior parte dell’orario

   22,4

    12,1

   12,4

Più maestri specializzati che si dividano equamente l’orario

   59,0

(66,3 se riferiti alla  scuola elementare)

    69,6

   60,0

 

Non so

    2,0

      0,4

     1,3

Totale

 100,0

  100,0

 100,0

Fonte: ISTAT-MIUR, Organizzazione e funzionamento della scuola: quanto la conosciamo e che cosa ne pensano i protagonisti, in “Annali dell’Istruzione”, n. 1-2-, Le Monnier, Roma, 2001.

 

Sarebbe un errore che i decisori politici non tenessero conto di questi orientamenti espressi dai diretti protagonisti della scuola, per tornare –invece- ad un passato che non sembra raccogliere un adeguato consenso.

 

Se il team diventa un gruppo educativo

 

    L’idea di team docente è oggi in crisi ? Nelle proposte di nuovi Indicazioni curricolari, allegate al D.Lvo 59/2004, nello stesso decreto citato, sembra emergere una condanna senza appello dell’organizzazione modulare, quasi ad evocare la mitica e rassicurante figura della maestra unica, la “maestrina della penna rossa”, perché –si dice- capace di costruire un solido rapporto educativo, inevitabilmente a due sole facce, tra maestro e alunno, senza incertezze, senza le sbavature di un (ingombrante e inconcludente) gruppo docente.

    Però il “team” è ormai amato dagli insegnanti e dai genitori, è entrato nel nuovo immaginario della scuola elementare. Disporre di una pluralità di figure e di relazioni educative è considerata dalle famiglie e dagli insegnanti un’opportunità di arricchimento e di crescita per i ragazzi. Sarebbe difficile contro-proporre un modello organizzativo diverso, magari ripristinando la figura del docente unico, costellato da alcuni (o tanti) “laboratoristi” con poche ore dedicate a discipline particolari (lingua straniera, musica, educazione motoria e altro). 

    Certo, non è facile far funzionare un gruppo di adulti (in questo caso di docenti). Intanto, è un “vero” gruppo (cioè un insieme di persone che stanno insieme per un obiettivo comune) ? o è un semplice e casuale accostamento di docenti ? C’è tra i membri del gruppo un comune sentire sull’educazione dei ragazzi, un’etica professionale (ma anche un’estetica, cioè un’ipotesi di benessere del lavoro di gruppo) ?

    Nel gruppo l’io viene “scalfito”, perché è l’altro (sono gli altri) ad entrare in scena. Nel gruppo “si è per l’altro”. Entra in crisi la propria identità. C’è una doverosa inquietudine in ogni gruppo.

    La sicurezza nelle relazioni, però, non può essere imposta da regole formali (gli orari, le discipline, un “capo-gruppo”, un tutor…); verrà dopo, col tempo. Sarà la storia del gruppo a consolidarla: il gruppo è un’entità che vive, cresce, si sviluppa, ma che può anche perire. Non basta curare le buone relazioni tra i docenti del team, occorre un progetto culturale comune, da cui far discendere una strategia didattica chiara e scelte metodologiche coerenti. E un tale “valore aggiunto” non può essere richiesto solo alla scuola elementare, ma anche ai licei, alla scuola media.

    Non sempre le istituzioni (le norme, i contratti, le circolari) hanno aiutato i gruppi a crescere. Sembra prevalere la “separazione” tra i docenti, tra le discipline, tra gli allievi. La compresenza tra insegnanti viene vissuta come “peste” da evitare. Si ripropone senza pudore il ritorno tout court all’insegnamento frontale, alla sicurezza di un rapporto asimmetrico (finalmente…ci sarà chi insegna…e chi apprende), alla dura necessità della trasmissione del sapere, dell’in-segnare come “lasciare il segno”. E pensare che l’ultimo Bruner si è inutilmente affaticato attorno all’”arte della cortesia del dialogo”, tra adulti e bambini, al piacere dello scambio, della interazione verbale (sugli oggetti del mondo), alla conoscenza come frutto di una “narrazione condivisa” ove entrano in gioco –nella vita della classe- gli occhi, le mani, la mente, le parole (dei bambini e degli adulti), ma anche i loro sogni, le aspettative, le curiosità, le culture.

