LA STELLINA TIMIDA
C’era una volta una stella bambina che soffriva di vertigini!
Trattandosi di una stella il fatto era molto grave! Le stelle, si
sa, devono restare appese alla volta del cielo per incontrare,
specialmente d’estate, gli sguardi degli esseri umani.
La nostra stellina, invece, non poteva neppure pensare ad un’eventualità
del genere, perché provava subito una terribile paura.
Un giorno, nel cielo si diffuse una grande agitazione.
Era ormai, quasi Natale e si aspettava il passaggio della cometa.
Le stelle più piccine avrebbero fatto in suo onore un allegro
girotondo e poi l’avrebbero accompagnata nel suo cammino.
Tutte le stelline erano molto eccitate: chissà quante cime nevose,
quanti villaggi, quanti pastori avrebbero visto, prima di arrivare
alla grotta di Gesù!
Ma la nostra stellina era disperata! Il girotondo, il viaggio! Al
solo pensiero si sentiva quasi morire, anzi, spegnere, per l’angoscia.
La sua solitudine era terribile!
Infatti, poiché si vergognava di soffrire di vertigini, non l’aveva
mai confidato a nessuno: temeva di essere derisa e rimproverata.
Tuttavia, chiamò a raccolta tutto il suo coraggio e si preparò per
la prova che l’attendeva.
I giorni passarono veloci, giunse la vigilia di Natale e, con essa,
la cometa. Tutto era pronto per il girotondo.
La stellina aveva il cuore in gola. Si dispose in cerchio con le
altre ed attese. All’improvviso sentì una forza terribile che la
spingeva, brillò più forte (era il suo modo di gridare) e poi… si
ritrovò nel buio!
Mentre il suo piccolo cuore batteva all’impazzata, si sentì un
vocione:
«Che fai, tu, lì?»
«Io… io non vedo più nulla», trovò la forza di mormorare la
stellina e, sconsolata aggiunse: «Non brillo più!»
«Sciocca! Come potresti? Ti ho coperta io.»
«E tu chi sei?»
«Sono un nuvolone.»
La stellina aveva sentito parlare delle nuvole, che coprono il
cielo nascondendo l’azzurro e la luce degli astri perciò, fu ancora
più impaurita, ma trovò la forza di chiedere:
«Come… come sono finita qui?»
«Sarà stato il vento.»
Il vento!!! La stellina era sempre più spaventata. Pensate:
soffrire di vertigini e trovarsi in balia del vento!
«Beh, perché te ne stai lì a tremare?», chiese burbero il
nuvolone.
«Tu… tu sei cattivo?», chiese la stellina tremante.
«Cattivo? No, non sono cattivo, sono un nuvolone. Sono nero e
grosso perché sono un nuvolone: il cielo, sai, è fatto anche di
nuvole che coprono l’azzurro. E poi le piante, gli animali, anche
gli uomini hanno bisogno dell’acqua che porto con me.»
«Etciù! Etciù!», rispose la stellina che, infatti, cominciava a
sentire una certa umidità.
«Ma quanto sei noiosa! – riprese il nuuvolone - o piangi, o
tremi, o starnutisci. Speriamo che il vento giunga a separarci!»
«Il vento no! No!», gridò la stellina terrorizzata.
«Non avrai paura del vento?», chiese con un tono un po’
raddolcito il nuvolone.
«Sì, sì – pianse la stellina – io soffro di vertigini e devo
fare il girotondo e devo accompagnare la cometa e non lo sa nessuno e
sono tanto infelice!»
«Piano, piano! - disse il nuvolone, che cominciava a non capire
più niente – E non piangere: di acqua basta quella che porto io.
Questa umidità mi ha distrutto! Soffro terribilmente di reumatismi e
come mi muovo faccio un rumore tremendo: quelli sciocchi degli uomini
pensano che siano tuoni!»
La stellina cominciò a ridere tra le lacrime: quel nuvolone era
meno burbero di quanto sembrava! Incoraggiata, chiese:
«Ma tu, il vento, lo conosci bene?»
«Bel soggetto, quello lì! - esclamò il nuvolone che, intanto,
movendosi, mandava fuori acqua e tuoni – Ogni tanto viene, ogni
tanto va, non dà mai confidenza a nessuno: chissà chi crede d’essere!
Mi trascina di qua, mi trascina di là, senza nessun rispetto per i
miei reumatismi!»
«Etciù! – fece la stellina – Ma tu lo temi?»
«Ohohoh – rise il nuvolone – ti sei raffreddata! Ma no, che
non lo temo, sono solo un po’ seccato. Del resto, ognuno ha il suo
lavoro da fare, anche il vento. Poverino! Deve soffrire di solitudine:
è vero che porta molte cose con sé, però le deve costringere,
trascinare.»
«Brrr – fece la stellina – anch’io ho un problema: soffro di
vertigini.»
«Già, come va questa faccenda?»
«Non posso guardare in giù! Mi viene la nausea e temo di
cadere.»
«Sciocca – disse il nuvolone – non puoi cadere! Il tuo posto
è nel cielo.»
«Ma ho la nausea.»
«No, hai solo una grande paura. Devi vincere la tua immaginazione.
Chiedi aiuto alle altre stelle.»
«Temo che mi prendano in giro.»
«Stellina, stellina! Ognuno ha le sue paure ed i suoi problemi.
Gli uomini, che a volte sono molto saggi, hanno inventato l’amore
proprio per questo.»
«L’amore? Che cos’è?»
«L’amore è la capacità di accettare quelli che ci sono vicini
come se fossero perfetti, anche se conosciamo benissimo i loro
difetti. Natale è la festa dell’amore!»
«Che cosa devo fare per essere amata?»
«Ama e lasciati amare, senza nascondere le tue paure, senza
desiderare di essere perfetta, perché la perfezione è solo nel
Tutto.»
«E che cos’è il Tutto?»
«Ma sei proprio una stellina ignorante! Il Tutto è l’universo!»
«E per le vertigini?»
«Guarda, guarda sulla terra, vedrai, vedrai… Ciao, ciaooo»,
gridò il nuvolone, mentre il vento lo portava via.
La nostra stellina si ritrovò, all’improvviso, nel girotondo
intorno alla cometa. Allora, raccolse tutto il suo coraggio, guardò
giù e……… Com’era bella la terra! Il verde degli alberi, il
bianco della neve, il rosso delle fiaccole dei pastori e una musica…
una musica dolcissima!
