Vittorio Alfieri
Della Tirannide
Cuncti se scire fatentur |
Impune
quaelibet facere id est regem esse |
PREVIDENZA DELL'AUTORE |
Dir
più d'una si udrà lingua maligna, Che
tinta in fiel la penna mia sanguigna Non
io per ciò da un sì sublime scopo Né
mie voci fien sempre al vento sparte, |
LIBRO
PRIMO
ALLA LIBERTÀ
Soglionsi per lo più i libri dedicare alle persone potenti, perché gli autori credono ritrarne chi lustro, chi protezione, chi mercede. Non sono, o DIVINA LIBERTÀ, spente affatto in tutti i moderni cuori le tue cocenti faville: molti ne'loro scritti vanno or qua or là tasteggiando alcuni dei tuoi più sacri e più infranti diritti. Ma quelle carte, ai di cui autori altro non manca che il pienamente e fortemente volere, portano spesso in fronte il nome o di un principe, o di alcun suo satellite; e ad ogni modo pur sempre, di un qualche tuo fierissimo naturale nemico. Quindi non è meraviglia, se tu disdegni finora di volgere benigno il tuo sguardo ai moderni popoli, e di favorire in quelle contaminate carte alcune poche verità avviluppate dal timore fra sensi oscuri ed ambigui, ed inorpellate dall'adulazione.
Io,
che in tal guisa scrivere non disdegno; io, che per nessun'altra
cagione scriveva, se non perché i tristi miei tempi mi
vietavan di fare; io, che ad ogni vera incalzante necessità,
abbandonerei tuttavia la penna per impugnare sotto il tuo nobile
vessillo la spada; ardisco io a te sola dedicar questi fogli. Non
farò in essi pompa di eloquenza, che in vano forse il vorrei;
non di dottrina, che acquistata non ho; ma con metodo, precisione,
semplicità, e chiarezza, anderò io tentando di spiegare
i pensieri, che mi agitano; di sviluppare quelle verità, che
il semplice lume di ragione mi svela ed addita; di sprigionare in
somma quegli ardentissimi desiderj, che fin dai miei anni più
teneri ho sempre nel bollente mio petto racchiusi.
Io,
pertanto, questo libercoletto, qual ch'egli sia, concepito da me il
primo d'ogni altra mia opera, e disteso nella mia gioventù,
non dubito punto nella matura età (rettificandolo alquanto) di
pubblicar come l'ultimo. Che se io non ritroverei forse più in
me stesso a quest'ora il coraggio, o, per dir meglio, il furore
necessario per concepirlo, mi rimane pure ancora il libero senno per
approvarlo, e per dar fine con esso per sempre ad ogni mia qualunque
letteraria produzione.
Capitolo
Primo
COSA SIA IL TIRANNO
Il
definire le cose dai nomi, sarebbe un credere, o pretendere che elle
fossero inalterabilmente durabili quanto essi; il che manifestamente
si vede non essere mai stato. Chi dunque ama il vero, dee i nomi
definire dalle cose che rappresentano; e queste variando in ogni
tempo e contrada, niuna definizione può essere più
permanente di esse; ma giusta sarà, ogni qualvolta
rappresenterà per l'appunto quella cosa, qual ella si era
sotto quel dato nome in quei dati tempi e luoghi. Ammesso questo
preamboletto, io mi era già posta insieme una definizione
bastantemente esatta e accurata del tiranno, e collocata l'avea in
testa di questo capitolo: ma, in un altro mio libercolo, scritto dopo
e stampato prima di questo, essendomi occorso dappoi di dover
definire il principe, mi son venuto (senza accorgermene) a rubare a
me stesso la mia definizione del tiranno. Onde, per non ripetermi, la
ommetterò qui in parte; né altro vi aggiungerò,
che quelle particolarità principalmente spettanti al presente
mio tema, diverso affatto da quell'altro
DEL PRINCIPE E DELLE LETTERE ;
ancorché tendente pur questo allo stesso utilissimo scopo, di
cercare il vero, e di scriverlo.
TIRANNO ,
era il nome con cui i Greci (quei veri uomini) chiamavano coloro che
appelliamo noi re. E quanti, o per forza, o per frode, o per volontà
pur anche del popolo o dei grandi, otteneano le redini assolute del
governo, e maggiori credeansi ed erano delle leggi, tutti
indistintamente a vicenda o re o tiranni venivano appellati dagli
antichi.
Divenne un tal nome, coll'andar del tempo, esecrabile; e
tale necessariamente farsi dovea. Quindi ai tempi nostri, quei
principi stessi che la tirannide esercitano, gravemente pure si
offendono di essere nominati tiranni. Questa sì fatta
confusione dei nomi e delle idee, ha posto una tale differenza tra
noi e gli antichi, che presso loro un Tito, un Trajano, o qual altro
più raro principe vi sia stato mai, potea benissimo esser
chiamato tiranno; e così presso noi, un Nerone, un Tiberio, un
Filippo secondo, un Arrigo ottavo, o qual altro mostro moderno siasi
agguagliato mai agli antichi, potrebbe essere appellato legittimo
principe, o re. E tanta è la cecità del moderno
ignorantissimo volgo, con tanta facilità si lascia egli
ingannare dai semplici nomi, che sotto altro titolo egli si va
godendo i tiranni, e compiange gli antichi popoli che a sopportare
gli aveano.
Tra le moderne nazioni non si dà dunque
il titolo di tiranno, se non se (sommessamente e tremando) a quei
soli principi, che tolgono senza formalità nessuna ai lor
sudditi le vite, gli averi, e l'onore. Re all'incontro, o principi,
si chiamano quelli, che di codeste cose tutte potendo pure ad
arbitrio loro disporre, ai sudditi non dimanco le lasciano; o non le
tolgono almeno, che sotto un qualche velo di apparente giustizia. E
benigni, e giusti re si estimano questi, perché, potendo essi
ogni altrui cosa rapire con piena impunità, a dono si ascrive
tutto ciò ch'ei non pigliano.
Ma la natura stessa
delle cose suggerisce, a chi pensa, una più esatta e miglior
distinzione. Il nome di tiranno, poiché odiosissimo egli è
oramai sovra ogni altro, non si dee dare se non a coloro, (o sian
essi principi, o sian pur anche cittadini) che hanno, comunque se
l'abbiano, una facoltà illimitata di nuocere: e ancorché
costoro non ne abusassero, sì fattamente assurdo e contro a
natura è per se stesso lo incarico loro, che con nessuno
odioso ed infame nome si possono mai rendere abborevoli abbastanza.
Il nome di re, all'incontro, essendo finora di qualche grado meno
esecrato che quel di tiranno, si dovrebbe dare a quei pochi, che
frenati dalle leggi, e assolutamente minori di esse, altro non sono
in una data società che i primi e legittimi e soli esecutori
imparziali delle già stabilite leggi.
Questa semplice
e necessaria distinzione universalmente ammessa in Europa, verrebbe
ad essere la prima aurora di una rinascente libertà. È
il vero, che nessuna cosa poi tra gli uomini riesce permanente e
perpetua; e che (come già il dissero tanti savj) la libertà
pendendo tuttora in licenza, degenera finalmente in servaggio; come
il regnar d'un solo pendendo sempre in tirannide, rigenerarsi
finalmente dovrebbe in libertà. Ma siccome per quanto io
stenda in Europa lo sguardo, quasi in ogni sua contrada rimiro visi
di schiavi; siccome non può oramai la universale oppressione
più ascendere, ancorché la non mai fissabile ruota
delle umane cose appaja ora immobile starsi in favor dei tiranni,
ogni uomo buono dee credere, e sperare, che non sia oramai molto
lontana quella necessaria vicenda, per cui sottentrare al fin debba
all'universale servaggio una quasi universal libertà
Capitolo
Secondo
COSA SIA LA TIRANNIDE
TIRANNIDE
indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi
è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle,
distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od
anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi,
o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo;
usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo,
chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è
tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide;
ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.
E,
viceversa, tirannide parimente si dee riputar quel governo, in cui
chi è preposto al creare le leggi, le può egli stesso
eseguire. E qui è necessario osservare, che le leggi, cioè
gli scambievoli e solenni patti sociali, non debbono essere che il
semplice prodotto della volontà dei più; la quale si
viene a raccogliere per via di legittimi eletti del popolo. Se dunque
gli eletti al ridurre in leggi la volontà dei più le
possono a lor talento essi stessi eseguire, diventano costoro
tiranni; perché sta in loro soltanto lo interpretarle,
disfarle, cangiarle, e il male o niente eseguirle. Che la differenza
fra la tirannide e il giusto governo, non è posta (come alcuni
stoltamente, altri maliziosamente, asseriscono) nell'esservi o il non
esservi delle leggi stabilite; ma nell'esservi una stabilita
impossibilità del non eseguirle.
Non solamente dunque
è tirannide ogni governo, dove chi eseguisce le leggi, le fa;
o chi le fa, le eseguisce: ma è tirannide piena altresì
ogni qualunque governo, in cui chi è preposto all'eseguire le
leggi non dà pure mai conto della loro esecuzione a chi le ha
create.
Ma, tante specie di tirannidi essendovi, che sotto
diversi nomi conseguono tutte uno stesso fine, non imprendo io qui a
distinguerle fra loro, né, molto meno, a distinguerle dai
tanti altri moderati e giusti governi: distinzioni, che a tutti son
note.
Se più sopportabili siano i molti tiranni, o l'un
solo, ella è questione problematica assai. La lascierò
anche in disparte per ora, perché essendo io nato e cresciuto
nella tirannide d'un solo, ed essendo questa la più comune in
Europa, di essa più volentieri e con minore imperizia mi
avverrà forse di ragionare; e con utile maggiore fors'anco pe'
miei cotanti conservi. Osserverò soltanto di passo, che la
tirannide di molti, benché per sua natura maggiormente
durevole (come ce lo dimostra Venezia) nondimeno a chi la sopporta
ella sembra assai men dura e terribile, che quella di un solo. Di ciò
ne attribuisco la cagione alla natura stessa dell'uomo, in cui l'odio
ch'egli divide contro ai molti, si scema; come altresì il
timore che si ha dei molti, non agguaglia mai quello che si ha
riunitamente di un solo; ed in fine, i molti possono bensì
essere continuamente ingiusti oppressori dell'universale, ma non mai,
per loro privato capriccio, dei diversi individui. In codesti governi
di più, che la corruzione dei tempi, lo avere scambiato ogni
nome, e guasta ogni idea, hanno fatto chiamar repubbliche; il popolo
in codesti governi, non meno schiavo che nella mono-tirannide, gode
nondimeno di una certa apparenza di libertà, ed ardisce
profferirne il nome senza delitto: e, pur troppo il popolo, allor
quando corrotto è, ignorante, e non libero, egli si appaga
della sola apparenza.
Ma, tornando io alla tirannide di un
solo, dico; che di questa ve n'ha di più sorti. Ereditaria può
essere, ed anche elettiva. Di questa seconda specie sono, fra i
moderni, lo stato pontificio, e molti degli altri stati
ecclesiastici. Il popolo, in tali governi, pervenuto all'ultimo grado
di politica stupidità, vede a ogni tratto, per la morte del
celibe tiranno, ricadere in sua mano la propria libertà, che
egli non conosce, né cura; quindi se la vede tosto ritogliere
dai pochi elettori che gli ricompongono un altro tiranno, il quale ha
per lo più tutti i vizj degli ereditarj tiranni, e non ne ha
la forza effettiva per costringere i sudditi a sopportarlo. E questa
tirannide pure tralascerò, come toccata in sorte a pochissimi
uomini; e, per la loro smisurata viltà, indegni interamente di
un tal nome.
Intendo io dunque di ragionare oramai di quella
ereditaria tirannide, che da lunghi secoli in varie parti del globo
più o meno radicata, non mai, o rarissimamente o
passeggeramente, ricevea danni dalla risorta libertà; e non
veniva alterata o distrutta, se non se da un'altra tirannide. In
questa classe annovero io tutti i presenti regni dell'Europa,
eccettuandone soltanto finora quel d'Inghilterra e la Pollonia ne
eccettuerei, se alcuna parte di essa salvandosi dallo smembramento, e
persistendo pure nel volere aver servi e chiamarsi repubblica, servi
ne divenissero i nobili, e libero il popolo.
MONARCHIA ,
è il dolce nome che la ignoranza, l'adulazione, e il timore,
davano e danno a questi sì fatti governi. A dimostrarne la
insussistenza, credo che basti la semplice interpretazione del nome.
O monarchia vuol dire, la esclusiva e preponderante autorità
d'un solo; e monarchia allora è sinonimo di tirannide: o ella
vuol dire, l'autorità di un solo, raffrenato da leggi; le
quali, per poter raffrenare l'autorità e la forza, debbono
necessariamente anch'esse avere una forza ed autorità
effettiva, eguale per lo meno a quella del monarca; e in quel punto
stesso in cui si trovano in un governo due forze e autorità in
bilancia fra loro, egli manifestamente cessa tosto di essere
monarchia. Questa greca parola non significa altro in somma, fuorché
Governo ed autorità d'uno solo; e con leggi; s'intende;
perché niuna società esiste senza alcuna legge tal
quale: ma, ci s'intende pur anco Autorità di un solo sopra
alle leggi; perché niuno è monarca, là dove
esiste un'autorità maggiore, o eguale, alla sua.
Ora, io
domando in qual cosa differisca il governo e autorità di un
solo nella tirannide, dal governo e autorità d'un solo nella
monarchia. Mi si risponde: "Nell'abuso". Io replico: "E
chi vi può impedire quest'abuso?" Mi si soggiunge: "Le
leggi". Ripiglio: "Queste leggi hanno elle forza ed
autorità per se stesse, indipendente affatto da quella del
principe?" Nessuno più a questa obiezione mi replica.
Dunque, all'autorità d'un solo, potente ed armato, andando
annessa l'autorità di queste pretese leggi (e fossero elle pur
anche divine) ogniqualvolta le leggi e costui non concordano, che
faranno le misere, per se stesse impotenti, contro alla potestà
assoluta e la forza? Soggiaceranno le leggi: e tutto giorno, in
fatti, soggiacciono. Ma, se una qualunque legittima forza effettiva
verrà intromessa nello stato per creare, difendere, e
mantenere le leggi, chiarissima cosa è che un tale governo non
sarà più monarchia; poiché al fare o disfare le
leggi l'autorità d'un solo non vi basterà. Onde, questo
titolo di monarchia, perfettissimo sinonimo di tirannide, ma non così
abborrito finora, non viene adattato ai nostri governi per altro, che
per accertare i principi della loro assoluta signoria; e per
ingannare i sudditi, lasciandoli o facendoli dubitare della loro
assoluta servitù.
Di quanto asserisco, se ne osservi
continuamente la prova nella opinione stessa dei moderni re. Si
gloriano costoro del nome di monarchi, e mostrano di abborrire quel
di tiranni; ma nel tempo stesso reputano assai minori di loro quegli
altri pochi principi o re, che ritrovando limiti infrangibili al loro
potere, dividono l'autorità colle leggi. Questi assoluti re
sanno dunque benissimo, che fra monarchia e tirannide non passa
differenza nessuna. Così lo sapessero i popoli, che pure
tuttora colla loro trista esperienza lo provano! Ma i principi
europei, di tiranni tengono caro il potere, e di monarchi il nome
soltanto: i popoli all'incontro, spogliati, avviliti, ed oppressi
dalla monarchia, la sola tirannide stupidamente abborriscono.
Ma
i pochi uomini, che re non sono né schiavi, ove per avventura
non tengano a vile del paro i principi tutti; i monarchi, come
tiranni; ed i principi limitati, come perpetuamente inclinati a
divenirlo; i pochi veri uomini pensanti, si avveggono pure quanto sia
più onorevole, più importante, e più gloriosa
dignità il presiedere con le leggi ad un libero popolo
d'uomini, che il malmenare a capriccio un vile branco di
pecore.
Tralascio ogni ulteriore prova (che necessaria non è)
per dimostrare che una monarchia limitata non vi può essere,
senza che immediatamente cessi la monarchia; e che ogni monarchia non
limitata è tirannide, ancorché il monarca in qualche
istante, non abusando egli in nessun modo del suo poter nuocere,
tiranno non sia. E tali prove tralascio, per amor di brevità,
e perché intendo di parlare a lettori, a cui non è
necessario il dir tutto. Passerò quindi ad analizzare la
natura della mono-tirannide, e quai siano i mezzi per cui, così
ben radicatasi nell'Europa, inespugnabile ella vi si tiene oramai.