    Insegnare a conoscere e capire, ci dicono i migliori studiosi di questa strana e misteriosa “scatola nera” che è l’apprendimento, significa promuovere processi di scambio, di costruzione, di interazione, situati in un ambiente ricco di segni e di immagini (ma anche di tecnologie e di artifici “didattici”), dove si manifesti una pedagogia della compiutezza (e non della frantumazione delle unità didattiche “sfuse”, delle schede e degli esercizi per disciplina, degli orari incomunicanti). Certo, sono i difetti possibili di un “team” che non funziona, di un meccanismo ad ingranaggi, dove la divisione del lavoro viene imposta, dove le scelte non sono negoziate, dove il gruppo viene vissuto come un peso, non come una risorsa.

    Ecco perché è importante ripensare alla pluralità docente, dargli un significato, trasformarla in una vera risorsa educativa. Ben vengano le figure di docenti con funzioni di coordinamento didattico (che è questione diversa dalla funzioni tutoriali), perchè  potrebbero contribuire a migliorare il funzionamento del gruppo docente, a professionalizzarlo, a integrarlo: ma senza scorciatoie o infingimenti. Parlare di coordinamento, di leadership “diffusa”, di ascolto e condivisione è qualcosa di assai diverso dal ripristino “ideologico” della figura del maestro unico.

 

Dal maestro tutor alla comunità tutoriale

 

 

    Nelle proposte di sperimentazione realizzate nell’anno scolastico 2002/2003 in circa 250 scuole italiane (DM 100/2002), il “focus” del progetto sembra essere diventata la figura dell’insegnante “tutor”. Ma chi è costui (o costei) ?

    In generale, chi si candida a svolgere funzioni di tutor è un operatore che agisce per facilitare l’apprendimento di altri, ponendosi come guida, come assistente (individuale o di gruppo), per agevolare i processi di assunzione di nuovi compiti. Essendo un “esperto” del contesto in cui opera da un certo tempo (una scuola, una azienda, un gruppo “informale”), il tutor è in grado di accompagnare e sostenere il “neofita” nella nuova situazione di apprendimento. Una guida “pragmatica”, dunque, piuttosto che “affettiva”[6].

    Si attaglia questa definizione, collaudata soprattutto nel modo anglosassone e nella formazione degli adulti, alla figura ed alla funzione del “maestro elementare” ? Intanto, dovremmo scorrere i materiali predisposti per la sperimentazione, in particolare il DM 100/2002, che contiene una descrizione di questa funzione ritagliata sull’insegnante della prima classe elementare. Si tratta di un docente che “cura la continuità educativa e didattica e il rapporto con la famiglia ed assicura, altresì, la coerenza e la gradualità dei percorsi formativi di ogni alunno, facilitandone e potenziandone le relazioni interpersonali ed educative”. Sono funzioni di vero e proprio “tutoring”, cioè di orientamento e di accompagnamento dell’alunno per stimolarne la motivazione, facilitarne la comunicazione, sostenerne l’apprendimento (soprattutto nei casi più “deboli”).

Le strategie tutoriali, infatti, sono mirate a valorizzare le risorse dell’alunno, le sue capacità, l’impegno, anche in particolari settori ed interessi poco esplorati. E’ una funzione necessaria nella scuola, di fronte ad un certo “grigiore” della relazione educativa. Ma se una qualità ha contraddistinto i maestri (le maestre) elementari è stata proprio questa capacità di stare vicino ai propri allievi, senza per questo trasformarsi in “chioccia”. Il tutoring richiede un alto livello di professionalità, di competenze relazionali, di gestione della classe, di padroneggiamento dei “saperi”, che non si improvvisano e non sono certamente legate ad una particolare vocazione al “maternage”.

    Interpretare correttamente i compiti tutoriali (azione che dovrebbe riguardare tutti i docenti) può essere un buon antitodo contro certa frammentazione della vita delle nostre classi, non necessariamente elementari: pensiamo soprattutto all’anonimato di molte classi secondarie, tutte imperniate sulle “routine” della didattica tradizionale, con le sequenze di spiegazione, esercitazioni, verifiche, ecc.

    Detto questo, però, si fatica a seguire il ragionamento del D.Lvo 59/2004 (soprattutto dei suoi allegati, alla voce “vincoli e risorse”), quando dalle possibili e condivisibili “funzioni tutoriali” (che sono un “valore aggiunto” che dovrebbe contrassegnare la professionalità di ogni docente) si passa al docente “tutor”, cioè ad un unico docente per classe (con un monte-ore consistente e quasi esaustivo dell’intera vita della classe, tendenzialmente tra le 18 e le 21 ore settimanali), che finisce per diventare poi “referente” dei rapporti con i genitori, “coordinatore” del team docente, “prevalente” nei confronti dei colleghi che operano (residualmente) sulla classe, “curatore” del portfolio degli allievi. Insomma una figura altamente differenziata dagli altri insegnanti, che non ha uguali in nessun altro livello scolastico (e che sembra anticipare anche una diversa formazione, un reclutamento ad hoc, una diverso trattamento giuridico e forse economico). 