La stellina guardava e sorrideva, cioè mandava lampi di luce. Ogni
tanto, qualche bimbo la salutava. Era tanto felice!
Tutta presa dalla sua gioia, quasi non s’accorse che non soffriva
più di vertigini.
E, quando passò di nuovo un forte vento, sapete che cosa fece la
stellina? Gli fece l’occhiolino, sì, proprio l’occhiolino!
Così, anche il vento ebbe il suo regalo di Natale.
LA MARGHERITA TIMIDA
C’era una volta, in un campo d’erba e di spighe di grano,
una margheritina che si chiamava Daysi: era tanto bella!
Aveva, al centro della corolla, un bottoncino dorato, ma così
dorato, che sembrava la casa del sole! E c’era un calabrone
innamorato che gli volava sempre intorno e, facendo finta di pungerlo,
gli dava tanti bacini.
Daysi aveva anche petali bianchi, morbidi e lunghi. Quando il
venticello passava, si ricordava sempre di accarezzarli e allora i
petali tremavano perché ridevano per il solletico.
La nostra margheritina non era solo bella, era anche brava.
Al mattino, appena sveglia, si lavava con le gocce di rugiada. Poi,
piegava la corolla per salutare i fili d’erba e le spighe di grano.
Ma, penserà chi mi legge, che bisogno c’è di raccontare la
storia di questa margheritina così bella e brava?
In realtà Daysi qualche difettuccio lo aveva: era molto timida ed
anche un po’ impaziente.
Se un papavero le faceva l’occhiolino, lei, vergognosa, chinava
la corolla ed i bei petali bianchi diventavano rosa.
Quando il sole era alto nel cielo, la chiamava con voce tonante:
«Margheritina, margheritina, alza la tua corolla, spandi il tuo
profumo!»
Allora Daysi sollevava i petali e cercava di sprigionare il suo
profumo. Ma, poiché i primi tentativi andavano male, si scoraggiava,
piegava la sua corolla e chiacchierava con i bruchi che strisciavano
sulla terra, intorno al suo stelo.
I passerotti del campo, che la conoscevano e le volevano bene, le
volavano intorno sussurrando.
«Cip, cip, Daysi, cip, cip!» che, nel loro linguaggio voleva
dire: «Coraggio, Daysi, riprova, facci sentire il tuo profumo!»
Allora, con i petali ridiventati rosa, Daysi si sforzava di tenere
più alta la corolla, ma non ci riusciva e di nuovo, avvilita, tornava
parlare con i bruchi.
Un giorno, nel campo arrivarono degli uomini robusti e abbronzati
che, colpiti dalla bellezza di Daysi, esclamarono:
«Tagliamola! E’ così bella che la venderemo al mercato!»
Come si spaventò la margheritina! Il suo bottoncino dorato
cominciò a battere forte, forte, perché lì c’era il cuore di
Daysi.
Una forbice lunga e lucente le si avvicinò e «Zac – le disse
– zac, zac», che nel linguaggio delle forbici voleva dire: «Ciao,
come sei bella! Io mi chiamo taglierina, vedrai, non ti farò male.»
Daysi si tranquillizzò un pochino, mentre i petali ridiventavano
rosa. Il suo stelo venne tagliato e poi fu gettata su un mazzo di
fiori che gli uomini portavano con loro.
«Com’è bella questa margheritina!», dissero due garofani
rossi.
«Io sono più bella! - esclamò una rosa – E poi, neppure
profuma!»
«Io – disse un gelsomino –sono io il più amato dagli uomini,
perché il mio profumo è dolcissimo.»
«Che sciocchezze! Le rose sono sempre state le regine dei fiori!»
«Calma, calma – disse un candido giglio – siamo tutti fiori.»
«Che dire di me? – borbottò un crisantemo – Io consolo i
morti!»
«Fratelli, – disse una violetta vergognosissima – la
margheritina è solo timida: prima o poi profumerà.»
«E’ proprio bella!», sospirarono i due garofani.
«Ma quanto chiasso! – esclamò un’orchidea – Tacete un po’!
Chissà dove andremo a finire!»
«Al mercato!», esclamarono con gioia i ranuncoli che, essendo
molto giovani, erano in cerca di avventure.
«Sì, ma io penso a dopo. Sono un’orchidea, ho bisogno di un
vaso di cristallo.»
«Ed io, allora? Sono la regina dei fiori, non dimenticatelo!»
«Uffa – tornò a borbottare il crisantemo – questi fiori
presuntuosi sono proprio insopportabili.»
C’era, nel mazzo, un papavero che conosceva già Daysi.
«Come mai da queste parti?»
«Mi hanno tagliata.»
«Ti ho vista spesso quando eravamo insieme nel campo. Ti ho anche
salutata, ma non hai risposto. Come mai non profumi?»
«Mah, non so. Io tento, ma non ci riesco», mormorò Daysi.
Intanto, mentre i fiori chiacchieravano, gli uomini li avevano
caricati su un carretto e li avevano portati al mercato. Qui, ad uno
ad uno, furono acquistati da persone diverse.
I ranuncoli ed il papavero andarono in un mazzolino che un ragazzo
comprò per il suo amore.
L’orchidea andò a finire sulla giacca di un signore molto
distinto.
La rosa fu acquistata, con sua grande gioia, da una signora
elegantissima.
Il crisantemo andò a consolare un signore che, essendo molto
stanco, si era addormentato e non si sarebbe svegliato più.
Daysi rimase al mercato.
Non sapeva se rallegrarsi o rattristarsi del fatto che nessuno l’aveva
comprata. In realtà, molti avevano ammirato la sua bellezza, ma erano
rimasti delusi perché non profumava.
Verso il tardi, giunse una donna frettolosa, con le braccia cariche
di buste e pacchetti della spesa.
«Buongiorno, signora Amalia! Come va?», esclamò il fioraio.
«Bene, ma ho il mio piccolo ammalato. Vorrei portargli un fiore
per rallegrare la sua cameretta, ma vedo che non è rimasto molto da
scegliere.»
«Guardi com’è bella questa margheritina!»
«Sì, è vero. Quanto costa?»
«Niente. Gliela regalo per il suo bambino, per Ninni.»
«Grazie, ne sarà contento» e la signora Amalia si avviò
frettolosa verso casa.
Daysi guardava stupita le vie della città, con la testa penzoloni
che ogni tanto urtava contro le borse della spesa. Che mondo strano,
frenetico, rumoroso! Il suo campo era così bello, così tranquillo:
si sentiva solo il cinguettio degli amici uccellini.