Capitolo
Terzo
DELLA PAURA
I
Romani liberi, popolo al quale noi non rassomigliamo in nulla, come
sagaci conoscitori del cuor dell'uomo, eretto aveano un tempio alla
Paura; e, creatala Dea, le assegnavano sacerdoti, e le sagrificavano
vittime. Le corti nostre a me pajono una viva immagine di questo
culto antico, benché per tutt'altro fine instituite. Il tempio
è la reggia; il tiranno n'è l'idolo; i cortigiani ne
sono i sacerdoti; la libertà nostra, e quindi gli onesti
costumi, il retto pensare, la virtù, l'onor vero, e noi
stessi; son queste le vittime che tutto dì vi
s'immolano.
Disse il dotto Montesquieu, che base e molla
della monarchia ella era l'onore. Non conoscendo io, e non credendo a
codesta ideale monarchia, dico, e spero di provare; Che base e molla
della tirannide ella è la sola paura.
E da prima, io
distinguo la paura in due specie, chiaramente fra loro diverse, sì
nella cagione che negli effetti: la paura dell'oppresso, e la paura
dell'oppressore.
Teme l'oppresso, perché oltre quello
ch'ei soffre tuttavia, egli benissimo sa non vi essere altro limite
ai suoi patimenti che l'assoluta volontà e l'arbitrario
capriccio dell'oppressore. Da un così incalzante e smisurato
timore ne dovrebbe pur nascere (se l'uom ragionasse) una disperata
risoluzione di non voler più soffrire: e questa, appena
verrebbe a procrearsi concordemente in tutti o nei più,
immediatamente ad ogni lor patimento perpetuo fine porrebbe. Eppure,
al contrario, nell'uomo schiavo ed oppresso, dal continuo ed
eccessivo temere nasce vie più sempre maggiore ed estrema la
circospezione, la cieca obbedienza, il rispetto e la sommissione al
tiranno; e crescono a segno, che non si possono aver maggiori mai per
un Dio.
Ma, teme altresì l'oppressore. E nasce in lui
giustamente il timore della coscienza della propria debolezza
effettiva, e in un tempo, dell'accattata sterminata sua forza ideale.
Rabbrividisce nella sua reggia il tiranno (se l'assoluta autorità
non lo ha fatto stupido appieno) allorché si fa egli ad
esaminare quale smisurato odio il suo smisurato potere debba
necessariamente destare nel cuore di tutti.
La conseguenza
del timor del tiranno riesce affatto diversa da quella del timore del
suddito; o, per meglio dire, ella è simile in un senso
contrario; in quanto, né egli, né i popoli, non
emendano questo loro timore come per natura e ragione il dovrebbero;
i popoli, col non voler più soggiacere all'arbitrio d'un solo;
i tiranni, col non voler più sovrastare a tutti per via della
forza. Ed in fatti, spaventato dalla propria potenza, sempre mal
sicura quando ella è eccessiva, pare che dovrebbe il tiranno
renderla alquanto meno terribile altrui, se non con infrangibili
limiti, almeno coll'addolcirne ai sudditi il peso. Ma, nella guisa
stessa che i sudditi non diventano disperati e feroci, ancorché
altro non resti loro da perdere se non una misera vita; così,
neppure il tiranno diventa mite ed umano, ancorché altro non
gli rimanga da acquistare, se non la fama, e l'amore dei sudditi. Il
timore e il sospetto, indivisibili compagni d'ogni forza illegittima
(e illegittimo è tutto ciò che limiti non conosce)
offuscano talmente l'intelletto del tiranno anche mite per indole,
che egli ne diviene per forza crudele, e pronto sempre ad offendere,
e a prevenire gli effetti dell'altrui odio meritato e sentito. Egli
perciò crudelissimamente suole punire ogni menomo tentativo
dei sudditi contro a quella sua propria autorità ch'egli
stesso conosce eccessiva; e non lo punisce allor quando eseguito sia,
o intrapreso, ma quando egli suppone, o finge anche di supporre, che
un tal tentativo possa solamente essere stato concepito.
La
esistenza reale di queste due paure non è difficile a
dimostrarsi. Di quella dei sudditi, argomentando ciascuno di noi
dalla propria, non ne dubiterà certamente nessuno: della paura
dei tiranni, assai ne fan fede i tanti e così diversi sgherri,
che giorno e notte li servono e custodiscono.
Ammessa questa
reciproca innegabile paura, esaminiamo quali debbano riuscire questi
uomini che sempre tremano: e parliamo da prima dei sudditi, cioè
di noi stessi, che ben ci dobbiamo conoscere; parleremo dei tiranni,
per congettura, dappoi. E scegliamo nella tirannide quei pochi
uomini, a cui e la robustezza delle fibre, e una miglior educazione,
e una certa elevazion d'animo (quanta ne comportino i tempi) e in
fine una minor dipendenza, dovrebbero far conoscere più il
vero, e lasciarli tremare assai meno che gli altri: investigati quali
siano, e quali possano, e debbano essere questi, dal loro valore
argomenteremo per induzione quali siano ed esser debbano poi gli
altri tutti. Questi pochissimi, degni per certo di miglior sorte,
veggono pure ogni giorno nella tirannide il coltivatore, oppresso
dalle arbitrarie gravezze, menare una vita stentata e infelice. Una
gran parte di essi ne veggono estrarre per forza dai loro tugurj per
portar l'armi; e non già per la patria, ma pel loro e suo
maggior nemico, e contro a se stessi: veggono costoro il popolo delle
città, l'una metà mendico, ricchissimo l'altra, e tutto
egualmente scostumato; veggono inoltre, la giustizia venduta, la
virtù dispregiata, i delatori onorati, la povertà
ascritta a delitto, le cariche e gli onori rapiti dal vizio
sfacciato, la verità severamente proscritta, gli averi la vita
l'onore di tutti nella mano di un solo; e veggono essere
incapacissimo di tutto quel solo, e lasciare egli poi il diritto di
arbitrariamente disporne ad altri pochi, non meno incapaci, e più
tristi: tutto ciò veggono palpabilmente ogni giorno quei pochi
enti pensanti, che la tirannide non ha potuti impedire; e in ciò
vedere, sommessamente sospirando, si tacciono. Ma, perché si
tacciono? per sola paura. Nella tirannide, è delitto il dire,
non meno che il fare. Da questa feroce massima dovrebbe almeno
risultarne, che in vece di parlare, si operasse; ma (pur troppo!) né
l'uno né l'altro si ardisce.
Se dunque a tal segno
avviliti sono i migliori, quali saranno in un tal governo poi gli
altri? qual nome inventar si dovrà per distinguerli da coloro,
che nei ragguardevoli antichi governi cotanto illustravano il nome di
uomo? Si affaticano tutto dì gli scrittori per dimostrarci,
che il caso e le circostanze ci vogliono sì fattamente diversi
da quelli; ma nessuno ci insegna in qual modo si possano dominare il
caso e le circostanze, né fino a qual punto questa diversità
intendere e tollerare si debba. Si affaticano per altra parte i
tiranni, e i loro tanti fautori più vili di essi, nel
persuaderci che noi non siamo più di quella generosa specie
antica. E, certo, finché sopportiamo il loro giogo tacendo,
ella è quasi minore infamia per noi il credere piuttosto in
ciò ai tiranni, che non ai moderni scrittori.
Tutti
dunque, e buoni e cattivi, e dotti e ignoranti, e pensatori e
stupidi, e prodi e codardi; tutti, qual più qual meno,
tremiamo nella tirannide. E questa è per certo la vera
universale efficacissima molla di un tal governo; e questo è
il solo legame, che tiene i sudditi col tiranno.
Si esamini
ora, se il timor del tiranno sia parimente la molla del suo
governare, e il legame che lo tiene coi sudditi. Costui, vede per lo
più gli infiniti abusi dello informe suo reggere; ne conosce i
vizj, i principj distruttivi, le ingiustizie, le rapine, le
oppressioni; e tutti in somma i tanti gravissimi mali della
tirannide, meno se stesso. Vede costui, che le troppe gravezze di
giorno in giorno spopolano le desolate provincie; ma tuttavia non le
toglie; perché da quelle enormi gravezze egli ne va ritraendo
i mezzi per mantenere l'enorme numero de' suoi soldati, spie, e
cortigiani; rimedj tutti (e degnissimi) alla sua enorme paura. E vede
anch'egli benissimo, che la giustizia si tradisce o si vende; che gli
uffizj e gli onori più importanti cadono sempre ai peggiori; e
queste cose tutte, ancorché ben le veda, non le ammenda pur
mai il tiranno. E perché non le ammenda? perché, se i
magistrati fossero giusti, incorrotti, ed onesti, verrebbe tolto a
lui primo ogni iniquo mezzo di colorare le sue private vendette sotto
il nome di giustizia. Ne avviene da ciò, e da altre simili
cose, che dovendo egli mal grado suo, e senza avvedersene quasi,
reputare se stesso come il primo vizio dello stato, traluce
all'intelletto suo un fosco barlume di verità che gl'insegna,
che se alcuna idea di vera giustizia si venisse a introdurre nel suo
popolo, la prima giustizia si farebbe di lui: appunto perché
nessun altr'uomo (per quanto sia egli scellerato) non può mai
in una qualunque società nuocere sì gravemente ed a
tanti, come può nuocere impunemente ogni giorno quest'uno
nella propria tirannide. Ciascun tiranno dunque, al solo nome di vera
giustizia, trema: ogni vero lume di sana ragione gli accresce il
sospetto; ogni verità luminosa lo adira; lo spaventano i
buoni; e non crede mai sicuro se stesso, se egli non affida ogni più
importante carica a gente ben sua; cioè venduta e simile a
lui, e ciecamente pensante al suo modo: il che importa, una gente più
assai ingiusta, più tremante, e quindi più crudele, e
più mille volte opprimente, ch'egli nol sia.
«Ma,
un tal principe si può dare» (dirammi taluno) «il
quale ami gli uomini, aborrisca il vizio, e non lasci trionfare né
rimuneri altro, che la sola virtù». Al che rispondo io,
col domandare: «Può egli esistere un uomo buono ed amico
degli uomini, il quale, non essendo stupido, si creda pure, o finga
di credersi, per diritto divino, superiore assolutamente non solo ad
ogni individuo, ma alla massa di tutti riuniti; e stimi non dover dar
conto delle opere sue e di sé, fuorché a Dio?» Io
mi farò a credere che un tal ente possa essere un uomo buono,
allor quando avrò visto un solo esempio, per cui, avendo
costui voluto veramente il maggior bene di quegli altri enti suoi, ma
di una minore specie di lui, egli avrà prese le più
efficaci misure per impedire che in quella sua società dove
egli solo era il tutto, e gli altri tutti il nulla, un qualche altro
eletto da Dio al paro di lui, non potesse d'allora in poi commettere
illimitatamente e impunemente quel male stesso che egli sapea
certamente essersi commesso in quello stesso suo stato prima che ei
vi regnasse; e che egli certamente sapea, attesa la natura dell'uomo,
dovervisi poi commettere di bel nuovo dopo il suo regno. Ma, come
potrà egli chiamarsi buono quell'uomo, che dovendo e potendo
fare un così gran bene a un sì fatto numero d'uomini,
pure nol fa? E per qual altra ragione nol fa egli, se non perché
un tal bene potrebbe diminuire ai suoi venturi figli o successori del
suo illimitato orribil potere, del nuocere con impunità? E si
noti di più, che costui potrebbe con un tal nobile mezzo
acquistare a se stesso, in vece di quell'infame illimitato potere di
nuocere ch'egli avrebbe distrutto, una immensa e non mai finora
tentata gloria; e la più eminente che possa cadere mai nella
mente dell'uomo; di avere, colle proprie legittime privazioni,
stabilita la durevole felicità di un popolo intero. Ora, ch'è
egli dunque codesto buon principe, di cui ci vanno ogni giorno
intronando gli orecchi la viltà ed il timore? un uomo, che non
si reputa un uomo; (ed infatti non lo è; ma in tutt'altro
senso ch'ei non l'estima) un ente, che forse vuole il bene del corpo
degli altri, cioè che non siano né nudi, né
mendici; ma, che volendoli ciecamente obbedienti all'arbitrio d'un
solo, necessariamente li vuole ad un tempo e stupidi, e vili, e
viziosi, e assai men uomini in somma che bruti. Un tale buon principe
(che buono altramente non può esser mai chiunque possiede una
usurpata, illegittima, illimitata autorità) potrà egli
giustamente da chi ragiona chiamarsi meno tiranno che il pessimo,
poiché gli stessi pessimi effetti dall'uno come dall'altro
ridondano? e, come tale, si dovrà egli meno abborrire da chi
conosce e sente il servaggio? Il conservare, il difendere ad ogni
costo, il reputare come la più nobile sua prerogativa lo
sterminato potere di nuocere a tutti, non è egli sempre uno
imperdonabil delitto agli occhi di tutti, ancorché pure chi è
reo di tal pregio in modo nessuno mai non ne abusi? E si può
egli creder mai, che codesto sognato buon principe possa andare
esente dalla paura, poiché egli pure persiste nel rimanere,
per via della forza, maggior delle leggi? E può egli costui,
più che gli altri suoi pari, esimere i sudditi dalla paura,
poich'essi all'ombra di leggi in nulla sottoposte a soldati, non
possono securamente mai ridersi di niuno de' suoi assoluti capricci,
che volesse (anco istantaneamente) usurparsi il titolo sacro di
legge? Io crederei all'incontro, che per lo più quei tiranni
che hanno da natura una miglior indole, riescano, quanto all'effetto,
i peggiori pel popolo. Ed eccone una prova. Gli uomini buoni
suppongono sempre che gli altri sian tali; i tiranni tutti per lo più
niente affatto conoscono gli uomini, presi universalmente; ma niente
affatto poi certamente conoscono quelli che non vedono mai, e
pochissimo quelli che vedono. Ora, non v'ha dubbio, che gli uomini
che si accostano a loro son sempre i cattivi, perché un uomo
veramente buono sfuggirà di continuo, come un mostro, la
presenza d'ogni altro uomo, la cui sterminata autorità, oltre
al poterlo spogliar di ogni cosa, può anche per l'influenza
dell'esempio e della necessità, costringerlo a cessar di esser
buono. Ne avviene da ciò, che al tiranno cattivo accostandosi
i cattivi uomini, vi si fanno l'un l'altro pessimi; ma i ribaldi
accostandosi all'ottimo tiranno, si fingono allora buoni, e lo
ingannano. E questo accade ogni dì; talché la tirannide
per lo più non risiede nella persona del tiranno, ma
nell'abusiva e iniqua potenza di lui, amministrata dalla necessaria
tristizia de'cortigiani. Ma, dovunque risieda la tirannide, pe'
miseri sudditi la servitù riesce pur sempre la stessa; e anzi,
più dura riesce per l'universale sotto il tiranno buono,
ancorché forse alquanto meno crudele riesca per gl'individui.
Il
tiranno buono forse non trema da principio in se stesso, perché
la coscienza non lo rimorde di nessuna usata violenza; o, per dir
meglio, egli trema assai meno del reo: che infin ch'egli tiene
un'autorità illimitata, ch'egli benissimo sa (per quanto
ignorante egli sia) non essere legittima mai, non si può
interamente esimere dalla paura. Ed in prova, per quanto sia pacifico
e sicuro al di fuori il tiranno, non annulla pur mai i soldati al di
dentro. Ma, anche supponendo che il mite tiranno non tremi egli
stesso, tremano pur sempre in nome di lui per se stessi quei pochi
pessimi che, usurpata sotto l'ombre del nome suo l'autorità
principesca, la esercitano. Quindi la paura vien sempre ad essere la
base, la cagione, ed il mezzo di ogni tirannide, anche sotto l'ottimo
tiranno.