 

Quali le implicazioni operative delle nuove funzioni?

 

Sono molti gli interrogativi che riguardano la questione “tutor”. Per fare un esempio: come possiamo interpretare il concetto di funzione tutoriale (in termini normativi, di regolazione, strutturazione, controllo della formazione oppure in termini generativi, di aiuto alla conquista di una progressiva autonomia? Quali sperimentazioni probanti abbiamo condotto in merito a diverse modalità di svolgimento delle funzioni tutoriali (si rivolge alla classe intera oppure ai singoli alunni?). Possiamo tenere distinto il ruolo di coordinatore didattico (del team docente) dalle funzioni “tutoriali” (da svolgere nei confronti degli alunni), come avviene in genere nelle scuole secondarie superiori ?

Le funzioni tutoriali potrebbero essere svolte in maniera più articolata e più approfondita, certamente più condivisa, da tutti gli insegnanti del gruppo docente, con la “presa in carico” di gruppi di allievi (e non di tutti gli allievi). Occorre poi conoscere come la questione tutoriale viene proposta in altri paesi europei, in altri contesti formativi, nella letteratura specializzata[7]. Altrimenti si rischia di adottare in maniera acritica nuovi modelli professionali ed organizzativi, senza un'approfondita ricerca di natura culturale.

È vero. Ci sono le leggi e i decreti, che però non possono essere considerate la fonte esclusiva di un dibattito culturale che deve rimanere del tutto aperto. Dobbiamo distinguere gli assetti normativi (pedagogici, didattici ed organizzativi, tra l’altro definiti transitori nel D.lvo 59/2004) dalla ricerca pedagogica, che deve continuare in coerenza con la riconosciuta autonomia di ricerca delle scuole.

 

La vexata quaestio del tutor

 

Il criterio dell’autonomia è valido anche di fronte alla delicata questione della funzione tutoriale. Infatti, il progetto pedagogico, didattico ed organizzativo è oggi di larga competenza della scuola autonoma. Occorre dunque procedere con il massimo rispetto delle prerogative delle scuole in materia di organizzazione didattica, dando fiducia agli insegnanti, tenendo aperte diverse ipotesi di ricerca, raccogliendo le migliori esperienze, regolando lo sviluppo delle riforme non in modo unilaterale.

L’incidente probatorio della vicenda “tutor”, che fa discutere in maniera accesa gli insegnanti, rivela che se il tema viene posto in maniera schematica, con una dettagliata e compulsiva definizione del ruolo e del profilo del tutor (senza un processo aperto di discussione, di elaborazione, di condivisione), mette in ombra la portata stessa della funzione, che è quella di intercettare una domanda di maggior cura, di accoglienza, di sensibilità educativa. Istituzionalizzare e irrigidire la figura del tutor rischia di deresponsabilizzare il gruppo docente, cioè quella comunità (essa sì tutorante) rappresentata dal team degli insegnanti nella scuola elementare riformata nel 1990.

L’enfasi sulla figura del tutor rischia di avvallare un tecnicismo esasperato, oltretutto sovraccaricando le funzioni del tutor di un valore simbolico-affettivo eccessivo, tutto spostato sul piano etico-esistenziale, piuttosto che su quello pragmatico-comunicativo-metodologico, di guida all’allievo nell’apprendimento, nello studio, nel progetto educativo. Il richiamo al progetto di vita di ogni ragazzo, che emerge nel profilo educativo di uscita dal primo ciclo, introduce una dizione che sembra eccedere i compiti formativo della scuola.

L’esplicazione delle funzioni tutoriali (al plurale) può aprire uno spazio di ricerca utile alla scuola di base (come è avvenuto nella scuola secondaria), facendo crescere la sensibilità educativa nella relazione con gli allievi, ma richiede tempi adeguati, larghezza di prospettive, rispetto della professionalità di tutti i docenti.

 

Domande “aperte” sulle funzioni tutoriali

 

Non si può partire da un’ipotesi organizzativa ultimativa (come quella inopinatamente contenuta nelle Indicazioni Nazionali allegate al D.Lvo 59/2004, in particolare nel paragrafo “Vincoli e risorse” mai sottoposto ad un effettivo dibattito o ad un’analisi controversistica) o da una definizione di natura prevalentemente sindacale (gli orari, gli incentivi, ecc.). Ci limitiamo per ora ad alcuni interrogativi che meriterebbero di essere sciolti prima di adottare decisioni nel merito della questione:

-                 come si intende interpretare la funzione tutoriale (in un’ottica “normativa”, come punto di riferimento stabile per gli allievi, o in un’ottica generativa, di aiuto all’autonomia di ciascuno) ?