Presto giunsero in casa di Amelia e, poi, nella stanza di Ninni.
Era un bimbo bruno, bruno, con gli occhi azzurri tristi, tristi!
Si era preso il morbillo e, da qualche giorno, non solo era
costretto a letto, ma non poteva neppure ricevere gli amici, perché c’era
il rischio del contagio. La televisione lo aveva stancato, ed anche i
soliti giochi.
«Ciao Ninni, come va?»
«Mi hai lasciato solo!»
«Dovevo fare la spesa. Ma ti ho portato una sorpresa: guarda!»
E Amelia mostrò Daysi, più vergognosa che mai, con i petali rosa
e la corolla bassa.
«Hai visto com’è bella? La mettiamo in un vaso, qui, proprio
vicino alla finestra, così guardandola ti sentirai rallegrato.»
«Uffa!!!», esclamò Ninni, per niente rallegrato e si tirò le
coperte sulla testa.
Amelia se ne andò a cucinare e Daysi rimase sola con il bambino.
Era stata messa in un bel vaso azzurro, ma non stava molto comoda:
abituata alla terraferma, nell’acqua si sentiva ballare, perché lo
stelo non la reggeva bene. Poi, pian piano, il fastidio cessò e Daysi
si guardò intorno: Ninni dormiva sotto le lenzuola e un raggio di
sole bussava alla finestra, attratto dal suo bottoncino dorato,
giocattoli e giornaletti erano sparsi qua e là, sul letto e per la
stanza.
«Pss, pss»
Daysi trasalì: da dove giungeva quella vocina?
«Hei, dico a te!»
«Chi sei?», chiese Daysi.
«Sono io, sono qua, non mi vedi?»
«No, non vedo nulla.»
«Qui, sono qui sul pomo del letto, vicino a te, non mi vedi?»
Daysi guardò, ma non vide nulla.
«Ma insomma, sono qui!»
«Qui dove? E poi, chi sei?»
«Sono qui, sono un granellino di polvere.»
«Un granellino di polvere?»
«Non gridare! Se viene la signora Amelia mi porta subito via con
uno straccio.»
Daysi guardò meglio e vide un puntino minuscolo, ma proprio
minuscolo. Poi disse:
«Scusa, non volevo essere scortese. Ma perché la signora Amalia
ti vuole portare via con lo straccio?»
«Perché, perché!!! Perché sono un granello di polvere e la
polvere non piace molto alle padrone di casa. Tu, piuttosto, come sei
finita qui?»
«Il fioraio, in piazza, mi ha regalato alla signora Amelia per
Ninni. Sai, sono un fiore.»
«Lo so, lo so che sei un fiore, ne ho conosciuti altri. Quelli,
però, profumavano!»
La nostra margheritina era proprio mortificata, con i petali più
rosei che mai cercò di farsi coraggio.
«Raccontami di Ninni.»
«Un bel tipino quello lì! Io lo conosco da qualche giorno. E’
vero che ha il morbillo, però! Un noioso, sempre a piangere, a
lamentarsi, a fare i capricci. Sicché sua madre si inquieta e, per
calmarsi, con il panno strofina tutto il letto. Brrr che paura! Temo
sempre di essere portato via. Prima eravamo in molti su questo pomo d’ottone,
poi, pian piano, sono rimasto solo.»
«Che facevate, quando eravate in molti?»
«Mah, non c’era gran che da divertirsi, con questa peste che
piangeva ogni momento. Ogni tanto, quando entrava un raggio di sole,
ci divertivamo un po’ a ballare.»
«Mi dispiace, granellino. Mi dispiace anche per Ninni: così solo,
così malato!»
«Ma è una malattia che passa presto.»
«Sì, ma intanto non ha nessuno con cui giocare.»
In quel momento Ninni si svegliò.
Dapprima si guardò intorno con un faccino triste, triste. Poi
chiamò la mamma, a lungo. Ma la signora Amelia, intenta in cucina a
preparare il pranzo, non poteva sentirlo. Ninni si stancò di gridare
e prese in mano un giocattolo, una trottola colorata. Cercò di farla
girare sul letto, ma non faceva presa. E più Ninni provava, più non
riusciva nel suo intento e più si innervosiva. Alla fine scoppiò in
un pianto terribile, con certi singhiozzi grossi, grossi.
Daysi era molto addolorata.
«Ehi, bambino, ehi! Guardami, per favore!»
Ma Ninni non capiva il linguaggio delle margherite e continuò a
piangere.
«Bambino, bambino, non piangere, non piangere, per favore!»
Niente da fare, Ninni non sentiva.
Allora, Daysi, disperata, sollevò la sua corolla, si concentrò e…emanò
un profumo, un profumo meraviglioso, dolcissimo.
Ninni ancora piangeva quando, all’improvviso, qualcosa gli
solleticò il nasino. Era un profumo, sì, un dolce profumo.
Allora, pian piano, calmò il suo pianto e guardò verso la
margheritina: Daysi era più splendente che mai, con il suo bottoncino
dorato, i suoi petali bianchi ed il suo profumo. Ninni improvvisamente
sorrise, e le tese le manine con gli occhi ancora pieni di lacrime.
La mamma, che entrava con il vassoio del pranzo, lo trovò così,
che sorrideva estasiato guardando Daysi.
Felice della gioia del suo bambino, la signora Amelia si avvicinò
alla margheritina, per aggiustare il vaso sul tavolo.
Sentì, allora, anche lei, il dolce profumo e, intenerita,
accarezzò i petali del fiore.
Si accorse, allora, di una gocciolina, ma proprio piccola piccola,
che brillava sul bottoncino dorato e pensò:
«Che strano! C’è ancora una goccia di rugiada.»
Ma si sbagliava non era una goccia di rugiada, era una lacrima.
Daysi piangeva, piangeva di gioia perché, finalmente, aveva vinto
la sua paura ed era diventata un fiore profumato.
LA CERVA E IL VENTO
Tra l’erba calda, presso un ruscello gentile, impigrito dal sole
di luglio, nacque, un giorno, una cerbiatta.
Aprì gli occhi, dolci e sonnacchiosi, per guardarsi intorno, ed
una farfallina bianca, che si godeva felice la bella giornata, per
salutarla si fermò sulla punta del nasino umido.
«Ciao»
«Scusa» mormorò imbarazzata la cerbiatta.
«E di che cosa?»
«Ti ho urtata con la punta del mio naso.»