E non mi si alleghino Tito, Trajano, Marc'Aurelio,
Antonino; e altri simili, ma sempre pochissimi, virtuosi tiranni. Una
prova invincibile che costoro non andavano mai esenti dalla paura, si
è, che nessuno di essi dava alle leggi autorità sovra
la sua propria persona; e non la dava egli, perché
espressamente sapea che ne sarebbe stato offeso egli primo: nessuno
di essi annullava i soldati perpetui, o ardiva sottoporgli ad
un'altra autorità che alla propria; perché convinto era
che non rimaneva la persona sua abbastanza difesa senz'essi. Ciascuno
dunque di costoro era pienamente certo in se stesso, che l'autorità
sua era illimitata, poiché sottoporla non voleva alle leggi; e
che illegittima ell'era, poiché sussistere non potea senza il
terror degli eserciti. Domando, se un tale ottimo tiranno si possa
dagli uomini reputare e chiamare un uomo buono? colui, che trovandosi
in mano un potere ch'egli conosce vizioso, illegittimo, e
dannosissimo, non solamente non se ne spoglia egli stesso, ma non
imprende almeno (potendolo pur fare con laude e gloria immensa) di
spogliarne coloro che verran dopo lui: gente, a cui, per non esserne
essi ancora al possesso, nulla affatto si toglie coll'impedir loro
quella usurpazione stessa; e massimamente venendo loro impedita da
quei tiranni che figli non lasciano. Né sotto Tito, Trajano,
Marc'Aurelio, e Antonino, cessava la paura nei sudditi. La prova ne
sia, che nessuno dei sudditi ardiva francamente dir loro, che si
facessero (quali esser doveano) minori delle leggi, e che la
repubblica restituissero.
Ma facil cosa è ad
intendersi perché gli scrittori si accordino nel dar tante
lodi a codesti virtuosi tiranni; e nel dire, che se gli altri tutti
potessero ad essi rassomigliarsi, il più eccellente governo
sarebbe il principato. Eccone la ragione. Allorché una paura è
stata estrema e terribile, il trovarsela ad un sol tratto scemata dei
due terzi, fa sì, che il terzo rimanente si chiama e si reputa
un nulla. Qual ente è egli dunque costui, che dalla sola sua
spontanea e libera benignità possa e debba dipendere
assolutamente la felicità o infelicità di tanti e tanti
milioni di uomini? Costui, può egli essere disappassionato
interamente? egli sarebbe stupido affatto. Può egli amar
tutti, e non odiar mai nessuno? può egli non essere ingannato
mai? può egli aver la possanza di far tutti i mali, e non ne
fare pur mai nessunissimo? può egli, in somma, reputar sé
di una specie diversa e superiore agli altri uomini, e con tutto ciò
anteporre il bene di tutti al ben di se stesso?
Non credo
che alcun uomo al mondo vi sia, che volesse dare al suo più
vero e sperimentato amico un arbitrio intero sopra il suo proprio
avere, su la propria vita, ed onore; né, se un tal uom pur ci
fosse, quel suo verace amico vorrebbe mai accettare un così
strano pericoloso e odioso incarico. Ora, ciò che un sol uomo
non concederebbe mai per sé solo al suo più intimo
amico, tutti lo concederebbero per se stessi, e pe' lor discendenti,
e lo lascierebbero tener colla viva forza, da un solo, che amico loro
non è né può essere? da un solo, che essi per lo
più non conoscono; a cui pochissimi si avvicinano; ed a cui
non possono neppure i molti dolersi delle ingiustizie ricevute in suo
nome? Certo, una tal frenesia non è mai caduta, se non
istantaneamente, in pensiero ad una moltitudine d'uomini: o, se pure
una tale stupida moltitudine vi è stata mai, che concedesse ad
un solo una sì stravagante autorità, non potea essa
costringer giammai le future generazioni a raffermarla e soffrirla.
Ogni illimitata autorità è dunque sempre, o nella
origine sua, o nel progresso, una manifesta e atrocissima usurpazione
sul dritto naturale di tutti. Quindi io lascio giudice ogni uomo, se
quell'uno che la esercita può mai tranquillamente e senza
paura godersi la funesta e usurpata prerogativa di poter nuocere
illimitatamente e impunemente a ciascuno ed a tutti: mentre ogni
qualunque onesto privato si riputerebbe infelicissimo di potere in
simil guisa nuocere al miglior suo amico, per dritto spontaneamente
concedutogli: e mentre, certamente, ogni amicizia fra costoro
verrebbe a cessare, all'incominciare della possibilità di
esercitar un tal dritto.
La natura dell'uomo è di
temere e perciò di abborrire chiunque gli può nuocere,
ancorché giustamente gli nuoca. Ed in prova, fra que' popoli
dove l'autorità paterna e maritale sono eccessive, si
ritrovano i più spessi e terribili esempj della ingratitudine,
disamore, disobbedienza, odio, e delitti delle mogli e dei figli.
Quindi è, che il nuocere giustamente a chi male opera, essendo
nelle buone repubbliche una prerogativa delle leggi soltanto; e i
magistrati, semplici esecutori di esse, elettivi essendovi ed a
tempo; nelle buone repubbliche si viene a temer molto le leggi, senza
punto odiarle, perché non sono persona; si viene a rispettarne
semplicemente gli esecutori, senza moltissimo odiarli, perché
troppi son essi, e tuttora si vanno cangiando; e si viene finalmente
a non odiar né temere individuo nessuno.
Ma
all'incontro la immagine dell'ereditario tiranno si appresenta sempre
ai popoli sotto l'aspetto di un uomo, che avendo loro involato una
preziosissima cosa, audacemente lor nega che l'abbiano essi posseduta
giammai; e tiene perpetuamente sguainata la spada, per impedire che
ritolta gli sia. Può non ferire costui; ma chi può non
temerne? Possono i popoli non si curare di ridomandargliela; ma il
tiranno, non potendosi accertar mai della lor non curanza, non si
lascia perciò mai ritrovar senza spada. Non è dunque
coraggio contra coraggio, ma paura contro paura, la molla che questa
usurpazione mantiene.
Ma, mentre io della PAURA
sì lungamente favello, già già mi sento gridar
d'ogni intorno: «E quando fra due ereditarj tiranni si
combatte, quei tanti e tanti animosi uomini che affrontano per essi
la morte, sono eglino guidati dalla paura, ovver dall'onore?»
Rispondo; che di questa specie d'onore parlerò a suo luogo;
che anche gli orientali, popoli sempre servi, i quali a parer nostro
non conoscono onore, e che riputiamo di sì gran lunga
inferiori a noi, gli orientali anch'essi animosissimamente combattono
pe' loro tiranni, e danno per quelli la vita. Ne attribuisco in parte
la cagione alla naturale ferocia dell'uomo; al bollore del sangue che
nei pericoli si accresce ed accieca; alla vanagloria ed emulazione,
per cui nessun uomo vuol parere minore di un altro; ai pregiudizj
succhiati col latte; ed in ultimo lo attribuisco, più che ad
ogni altra cosa, alla già tante volte nominata PAURA .
Questa terribilissima passione, sotto tanti e così diversi
aspetti si trasfigura nel cuor dell'uomo, ch'ella vi si può
per anco travestire in coraggio. Ed i moderni eserciti nostri, nei
quali vengono puniti di morte quelli che fuggono dalla battaglia, ne
possono fare ampia fede. Questi nostri eroi tiranneschi, che per
pochi bajocchi il giorno vendono al tiranno la loro viltà,
appresentati dai loro condottieri a fronte del nemico, si trovano
avere alle spalle i loro proprj sergenti con le spade sguainate; e
spesso anche delle artiglierie vi si trovano, affinché,
atterriti da tergo, codesti vigliacchi simulino coraggio da fronte.
Senza aver molto onore, potranno dunque cotali soldati anteporre una
morte non certa e onorevole ad una infame e certissima.
Capitolo
Quarto
DELLA VILTÀ
Dalla
paura di tutti nasce nella tirannide la viltà dei più.
Ma i vili in supremo grado necessariamente son quelli, che si
avvicinano più al tiranno, cioè al fonte di ogni attiva
e passiva paura. Grandissima perciò, a parer mio, passa la
differenza fra la viltà e la paura. Può l'uomo onesto,
per le fatali sue natìe circostanze, trovarsi costretto a
temere; e temerà costui con una certa dignità; vale a
dire, egli temerà tacendo, sfuggendo sempre perfino l'aspetto
di quell'uno che tutti atterrisce, e fra se stesso piangendo, o con
pochi a lui simili, la necessità di temere, e la impossibilità
d'annullare, o di rimediare a un così indegno timore.
All'incontro, l'uomo già vile per propria natura, facendo
pompa del timor suo, e sotto la infame maschera di un finto amore
ascondendolo, cercherà di accostarsi, d'immedesimarsi, per
quanto egli potrà, col tiranno: e spererà quest'iniquo
di scemare in tal guisa a se stesso il proprio timore, e di
centuplicarlo in altrui.
Onde, ella mi pare ben dimostrata
cosa, che nella tirannide, ancorché avviliti sian tutti, non
perciò tutti son vili.
Capitolo
Quinto
DELL'AMBIZIONE
Quel
possente stimolo, per cui tutti gli uomini, qual più, qual
meno, ricercando vanno di farsi maggiori degli altri, e di sé;
quella bollente passione, che produce del pari e le più
gloriose e le più abbominevoli imprese; l'ambizione in somma,
nella tirannide non perde punto della sua attività, come tante
altre nobili passioni dell'uomo, che in un tal governo intorpidite
rimangono e nulle. Ma, l'ambizione nella tirannide, trovandosi
intercette tutte le vie e tutti i fini virtuosi e sublimi, quanto
ella è maggiore, altrettanto più vile riesce e
viziosa.
Il più alto scopo dell'ambizione in chi è
nato non libero, si è di ottenere una qualunque parte della
sovrana autorità: ma in ciò quasi del tutto si
assomigliano e le tirannidi e le più libere e virtuose
repubbliche. Tuttavia, quanto diversa sia quell'autorità
parimente desiata, quanto diversi i mezzi per ottenerla, quanto
diversi i fini allor quando ottenuta siasi, ciascuno per se stesso lo
vede. Si perviene ad un'assoluta autorità nella tirannide,
piacendo, secondando, e assomigliandosi al tiranno: un popolo libero
non concede la limitata e passeggera autorità, se non se a una
certa virtù, ai servigj importanti resi alla patria, all'amore
del ben pubblico in somma, attestato coi fatti. Né i tutti
possono volere altro utile mai, che quello dei tutti; né altri
premiare, se non quelli che arrecano loro quest'utile. È vero
nondimeno, che possono i tutti alle volte ingannarsi, ma per breve
tempo; e l'ammenda del loro errore sta in essi pur sempre. Ma il
tiranno, che è uno solo, ed un contra tutti, ha sempre un
interesse non solamente diverso, ma per lo più direttamente
opposto a quello di tutti: egli dee dunque rimunerare chi è
utile a lui; e quindi, non che premiare, perseguitare e punire
debb'egli chiunque veramente tentasse di farsi utile a tutti.
Ma,
se il caso pure volesse che il bene di quell'uno fosse ad un tempo in
qualche parte il bene di tutti, il tiranno nel rimunerarne l'autore
pretesterebbe forse il ben pubblico; ma, in essenza, egli
ricompenserebbe il servigio prestato al suo privato interesse. E così
colui, che avrà per caso servito lo stato (se pure una
tirannide può dirsi mai stato, e se giovar si può ai
servi, non liberandoli prima d'ogni cosa dalla lor servitù)
colui pur sempre dirà, ch'egli ha servito il tiranno; svelando
con queste parole o il vile suo animo, o il suo cieco intelletto. Ed
il tiranno stesso, ove la paura sua, e la dissimulazione che n'è
figlia, non gli vadano rammentando che si dee pur nominare, almeno
per la forma, lo stato; il tiranno anch'egli dirà, per
innavvertenza, di aver premiato i servigj prestati a lui stesso.
Così
Giulio Cesare scrittore, parlando di Giulio Cesare capitano, e futuro
tiranno, si lasciava sfuggir dalla penna le seguenti parole: Scutoque
ad eum (ad Caesarem) relato Scaevae Centurionis, inventa sunt
in eo foramina CCXXX: quem Caesar, ut erat DE SE meritus et de
republica, donatum millibus ducentis, etc. Si vede in questo
passo dalle parole, DE SE meritus, quanto il buon Cesare,
essendosi pure prefisso nei suoi commentarj di non parlar di se
stesso se non alla terza persona, ne parlasse qui inavvertentemente
alla prima; e talmente alla prima, che la parola de republica
non veniva che dopo la parola DE SE, quasi per formoletta di
correzione. In tal modo scriveva e pensava il più magnanimo di
tutti i tiranni, allor quando non si era ancor fatto tale; quando
egli stava ancora in dubbio se potrebbe riuscir nella impresa: ed era
costui nato e vissuto cittadino fino a ben oltre gli anni quaranta.
Ora, che penserà e dirà egli su tal punto un volgare
tiranno? colui, che nato, educato tale, certo di morire sul trono, se
ne vive fino alla sazietà nauseato di non trovar mai ostacoli
a qualunque sua voglia?
Risulta, mi pare, da quanto ho detto
fin qui; che l'ottenere il favore di un solo attesta pur sempre più
vizj che virtù in colui che l'ottiene; ancorché quel
solo che lo accorda, potesse esser virtuoso; poiché, per
piacere a quel solo, bisogna pur essere o mostrarsi utile a lui,
mentre la virtù vuole che l'uomo pubblico evidentemente sia
utile al pubblico. E parimente risulta dal fin qui detto; che
l'ottenere il favore di un popolo libero, ancorché corrotto
sia egli, attesta nondimeno necessariamente in chi l'ottiene, alcuna
capacità e virtù; poiché, per piacere a molti ed
ai più, bisogna manifestamente essere, o farsi credere, utile
a tutti; cosa, che, o da vera o da finta intenzione ella nasca,
sempre a ogni modo richiede una tal quale capacità e virtù.
In vece che il mostrarsi piacevole ed utile a un solo potente col
fine di usurparsi una parte della di lui potenza, richiede sempre e
viltà di mezzi, e picciolezza di animo, e raggiri, e
doppiezze, e iniquità moltissime, per competere e soverchiare
i tanti altri concorrenti per lo stesso mezzo ad una cosa stessa.
E
quanto asserisco, mi sarà facile il provar con esempj. Erano
già molto corrotti i Romani, e già già vacillava
la lor libertà, allorché Mario, guadagnati a sé
i suffragj del popolo, si facea console a dispetto di Silla e dei
nobili. Ma si consideri bene quale si fosse codesto Mario; quali e
quante virtù egli avesse già manifestate e nel foro e
nel campo; e tosto si vedrà che il popolo giustamente lo
favoriva, poiché (secondo le circostanze ed i tempi) le virtù
sue soverchiavano di molto i suoi vizj. Erano i Francesi, non liberi,
(che stati fino ai dì nostri non lo sono pur mai) ma in una
crisi favorevole a far nascere libertà, ed a fissare per
sempre i giusti limiti di un ragionevole principato, allorché
saliva sul trono Arrigo quarto, quell'idolo dei Francesi un secolo
dopo morte. Sully, integerrimo ministro di quell'ottimo
principe, ne godeva in quel tempo, e ne meritava, il favore. Ma, se
si vuole per l'appunto appurare qual fosse la politica virtù
di codesti due uomini, ella si giudichi da quello che fecero. Sully,
ebbe egli mai la virtù e l'ardire di prevalersi di un tal
favore, e di sforzare con evidenza di ragioni inespugnabili
quell'ottimo re, a innalzare per sempre le stabili e libere leggi
sopra di sé e dei suoi successori? e se egli ne avesse avuto
l'ardire, si può egli presumere, che avrebbe conservato il
favore di Arrigo? Dunque codesto favore di un tiranno anche ottimo,
non si può assolutamente acquistar dal suo suddito per via di
vera politica virtù; né si può (molto meno) per
via di vera politica virtù conservare.
Esaminiamo ora
da prima i fonti dell'autorità. I mezzi per ottenerla nelle
repubbliche, sono il difenderle e l'illustrarle; lo accrescerne
l'impero e la gloria; l'assicurarne la libertà, ove sane elle
siano; il rimediare agli abusi, o tentarlo, se corrotte elle sono; e
in fine, il dimostrar loro sempre la verità, per quanto
spiacevole ed oltraggiosa ella paja.
I mezzi per ottenere
autorità dal tiranno, sono il difenderlo, ma più ancora
dai sudditi che non dai nemici; il laudarlo; il colorirne i difetti;
lo accrescerne l'impero e la forza; l'assicurarne l'illimitato potere
apertamente, s'egli è un tiranno volgare; lo assicurarglielo
sotto apparenza di ben pubblico, s'egli è un accorto tiranno:
e a ogni modo, il tacere a lui sempre, e sovra tutte le altre, questa
importantissima verità: Che sotto l'assoluto governo di un
solo ogni cosa debb'essere indispensabilmente sconvolta e viziosa.