-                 si pensa al tutor in chiave individuale (per ogni allievo) o ad un tutor per la classe intera o per gruppi di alunni ?

-                 si vuole privilegiare la dimensione di tutoring (assistenza educativa) rispetto a quelle, altrettanto significative di coaching (guida sicura), di holding (tenuta del setting formativo), del councelling (relazione di aiuto)? Ma queste diverse dimensioni della relazione educativa non dovrebbero appartenere ad ogni docente ? La formazione in tal senso non dovrebbe riguardare tutti i docenti ?

-                 si pensa di far gestire le funzioni di coordinamento didattico, quelle di tutorato e altre funzioni (di orientamento, di valutazione, ecc.) allo stesso docente (concezione “specializzata e localizzata” del tutor) oppure di attribuire tali responsabilità all’intero gruppo docente (concezione “comunitaria e diffusa” delle funzioni) per favorire una migliore condivisione delle stesse ad opera dell’equipe docente ?

-                 sono stati considerati gli effetti “collaterali” (deresponsabilizzazione) che inevitabilmente sono connessi ad una attribuzione differenziata di funzioni ?  

-                 qual è il rapporto tra questione tutoriale ed organizzazione della pluralità docente, in relazione all’organizzazione degli insegnamenti, alla definizione degli ambiti, all’attribuzione degli incarichi, agli orari di servizio ?

 

E’ evidente che una soluzione affrettata (ad esempio, riducendo l’orario di servizio a 18 ore settimanali per alcuni insegnanti, attribuendo le discipline fondamentali solo ad un docente, privando di funzioni educative rilevanti gli altri docenti) prefigura una organizzazione didattica che smentisce quanto si è realizzato in questi anni nella scuola elementare (dall’organizzazione modulare al tempo pieno). E’ questo il risultato che si vuole perseguire ?

 

Le questioni sono delicate ed attengono all’idea stessa di funzione docente, alla preparazione professionale, agli inevitabili risvolti sul piano giuridico e sindacale, al futuro della stessa scuola elementare (primaria). Bene ha fatto la CM n. 29 del 4-3-2004 a prevedere una fase di decantazione del problema e a rimandare ad un auspicabile approfondimento nelle sedi “competenti”. Ma, appunto, quali sono le sedi competenti in materia di “tutoring” ? Noi pensiamo che siano le scuole dell’autonomia, con i loro bisogni, le loro competenze, le loro motivazioni, la conoscenza dei contesti operativi. Se si aprisse uno spazio vero di ricerca e di approfondimento, a partire dalle scuole, gli insegnanti non si tirerebbero indietro. Lo dimostra anche l’alto livello di partecipazione degli insegnanti elementari italiani alle proposte di formazione (oggi imperniate sulle piattaforme on line dell’Indire di Firenze).

Funzioni tutoriali verso gli allievi, maggior tempo da dedicare alle diverse discipline (l’asse lingua-matematica, richiede forse più attenzione e una cura particolare per le abilità di base e procedurali), forme di coordinamento del team e valorizzazione di nuove competenze dei docenti: sono tutte funzioni e condizioni di un buon gruppo docente, ma non possono essere “azzerate” dal ritorno del maestro unico. 

 

 

Una lettura “ecologica” della scuola primaria: c’è bisogno di una pluralità riflessiva

 

    Nel prossimo futuro sarà sempre più necessario spostare l’attenzione dalle sole dinamiche organizzative “esterne” alle innovazioni didattiche e metodologiche “interne” alla vita delle classi. Negli ultimi anni la trasformazione della scuola elementare è stata associata ad un cambiamento di carattere organizzativo: questo approccio non ha appassionato gli “utenti” esterni e comunque ha reso più difficile la comprensione del significato delle innovazioni (fortemente volute all’interno della scuola). Occorre invertire questa tendenza e rendere più visibile il ruolo della scuola elementare ai genitori, agli utenti-cittadini, ai contribuenti, non troppo interessati alle ingegnerie modulari, anzi sospettosi e diffidenti verso la pluralità dei docenti, che sembra evocare un dispendio ingiustificato di risorse.

     Questo ci ricorda che i modelli organizzativi sono solo strumenti,  schermature organizzative utili che non ci devono impedire di vedere la sostanza delle relazioni educative ad esse sottese. Questa presa di coscienza è stata favorita certamente dall’avvio dell’autonomia, perché si passa dalla logica del “modellamento”, del controllo centralizzato, dell’adempimento formale, alla logica della “adattività”, come strategia per governare la complessità, attraverso comportamenti flessibili e intelligenti.