«Ma no!» e la farfalla, sentendosi importante, volle spiegare
alla cuccioletta «Sono io che mi sono posata sul tuo naso per
salutarti. Sei proprio piccina! Non hai un nome?»
«Non ce l’ho, – disse confusa la cerbiatta – scusa!»
«Va bene, occorrerà trovarne uno. Chiederemo aiuto agli amici del
bosco.»
«Chiamiamola Cippi.» propose un uccellino che, svolazzando lì
intorno, aveva sentito ogni cosa.
«No, chiamiamola Bibi.» intervenne un pesciolino, affiorando dal
ruscello e rituffandosi rapidissimo.
«Chiamiamola Arietta.» proposero gli steli d’erba, che erano
innamorati del venticello estivo.
La cerbiatta li guardava, timida e paziente, ruotando i grandi
occhi dolci.
«No, no, - disse la farfalla – non mi piacciono questi nomi!»
«Se volete il mio parere – intervenne un grillo, bisnipote di
quello di Pinocchio e da tutti stimato come molto colto e saggio –
chiamatela Simonetta.»
«Che nome strano!» esclamarono insieme gli amici del bosco.
«Dal momento che siete tutti contenti di averla con voi, è un
nome che dovrebbe andare bene. Infatti – spiegò il grillo con aria
d’importanza – deriva dall’Ebraico e significa…»
«Si, si! Chiamiamola Simonetta!» gridò il pesciolino, tornando
ad affiorare per pochi attimi e interrompendo senza alcun rispetto il
grillo.
E, visto che anche tutti gli altri abitanti del bosco sembravano
contenti, la cerbiatta si chiamò Simonetta.
Simonetta crebbe, timida e gentile, ficcando qua e là il nasino
umido, chiedendo scusa a fiori, erbe, foglie, lombrichi, pesciolini,
coniglietti, scoiattoli e puzzole.
Diventò alta e snella, con le zampe sottili e forti e qualcosa,
nel cuore, cominciò a suggerirle la corsa verso altri boschi. Ma la
timidezza e l’affetto per i piccoli amici del bosco natio, che l’avevano
accolta con tanto amore, la trattenevano.
Un giorno giunse il Vento.
Veniva da lontano, non si sapeva dove fosse nato, né che tipo
fosse. A volte era furioso, a volte gentile, a volte timido, a volte
trascinatore. Non si sapeva se soffrisse, se godesse, se fosse
indifferente. Molti lo ignoravano, molti lo temevano, alcuni lo
amavano, come gli steli d’erba tra i quali era nata Simonetta..
Eppure anche il Vento aveva la sua storia!
Un giorno, ai confini del mondo, una roccia possente, colpita dal
fulmine, si squarciò. Le antichissime pietre, straziate dal dolore,
cercarono di esprimere ciò che sentivano e, non conoscendo le parole,
sprigionarono una forza potentissima, che imperversò tra le nuvole
cariche di pioggia, cercando il fulmine colpevole.
Dopo che ebbe sfogato il furioso dolore che l’aveva generata ed
il cielo ritornò azzurro, perché tutte le nuvole erano state
cacciate via dalla sua stessa rabbia, la forza giacque stremata. Solo
qualche alito continuò a vibrare in lei, simile ad un pianto leggero,
che non dava alcun fastidio alle cose intorno. Ella si volse, allora,
a contemplare la montagna squarciata che l’aveva generata e, avendo
ormai conosciuto la tempesta e la quiete, sentì di dover continuare
la sua vita. Salutata la sua grande madre, si avviò per il mondo.
Così era nato il Vento.
Quando il Vento giunse nel bosco di Simonetta non era di buon
uomore. Lontano, all’orizzonte, aveva visto balenare i fulmini che,
ricordandogli la sua nascita, ne accrescevano sempre la furia.
Tutto il bosco fu, perciò, percorso da un grande tremito. Il Vento
non si curò di nulla, ma portò via con sé l’impressione del
nasino umido e timido di Simonetta.
Era ormai passato un anno da quando, presso il ruscello gentile,
era nata Simonetta: la cerbiatta era, ormai, una grande cerva. Nel
cuore, l’istinto della corsa premeva così forte da fare quasi male
e da vincere la paura dell’ignoto e l’amore per il luogo natio.
Perciò, un mattino, Simonetta lasciò il bosco e si avviò verso
nuovi sentieri.
La sua corsa, inizialmente cauta, divenne sempre più veloce e
spericolata. Fu così che una pietra aguzza, all’improvviso, tagliò
la zampa delle cerva, costringendola a fermarsi. Due lacrimoni caddero
dagli occhi dolci e stupiti: nel bosco natio non c’era mai stato il
dolore!
Lì vicino scorreva un ruscello. Simonetta sentì consolarsi il
cuore, ricordando il rivo gentile presso il quale era nata e,
accostatasi, immerse lo zoccolo sanguinante nell’acqua in cerca di
refrigerio.
«Poverina!», esclamarono le onde.
«Mi sono ferita.»
«Eh sì, qui è pieno di ciottoli aguzzi, ti cureremo noi!»
E Simonetta si abbandonò fiduciosa, ma si accorse ben presto che l’acqua,
pur dandole sollievo, correva via e, presa dall’ansia, cercò di
trattenerla.
«Dove vai? Resta con me!»
«Non è possibile, mi aspettano gli alberi, i fiori, gli uomini,
non posso proprio fermarmi.»
«Oh!», sospirò Simonetta delusa, col nasino più umido che mai.
Ma la ferita, ormai, non faceva più male ed ella, fiduciosa,
riprese la sua corsa, con più prudenza.
In quei giorni il Vento era lontano, dall’altra parte del mondo.
Più furioso che mai, imperversava tra nuvole e gelo, instancabile
e affannato, come certi guerrieri che, forse, non vorrebbero
combattere, ma si sentono costretti a farlo.
Simonetta, intanto, continuava il suo viaggio.
Un giorno giunse in un prato fiorito e, avendo accostato il nasino
ai fiori, sentì un dolcissimo profumo.
«Che bello!», esclamò gioiosa.
«Sì, ma attenta a non calpestarci con i tuoi zoccoli.»
«Scusate, ma siete così profumati che volevo esservi vicina.»
«Fai pure, ma ti converrà sbrigarti.»
«Oh, perché mai? E’ tutto così tranquillo qui!»
«Tra poco arriveranno gli uomini e ci taglieranno.»
«Che gente crudele!»