Ed una tal verità è impossibile a dirsi da chi vuol
mantenersi il favor del tiranno; ed è forse impossibile a
pensarsi e sentirsi da chi lo abbia ricercato mai, e ottenuto. Ma,
questa manifesta e divina verità, riesce non meno impossibile
a tacersi da chi vuol veramente il bene di tutti: e impossibile
finalmente riesce a soffrirsi dal tiranno, che vuole, e dee volere,
prima d'ogni altra cosa, il privato utile di se stesso.
Le
corti tutte son dunque per necessità ripienissime di pessima
gente; e, se pure il caso vi ha intruso alcun buono, e che tale
mantenervisi ardisca, e mostrarsi, dee tosto o tardi costui cader
vittima dei tanti altri rei che lo insidiano, lo temono, e lo
abborriscono, perché sono vivamente offesi dalla di lui
insopportabil virtù. Quindi è, che dove un solo è
signore di tutto e di tutti, non può allignare altra
compagnia, se non se scellerata. Di questa verità tutti i
secoli, e tutte le tirannidi, han fatto e faranno indubitabile fede;
e con tutto ciò, in ogni secolo, in ogni tirannide, da tutti i
popoli servi ella è stata e sarà pochissimo creduta, e
meno sentita. Il tiranno, ancorché d'indole buona sia egli,
rende immediatamente cattivi tutti coloro che a lui si avvicinano;
perché la sua sterminata potenza, di cui (benché non ne
abusi) mai non si spoglia, vie maggiormente riempie di timore coloro
che più da presso la osservano: dal più temere nasce il
più simulare; e dal simulare e tacere, l'esser pessimo e
vile.
Ma, dall'ambizione nella tirannide ne ridonda spesso
all'ambizioso un potere illimitato non meno che quello del tiranno; e
tale, che nessuna repubblica mai, a nessuno suo cittadino, né
può né vuole compatirne un sì grande. Perciò
pare ai molti scusabile colui, che essendo nato in servaggio, ardisce
pure proporsi un così alto fine; di farsi più grande
che lo stesso tiranno, all'ombra della di lui imbecillità, o
della di lui non curanza. Risponda ciascuno a questa obiezione, col
domandare a se stesso: "Un'autorità ingiusta, illimitata,
rapita, e precariamente esercitata sotto il nome d'un altro, ottener
si può ella giammai, senza inganno? Può ella
esercitarsi mai, senza nuocere a molti, e per lo meno ai concorrenti
ad essa? Può ella finalmente mai conservarsi,
senza frode crudeltà e prepotenza nessuna?"
Si ambisce
dunque l'autorità nelle repubbliche, perché ella in chi
l'acquista fa fede di molte virtù, e perch'ella presta largo
campo ad accrescersi quell'individuo la propria gloria coll'util di
tutti. Si ambisce nelle tirannidi, perché ella vi somministra
i mezzi di soddisfare alle private passioni; di sterminatamente
arricchire; di vendicare le ingiurie e di farne, senza timor di
vendetta; di beneficare i più infami servigj; e di fare in
somma tremare quei tanti che nacquero eguali, o superiori, a colui
che la esercita. Né si può in verun modo dubitare, che
nella repubblica, e nella tirannide, gli ambiziosi non abbiano questi
fra loro diversi disegni. Già prima di acquistare l'autorità
il repubblicano benissimo sa che non potrà egli sempre
serbarla; che non potrà abusarne, perché dovrà
dar conto di sé rigidissimo ai suoi eguali; e che l'averla
acquistata è una prova che egli era migliore, o più
atto da ciò, che non i competitori suoi. Così, nella
tirannide, non ignora lo schiavo, che quella autorità ch'egli
ambisce, non avrà nessun limite; ch'ella è perciò
odiosissima a tutti; che lo abusarne è necessario per
conservarla; che il ricercarla attesta la pessima indole del
candidato; che l'ottenerla chiaramente dimostra ch'egli era tra i
concorrenti tutti il più reo. Eppure codesti due ambiziosi,
queste cose tutte sapendo già prima, senza punto arrestarsi
corrono entrambi del pari la intrapresa carriera. Ora, chi potrà
pure asserire che l'ambizioso in repubblica non abbia per meta la
gloria più assai che la potenza? e che l'ambizioso nella
tirannide si proponga altra meta, che la potenza, la ricchezza, e la
infamia?
Ma, non tutte le ambizioni, hanno per loro scopo la
suprema autorità. Quindi, nell'uno e nell'altro governo, si
trova poi sempre un infinito numero di semi-ambiziosi, a cui bastano
i semplici onori senza potenza; ed un numero ancor più
infinito di vili, a cui basta il guadagno senza potenza né
onori. E milita anche per costoro, nell'uno e nell'altro governo, la
stessa differenza e ragione. Gli onori nelle repubbliche non si
rapiscono coll'ingannare un solo, ma si ottengono col giovare o
piacere ai più: ed i più non vogliono onorare
quell'uno, se egli non lo merita affatto; perché facendolo,
disonorano pur troppo se stessi. Gli onori nella tirannide (se onori
chiamar pur si possono) vengono distribuiti dall'arbitrio d'un solo;
si accordano alla nobiltà del sangue per lo più; alla
fida e total servitù degli avi; alla perfetta e cieca
obbedienza, cioè all'intera ignoranza di se stesso; al
raggiro; al favore; e alcune volte, al valore contra gli esterni
nemici.
Ma, gli onori tutti (qualunque siano) sempre per
loro natura diversi in codesti diversi governi, sono pur anche, come
ognun vede, per un diverso fine ricercati. Nella tirannide, ciascuno
vuol rappresentare al popolo una anche menoma parte del tiranno.
Quindi un titolo, un nastro, o altra simile inezia, appagano spesso
l'ambizioncella d'uno schiavicello; perché questi onorucci fan
prova, non già ch'egli sia veramente stimabile, ma che il
tiranno lo stima; e perché egli spera, non già che il
popolo l'onori, ma che lo rispetti e lo tema. Nella repubblica,
manifesta e non dubbia cosa è, per qual ragione gli onori si
cerchino; perché veramente onorano chi li riceve.
L'ambizione
d'arricchire, chiamata più propriamente <big> CUPIDIGIA </big> ,
non può aver luogo nelle repubbliche, fin ch'elle corrotte non
sono; e quando anche il siano, i mezzi per arricchirvi essendo
principalmente la guerra, il commercio, e non mai la depredazione
impunita del pubblico erario, ancorché il guadagno sia uno
scopo per se stesso vilissimo, nondimeno per questi due mezzi egli
viene ad essere la ricompensa di due sublimi virtù; il
coraggio, e la fede. L'ambizione d'arricchire è la più
universale nelle tirannidi; e quanto elle sono più ricche ed
estese, tanto più facile a soddisfarsi per vie non legittime
da chiunque vi maneggia danaro del pubblico. Oltre questo, molti
altri mezzi se ne trovano; e altrettanti esser sogliono, quanti sono
i vizj del tiranno, e di chi lo governa.
Lo scopo, che si
propongono gli uomini nello straricchire, è vizioso nell'uno e
nell'altro governo; e più ancora nelle repubbliche che nelle
tirannidi; perché in quelle si cercano le ricchezze eccessive,
o per corrompere i cittadini, o per soverchiar l'uguaglianza; in
queste, per godersele nei vizj e nel lusso. Con tutto ciò, mi
pare pur sempre assai più escusabile l'avidità di
acquistare, in quei governi dove i mezzi ne son men vili, dove
l'acquistato è sicuro, e dove in somma lo scopo (ancorché
più reo) può essere almeno più grande. In vece
che nei governi assoluti, quelle ricchezze che sono il frutto di
mille brighe, di mille iniquità e viltà, e
dell'assoluto capriccio di un solo, possono essere in un momento
ritolte da altre simili brighe, iniquità e viltà, o dal
capriccio stesso che già le dava, o che rapire lasciavale.
Parmi
d'aver parlato di ogni sorta d'ambizione, che allignare possa nella
tirannide. Conchiudo; che questa stessa passione, che è stata
e può essere la vita dei liberi stati, la più esecrabil
peste si fa dei non liberi.
Capitolo
Sesto
DEL PRIMO MINISTRO
Ad
consulatum non nisi per Sejanum aditus:
neque Sejani voluntas nisi
scelere quaerebatur.
E
fra le più atroci calamità pubbliche, cagionate
dall'ambizione nella tirannide, si dee, come atrocissima e massima,
reputar la persona del primo ministro, da me nel precedente capitolo
soltanto accennata, e di cui credo importante ora, e necessarissimo,
il discorrere a lungo.
Questa fatal dignità
altrettanto maggior lustro acquista a chi la possiede, quanto è
maggiore la incapacità del tiranno, che la comparte. Ma
siccome il solo favore di esso la crea; siccome, ad un tiranno
incapace non è da presumersi che possa piacere pur mai un
ministro illuminato e capace; ne risulta per lo più, che
costui non meno inetto al governare che lo stesso tiranno, gli
rassomiglia interamente nella impossibilità del ben fare, e di
gran lunga lo supera nella capacità desiderio e necessità
del far male. I tiranni d'Europa cedono a codesti loro primi ministri
l'usufrutto di tutti i loro diritti; ma niuno ne vien loro accordato
dai sudditi con maggiore estensione e in più supremo grado,
che il giusto abborrimento di tutti. E questo abborrimento sta nella
natura dell'uomo, che male può comportare, che altri, nato suo
eguale, rapisca ed eserciti quella autorità caduta in sorte a
chi egli crede nato suo maggiore: autorità, che per altre
illegittime mani passando, viene a duplicare per lo meno la sua
propria gravezza.
Ma questo primo ministro, dal sapersi
sommamente abborrito, ne viene egli pure ad abborrire altrui
sommamente; ond'egli gastiga, e perseguita, e opprime, ed annichila
chiunque l'ha offeso; chiunque può offenderlo; chiunque ne ha,
o glie ne viene imputato, il pensiero; e chiunque finalmente, non ha
la sorte di andargli a genio. Il primo ministro perciò
facilmente persuade poi a quel tiranno di legno, di cui ha saputo
farsi l'anima egli, che tutte le violenze e crudeltà ch'egli
adopera per assicurare se stesso, necessarie siano per assicurare il
tiranno. Accade alle volte, che, o per capriccio, o per debolezza, o
per timore, il tiranno ritoglie ad un tratto il favore e l'autorità
al ministro; lo esiglia dalla sua presenza; e gli lascia, per
singolare benignità, le predate ricchezze e la vita. Ma questa
mutazione non è altro, che un aggravio novello al misero
soggiogato popolo. Il che facilmente dimostrasi. Il ministro
anteriore, benché convinto di mille rapine, di mille inganni,
di mille ingiustizie, non discade tuttavia quasi mai dalla sua
dignità, se non in quel punto, ove un altro più accorto
di lui gli ha saputo far perdere il favor del tiranno. Ma, comunque
egli giunga, ei giunge pure in somma quel giorno, in cui al ministro
è ritolta l'autorità e il favore. Allora bisogna, che
lo stato si prepari a sopportare il ministro successore, il quale dee
pur sempre essere di alcun poco più reo del predecessore; ma,
volendosi egli far credere migliore, innova e sovverte ogni cosa
stabilita dall'altro, ed in tutto se gli vuole mostrare dissimile.
Eppure costui vuole, e dee volere (come il predecessore) ed
arricchirsi, e mantenersi in carica, e vendicarsi, e ingannare, ed
opprimere, ed atterrire. Ogni mutazione dunque nella tirannide, così
di tiranno, che di ministro, altro non è ad un popolo
infelicemente servo, che come il mutare fasciatura e chirurgo ad una
immensa piaga insanabile, che ne rinnuova il fetore e gli spasimi.
Ma,
che il ministro successore debba esser poi di alcun poco più
reo dell'antecessore, colla stessa facilità si dimostra. Per
soverchiare un uomo cattivo accorto e potente, egli è pur
d'uopo vincerlo in cattività e accortezza. Un ministro di
tiranno per lo più non precipita, senza che alcuno di quelli
che direttamente o indirettamente erano autori della sua rovina, a
lui non sottentri. Ora, come seppe egli costui atterrare quei tanti
ripari, che avea fatti quel primo per assicurarsi nel seggio suo?
certamente, non per fortuna lo vinse, ma per arte maggiore. Domando:
"Se nelle corti una maggior arte possa supporre minori vizj in
chi la possiede e felicemente la esercita".
La
non-ferocia dei moderni tiranni, che in essi non è altro che
il prodotto della non-ferocia dei moderni popoli, non comporta che
agli ex-ministri venga tolta la vita, e neppure le ricchezze,
ancorch'elle siano per lo più il frutto delle loro iniquità
e rapine: né soffrono costoro alcun altro gastigo, che quello
di vedersi lo scherno e l'obbrobrio di tutti, e massime di quei vili
che maggiormente sotto essi tremavano. Alcuni di questi vicetiranni
smessi, hanno la sfacciataggine di far pompa di animo tranquillo
nella loro avversa fortuna; e ardiscono stoltamente arrogarsi il nome
di filosofi disingannati. E costoro fanno ridere davvero gli uomini
savj, che ben sapendo cosa sia un filosofo, chiaramente veggono
ch'egli non è, né può essere mai stato, un
vicetiranno.
Ma perderei le parole, il tempo, e la maestà
da un così alto tema richiesta, se dimostrar io volessi che un
ente cotanto vile ed iniquo non può né essere stato
mai, né divenire, un filosofo. Proverò bensì,
(come cosa assai più importante) che un primo ministro del
tiranno non è mai, né può essere, un uomo buono
ed onesto: intendendo io da prima per politica onestà e vera
essenza dell'uomo, quella per cui la persona pubblica antepone il
bene di tutti al bene d'un solo, e la verità ad ogni cosa. E,
nell'avere io definita la politica onestà, parmi di aver
largamente provato il mio assunto. Se il tiranno stesso non vuole, e
non può volere, il vero ed intero ben pubblico, il quale
sarebbe immediatamente la distruzione della sua propria potenza, è
egli credibile che lo potrà mai volere, ed operare, colui che
precariamente lo rappresenta? colui, che un capriccio ed un cenno
aveano quasi collocato sul trono, e che un capriccio ed un cenno ne
lo precipitano?
Che il ministro poi non può essere
privatamente uomo onesto, intendendo per privata onestà la
costumatezza e la fede, si potrebbe pur anche ampiamente provare, e
con ragioni invincibili: ma i ministri stessi, colle loro opere,
tutto dì ce lo provano assai meglio che nessuno scrittore
provarlo potrebbe con le parole. Si osservi soltanto, che non esiste
ministro nessuno che voglia perder la carica; che niuna carica è
più invidiata della sua; che niun uomo ha più nemici di
lui, né più calunnie, o vere accuse, da combattere:
ora, se la virtù per se stessa possa in un governo niente
virtuoso resistere con una forza non sua al vizio, al raggiro, e
all'invidia, ne lascio giudice ognuno.
Dalla potenza
illimitata del tiranno trasferita nel di lui ministro, si viene a
produrre la prepotenza; cioè l'abuso di un potere abusivo già
per se stesso. Crescono la potenza e l'abuso ogniqualvolta vengono
innestati nella persona di un suddito, perché questo tiranno
elettivo e casuale si trova costretto a difendere con quella potenza
il tiranno ereditario e se stesso. Una persona di più da
difendersi, richiede necessariamente più mezzi di difesa; e
un'autorità più illegittima, richiede mezzi più
illegittimi. Perciò la creazione, o l'intrusione di questo
personaggio nella tirannide, si dee senza dubbio riputare come la più
sublime perfezione di ogni arbitraria potestà.
Ed
eccone in uno scorcio la prova. Il tiranno, che non si è mai
creduto né visto nessun eguale, odia per innato timore
l'universale dei sudditi suoi; ma non ne avendo egli mai ricevuto
ingiurie private, gl'individui non odia. La spada sta dunque, fin
ch'egli stesso la tiene, in mano di un uomo, che per non essere stato
offeso, non sa cui ferire. Ma, tosto ch'egli cede questo prezioso e
terribile simbolo dell'autorità ad un suddito, che si è
veduto degli eguali, e dei superiori; ad uno, che, per essere
sommamente iniquo ed odioso, dee sommamente essere odiato dai molti e
dai più; chi ardirà mai credere allora, o asserire, o
sperare che costui non ferisca?