    In definitiva una lettura ecologica della scuola elementare, senza troppi vincoli organizzativi, sposta la responsabilità sul team docente, sulla sua capacità di fare gruppo, sul suo impegno a integrare e rendere complementari le diverse competenze. Una maggiore flessibilità organizzativa consente di trovare un migliore equilibrio tra competenza dei singoli e benessere del gruppo.

   Il valore del benessere non consiste infatti in una indistinta “gruppalità”. La ricerca di motivi unificanti nel team, nella costruzione di un sereno clima educativo, non attenua l’esigenza di competenze “disciplinari” forti nei docenti, viceversa le vuole valorizzare in termini autentici, evitando la tendenza alla precoce secondarizzazione, riscoprendo i caratteri della mediazione didattica tipica della scuola elementare.

    In questa integrazione e trasferibilità degli apprendimenti sta il possibile valore aggiunto del team, il suo saper fare un gioco di squadra educativa, un’azione pedagogica che va al di là della semplice (e quindi ininfluente) sommatoria degli interventi dei singoli docenti.

 


 

[1] L’intervento è ripreso da un più ampio fascicolo, curato da Giancarlo Cerini e Mariella Spinosi, pubblicato come numero monografico dalla rivista “Notizie della scuola” (Tecnodid), giugno 2004, sul tema “Tutor, fuinzioni tutoriali, comunità tutorante”. Con contributi di Bresciani, Scandella, Cerini, Toschi, Spinosi, Summa, Frigerio. Si ringrazia l’editore per l’autorizzazione alla pubblicazione sul web.

[2] Tra i diversi Rapporti di monitoraggio predisposti dall’allora Direzione Generale dell’Istruzione Elementare, si presenta con una sua caratura scientifica il documento “I programmi a scuola”, pubblicato dal Ministero della Pubblica Istruzione nel 1995 (con la cura redazionale di un gruppo di Ispettori tecnici, tra i quali ci piace ricordare Sergio Neri).

[3] Anche recentemente si è tornati sull’argomento ed analisti ben disposti nei confronti della scuola elementare (cfr. I.Diamanti, Il ministro e la leggenda di un’istruzione senza qualità, in “Repubblica”, 14 marzo 2004) affermano: “Eppure, nella scala del prestigio [gli insegnanti] continuano ad essere considerati con rispetto. …Soprattutto i maestri. Le maestre. Gli insegnanti di scuola elementare. Che hanno affrontato, negli ultimi vent’anni, cambiamenti profondi dell’organizzazione didattica, sollecitati anche da ragioni di necessità demografiche. Il calo della popolazione scolastica, infatti, ha indotto ad allargare il numero dei maestri per classe e a operare in team. Con esiti contrastanti, ma spesso innovativi e interessanti. E apprezzati.”

[4] MIUR, Rapporto del Gruppo Ristretto di Lavoro costituito con DM 18 luglio 2001, n. 672. Sintesi dei lavori e Raccomandazioni per l’attuazione della riforma, in “Annali dell’Istruzione”, nn. 3-4-, Le Monnier, Roma, 2001.

[5] G.Bertagna, Gruppo ristretto di lavoro: risposte al dibattito, in “Annali dell’Istruzione”, nn. 3-4, Le Monnier, Roma, 2001.

[6] O.Scandella, Tutorship e apprendimento. Nuove competenze dei docenti nella scuola che cambia, La Nuova Italia, Firenze, 1995.

M.Spinosi, “Tutor”, in  G.Cerini-M.Spinosi, Voci della scuola 2003, Tecnodid, Napoli, 2002.

[7] ISFOL, Il tutor nella scuola, nella formazione professionale, nell’apprendistato e nei servizi per l’impiego, Materiali di lavoro, Seminario nazionale ISFOL, Roma, 9-10 dicembre 2003 (gli atti sono in corso di pubblicazione per la casa editrice F.Angeli); M.Spinosi, Tutor, in G.Cerini-M.Spinosi (a cura di), “Voci della scuola 2003”, Tecnodid, Napoli, 2002; L.Perla, Il coordinatore-tutor. Appunti per una nuova modellistica”, inserto monografico di “Scuola e Didattica”, La Scuola, Brescia, 2003; O.Scandella, Tutorship e apprendimento. Nuove competenze dei docenti nella scuola che cambia, La Nuova Italia, Firenze, 1995.

 

 


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