«Ma no! Ci porteranno nelle case per allietarle con il nostro
profumo.»
«Oh, vi prego, rimanete qui con me!»
«Ma non è possibile, ci aspetta un’altra vita, il nostro
profumo è di tutti.»
«Peccato! Arrivederci, allora.» E Simonetta, rapida, si nascose
dietro ad un cespuglio, accorgendosi di una strana confusione. E da
lì, per la prima volta, vide gli esseri umani, e ne diffidò per l’indifferenza
con cui recidevano i bei fiori. Quando tutto fu finito, un po’ piú
triste, riprese il suo cammino.
Lontano da lì il Vento, che era in una giornata di buon umore, si
divertiva a far volare l’aquilone di un bambino scatenato. Stava
attento a non soffiare troppo, per non rovinare il gioco, e godeva
delle risate del diavoletto, dimentico, finalmente, dei fulmini e
della sua grande madre.
Un giorno, Simonetta capitò in un bosco pieno di rami contorti.
Era Autunno avanzato e le foglie, quasi tutte cadute, sembravano
formare un invitante cuscino: la cerva si sdraiò.
«Chi sei?», chiesero le foglie, già accartocciate ed ora quasi
schiacciate dal peso della cerva.
«Sono Simonetta. Scusate, potrei riposare un po’?» E, così
dicendo, la cerva le accarezzò con il naso umido con tanta dolcezza
che le foglie la trovarono subito molto simpatica.
«Per noi non ci sono problemi, ma non è conveniente che ti fermi
qui»
«Perché?»
«E’ la stagione della caccia. Sicuramente la volpe verrà qui a
cercare rifugio e ben presto i cani la seguiranno. Se ti vedranno,
penseranno subito che sei una bella preda. Potrebbero morderti,
sbranarti, è troppo pericoloso. Vai via, prima che sia troppo
tardi».
«Ancora!», pensò Simonetta, disperata di non potersi fermare a
godere tutto ciò che di bello e di dolce incontrava. Ma era tanto
stanca che, dimenticando l’avvertimento delle foglie, si
addormentò.
Lontano, all’orizzonte, i primi fulmini squarciavano il cielo,
mentre Simonetta veniva risvegliata di soprassalto dall’abbaiare
furioso dei cani. Qualcosa di rossastro si mosse rapido davanti a lei,
mentre le foglie la esortavano sempre più angosciate: «Fuggi,
fuggi!»
La cerva si levò rapida e spiccò un salto per iniziare la sua
corsa. Ben presto, uno, tre, sette cani le furono dietro, mentre il
resto della muta inseguiva la volpe. E, mentre le prime gocce di
pioggia cominciavano a cadere, furioso giunse anche il Vento,
inseguendo le nubi.
Simonetta corse, lottando contro i cani e i rami che il Vento
sbatteva contro di lei, finchè un dolore lancinante le attraversò la
zampa: uno dei cani l’aveva azzannata.
Quando vide il suo sangue la cerva, terrorizzata, emise un gemito
così profondo che il Vento, pur nella sua furia, lo avvertì. Ebbe,
allora, pietà di quel dolore e sollevò una gran quantità di polvere
negli occhi dei cani, che furono costretti ad abbandonare l’inseguimento.
Ansimante, zoppicante, terrorizzata, Simonetta continuò, come
poteva, la sua corsa, sino a quando non scorse un anfratto nel quale
si lasciò cadere.
Il Vento la seguì, con l’intento gentile di chiederle come si
sentisse, ma Simonetta, sentendolo soffiare, tremò tutta ed esso,
leggendo il terrore nei suoi grandi occhi, volò via.
La cerva rimase nel suo nascondiglio per tre lunghi giorni, triste,
impaurita e dolorante, leccandosi sconsolatamente la ferita. Come
rimpiangeva, ora, il suo bosco natio! Quanto sentiva di temere e di
odiare ogni cosa intorno a lei!
Il quarto giorno la situazione migliorò. L’antica fiducia e
dolcezza, pian piano, tornarono a riscaldare il cuore della cerva, che
cercò, cautamente, di drizzarsi sulle zampe. Poi, con fare
circospetto, sporse il nasino fuori dall’anfratto, fiutando l’aria
intorno: tutto sembrava tranquillo.
Ma il Vento non era andato via. Una strana curiosità lo spingeva
verso la quercia ed egli, attenuato il suo furore, era rimasto per tre
giorni intorno all’anfratto, soffiando lievemente.
Simonetta non lo riconobbe. L’arietta gentile, che spandeva
intorno i profumi del bosco, nulla aveva a che vedere con la furiosa
tempesta che tanto l’aveva spaventata. Il Vento comprese e non
rivelò la sua identità.
«Ciao», le disse.
«Ciao. – rispose Simonetta, sentendo un piacevole solletico sul
pelo – Chi sei?»
«Sono l’arietta»
«Che buffo|»
«Perché?»
«Perché, quando sono nata, volevano chiamarmi così. Sei di
qui?»
«In un certo senso.»
«Che vuol dire?»
«Che ora sto qui, domani starò là, sono un po’ girovaga.»
«Capisco», disse la cerva che aveva già fatto quest’esperienza.
«Come va la zampa?»
«Duole un po’, ma sto meglio.»
«Aspetta, ci penso io.» e, soffiando delicatamente, il Vento
attenuò il bruciore della ferita.
«Sono stati i cani che seguivano la volpe. Le foglie mi avevano
avvertita, ma mi sono addormentata e, quando mi sono risvegliata, era
troppo tardi. Poi, è arrivato quel vento odioso…»
«Che ne sai, tu, del vento?»
«L’ho conosciuto quand’ero piccola, nel bosco in cui sono
nata. E’ cattivo, sai, travolge tutto.»
«Oh!»
«Ti sei offesa? Ho detto qualcosa di spiacevole?»
«No, no, devo andare, arrivederci!» e l’arietta scomparve di
colpo, lasciando Simonetta dispiaciuta e perplessa.
E, quel giorno, il Vento prese a soffiare lontano da quel luogo,
più furioso che mai, anche se non c’erano né fulmini, né nuvole.
Correndo, giunse presso la sua grande madre: immobile e indifferente,
ella sembrava ormai aver dimenticato il suo dolore e la grande forza
che aveva generato.
Il Vento, allora, cominciò a soffiarle intorno, sempre più
furioso. Ma la grande pietra, la pietra massiccia, non si smuove
facilmente. Alla fine il Vento si stancò e giacque immobile. E non si
mosse neppure quando, all’orizzonte, si addensarono nuvole cariche
di tempesta.