Capitolo
Settimo
DELLA MILIZIA
Ma,
o regni il tiranno stesso, o regni il ministro, a ogni modo sempre i
difensori delle loro inique persone, gli esecutori ciechi e crudeli
delle loro assolute volontà, sono i mercenarj soldati. Di
questi ve ne ha nei moderni tempi di più specie; ma tutte però
ad un medesimo fine destinate.
In alcuni paesi d'Europa si
arruolano gli uomini per forza; in altri, con minor violenza, e
maggior obbrobrio per quei popoli, si offrono essi spontaneamente di
perdere la lor libertà, o (per meglio dire) ciò che
essi stoltamente chiamano di tal nome. Costoro s'inducono a questo
traffico di se stessi, spinti per lo più dalla lor
dappocaggine e vizj, e lusingati dalla speranza di soverchiare ed
opprimere i loro eguali. Molti tiranni usano anche d'avere al lor
soldo alcune milizie straniere, nelle quali maggiormente si affidano.
E, per una strana contraddizione, che molto disonora gli uomini, gli
Svizzeri, che sono il popolo quasi il più libero dell'Europa,
si lasciano prescegliere e comprare, per servir di custodi alla
persona di quasi tutti i tiranni di essa.
Ma, o straniere
siano o nazionali, o volontarie o sforzate, le milizie a ogni modo
son sempre il braccio, la molla, la base, la ragione sola, e
migliore, delle tirannidi e dei tiranni. Un tiranno di nuova
invenzione cominciò in questo secolo a stabilire e mantenere
un esercito intero e perpetuo in armi. Costui, nel volere un
esercito, allorché non avea nemici al di fuori, ampiamente
provò quella già nota asserzione; che il tiranno ha
sempre in casa i nemici.
Non era però cosa nuova,
che i tiranni avessero per nemici i loro sudditi tutti; e non era
nuovo neppure, che senza aver essi quei tanto formidabili eserciti,
sforzassero nondimeno i lor sudditi ad obbedire e tremare. Ma, tra
l'idea che si ha delle cose, e le cose stesse, di mezzo vi entrano i
sensi; ed i sensi, nell'uomo, son tutto. Quel tiranno che nei secoli
addietro se ne stava disarmato, se gli sopravveniva allora il
capriccio o il bisogno di aggravare oltre l'usato i suoi sudditi,
soleva per lo più astenersene; perché mormorandone essi
o resistendogli, pensava che gli sarebbe necessario di armarsi per
fargli obbedire e tacere. Ma ai tempi nostri, quell'autorità e
forza, che il padre o l'avo del presente tiranno sapeano bensì
d'avere, ma non se la vedeano sempre sotto gli occhi; quell'autorità
e forza viene ora ampiamente dimostrata al regnante da quelle tante
sue schiere, che non solo lo assicurano dalle offese dei sudditi, ma
che ad offenderli nuovamente lo invitano. Onde, fra l'idea del potere
nei passati tiranni, e la effettiva realità del potere nei
presenti, corre per l'appunto la stessa differenza, che passa tra la
possibilità ideale d'una cosa, e la palpabile esecuzione di
essa.
La moderna milizia, colla sua perpetuità, annulla
nelle moderne tirannidi l'apparenza stessa del viver civile; di
libertà seppellisce il nome perfino; e l'uomo invilisce a tal
segno, che cose politicamente virtuose, giuste, giovevoli, ed alte,
non può egli né fare, né dire, né
ascoltar, né pensare. Da questa infame moltitudine di oziosi
soldati, vili nell'obbedire, insolenti e feroci nell'eseguire, e
sempre più intrepidi contro alla patria che contro ai nemici,
nasce il mortale abuso dell'esservi uno stato di più nello
stato; cioè un corpo permanente e terribile, che ha opinioni
ed interessi diversi e in tutto contrarj a quelli del pubblico; e un
corpo, che per la sua illegittima e viziosa istituzione, porta in se
stesso la impossibilità dimostrata di ogni civile ben vivere.
L'interesse di tutti o dei più, fra i popoli di ogni qualunque
governo, si è di non essere oppressi, o il meno che il
possono: nella tirannide i soldati, che non debbono aver mai
interesse diverso da quello del tiranno che li pasce e che la loro
superba pigrizia vezzeggia; i soldati, hanno necessariamente
interesse di opprimere i popoli quanto più il possono; poiché
quanto più opprimono, tanto più considerati sono essi,
e necessarj, e temuti.
Non accade nella tirannide, come
nelle vere repubbliche, che le interne dissensioni vengano ad esservi
una parte di vita; e che, saggiamente mantenutevi ed adoprate, vi
accrescano libertà. Ogni diversità di interesse nella
tirannide, accresce al contrario la pubblica infelicità, e la
universal servitù: e quindi bisogna che il debole per così
dire si annichili, e che il forte si insuperbisca oltre ogni misura.
Nella tirannide perciò le soldatesche son tutto, ed i popoli
nulla.
Questi prepotenti, o siano volontariamente o
sforzatamente arruolati, sogliono essere, quanto ai costumi, la più
vile feccia della feccia della plebe: e sì gli uni che gli
altri, appena hanno investita la livrea della loro duplicata servitù,
fattisi orgogliosi, come se fossero meno schiavi che i loro
consimili; spogliatisi del nome di contadini di cui erano indegni,
sprezzano i loro eguali, e li reputano assai da meno di loro. E in
fatti, i veri contadini coltivatori nella tirannide si dichiarano
assai minori dei contadini soldati, poiché sopportano essi
questa genia militante, che ardisce disprezzargli, insultargli,
spogliargli, ed opprimerli. E a questa sì fatta genia
potrebbero lievemente resistere i popoli, se volessero pure conoscere
un solo istante la loro forza, poiché si troverebbero tuttavia
mille contr'uno.
E se tanta pur fosse la viltà degli
oppressi, che colla forza aperta non ardissero affrontare questi loro
oppressori, potrebbero anche facilmente con arte e doni corrompergli
e comprarli; che quel loro valore sta per chi meglio lo paga. Ma da
un sì fatto mezzo ne ridonderebbero in appresso più
mali; tra cui non è il menomo, il ritrovarsi poscia fra il
popolo una sì gran moltitudine d'enti, che soldati non
potrebbero esser più, e che cittadini (ove anco il volessero)
divenir non saprebbero.
Vero è, che il popolo li
teme e quindi gli odia; ma non gli odia pur mai quanto egli
abborrisce il tiranno, e non quanto costoro sel meritano. Questa non
è una delle più leggiere prove, che il popolo nella
tirannide non ragiona, e non pensa: che se egli osservasse, che senza
codesti soldati non potrebbe oramai più sussistere tiranno
nessuno, gli abborrirebbe assai più; e da quest'odio estremo
perverrebbe il popolo assai più presto allo spegnere affatto
cotali soldati.
E non paja contraddizione il dire; che senza
soldati non sussisterebbe il tiranno, dopo aver detto di sopra, che
non sempre i tiranni hanno avuto eserciti perpetui. Coll'accrescere i
mezzi di usare la forza, hanno i tiranni accresciuta la violenza in
tal modo, che se ora quei mezzi scemassero, verrebbe di tanto a
scemare nei popoli il timore, che si distruggerebbe forse la
tirannide affatto. Perciò quegli eserciti, che non erano
necessarj prima che si oltrepassassero certi limiti, e prima che il
popolo fosse intimorito e rattenuto da una forza effettiva e
palpabile, vengono ad essere necessarissimi dopo: perché
natura dell'uomo è, che chiunque per molti anni ha avuto
davanti agli occhi e ceduto ad una forza effettiva, non si lasci più
intimorire da una forza ideale. Quindi, nel presente stato delle
tirannidi europee, al cessare dei perpetui eserciti, immantinente
cesseran le tirannidi.
Il popolo non può dunque mai
con verisimiglianza sperare di vedersi diminuito o tolto questo
continuo aggravio ed obbrobrio, dello stipendiare egli stesso i suoi
proprj carnefici, tratti dalle sue proprie viscere, e così
tosto immemori affatto dei loro più sacri e naturali legami.
Ma il popolo ha pur sempre, non la speranza soltanto, ma la piena e
dimostrata certezza di torsi egli stesso questo aggravio ed
obbrobrio, ogniqualvolta egli veramente volendolo non chiederà
ad altrui ciò che sta soltanto in sua mano di prendersi.
Ogni
tiranno europeo assolda quanti più può di questi
satelliti, e più assai che non può; egli se ne
compiace, se ne trastulla, e ne va oltre modo superbo. Sono costoro
il vero e primo giojello delle loro corone: e, mantenuti a stento dai
sudori e digiuni del popolo, preparati son sempre a beverne il
sangue, ad ogni minimo cenno del tiranno. Si accorda, in ragione del
numero dei loro soldati, un diverso grado di considerazione ai
diversi tiranni. E siccome non possono essi diminuire i satelliti
loro senza che scemi l'opinione che si ha della loro potenza; e
siccome una persona abborrita, ove ella mai cessi di essere temuta,
apertamente si dileggia da prima, e tosto poscia si spegne; egli è
da credersi, che i tiranni non aspetteranno mai questo manifesto
disprezzo precursore infallibile della loro intera rovina, e che
sempre dissangueranno il popolo per mantenere coi molti soldati se
stessi.
I tiranni, padroni pur anche per alcun tempo
dell'opinione, hanno tentato di persuadere in Europa, ed hanno
effettivamente persuaso ai più stupidi fra i loro sudditi,
così plebei come nobili, che ella sia onorevole cosa la loro
milizia. E col portarne essi stessi la livrea, coll'impostura di
passare essi stessi per tutti i gradi di quella, coll'accordarle
molte prerogative insultanti ed ingiuste sopra tutte le altre classi
dello stato, e massime sopra i magistrati tutti, hanno con ciò
offuscato gl'intelletti, ed invogliato gli stoltissimi sudditi di
questo mestiere esecrabile.
Ma una sola osservazione basta a
distruggere questa loro scurrile impostura. O tu reputi i soldati
come gli esecutori della tirannica volontà al di dentro; e
allora può ella mai parerti onorevol cosa lo esercitare contra
il padre, i fratelli, i congiunti, e gli amici, una forza illimitata
ed ingiusta? O tu li reputi come i difensori della patria; cioè
di quel luogo dove per tua sventura sei nato; dove per forza rimani;
dove non hai né libertà, né sicurezza, né
proprietà nessuna inviolabile; e allora, onorevol cosa ti può
ella parere il difendere codesto tuo sì fatto paese, e il
tiranno che continuamente lo distrugge ed opprime quanto e assai più,
che nol farebbe il nemico? e l'impedire in somma un altro tiranno di
liberarti dal tuo? Che ti può egli togliere oramai quel
secondo, che non ti sia stato già tolto dal primo? Anzi, potrà
il nuovo tiranno, per necessaria accortezza, trattarti da principio
molto più umanamente che il vecchio.
Conchiudo
adunque; Che, non si potendo dir patria là dove non ci è
libertà e sicurezza, il portar l'armi dove non ci è
patria riesce pur sempre il più infame di tutti i mestieri:
poiché altro non è, se non vendere a vilissimo prezzo
la propria volontà, e gli amici, e i parenti, e il proprio
interesse, e la vita, e l'onore, per una causa obbrobriosa ed
ingiusta.
Capitolo Ottavo
DELLA RELIGIONE
Quella
qualunque opinione che l'uomo si è fatta o lasciata fare da
altri, circa alle cose che egli non intende, come sarebbero l'anima e
la divinità; quell'opinione suol essere anch'essa per lo più
uno dei saldissimi sostegni della tirannide. L'idea che dal volgo si
ha del tiranno viene talmente a rassomigliarsi alla idea da quasi
tutti i popoli falsamente concepita di un Dio, che se ne potrebbe
indurre, il primo tiranno non essere stato (come supporre si suole)
il più forte, ma bensì il più astuto conoscitore
del cuore degli uomini; e quindi il primo a dar loro una idea, qual
ch'ella si fosse, della divinità. Perciò, fra
moltissimi popoli, dalla tirannide religiosa veniva creata la
tirannide civile; spesso si sono entrambe riunite in un ente solo; e
quasi sempre si sono l'una l'altra ajutate.
La religion
pagana, col suo moltiplicare sterminatamente gli Dei; e col fare del
cielo una quasi repubblica, e sottomettere Giove stesso alle leggi
del fato, e ad altri usi e privilegj della corte celeste; dovea
essere, e fu in fatti, assai favorevole al viver libero. La giudaica,
e quindi la cristiana e maomettana, coll'ammettere un solo Dio,
assoluto e terribile signor d'ogni cosa, doveano essere, e sono
state, e sono tuttavia assai più favorevoli alla
tirannide.
Queste cose tutte, già dette da altri, tralascio
come non mie; e proseguendo il mio tema, che della moderna tirannide
in Europa principalissimamente tratta, non esaminerò tra le
diverse religioni se non se la nostra, ed in quanto ella influisce su
le nostre tirannidi.
La cristiana religione, che è quella
di quasi tutta la Europa, non è per se stessa favorevole al
viver libero: ma la cattolica religione riesce incompatibile quasi
col viver libero.
A voler provare la prima di queste proposizioni,
basterà, credo, il dimostrare che essa in nessun modo non
induce, né persuade, né esorta gli uomini al viver
liberi. Ed il primo, e principale incitamento ad un effetto così
importante, dovrebbero pur gli uomini riceverlo dalla lor religione;
poiché non vi è cosa che più li signoreggi; che
maggiormente imprima in essi questa o quella opinione; e che
maggiormente gli infiammi all'eseguire alte imprese. Ed in fatti,
nella pagana antichità, i Giovi, gli Apollini, le Sibille, gli
Oracoli, a gara tutti comandavano ai diversi popoli e l'amor della
patria e la libertà. Ma la religion cristiana, nata in un
popolo non libero, non guerriero, non illuminato, e già
intieramente soggiogato dai sacerdoti, non comanda se non la cieca
obbedienza; non nomina né pure mai libertà; ed il
tiranno (o sacerdote o laico sia egli), interamente assimila a
Dio.
Se si esamina in qual modo ella si propagasse, si vedrà
che sempre si procacciò più facilmente l'ingresso nelle
tirannidi, che nelle repubbliche. Al cadere dell'imperio romano, (in
cui ella non poté trovar seggio, se non quando la militare
tirannide v'ebbe intieramente annullato ogni vivere civile) quelle
tante nazioni barbare che l'occuparono, stabilite poi nella Italia,
nelle Gallie, nelle Spagne, e nell'Africa, sotto i loro diversi
condottieri abbracciarono indi a non molto la religion cristiana. E
la ragione mi par ne sia questa. Quei loro condottieri volendo
rimanere tiranni; e quei lor popoli, avvezzi ad esser liberi quando
non erano in guerra, non volendo obbedire se non come soldati a
capitano, e non mai come schiavi a tiranno; in questa disparità
di umori frapponendosi il cristianesimo, egli vi appariva
introduttore di una certa via di mezzo, per cui si andava persuadendo
ai popoli l'obbedire, e ai capitani fatti tiranni si veniva
assicurando l'imperio; ove questi una parte della loro autorità
divider volessero coi sacerdoti. In prova di che, si osservi
quell'altra parte di quelle stesse nazioni boreali rimastasi povera,
semplice, e libera nelle natie sue selve, essere poi stata l'ultimo
popolo d'Europa che ricevesse, più assai per violenza che per
via di persuasione, la religion cristiana.
Le poche nazioni che
fuori d'Europa la ricevettero, vi furono per lo più indotte
dal timore e dalla forza, come le diverse piagge di America e
d'Affrica; ma dallo stesso ferocissimo fanatismo con cui veniva
abbracciata nella Cina, e più nel Giappone, si può
manifestamente dedurre quanto ella volentieri si alligni, e prosperi,
nelle tirannidi.
I troppi abusi di essa sforzarono col tempo
alcuni popoli assai più savj che imaginosi, a raffrenarla,
spogliandola di molte dannose superstizioni. E costoro, distinti poi
col nome di eretici, si riaprirono con tal mezzo una strada alla
libertà, la quale fra essi rinacque dopo essere stata
lungamente sbandita d'Europa, e bastantemente vi prosperò;
come gli Svizzeri, la Olanda, molte città di Germania, la
Inghilterra, e la nuova America, ce lo provano. Ma i popoli, che, non
la frenando, vollero conservarla intera, (non però mai quale
era stata predicata da Cristo, ma quale con arte, con inganno, ed
anche con la violenza l'aveano i suoi successori trasfigurata) si
chiusero essi sempre più ogni strada al riprocrear libertà.
