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LE IMMAGINI DIGITALI
Perfezione, critica, effervescenza

di Andrea Torrente

 

Premessa

E’ proprio nel momento in cui l’immagine digitale diviene uno dei vettori più potenti dell’integrazione delle Tecnologie Informatiche della Comunicazione Educativa, attraversando tutte le discipline e tutti i livelli, che i suoi effetti devono essere analizzati.

Nessuno si lamenta che l’immagine digitale sia utilizzata a profusione nelle aule didattiche, né che gli alunni dispongano di nuove facilitazioni per accedervi, per crearla o per ri-lavorarla. In compenso, però, la sua perfezione nella duplicazione ed i suoi strani poteri nella creazione del falso o dell’irreale rischiano di affascinare l’alunno e di porre questa stessa immagine in contraddizione con i valori in corso in uno spazio di trasmissione.

Da questo punto di vista, gli scienziati, i letterati, gli storici e i creatori di plastici si ritrovano, al di là delle loro differenze manifeste, nella medesima volontà di educare l’occhio e l’intelligenza critica.

In effetti, esiste una stessa immagine digitale nell’insegnamento: dapprima perché le forze aggreganti delle tecniche, delle pratiche trasversali e di una cultura ancora in via di elaborazione non sono affatto trascurabili; successivamente, e soprattutto perché, fa fede la preoccupazione di prendere le distanze dall’immagine-riflesso e quella di disciplinare l’immagine in una pratica “scientifica”.

 

Rapido elogio del dubbio

La scuola, che è una grande consumatrice d’immagini, propone molto raramente dei confronti con la loro produzione e la loro creazione. L’arrivo nelle classi della fotografia digitale potrebbe aprire dei percorsi che molti insegnanti, forse, non esiterebbero ad intraprendere.

Sorvolando rapidamente sulle questioni tecniche, il mio fine è quello di immaginare le conseguenze dell’irruzione nelle classi delle “nuove immagini” le quali, dallo schermo al poster, passando attraverso i libri, accompagnano il bambino nel suo vivere quotidiano. Altro fine collaterale è quello di sottolineare l’impatto che può produrre nel bambino un incontro ben orchestrato con gli artisti e con le loro opere.

Così, uno degli effetti interessanti della “pixellizzazione delle immagini” è la conferma che la fotografia non è, e non sarà mai, una trascrizione fedele ed obiettiva della realtà. Infatti, basta il più insignificante programma di ritocco delle immagini, per consentire all’utente di intervenire sui colori, sul formato e, quindi, sul senso stesso delle immagini prodotte.

Anche il parametro del tempo, così caro allo strumento fotografico, è messo in discussione dal nuovo strumento costituito dall’immagine digitale: dalla captazione dell’immagine alla sua visualizzazione, dalla sua trasformazione alla sua diffusione, non vi è più alcuno spazio per la riflessione critica. Ora, accostarsi alle immagini artistiche contemporanee in classe, equivale ad instaurare una fase di osservazione e di interpretazione, significa accettare di essere sorpresi da punti di vista e da rappresentazioni inattese, oppure formulare delle ipotesi che l’artista potrebbe inficiare nelle sue creazioni future. Si tratta, in poche parole, di ri-attivare in ciascuno di noi il dubbio, il desiderio di porre delle domande e di ricevere delle risposte convincenti.

Infine, lo studio di questo nuovo tipo di immagini, potrebbe consentire al docente di ri-collocarle nel loro contesto storico, eventualmente anche facendo fare ai suoi allievi una ricerca documentaria ed estetica sulla loro origine e sulle tendenze nelle quali tali immagini possono essere iscritte.

Accompagnare, poi, questa ricerca con un lavoro di creazione, eviterà di lasciarsi inebriare dalle innumerevoli possibilità tecniche dei programmi ad hoc. Basterebbe, in effetti, consultare i menu dei programmi di ritocco per comprendere che è fondamentale avere definito in partenza un fine, un’intenzione di ricerca.

Le nuove tecnologie ci portano a credere che il mondo esterno, o il nostro mondo interiore, può riassumersi in qualche effetto digitale, allorquando la moltiplicazione e la sofisticazione di questi effetti non potranno mai tradurre la complessità delle nostre emozioni, dei nostri sguardi. Attenzione a questi strumenti, certamente performanti, ma che presuppongono un accompagnamento, una riflessione, una presa di distanze. Occorrerebbe, anche, moltiplicare le occasioni in cui si potessero guardare, analizzare delle opere per poi arrivare a produrne delle proprie allo scopo di trovare la propria strada all’espressione iconica.

Allora si, elogio del dubbio, dell’impreciso …… il docente può prendere in prestito queste nuove passerelle con gli alunni di cui ha la responsabilità, ma deve avere chiara la percezione del paesaggio che scoprirà dall’altra parte dello schermo e deve preparare i suoi alunni a delle scoperte inaspettate.