Simonetta, dopo essersi accuratamente leccata la ferita, riprese il
suo cammino, puntando il nasino ora di qua, ora di là, alla ricerca
di qualcosa, ma non sapeva bene quale.
Lontano, presso la grande madre, il Vento continuava a giacere
immobile.
Ben presto si sparse la voce della sua morte.
Nuvole e fulmini imperversarono nel cielo, la neve cadde e si
ammucchiò, ovunque, perché i fiocchi, ormai pesanti, non potevano
più volteggiare e disperdersi. Sul mare tutte le vele caddero e gli
uomini, disperati e stanchi di remare, guardavano il cielo in attesa
del vento che li spingesse. Ma…nulla, non accadeva nulla.
Simonetta avanzava tra la neve con sempre maggiore difficoltà. Gli
altri animali erano spariti, i fiori sepolti, gli alberi chini sotto
il bianco fardello. Non c’era cibo, non c’era acqua e la cerva si
sentiva sempre più debole. Ma, spinta da un’inarrestabile forza,
continuava a camminare, finchè non giunse anch’ella presso la
grande madre.
Com’era tutto silenzioso e bianco!
Il vento s’accorse della cerva che giungeva ed ebbe un fremito
improvviso. Un fiocco di neve prese a volteggiare e Simonetta volse
gli occhi attenti, mentre il cuore le batteva forte.
«Chi c’è?»
Silenzio.
«Arietta, sei tu?»
Silenzio.
«Arietta, rispondi! Ricerco da tanto tempo!»
«Non è vero!» e la neve, intorno, cominciò a tremare
leggermente.
«Ma sì! Perché sei fuggita?»
«Io non mi chiamo Arietta!»
«Noo?»
«No!»
«E come ti chiami?»
«Io sono il Vento!»
«Non è possibile!»
«Sì, adesso vedrai!»
E il Vento, all’improvviso di nuovo furioso, soffiò così forte
da dissolvere tutta la neve.
Simonetta rimase immobile, con il naso e gli occhi pieni di fiocchi
di neve che, sciogliendosi, la lasciarono tutta bagnata. Era
meravigliatissima, ma non spaventata. Quando il cielo tornò azzurro e
il sole si fece finalmente rivedere, la cerva si asciugò ma continuò
a tremare perché il Vento, instancabile, ancora soffiava. Simonetta
starnutì, poi, persa la pazienza, decise di risolvere la situazione.
«Arietta, arietta!»
«Huhuhuhuhuhuhuhuhu»
«Etciù! Arietta, arietta!»
«Non sono un’arietta, io sono il Vento!»
«Va bene, ma calmati un momento. Muoio dal freddo e così non si
può parlare.»
E il Vento si calmò.
«Perché fai così?»
«Perché sono potente.»
«Ma che gusto ci provi?»
«Io odio i fulmini.»
«Ma io non sono un fulmine, sono una cerva.»
Il Vento fu colpito dalla risposta ma, cocciuto, non volle cedere.
«Va bene, non sei un fulmine, ma, quando mi arrabbio, io non
distinguo più niente.»
«E perché ti arrabbi?»
«Perché vedo i fulmini.»
«Ma io non sono un fulmine.»
Il Vento, allora, ricominciò ad innervosirsi e a soffiare più
forte, ma la cerva non si fece intimidire e puntò il nasino.
«Volevo spiegarti che, siccome non ci sono fulmini, è inutile che
ti arrabbi con me.»
«Questo è vero.» e il Vento si calmò di nuovo.
«Facciamo una passeggiata?»
«Va bene. Dove vuoi andare?»
«Ma, non so, sulla Montagna.»
«No!»
«No?»
«No!»
«Perché?»
«Perché non mi va.»
«Va bene, rimaniamo in pianura. Andiamo in un bosco, in cerca di
qualche fogliolina tenera, sto morendo di fame.»
«Va bene.»
Fu così che il Vento e Simonetta cominciarono a camminare insieme
e, poichè si avvicinava ormai la primavera, ovunque la cerva
giungeva, soffiava sempre un venticello gentile, che dischiudeva i
fiori e diffondeva nuovi profumi. Tutti, ormai, conoscevano la nuova,
strana coppia e il Vento e Simonetta diventavano sempre più amici.
Ogni tanto litigavano. Allora la cerva puntava i zoccoli e alzava,
sdegnata, il nasino umido, mentre il Vento correva via, a caccia di
fulmini, e poi ritornava. Ma intanto, i due continuavano il loro
viaggio per il mondo, mentre il tempo continuava il suo viaggio nella
natura, cosicché passarono nuovamente primavera, estate, autunno e
ritornò l’inverno.
Il Vento e Simonetta si ritrovarono, un giorno, presso la grande
madre.
«Toh – disse la cerva – ancora la grande montagna spaccata!
Questa volta voglio salirci.»
«No!»
«Ma perché dici sempre no?»
«Perché non voglio.»
«Perché non vuoi?»
«E’ pericolosa.»
«Staremo attenti.»
«E’ fredda.»
«La riscalderemo con la nostra presenza.»
«E’ cattiva.»
«Oh pazienza! Saremo molto dolci.»
«No!»
«Va bene, ci vado da sola.»
«Aspetta!»
«Ciao.»
E Simonetta cominciò a salire.
E il Vento, senza accorgersene, prese a soffiare più forte.
E Simonetta saliva.
Più forte.
E Simonetta, con gli occhi pieni di polvere, saliva.
Più forte.
E Simonetta, con l’agile collo piegato per reggere la furia,
saliva.
Più forte.
E Simonetta cercava disperatamente di aderire al terreno con gli
zoccoli.
Più forte.
E la polvere sollevata fu tanto grande che non si vide più
Simonetta.
E allora il Vento, angosciato, inconsapevole della sua stessa
forza, corse su per la montagna e nella profonda spaccatura prodotta
dal fulmine trovò Simonetta, un po’ stordita, ma tranquilla.
«Andiamo via, andiamo via, è pericoloso!» pregò il Vento.
«Ma sei tu.», rispose la cerva.
«E’ troppo, troppo pericoloso.»
«Ma sei tu.»
«Morirai.»
«Ma sei tu.»
«Sono io! Che cosa vuoi dire?»
«Sei tu che sei pericoloso, perché soffi troppo forte, sei tu che
mi farai morire.»
«Oh!» esclamò il vento e cadde di colpo.