Addurrò ora, non tutte, ma le principali ragioni, per cui mi
pare quasi impossibile che uno stato cattolico possa o farsi libero
veramente, o rimaner tale, rimanendo cattolico.
Il culto delle
immagini, la presenza effettiva nella eucaristia, ed altri punti
dogmatici, non saranno per certo mai quelli, che, creduti o no,
verranno ad influire sopra il viver libero politico. Ma, IL PAPA, ma,
LA INQUISIZIONE, IL PURGATORIO, LA CONFESSIONE, IL MATRIMONIO FATTOSI
INDISSOLUBILE SACRAMENTO e IL CELIBATO DEI RELIGIOSI; sono queste le
sei anella della sacra catena, che veramente a tal segno rassodano la
profana, che ella di tanto ne diventa più grave ed
infrangibile. E, dalla prima di queste sei cose incominciando, dico:
Che un popolo, che crede potervi esser un uomo, che rappresenti
immediatamente Dio; un uomo, che non possa errar mai; egli è
certamente un popolo stupido. Ma se, non lo credendo, egli viene per
ciò tormentato, sforzato, e perseguitato da una forza
superiore effettiva, ne accaderà che quella prima generazione
d'uomini crederà nel papa, per timore; i figli, per abitudine;
i nepoti, per stupidità. Ecco in qual guisa un popolo che
rimane cattolico, dee necessariamente, per via del papa e della
inquisizione, divenire ignorantissimo, servissimo, e
stupidissimo.
Ma, mi dirà taluno: "Gli eretici credono
pure nella trinità; e questa al senso umano pare una cosa
certamente ancora più assurda che le sopraccennate: non sono
dunque gli eretici meno stupidi dei cattolici". Rispondo; che
anche i Romani credevano nel volo e nel beccar degli augelli, cosa
assai più puerile ed assurda; eppure erano liberi e grandi; e
non divennero stupidi e vili, se non quando, spogliati della lor
libertà, credettero nella infame divinità di Cesare, di
Augusto, e degli altri lor simili e peggiori tiranni. Quindi, la
trinità nostra, per non essere cosa soggetta ai sensi, si
creda ella o no, non può influire mai sopra il viver politico:
ma, l'autorità più o meno di un uomo; l'autorità
illimitata sopra le più importanti cose, e velata dal sacro
ammanto della religione, importa e molte, e notabili conseguenze;
tali in somma, che ogni popolo che crede od ammette una tale
autorità, si rende schiavo per sempre.
Lo ammetterla senza
crederla, che è il caso nostro presente in quasi tutta
l'Europa cattolica, mi pare una di quelle umane contraddizioni sì
stranamente ripugnanti alla sana ragione, ch'elle non possono essere
gran fatto durevoli; e quindi non occorre maggiormente parlarne. Ma i
popoli che l'autorità del papa ammettono perché la
credono, come erano i nostri avi, ed alcune presenti nazioni,
necessariamente la credono o per timore, o per ignoranza e stupidità.
Se per queste ultime ragioni la credono, chiaro è che una
nazione stupida ed ignorante affatto, non può, nel presente
stato delle cose, esser libera: ma, se per timore la credono i
popoli, da chi vien egli in loro inspirato codesto timore? non dalle
papali scomuniche certamente, poiché in esse non hanno fede
costoro; dalle armi dunque e dalla forza spaventati saranno, ed
indotti a finger di credere. E da quali armi mai? da qual vera forza?
dalle armi e forza del tiranno, che politicamente e religiosamente
gli opprime. Dunque, dovendo i popoli temere l'armi di chi li
governa, in una cosa che dovrebbe essere ad arbitrio di ciascuno il
crederla o no, ne risulta che chi governa tai popoli, di necessità
è tiranno; e che essi, attesa questa loro sforzata credenza,
non sono, né possono farsi mai liberi. Ed in fatti, né
Atene, né Sparta, né Roma, né altre vere ed
illuminate repubbliche, non isforzarono mai i lor popoli a credere
nella infallibilità degli oracoli; né, molto meno, a
rendersi tributarj e ciecamente obbedienti a niuno lontano
sacerdozio.
LA INQUISIZIONE, quel tribunale sì iniquo di
cui basta il nome per far raccapricciare d'orrore, sussiste pur
tuttavia più o meno potente in quasi tutti i paesi cattolici.
Il tiranno se ne prevale a piacer suo; ed allarga, o ristringe la
inquisitoria autorità, secondo che meglio a lui giova. Ma,
questa autorità dei preti e dei frati (vale a dire, della
classe la più crudele, la più sciolta da ogni legame
sociale, ma la più codarda ad un tempo) quale influenza
avrebbe ella per se stessa, qual terrore potrebbe ella infondere nei
popoli, se il tiranno non la assistesse e munisse colla propria sua
forza effettiva? Ora, una forza che sostiene un tribunale ingiusto e
tirannico, non è certamente né giusta né
legittima: dove alligna l'Inquisizione, alligna indubitabilmente la
tirannia; dove ci è cattolicismo, vi è o vi può
essere ad ogni istante l'Inquisizione: non si può dunque
essere a un tempo stesso un popolo cattolico veramente, e un popolo
libero.
Ma, che dirò io poi della CONFESSIONE? Tralascio il
dirne ciò che a tutti è ben noto; che la certezza del
perdono di ogni qualunque iniquità col solo confessarla,
riesce assai più di sprone che di freno ai delitti; e tante
altre cose tralascio, che dall'uso, o abuso di un tal sacramento
manifestamente ogni giorno derivano. Io mi ristringo a dire soltanto;
che un popolo che confessa le sue opere, parole, e pensieri ad un
uomo, credendo di rivelarli per un tal mezzo a Dio; un popolo, che
fra gli altri peccati suoi è costretto a confessare come uno
dei maggiori, ogni menomo desiderio di scuotere l'ingiusto giogo
della tirannide, e di porsi nella naturale ma discreta libertà;
un tal popolo non può esser libero, né merita
d'esserlo.
La dottrina del PURGATORIO, cagione ad un tempo ed
effetto della confessione, contribuisce non poco altresì ad
invilire, impoverire, e quindi a rendere schiavi i cattolici popoli.
Per redimere da codesta pena i loro padri ed avi, colla speranza di
esserne poi redenti dai loro figli e nipoti, danno costoro ai preti
non solamente il loro superfluo, ma anche talvolta il lor necessario.
Quindi la sterminata ricchezza dei preti; e dalla loro ricchezza, la
lor connivenza col tiranno; e da questa doppia congiura, la doppia
universal servitù. Onde, di povero che suol essere in ogni
qualunque governo il popolo, fatto poverissimo per questo mezzo di
più nella tirannide cattolica, egli vi dee rimanere in tal
modo avvilito, che non penserà né ardirà mai
tentare di farsi libero. I sacerdoti all'incontro, di poveri (benché
non mendici) che esser dovrebbero, fatti per mezzo di codesto lor
purgatorio ricchissimi, e quindi moltiplicati e superbi, sono sempre
in ogni governo inclinati, anzi sforzati da queste loro illegittime
sterminate ricchezze, a collegarsi con gli oppressori del popolo, e a
divenire essi stessi oppressori per conservarle.
Dalla
indissolubilità del MATRIMONIO FATTOSI SACRAMENTO, ne
risultano palpabilmente quei tanti politici mali, che ogni giorno
vediamo nelle nostre tirannidi: cattivi mariti, peggiori mogli, non
buoni padri, e pessimi figli: e ciò tutto, perché
quella sforzata indissolubilità non ristringe i legami
domestici; ma bensì, col perpetuarli senza addolcirli,
interamente li corrompe e dissolve.
E finalmente poi, siccome
dall'essere i popoli cattolici sforzatamente perpetui conjugi, non
sogliono esser essi fra loro né mariti veri, né mogli,
né padri; così, dall'essere i preti cattolici
sforzatamente PERPETUI CELIBI, non sogliono mostrarsi né
fratelli, né figli, né cittadini; che per conoscere e
praticare virtuosamente questi tre stati, troppo importa il conoscere
per esperienza l'appassionatissimo umano stato di padre e marito.
Da
queste fin qui addotte ragioni, mi pare che ne risulti chiaramente
(oltre la maggior ragione di tutte, che sono i fatti) che un popolo
cattolico già soggiogato dalla tirannide, difficilissimamente
può farsi libero, e rimanersi veramente cattolico. E per
addurne un solo esempio, che troppi addurne potrei, nella ribellione
delle Fiandre, quelle provincie povere, che non avendo impinguati i
lor preti si erano potute far eretiche, rimasero libere; le grasse e
ridondanti di frati, di abati, e di vescovi, rimasero cattoliche e
serve. Vediamo ora, se un popolo che già si ritrovi libero e
cattolico, si possa lungamente mantener l'uno e l'altro.
Che un
popolo soggiogato da tanti e sì fatti politici errori, quanti
ne importa il viver cattolico, possa essere politicamente libero,
ella è cosa certamente molto difficile: ma, dove pure ei lo
fosse, io credo che il conservarsi tale, sia cosa impossibile. Un
popolo, che crede nella infallibile e illimitata autorità del
papa, è già interamente disposto a credere in un
tiranno, che con maggiori forze effettive e avvalorate dal suffragio
e scomuniche di quel papa istesso, lo persuaderà, o sforzerà
ad obbedire a lui solo nelle cose politiche, come già
obbedisce al solo papa nelle religiose. Un popolo, che trema della
Inquisizione, quanto più non dovrà egli tremare di
quell'armi stesse che la Inquisizione avvalorano? Un popolo, che si
confessa di cuore, può egli non essere sempre schiavo di chi
può assolverlo o no? Dico di più; che dal ceto stesso
dei sacerdoti, (ove un laico tiranno non vi fosse) ne insorgerebbe
uno religioso ben tosto; o se da altra parte insorgesse un tiranno,
lo approverebbero e seconderebbero i sacerdoti, sperandone il
contraccambio da lui. Ed è cosa anche provata dai fatti; si
veda perfino nelle semi-repubbliche italiane, i sacerdoti esservi
saliti assai meno in ricchezza e in potenza, che nelle tirannidi
espresse di un solo. Un popolo finalmente, che si spropria dell'aver
suo, togliendolo a se stesso, a' suoi congiunti, e ai proprj suoi
figli, per darlo ai sacerdoti celibi, diventerà coll'andar del
tempo indubitabilmente così bisognoso e mendico, che egli sarà
preda di chiunque lo vorrà conquistare, o far servo.
Non so
se al sacerdozio si debba la prima invenzione del trattare come cosa
sacrosanta il politico impero, o se l'impero abbia ciò
inventato in favore del sacerdozio. Questa reciproca e simulata
idolatria, è certamente molto vetusta; e vediamo nell'antico
testamento a vicenda sempre i re chiamar sacri i sacerdoti, e i
sacerdoti i re; ma da nessuno mai dei due udiamo chiamare, o reputare
mai sacri, gl'incontestabili naturali diritti di tutte le umane
società. Il vero si è, che quasi tutti i popoli della
terra sono stati, e sono (e saranno sempre, pur troppo!) tolti in
mezzo da queste due classi di uomini, che sempre fra loro si sono
andate vicendevolmente conoscendo inique, e che con tutto ciò
si sono reciprocamente chiamate sacre: due classi, che dai popoli
sono state spesso abborrite, alcuna volta svelate, e sempre pure
adorate.
È il vero altresì, che in questo nostro
secolo i presenti cattolici poco credono nel papa; che pochissimo
potere ha la inquisizion religiosa; che si confessano soltanto
gl'idioti; che non si comprano oramai le indulgenze, se non dai ladri
religiosi e volgari: ma, al papa, alla Inquisizione, alla
confessione, e all'elemosine purgatoriali, in questo secolo, fra i
presenti cattolici, ampiamente supplisce la sola MILIZIA; e mi
spiego. Il tiranno ottiene ora dal terrore che a tutti inspirano i
suoi tanti e perpetui soldati, quello stesso effetto che egli per
l'addietro otteneva dalla superstizione, e dalla totale ignoranza dei
popoli. Poco gl'importa oramai che in Dio non si creda; basta al
tiranno, che in lui solo si creda; e di questa nostra credenza, molto
più vile e assai meno consolatoria per noi, glie n'entrano
mallevadori continui gli eserciti suoi.
Vi sono nondimeno in
Europa alcuni tiranni, che volendo con ipocrisia mascherare tutte
l'opere loro, pigliano a sostenere le parti della religione, per
farsi pii reputare, e per piacere al maggior numero che pur tuttora
la rispetta, e la crede. Ogni savio tiranno, ed accorto, così
dee pure operare; sia per non privarsi con una inutile incredulità
di un così prezioso ramo dell'autorità assoluta, quale
è l'ira dei preti amministrata da lui, e viceversa, la sua,
amministrata da essi; sia perché usando altrimenti, potrebbe
egli avvenirsi in un qualche fanatico di religione, il quale facesse
le veci di un fanatico di libertà: e quelli sono e men rari e
più assai incalzanti, che questi. E perché mai sono
quelli men rari? attribuir ciò si dee all'essere il nome di
religione in bocca di tutti; e in bocca di pochissimi, e in cuore
quasi a nessuno, il nome di libertà.
Il più sublime
dunque ed il più utile fanatismo, da cui veramente ne
ridonderebbero degli uomini maggiori di quanti ve ne siano stati
giammai, sarebbe pur quello, che creasse e propagasse una religione
ed un Dio, che sotto gravissime pene presenti e future comandassero
agli uomini di esser liberi. Ma, coloro che inspiravano il fanatismo
negli altri, non erano per lo più mai fanatici essi stessi; e
pur troppo a loro giovava d'inspirarlo per una religione ed un Dio,
che agli uomini severamente comandassero di essere servi.
Capitolo
Nono
DELLE
TIRANNIDI ANTICHE, PARAGONATE COLLE MODERNE
Le
cagioni stesse hanno certamente in ogni tempo e luogo, con
piccolissime differenze, prodotto gli stessi effetti. Tutti i popoli
corrottissimi hanno soggiaciuto ai tiranni, fra' quali ve ne sono
stati dei pessimi, dei cattivi, dei mezzani, e perfino anco dei
buoni. Nei moderni tempi i Caligoli, i Neroni, i Dionigi, i Falaridi,
ecc., rarissimi sono: e se anche vi nascono, assumono costoro fra noi
una tutt'altra maschera. Ma meno feroce d'assai è anche il
popolo moderno: quindi la ferocia del tiranno sta sempre in
proporzione di quella dei sudditi.
Le nostre tirannidi, in oltre,
differiscono dalle antiche moltissimo; ancorché di queste e di
quelle la milizia sia il nervo, la ragione, e la base. Né so,
che questa differenza ch'io sto per notare, sia stata da altri
osservata. Quasi tutte le antiche tirannidi, e principalmente la
romana imperiale, nacquero e si corroborarono per via della forza
militare stabilita senza nessunissimo rispetto su la rovina totale
d'ogni preventiva forza civile e legale. All'incontro le tirannidi
moderne in Europa sono cresciute e si sono corroborate per via d'un
potere, militare sì e violento, ma pure fatto, per così
dir, scaturire da quell'apparente o reale potere civile e legale, che
si trovava già stabilito presso a quei popoli. Servirono a ciò
di plausibil pretesto le ragioni di difesa d'uno stato contro
all'altro; la conseguenza ne riuscì più sordamente
tirannica che fra gli antichi; ma ella ne è pur troppo più
funesta e durevole, perché in tutto è velata
dall'ammanto ideale di una legittima civile possanza.
I Romani
erano educati fra il sangue; i loro crudeli spettacoli, che a tempo
di repubblica virtuosamente feroci li rendevano, al cessar d'esser
liberi non li faceano cessare per ciò di essere sanguinarj.
Nerone, Caligola, ecc., ecc., trucidavano la madre, la moglie, i
fratelli, e chiunque a lor dispiacesse: ma Nerone, Caligola, e i
simili a loro, morivano pur sempre di ferro. I nostri tiranni non
uccidono mai apertamente i loro congiunti; rarissimamente versano
senza necessità il sangue dei sudditi, e ciò non fanno
se non sotto il manto della giustizia: ma anche i tiranni nostri se
ne muojono in letto.