 

La libertà ed il piacere dell’impreciso

Non risulta che nelle nostre scuole o nei corsi di formazione per docenti, sia stata tentata l’esperienza di incrociare gli esercizi canonici (lettura di immagini, analisi documentaria, ecc.), con il trattamento digitale dell’immagine e con il lavoro degli artisti e dei collettivi che esplorano i limiti ed i difetti dell’elevata sofisticazione tecnologica attuale. Noi scommettiamo che la produzione ed il trattamento dell’immagine in classe offre, almeno, materia che può arricchire le abitudini di analisi e di critica delle fonti, se non anche una risposta possibile alla pretesa violenza delle immagini stesse.

Si può ritenere che l’opposizione fra opera e documento sia un falso problema, che l’ambiguità sia il principio stesso del mezzo e che il prodotto fotografico (la fotografia) assurga al ruolo di “gioco comunicativo ed esperienza libera dell’immagine, rivendicazione dell’effimero nella costruzione dell’alterità degli sguardi”.

Le rappresentazioni dei bambini e degli adolescenti, così come sono presentate dalla stampa specializzata per questo tipo di pubblico, sembrano sovente dominate da due utopie che non sono in contraddizione fra loro:

  • L’utopia tecnicista, celebrata dalla pubblicità, vanta la sofisticazione materiale come testimonianza di riproduzione del reale. Diceva Pierre Bourdieu: “Soltanto un realismo ingenuo fa considerare come realista la rappresentazione fotografica del reale” (cfr. P. Bourdieu et L. Boltanski in “Un art moyen: essai sur les usages sociaux de la photographie”, Paris, Editions de Minuit, 1965”).

Ma l’ingenuità, almeno in ambito commerciale e pubblicitario, non è realistica. La corsa al numero di pixel per rendere il vero, l’estetica naturale delle tirature per un’immagine nella quale denotazione e connotazione si confondono … in risposta, una proiezione che si avvia sui Photogenic Drawings di William Henry Fox Talbot, i cianotipi British Algae di Anna Atkins e termina con la Fauna di Joan Fontcuberta.

  • L’utopia memorialistica o simpatica, è anch’essa un forte argomento di acquisizione di una foto, subordinato alle sue funzioni familiari e sociali, celebra la riproducibilità e la trasmissione dell’intimità biografica del momento. Il contenuto storico della foto, che rappresenta il “cosa è stato”, diviene nel momento attuale il “cosa è”, da cui i lapsus dello strumento sono esclusi, perciò ci si trova in un mondo in cui il fallimento non può esistere.

Ora, colui che sperimenta non ha idee preconcette sulla fotografia. Egli non crede che la fotografia sia la replica e la trascrizione esatta della vita reale. Egli non pensa che gli errori fotografici debbano essere evitati, essi sono degli errori banali unicamente da un punto di vista storico convenzionale. (cfr. Moholy-Nagy Lazlo in “Vision in Motion”, Chicago 1956).

All’apprendimento che tende alla perfezione, nel quale l’imprecisione, l’aleatorietà, la precarietà, l’indeterminatezza non sono altro che delle tappe inevitabili, si può senz’altro, in classe, applicarsi maggiormente allo studio dei processi, allo scambio di esperienze visive. Dopo un preventivo lavoro di studio del procedimento e del contesto, possiamo sostituire ad una contemplazione dell’opera che accetta la sua legittimità senza domande, un delirio collettivo dell’immagine, probabilmente sovra-interpretata: gioco di inquadrature, di decomposizione, di polarizzazione, di inserimento e di esclusione, di bilanciamento delle ombre e delle luci … con l’aiuto di un programma di trattamento dell’immagine.

Obiettivo di questi giochi realizzati in aule da otto o dieci postazioni, cioè una postazione per due o tre allievi, munita di videoproiettore, é una sorta di bricolage dell’immagine, che permette di assaporare il piacere effimero di andare a vedere un florilegio di calchi e di fallimenti, di cogliere al volo e di interrogare le costruzioni incompiute, di proiettare e discutere per costruire un nuovo modo di guardare la realtà che ci circonda.

 

Il digitale e la routine

L’apparecchio digitale, proponendo il dilemma fra il sistema classico di visualizzazione e lo schermo, funziona come una sorta di iato fra ciò che è visibile e ciò che si vede. L’autore, infatti, pone l’occhio sul mirino ed inquadra il soggetto che desidera fotografare, ma subito dopo, pre-visualizza l’inquadratura su di uno schermo da pochi pollici. In un certo senso, egli organizza l’insieme del processo e declina, successivamente, il paradigma fotografico. In fondo, egli è prigioniero di un processo automatico, che gli consente di cancellare la foto che non lo soddisfa e di rifarla secondo un’altra inquadratura. In tal modo egli coltiva l’istante dell’elaborazione/invenzione che permea il momento prima e quello dopo lo scatto.

L’apparecchio digitale, grazie ad un bassissimo costo di funzionamento, offre la visualizzazione immediata e la possibilità di eliminare le foto non gradite e di rifarle secondo altri parametri.

Questa possibilità apre l’orizzonte ad una nuova fragilità del gesto ed al suo carattere perentorio, ad una dialettica del caso e del protocollo in cui il fotografo, nell’immediatezza stessa, si abbandona, visualizza, sceglie, elimina in un doppio movimento dello sguardo che fa quasi coincidere, in un presente effimero, il prima ed il dopo lo scatto.


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