Simonetta attese qualche momento, poi lo chiamò.
«Arietta, ehi, arietta!»
Silenzio.
«Arietta ventosa, arietta ventosa!»
«Ventaccio testardo, ehi, ventaccio testardo!»
«Che vuoi?»
«Ti sei dimenticato di nuovo che non sono un fulmine.»
«Già, sono un po’ sciocco.»
«Un po’ parecchio!», esclamò Simonetta, che non conosceva bene
la grammatica.
«Senti, - disse il Vento – ce la fai ad arrivare su in cima?»
«Mmmmmmmmmmmmmmmm»
«Prometto che mi manterrò tranquillo,»
«Mmmmmmmmmmmmmmmm»
«Potremmo vedere che cosa c’è dall’altra parte del mondo.»
«Mmmmmmmmmmmmmmmm»
«Tu mi sei proprio simpatica.»
«Mmmmmmmmmmmmmmmm»
«Mi piace stare con te.»
«Mmmmmmmmmmmmmmmm»
«Ti piacerebbe passare la vita a correre nel vento?»
«Mmmmmmmmmmmmmmmm», fece ancora Simonetta, ma volse gli occhi
dolci verso di lui ed il Vento comprese che sarebbe stato esaudito.
POSTFAZIONE
Simonetta: diminutivo di Simona, nome che deriva dall’ebraico scimeon
e significa esaudimento.
IL TUTU’ BALLERINO
C’era una volta un tutù ballerino, che viveva nel guardaroba
di un grande teatro di Parigi, l’Operà.
Questo tutù era molto elegante, prezioso, quasi regale.
Tutte le ballerine lo amavano e lo cercavano, bisticciavano per
poterlo indossare durante le serate di gala: ballare con il nostro
tutù era proprio un privilegio.
Il tutù aveva una storia molto poetica.
Un giorno, una dama riconoscente aveva regalato ad una sartina, che
le aveva cucito con cura abiti molto eleganti, una grande quantità di
tulle del quale non sapeva che cosa fare.
La sartina, intelligente e accorta, aveva capito subito che quello
era un tulle non solo bello, ma anche molto resistente e aveva deciso
di conservarlo con cura.
Nell’armadio in cui lo aveva riposto c’erano tante
cianfrusaglie, vecchi ricordi, perfino qualche tesoro, anche se la
sartina non lo sapeva.
C’era, infatti, una scatola di perle di fiume, pescate chissà
quando e chissà da chi.
Addolorate per essere state strappate alla loro casa ed ai loro
amici (piante acquatiche, pesciolini, granchiolini e persino un
cavalluccio marino), avevano cessato di brillare non appena riposte
nella scatola. Celavano gelosamente la propria luce e rimanevano lì,
opache e smorte.
Ma, quando arrivò il tulle, le cose cambiarono.
Dapprima le perle lo avevano guardato male, come avevano fatto con
tutte le cose che abitavano nell’armadio. Ma poi, pian piano, si
erano innamorate del suo candore, e avevano cominciato a fargli l’occhiolino.
Non si sa bene come andarono poi le cose (sapete, l’armadio
rimaneva chiuso), ma sta di fatto che un giorno la sartina, aprendo l’armadio
per cercare un nastro, fu colpita da uno sfolgorio di luce e di tulle.
Poiché, come abbiamo detto, era intelligente e accorta, capì
subito che cosa bisognava fare: un tutù ballerino.
E lo cucì con estrema perizia: tanti e tanti veli di tulle
sovrapposti a formare un gonnellino che sembrava la corolla di un
fiore. E ancora tulle per il corpetto ricamato con una miriade di
perline non più gelose della loro luce.
La sartina portò il tutù all’Operà e qui esso, come si è
visto, divenne famoso e ricercato. Era sempre pronto, sempre elegante,
sempre sicuro di sé.
Ma venne un giorno….un brutto giorno.
Il tutù riposava tranquillo, al posto d’onore, quando sentì una
voce sottile e sgradevole.
«Cra, cra, cra».
«Chi è là ?»
«Cra, cra, cra».
« Ma chi c’è ?»
«Cra, cra, cra».
«Ma insomma, fatti riconoscere !»
«Sono il tarlo.»
«Il tarlo?»
Il tutù non ne aveva mai conosciuti. Ne aveva, sì, sentito
parlare, ma come l’eco di una sventura lontana, capitata ad altri
tutù, ma a lui personalmente ignota. Consapevole della sua regalità,
mantenne la calma.
«Che cosa vuoi?»
«Voglio te.»
«Me?»
«Te.»
Il tutù cominciò a palpitare.
«Ma non ti conosco.»
«Non ha importanza, io divoro anche tutù sconosciuti.»
«Ma non ti ho mai fatto niente e poi sono amato da tutte le
ballerine…»
«Appunto, sei stato troppo fortunato, ma ora la sorte è cambiata
e conoscerai anche tu il dolore.»
«Aspetta, aspetta! Che cosa guadagneresti a farmi del male?»
«Oh bella! Io non voglio farti del male, voglio mangiarti. È la
vita: io sono un tarlo, tu sei un tutù e la sorte ci ha messo
insieme.»
E il tarlo, senza più esitare, si tuffò tra il tulle morbido,
raggiunse lo strato più basso e cominciò a rosicchiare.
«Cra cra, gnam gnam, cra cra, gnam gnam».
Il tutù sentì un dolore pungente, terribile, devastante, ma non
poteva fare nulla, non poteva difendersi in nessun modo. E rimase lì
a soffrire, ma senza perdere la sua regale dignità.
Fortuna volle che una sarta del teatro, che passava di lì, udito
il rumore sospetto, subito aprisse l’armadio e, afferrato il tutù,
lo scuotesse, buttando via il tarlo maligno.
Il tutù venne poi accuratamente esaminato alla luce del giorno,
per accertare che nessun danno gli fosse stato arrecato. Non fu
trovato nulla ed il bel tulle morbido fu amorosamente riposto in un’ampia
custodia, anch’essa bianca.
Sembrava che nulla fosse accaduto, ma non era così.
Solo il tutù sapeva. Sapeva che nella profondità della sua
morbidezza un piccolo buchino rompeva la bellezza e l’armonia
precedenti. E, sapendo ciò, si convinse che nulla avrebbe più potuto
riportare la gloria del tempo passato.
Ben presto, la sua tristezza si trasformò in malattia: il
gonnellino si abbassò come un fiore appassito e le perle, addolorate,
tornarono a nascondere la loro luce, come ai tempi bui dell’armadio.