Non negherò, che a raddolcire gli
universali costumi non poco contribuisse la religione cristiana;
benché da Costantino fino a Carlo VI tanti tratti di stupida
ignorante e non grandiosa ferocia si possono pur leggere nelle storie
di tutti quei popoli intermediarj, che storia a dir vero non
meritavano. Nondimeno attribuire si debbe in qualche parte il
raddolcimento universale dei costumi, e una certa urbanità
nella tirannide diversamente modificata, alla influenza della
cristiana religione. Il tiranno, anch'egli ignorante per lo più
e superstizioso, e sempre codardo, il tiranno anch'egli si confessa;
e benché sempre vada assolto dalle oppressioni e dalle angarie
fatte ai suoi sudditi, non lo sarebbe forse poi in questi nostri
tempi dell'aver trucidato apertamente la madre e i fratelli, o
dell'aver messo a fuoco e a sangue una propria città e
provincia, se non se ricomprando con enorme prezzo, e con una total
sommissione ai sacerdoti, la disusata enormità di un tanto
misfatto.
Se sia un bene od un male, che dall'essere raddolciti
tanto gli universali costumi ne risultino queste nostre tirannidi
assai meno feroci, ma assai più durevoli e sicure che le
antiche, ne può esser giudice chiunque vorrà paragonare
gli effetti e le influenze di queste e di quelle. Quanto a me,
dovendone brevissimamente parlare, direi; che difficilmente può
nascere ai tempi nostri un Nerone ed esercitar l'arte sua; ma che
assai più difficilmente ancora può nascere un Bruto, e
in pubblico vantaggio la mano adoprare ed il senno.
Capitolo
Decimo
DEL FALSO ONORE
Ma,
se le antiche tirannidi e le moderne si rassomigliano nell'aver esse
la paura per base, la milizia e la religione per mezzi, differiscono
alquanto le moderne dalle antiche per aver esse nel falso onore, e
nella classe della nobiltà ereditaria permanente, ritrovato un
sostegno, che può assicurarne la durata in eterno. Ragionerò
in questo capitolo del falso onore; e alla nobiltà, che ben se
lo merita, riserberò un capitolo a parte.
L'onore, nome da
tanti già definito, da tutti i popoli, e in tutti i tempi
diversamente inteso, e a parer mio indefinibile; l'onore verrà
ora da me semplicemente interpretato così: La brama, e il
diritto, di essere onorato dai più. Ed il falso
distinguerò dal vero, falsa chiamando quella brama d'onore,
che non ha per ragione e per base la virtù dell'onorato, e
l'utile vero degli onoranti; e vera all'incontro chiamerò
quella brama di onore, che altra ragione e base non ammette se non la
utile e praticata virtù. Ciò posto, esaminiamo qual sia
questo onore nelle tirannidi, chi lo professi, a chi giovi, da qual
virtù nasca, e qual virtù ed utile egli
promuova.
L'onore nelle tirannidi si va spacciando egli stesso
come il solo legittimo impulso, che spinge tutti coloro che
pretendono di non operar per paura. Il tiranno, contento oltre ogni
credere, che la paura mascherata sotto altro titolo venga nondimeno a
produrre un medesimo, anzi un maggior effetto in suo pro,
straordinariamente seconda questa volgare illusione. Col semplice
nome di onore, che sempre gli sta tra le labbra, egli riesce pure a
spingere i suoi sudditi a coraggiose e magnanime imprese, le quali
veramente onorevoli sarebbero, se fatte non fossero in suo privato
vantaggio, ed in pubblico danno. Ma, se onore vuol dire; Il giusto
diritto di essere veramente onorato dai buoni ed onesti, come utile
ai più; e se la virtù sola può essere base a
un tal dritto; come può egli il tiranno profferire mai un tal
nome? Lo ripetono anche i sudditi a gara; ma se la loro brama e
diritto d'essere onorati si fondasse su la pratica della vera virtù,
potrebbero eglino servire, obbedire, e giovare a un tiranno che nuoce
a tutti? E noi stessi schiavi moderni, ove ricordare pure vogliamo la
memoria d'un uomo giustamente onorato per molte età da molti e
diversi popoli, e che quindi moltissimo onore abbia avuto nel cuore,
facciamo noi menzione di un Milziade, di un Temistocle, di un Regolo,
ovvero d'uno Spitridate, di un Sejano, o di altro prepotente schiavo
di tiranno? Noi stessi dunque (e senza avvedercene) sommamente
onorando quegli uomini liberi, grandi, e giustamente onorevoli ed
onorati, veniamo manifestamente a mostrare, che il vero onore era il
loro; e che il nostro, il quale in tutto è l'opposto di
quello, è il falso; poiché niente onoriamo la memoria
di quei pretesi grandi in tirannide.
Ma, se l'onore nelle
tirannidi è falso, e se, immedesimatosi colla paura, egli è
pure la principalissima molla di un tal governo, da un falso
principio falsissime conseguenze risultar ne dovranno; e ne risultano
in fatti. L'onore nella tirannide impone, che mai non si manchi di
fede al tiranno. Impone l'onore nella repubblica, che chiunque
volesse farsi tiranno, sia spento. Per giudicare qual sia tra questi
due onori il verace, esaminiamo alla sfuggita questa fede, che il
servo non dee rompere al tiranno. Il rompere la data fede, è
certamente cosa, che dee disonorar l'uomo in ogni qualunque governo:
ma la fede dev'essere liberamente giurata, non estorquita dalla
violenza, non mantenuta dal terrore, non illimitata, non cieca, non
ereditaria; e, sovra ogni cosa, reciproca dev'esser la fede. Ogni
moderno tiranno, al riappiccarsi in fronte la corona del padre,
anch'egli ha giurato una fede qualunque ai suoi sudditi, che già
rotta e annullata dal di lui padre, lo sarà parimente e
doppiamente da esso. Il tiranno è dunque di necessità
sempre il primo ad essere spergiuro, e fedifrago: egli è
dunque il primo a calpestarsi fra' piedi il proprio onore, insieme
con le altrui cose tutte. Ed i suoi sudditi perderebbero l'onor loro,
nel romper essi quella fede che altri ha manifestamente già
rotta? La pretesa virtù, in questo caso frequente pur tanto
nelle tirannidi, sta dunque direttamente in opposizione coll'onor
vero; poiché, se un privato ti manca di fede, anche l'onore
stesso delle tirannidi t'impone di fargliela a forza osservare, per
vendicare in tal modo il disprezzo ch'egli ha mostrato espressamente
di te nell'infrangerla. Manifestamente dunque falso è
quell'onore che comanda di serbar rispetto, ed amore, e fede a chi
non serba, o può impunemente non serbare, alcuna di queste tre
cose a nessuno. Da questo falso onore nasce poi la falsissima
conseguenza, che si venga a credere legittima infrangibile e sacra
quell'autorità, che l'onore stesso costringe a mantenere e
difendere.
A questo modo, nella tirannide, guasti essendo e
confusi i nomi di tutte le cose, i capricci del tiranno messi in
carta, col sacro nome di leggi s'intitolano; e si rispettano, ed
eseguiscono, come tali. Così, a quella terra dove si nasce, si
dà nella tirannide risibilmente il nome di patria; perché
non si pensa che patria è quella sola, dove l'uomo liberamente
esercita, e sotto la securtà d'invariabili leggi, quei più
preziosi diritti che natura gli ha dati. Così, si ardisce
nella tirannide appellare senato (col nome cioè dei liberi
scelti patrizj di Roma) una informe raccolta di giudici trascelti dal
principe, togati di porpora, e specialmente dotti in servire. Così
finalmente, si viene a chiamare nella tirannide col titolo sacro
d'onore la dimostrata impossibilità di essere giustamente
onorato dai buoni, come di essere utile ai molti.
Ma, per
maggiormente accertarci, che l'onor nostro sia il falso,
paragoniamolo alquanto più lungamente a quello delle
repubbliche antiche, nelle sue cagioni, mezzi, ed effetti; e certo
arrossiremo noi tosto di profferire un tal nome; che se dicessimo non
essere egli a noi noto affatto, con una tale ignoranza escuseremmo
almeno la infamia nostra in gran parte. Comandava l'onore antico a
quei popoli liberi, di dar la vita per la libertà; vale a dire
pel maggior vantaggio di tutti: ci comanda il moderno onore di dar la
vita pel tiranno; vale a dire per colui che sommamente nuoce a noi
tutti. Voleva l'antico onore, che le ingiurie private cedessero
sempre alle pubbliche: vuole il moderno che si abbiano le pubbliche
per nulla, e che atrocemente si vendichino le private. Voleva
l'antico, che i suoi seguaci serbassero amore e fede inviolabile alla
patria sola: il nostro la vuole e comanda pel solo tiranno. E non
finirei, se i precetti di questo e di quello, in tutto contrarj fra
loro, annoverare volessi.
Ma i mezzi per essere onorato, non meno
dai popoli servi che dai liberi, sono pur sempre il coraggio e una
certa virtù: colla somma differenza nondimeno, che l'onore
nelle repubbliche, scevro da ogni privato interesse, riesce di pura
ricompensa a se stesso; ma nelle tirannidi questo onore impiegatosi
in pro del tiranno, vien sempre contaminato da mercedi e favori, che
più o meno distribuiti dal principe, accrescono, minorano, o
anche, negati, spengono affatto l'onore nel cuore de' suoi servi.
Le
conseguenze poi di questi due diversi onori, facilissime sono a
dedursi. Libertà, grandezza d'animo, virtù domestiche e
pubbliche, il nome e il felice stato di cittadino; ecco quali erano i
dolci frutti dell'antico onore: tirannia, ferocia inutile, vil
cupidigia, servaggio, e timore; ecco innegabilmente quali sono i
frutti del moderno. I Greci e' Romani erano in somma il prodotto del
vero onor ben diretto; i popoli tutti presenti d'Europa, (meno
gl'Inglesi) sono il prodotto del falso onore moderno. Paragonando fra
loro questi popoli, la diversa felicità e potenza da essi
acquistata, le diverse cose operate da loro, la fama che ottengono, e
quella che meritano, si viene ad avere un'ampia e perfetta misura di
ciò che possa nel cuor dell'uomo questa divina brama di essere
giustamente onorato, allorché dai saggi governi ella è
bene indrizzata e accresciuta, o allorché dai tirannici ella
viene diminuita, o traviata dal vero.
Mi si dirà che, o
buono sia o cattivo il principio, a ogni modo il sagrificar la
propria vita, il mantenere la data fede a costo di essa, l'esporla
per vendicare le ingiurie private, tutto ciò suppone pur
sempre una somma virtù. Né io imprendo stoltamente a
negare, che nelle tirannidi vi sia moltissima gente capace di virtù,
e nata per esercitarla: piango solamente in me stesso di vederla
falsamente adoprarsi nel sostenere, e difendere il vizio, e quindi
nello snaturare, e distruggere se stessa. E niuno politico scrittore
ardirà certamente chiamare virtù uno sforzo, ancorché
massimamente sublime, da cui, in vece del pubblico bene, ne debba poi
ridondare un male per tutti, e la prolungazione del pubblico
danno.
Ora, perché dunque quella stessa vita, che tanti e
sì fatti uomini ripieni di falso onore vanno così
prodigamente spendendo pel tiranno, perché quella vita stessa
non vien ella da loro sagrificata, con più ragione e con ugual
virtù, per togliere a colui la tirannide? E quel valore
inutile (poiché non ne ridonda alcun bene) quell'efferato
valore, con cui nelle tirannidi si vendicano le private offese,
perché non si adopera tutto contro al tiranno, che tutti, e in
più supremo grado, non cessa pur mai un momento di offendere?
E quella fede che così ostinatamente cieca si osserva verso il
nemico di tutti, perché, con egual pertinacia e con più
illuminata virtù, non si giura ella ed osserva inverso i sacri
ed infranti diritti dell'uomo?
Nelle tirannidi dunque, a tal
segno ridotti son gl'individui, che, qualunque impulso dalla natura
abbiano ricevuto all'operar cose grandi, essi edificano pur sempre
sul falso, ogniqualvolta non sanno o non osano calpestare il moderno
onore, e riassumere l'antico.
Capitolo Undecimo
DELLA
NOBILTÀ
Havvi
una classe di gente, che fa prova e vanto di essere da molte
generazioni illustre, ancorché oziosa si rimanga ed inutile.
Intitolasi nobiltà; e si dee, non meno che la classe dei
sacerdoti, riguardare come uno dei maggiori ostacoli al viver libero,
e uno dei più feroci e permanenti sostegni della tirannide.
E
benché alcune repubbliche liberissime, e Roma tra le altre,
avessero anch'elle in sé questo ceto, è da osservarsi,
che già lo avevano quando dalla tirannide sorgeano a libertà;
che questo ceto era pur sempre il maggior fautore dei cacciati
Tarquinj; che i Romani non accordarono d'allora in poi nobiltà,
se non alla sola virtù; che la costanza tutta, e tutte le
politiche virtù di quel popolo erano necessarie per impedire
per tanti anni ai patrizj di assumere la tirannide; e che finalmente
poi dopo una lunga e vana resistenza, era forza che il popolo
credendo di abbattergli, ad essi pur soggiacesse. I Cesari in somma
erano patrizj, che mascheratisi da Marii, fingendo di vendicare il
popolo contra i nobili, amendue li soggiogarono.
Dico dunque; che
i nobili nelle repubbliche, ove essi vi siano prima ch'elle nascano,
o tosto o tardi le distruggeranno, e faran serve; ancorché non
vi siano da prima più potenti che il popolo. Ma, in una
repubblica, in cui nobili non vi siano, il popolo libero non dee mai
creare nel proprio seno un sì fatale stromento di servitù,
né mai staccare dalla causa comune nessuno individuo, né
(molto meno) staccarne a perpetuità, nessuna intera classe di
cittadini. Pure, per altra parte moltissimo giovando alla emulazione,
e non poco alla miglior discussione dei pubblici affari, l'aver nella
repubblica un ceto minore in numero, e maggiore in virtù al
ceto di tutti, potrebbe un popolo libero a ciò provvedere col
crearsi questo ceto egli stesso, e crearlo a vita od a tempo, ma non
ereditario giammai; affinché possano costoro operare nella
repubblica quel tal bene che vi oprerebbe forse la nobiltà,
senza poterne operare mai niuno dei mali, che ella tutto giorno pur
vi opera.
Natura dell'uomo si è, che quanto egli più
ha, tanto desidera più, e tanto maggiormente in grado si trova
di assumersi più. Al ceto dei nobili ereditarj, avendo essi la
primazìa e le ricchezze, altro non manca se non la maggiore
autorità, e quindi ad altro non pensano che ad usurparla. Per
via della forza nol possono, perché in numero si trovano pur
sempre di tanto minori del popolo. Per arte dunque, per corruzione, e
per fraude, tentano di usurparla. Ma, o fra loro tutti si accordano,
e, per invidia l'uno dell'altro, rimanendo la usurpata autorità
nelle mani di loro tutti, ecco allora creata la tirannide
aristocratica: ovvero tra quei nobili se ne trova uno più
accorto, più valente, e più reo degli altri, che parte
ne inganna, parte ne perseguita o distrugge, e fingendo di assumere
le parti e la difesa del popolo, si fa assoluto signore di tutti; ed
ecco, come sorge la tirannide d'un solo. Ed ecco, come ogni tirannide
ha sempre per origine la primazìa ereditaria di pochi: poiché
la tirannide importando necessariamente sempre lesione e danno dei
più, ella non si può mai originare né lungamente
esercitare da tutti, che al certo non possono mai volere la lesione
ed il danno di se stessi.
Conchiudo adunque, quanto alla
ereditaria nobiltà, che quelle repubbliche, in cui ella è
già stabilita, non possono durar libere di vera politica
libertà; e che nelle tirannidi questa vera libertà non
vi si può mai stabilire, o stabilita durarvi, finché vi
rimangono de' nobili ereditarj: e le tirannidi nelle loro rivoluzioni
non muteranno altro mai che il tiranno, ogniqualvolta non
abbatteranno con esso ad un tempo la nobiltà. Così
Roma, benché cacciasse i tiranni Tarquinj, rimanendovi pure,
dopo svanito il comune pericolo, assai più potenti i patrizj
che il popolo, Roma non fu veramente libera e grande, che alla
creazione dei tribuni. Questo popolar magistrato, contrastando di
pari colla potenza patrizia, ed essendo abbastanza potente per
tenerla a freno, e non abbastanza per distruggerla affatto, per molto
tempo sforzava i nobili a gareggiare col popolo in virtù; e ne
nacque perciò per gran tempo il bene di tutti. Ma il mal seme
pur rimaneva, e all'accrescersi della universale potenza e ricchezza,
rigermogliò più che mai rigogliosa ogni superbia e
corruzione nei nobili; e questi poi, così guasti, in breve la
repubblica spensero.