Le ballerine dapprima non si accorsero di nulla. Ma poi, pian
piano, prima una, poi un’altra, poi un’altra ancora cominciarono a
notare che il tutù non scintillava come una volta sotto le luci della
ribalta e il tulle non volteggiava più per assecondare i movimenti
del loro corpo. E così, prima una, poi un’altra, poi un’altra
ancora abbandonarono il tutù per altri abiti di scena, forse meno
belli, ma più allegri.
Il tutù rimase triste triste nell’armadio, non più al posto d’onore,
consolandosi con il ricordo delle glorie passate, vergognandosi sempre
di più di quel buchino, quel buchino così piccolo che nessuno aveva
mai visto.
Passarono i mesi, gli anni e i decenni.
Il tutù viveva solo di memorie, sempre più polverose come la sua
inutile custodia.
Un giorno, sentì un’eccitazione insolita intorno all’armadio,
voci, movimenti e, ben presto, vide anche una forte luce.
Che cosa accadeva mai?
Ricorreva il centenario dell’Operà e l’avvenimento
sarebbe stato celebrato non solo con serate danzanti, ma anche con una
mostra. Una ballerina, ormai vecchissima e perciò ritenuta molto
saggia, era stata intervistata dai giornalisti perché raccontasse i
fatti più significativi che si erano svolti sul palcoscenico e dietro
le quinte dell’Operà in tutti quegli anni. Ed ella, tra le
altre cose, aveva ricordato il mitico tutù ballerino. Subito era
stato deciso che esso dovesse, a buon diritto, far parte della mostra.
Il tutù, tutte queste cose le apprese dai lavoranti che
allestivano la mostra, insieme a tante altre che riguardavano la
storia del teatro.
Penserete, forse, che egli fosse felice di questo ritorno alla
notorietà, ma non era così.
Quel buchino, quel buchino orrendo, non gli lasciava pace. Si
vergognava e temeva, temeva che la sua vergogna fosse scoperta dopo
quasi cento anni, dopo che egli aveva sacrificato il palcoscenico per
nasconderla.
Il giorno in cui si aprì la mostra, ci fu un enorme afflusso di
gente.
Era una giornata d’inverno limpida e fredda. Il sole dava l’illusione
dell’estate nel caldo dei saloni dell’Operà ed i suoi
raggi più giovani e birichini giocavano ad intrufolarsi dappertutto.
Uno, in particolare, fu attratto dalle perle del tutù ballerino e
cominciò a solleticarle, per svelare la loro luce. Più quelle
resistevano, con stizza e con paura, più lui insisteva implacabile ad
esplorare tutte le pieghe del tutù, anche le più riposte, finchè
non giunse al buchino che era stato fonte di tanto dolore e vergogna.
Per il raggio birichino era un gioco in più, ma il tutù si sentì
morire ad un punto tale che credette di cambiare colore. Le perle,
anch’esse agitatissime, persero ogni ritegno e, senza accorgersene,
cominciarono a brillare, mentre il tulle si muoveva disperatamente per
cercare di nascondere la propria vergogna.
Era, a prescindere dalle intenzioni, un tale spettacolo di candido
e movimentato splendore, che molti visitatori non poterono che esserne
attratti.
Cominciarono ad osservare con maggiore attenzione il tutù, ad
ammirarlo sollevandone le pieghe del gonnellino ed ognuno si lasciava
sfuggire una parola d’ammirazione.
Guarda e riguarda, scoprirono anche il buchino.
«Guarda, è tarlato!»
«Si, ma appena.»
«Dopo tanti anni!»
«Basterebbe un po’ di filo.»
«Meglio lasciarlo così.»
«Anche questo gli dà pregio.»
«Sarà ormai inservibile.»
«Per un buchino!»
«Ma potrebbe strapparsi di più.»
Ad un tratto si fece silenzio.
Arrivava, per visitare la mostra, la grande ètoile dell’Operà,
che doveva danzare quella sera. Guardò freddamente il tutù, come
tutti gli altri oggetti della mostra, e passò avanti.
Più tardi, erano ormai passate le 13, quando la sala era vuota e
silenziosa, la famosa ballerina ritornò. Andò dritta dal tutù, ne
accarezzò il tulle e le perle, come per rassicurarli, e lo portò con
sé in camerino. Qui, dapprima lo affidò alla sua abile sarta che,
con un piccolo, quasi invisibile ricamo, cancellò per sempre il
buchino. Poi, al momento di prepararsi per il balletto, lo indossò.
«Stai tranquillo, finirai in gloria.», mormorò accarezzando il
gonnellino.
Cominciò lo spettacolo.
Il nostro tutù era frastornato. Non sapeva più se vergognarsi del
suo rammendo o se gioire del suo ritorno sul palcoscenico. Ma, pian
piano, la magia della musica lo conquistò e cominciò a volteggiare e
a brillare intorno al corpo dell’ètoile, come ai suoi tempi
gloriosi.
Il rammendo cominciò a cedere, ma il tutù non vi fece caso, ormai
inebriato dalla musica.
Il rammendo cedette e il buchino ricomparve, si allargò, diventò
uno strappo. E il tutù ballava, volteggiava, volava.
La ballerina si accinse ad eseguire gli ultimi, audaci passi di
danza.
Alla fine, mentre gli applausi scrosciavano e il tutù si sentiva
morire, ella, con mossa veloce e aggraziata, lo fece scivolare dal suo
corpo e, in uno scintillio di tulle e di perle, velo dopo velo,
sfogliandolo come un fiore, lo fece volteggiare per l’ultima volta
nel "suo teatro", sui palchi, sul pubblico in delirio, in
una gloria di luce, prima che il sipario si abbassasse.
Tutti quelli, che ebbero la fortuna di assistere allo spettacolo,
non lo dimenticarono più, e lo raccontarono ai loro figli e ai loro
nipoti, che continuarono la tradizione, finché il tutù ballerino non
divenne una leggenda.
Di notte, all’Operà, quando lo spettacolo è finito e
tutte le luci sono spente, raggi di luce bianca s’intrecciano
gioiosi partendo dagli angoli più bui.
Sono i pezzi di tulle e le perle che, caduti a caso nel teatro,
sono stati accolti dalle mura e dal soffitto e, lontano dagli occhi
curiosi della gente, si corteggiano, felici come ai tempi dell’armadio,
e tornano ad eseguire il loro ultimo balletto.