Fu dottamente e con sagace verità
osservato, prima dal nostro gran Machiavelli, e con qualche maggior
ordine poi da Montesquieu, che quelle gare stesse fra la
nobiltà ed il popolo erano state per più secoli il
nerbo, la grandezza, e la vita, di Roma: ma la sacra verità
comandava pur anco, che si osservasse da codesti due grandi, che
quelle dissensioni stesse ne erano state poi la intera rovina; e il
come, e il perché, ampiamente da essi indagar si dovea. Ed io
mi fo a credere, che se tali due sommi avessero voluto, od osato
spingere alquanto più oltre il loro riflessivo ragionamento,
avrebbero essi indubitabilmente assegnato per principalissima cagione
di una tale intera rovina la ereditaria nobiltà. Che se le
dissensioni, o per dir meglio le disparità di opinioni, sono
necessarie in una repubblica per mantenervi la vita e la libertà,
bisogna pur confessare che le disparità d'interessi
dannosissime vi riescono, e di necessità mortifere
ogniqualvolta l'uno dei due diversi interessi interamente la vince.
Ora, mi pare innegabile, che ogni primazìa ereditaria di pochi
genera per forza in quei pochi un interesse di conservazione e di
accrescimento, diverso ed opposto all'interesse di tutti. Ed ecco il
vizio radicale, per cui ogniqualvolta in uno stato esisterà
una classe di nobili e di sacerdoti, a parte dal popolo, saranno
questi lo scandalo, la corruzione, e la rovina di tutti: e i nobili,
per essere ereditarj, riusciranno quasi più dannosi che i
sacerdoti, i quali sono elettivi soltanto: ma, per dire il vero,
abbondantemente suppliscono a ciò i sacerdoti, colle loro
ereditarie impolitiche massime, che da ogni loro individuo in un
colla tonaca e col piviale si assumono; oltre che, per maggiormente
perfezionare questo comune danno, le più cospicue sacerdotali
dignità sogliono anche cadere esclusivamente nelle mani dei
nobili: dal che ne risulta, che i sacerdoti doppiamente dannosi
riescono al pubblico bene.
E benché in Inghilterra vi siano
per ora, e nobili e libertà, non mi rimuovo io perciò
in nulla da questo mio su mentovato parere. Si osservi da prima, che
in Inghilterra i veri nobili antichi, nelle spesse e sanguinose
rivoluzioni erano presso che tutti spenti; che i nuovi nobili, usciti
di fresco dal popolo per favor del re, non possono in un paese libero
assumere né in una né in due generazioni quella
superbia e quello sprezzo del popolo stesso, fra cui serbano essi
ancora i loro parenti ed amici; quella superbia, dico, che vien
bevuta col latte dai nobili antichi, interamente staccati nelle
nostre tirannidi da tempo immemorabile dal popolo, di cui sono
lungamente stati gli oppressori e tiranni. Si osservi in oltre, che i
nobili in Inghilterra, presi in se stessi, sono meno potenti del
popolo; e che, uniti col popolo, sono più che il re; ma che,
uniti col re, non sono però mai più che il popolo. Si
osservi in oltre, che se in alcuna cosa la repubblica inglese pare
più saldamente costituita che la romana, si è
nell'essere in Inghilterra la dissensione permanente e vivificante,
non accesa fra i nobili e il popolo come in Roma, ma accesa bensì
fra il popolo e il popolo; cioè, fra il ministero e chi vi si
oppone. Quindi, non essendo questa dissensione generata da disparità
di ereditario interesse, ma da disparità di passeggera
opinione, ella vien forse a giovare assai più che a nuocere;
poiché nessuno talmente aderisce a una parte, ch'egli non
possa spessissimo passare dalla contraria; nessuna delle due parti
avendovi interessi permanentemente opposti, e incompatibili col vero
bene di tutti. Una nobiltà dunque così felicemente
rattemperata, come la inglese lo pare, per certo riesce assai meno
nociva che ogni altra; e al potersi veramente far utile al pubblico,
altro forse non le mancherebbe che di non essere ereditaria. Una
classe di uomini principali, e non amovibili membri del governo,
ov'ella fosse creata dalla vera virtù e dai liberi suffragj di
tutti, vi riuscirebbe veramente onorevole, e giustamente onorata; e
grandissima emulazione di virtù si verrebbe ad accendere fra i
concorrenti ad essa. Ma, se disgraziatamente ereditaria una tal
classe si ammette, ancorch'ella si creasse da liberi e virtuosi
suffragj, tuttavia ad ogni individuo inglese che verrà creato
nobile ereditario, si perderà per tal mezzo una intera stirpe,
che così viene staccata dall'interesse comune, deviata dal
vantaggio di tutti, e privata di ogni emulazione al ben fare. Quindi
è, che i nobili in Inghilterra, ancorché alquanto meno
dannosi che nelle tirannidi, potendovi pure essere moltiplicati dal
re ad arbitrio suo, e senza alcun limite; credendosi essi maggiori
del popolo; essendovi e più ricchi, e più sazj, e più
oziosi, e più guasti assai che non è il popolo; i
nobili in Inghilterra saranno in ogni tempo maggiormente propensi
all'autorità del re, il quale creati gli ha e spegnerli non
potrebbe, che non all'autorità del popolo, il quale non può
creargli e li potrebbe pure distruggere. In Inghilterra perciò
(come sempre sono stati altrove) i nobili saranno, o già sono,
i corrompitori della libertà; ove, prima di ciò,
abbattuti maggiormente non siano dal popolo. Ma, non essendo la
repubblica il mio tema, abbastanza, e troppo lungamente forse, ho io
parlato fin qui dei nobili nelle repubbliche. Mi convien dunque ora
lungamente ragionare dei nobili nelle moderne nostre
tirannidi.
Distrutto il romano imperio, ne furono, come ognun sa,
divise le provincie fra diversi popoli; ed infiniti stati da
quell'immenso stato nascevano. Ma, in tutti insorgeva una nuova
specie di governo fino allora ignota, in cui molti piccioli tiranni
rendendo omaggio ad un solo e maggiore, teneano, sotto il titolo di
feudatarj, nella oppressione e servitù i varj lor popoli.
Alcuni di questi tiranni feudatarj divennero così potenti, che
ribellatisi al loro sovrano, si crearono stato a parte; e non pochi
dei presenti tiranni d'Europa son della stirpe di quei signorotti. E,
per contraria vicenda, molti dei tiranni sovrani si fecero altresì
col tempo abbastanza potenti, per distruggere o spodestare affatto
quei secondi tiranni, e rimanere essi soli sovrani. Comunque ciò
fosse, il soggiacere al tiranno maggiore, o ai tirannelli, non
sollevò mai il popolo dal peso delle sue catene: anzi, è
verisimile che, assicurato ed ingrandito il loro stato, i tiranni
maggiori, avendo meno rispetti, più illimitata potenza, e
minori nemici, ne divennero con molta più impunità e
sicurezza oppressori del loro misero gregge.
Ma, quanto erano
stati da temersi pel tiranno quei nobili feudatarj, finché
aveano avuto autorità e forza; quanto erano stati ostacolo, e
in un certo modo freno, alla compiuta tirannide di quel solo,
altrettanto poi ne divennero essi la base e il sostegno, tosto che
rimasero spogliati dell'autorità e della forza. I tiranni si
prevalsero da prima del popolo stesso per abbassare i signorotti; ed
il popolo che avea da vendicar tante ingiurie, volonteroso seguitò
l'animosità di quel solo e maggior tiranno contro ai tanti e
minori. Allora, qual dei signorotti si dette per accordo al tiranno,
e quale contr'esso rivolse le armi. Ma, o patteggiati, o vinti ch'ei
fossero, tutti, od i più, coll'andar del tempo soggiacquero.
Non si estinse tuttavia interamente mai quel male che ridondava da
questa secondaria tirannide feudale; non si scemò punto la
servitù per il popolo; notabilmente si accrebbe bensì
l'autorità e la forza del tiranno. Conobbero i tiranni la
necessità di mantenere una classe fra essi ed il popolo, che
paresse alquanto più potente che il popolo, e fosse assai meno
potente di loro: e benissimo conobbero che distribuendo fra costoro
gli onori tutti e le cariche, diverrebbero questi col tempo i più
feroci e saldi satelliti della loro tirannide.
Né
s'ingannarono in tal fatto i tiranni. I nobili, spogliati affatto
della loro autorità e forza, ma non interamente delle loro
ricchezze e superbia, manifestamente conobbero che non potevano essi
nella tirannide continuare ad essere tenuti maggiori del popolo, se
non se risplendendo della luce del tiranno. L'impossibilità di
riacquistare l'antica potenza li costrinse ad adattare la loro
ambizione alla necessità ed ai tempi. Dal popolo, che non
s'era certamente scordato delle loro antiche oppressioni; dal popolo,
che gli abborriva perché li credeva ancora troppo più
potenti di lui; dal popolo in somma, troppo avvilito per soccorrergli
ancor che il volesse, videro chiaramente i nobili che non v'era luogo
a sperarne mutazione alcuna favorevole a loro. Si gittarono dunque
interamente in braccia al tiranno; ed egli non li temendo oramai, e
vedendo quanto potevano riuscire utili alla propagazione della
tirannide, li prelesse ad essere i depositarj e il sostegno.
E
questa è la nobiltà, che nelle tirannidi d'Europa tutto
giorno poi vedesi così insolente col popolo, e così vil
coi tiranni. Questa classe, in ogni tirannide, è sempre la più
corrotta; ella è perciò l'ornamento principalissimo
delle corti, il maggior obbrobrio della servitù, e il giusto
ludibrio dei pochi che pensano. Degeneri dai loro avi nella fierezza,
i nobili sono gl'inventori primieri d'ogni adulazione, d'ogni più
vile prostituzione al tiranno: ma non tralignano già essi
nella superbia e crudeltà contro al popolo. Anzi, vie più
inferociti per la loro perduta potenza effettiva, lo tiranneggiano
quanto più sanno e possono con i flagelli stessi del tiranno,
se egli lo permette; e se egli lo vieta, (il che di rado accadeva
fino allo stabilimento della perpetua milizia) non lasciano pure di
opprimere il popolo di furto con quanta prepotenza più
possono.
Ma, dallo stabilimento in poi dei perpetui eserciti in
Europa, i tiranni vedendosi armati e effettivamente potenti, hanno
incominciato a tenere in assai minor conto la nobiltà, e a
sottoporla anch'essa alla giustizia non meno che il popolo, allor
quando ad essi così giova, o piace, di fare. La vista politica
del tiranno nel volersi mostrare imparziale pe' nobili, è
stata di riguadagnarsi il popolo, e di riaddossare ai nobili
l'odiosità degli antecedenti governi. Ed io mi fo a credere,
che se il tiranno potesse amare una qualche classe dei sudditi suoi,
ove fossero egualmente vili e obbedienti i nobili ed il popolo, egli
pure inclinerebbe più per il popolo; ancorché pur
sempre sentisse, che a tenere il popolo a freno egli è, in un
certo modo, necessarissimo il naturale argine della nobiltà,
cioè, dei più ricchi ed illustri. E di questo
semiamore, o sia minore odio del tiranno pel popolo, ne assegnerei la
seguente ragione. La nobiltà, per quanto sia ignorante e mal
educata, pure, come alquanto meno oppressa e più agiata, ella
ha il tempo ed i mezzi di riflettere alquanto più che il
popolo; ella si avvicina molto più al tiranno; ella ne studia
e ne conosce più l'indole, i vizj, e la nullità. Si
aggiunga a questa ragione, il bisogno che il tiranno ancora pur crede
di aver talvolta dei nobili; e da questo tutto si verrà
facilmente ad intendere quell'innato odio contr'essi, che sta nel
cuor del tiranno; il quale non può né dee voler che si
pensi; né può, molto meno, aggradire chiunque lo spia e
conosce. Nasce da questo intrinseco odio quella pompa di popolarità,
che molti dei moderni tiranni europei van facendo; come anche le
tante mortificazioni, che vanno compartendo ai lor nobili. Il popolo,
soddisfatto di vedere abbassati i suoi signorotti, ne sopporta più
volentieri il comune oppressore, e la divisa oppressione. I nobili
rodono la catena; ma troppo corrotti, effemminati e deboli sono, per
romperla. Il tiranno se ne sta fra' due, distribuendo ad entrambi a
vicenda, frammiste a molte battiture, alcune fallaci dolcezze; e così
vie più sempre corrobora egli e perpetua la tirannide. Non
distrugge egli i nobili, se non se a minuto i più antichi, per
riprocrearne dei nuovi, non meno orgogliosi col popolo, ma più
soggetti e arrendevoli a lui: e non li distrugge il tiranno, perché
li crede (ed il sono) essenzialissima parte della tirannide. Non gli
teme, perch'egli è armato: non gli stima, perché li
conosce: non gli ama, perché lo conoscono. Il popolo non
mormora dei gravosi eserciti, perch'egli non ragiona, e ne trema: ma
con molta gioja bensì per via degli eserciti vede i nobili
starsi non meno soggetti e tremanti di lui.
I nobili ereditarj son
dunque una parte integrante della tirannide, perché non può
allignar lungamente libertà vera, dove esiste una classe
primeggiante, che tale non sia per virtù ed elezione. Ma la
milizia perpetua, fattasi oramai parte della tirannide più
integrante ancora di quel che lo sia la nobiltà, ha tolto ai
nobili la possibilità di far fronte al tiranno, e diminuita in
loro quella di opprimere il popolo.
Capitolo
Duodecimo
DELLE
TIRANNIDI ASIATICHE, PARAGONATE COLL'EUROPEE
Pare,
che molte tirannidi d'oriente smentiscano quanto ho detto finora
circa alla necessità dei nobili inerente all'essenza della
tirannide; non vi essendo in esse alcuna nobiltà ereditaria;
né ammettendo esse a prima vista altra distinzione di ordini,
che un signor solo e tutti gli altri servi egualmente. E, a dir vero,
l'Asia in ogni tempo non solo non conobbe libertà, ma
soggiacque quasi sempre tutta a tirannidi inaudite, esercitate in
regioni vastissime; in cui non si scorge nessun viver civile, nessuna
stabilità, e nessune leggi, che non soggiacciano al capriccio
del tiranno, eccettuatene tuttavia le religiose. Ma io, con tutto
ciò, non dispero di poter dimostrare che la tirannide in ogni
tempo e luogo è tirannide; e che usando ella gli stessi mezzi
per mantenersi, produce, ancorché sotto diverso aspetto, gli
stessissimi effetti.
Non esaminerò perché siano tali
i popoli dell'oriente; le ragioni, che riuscirebbero assai più
congetturali che dimostrative, o ne sono state assegnate, o lo
verranno da altri più dotti e profondi che non son io. Ma,
partendo dal dato, io dico; che la paura, la milizia, e la religione,
innegabilmente sono esse pure le tre basi e molle delle tirannidi
asiatiche, come delle europee; e che sono esse il più saldo
appoggio di quelli e di questi tiranni. Il falso onore, di cui
ampiamente ho parlato, non pare da prima occupare alcun luogo nella
mente e nel cuore degli orientali; ma pure, se bene si esamina, si
vedrà che lo conoscono anch'essi e lo praticano. Per quei
popoli il tiranno è un articolo vero di fede; essi tengono la
religione assai più in pregio di noi: quindi in tutto ciò
che spetta all'uno o all'altra dimostrano d'avere moltissimo onore.
Non ci è esempio di maomettani che si facciano cristiani come
tutto dì v'è esempio di cristiani che rinnegano.
In
tal modo, a tutto ciò che la nobiltà ereditaria, e la
milizia perpetua (quali le abbiamo in Europa) potrebbero operare di
più in favore delle orientali tirannidi, vi suppliscono dunque
ampiamente le asiatiche religioni; e massime la maomettana, ch'è
più creduta, più osservata, e assai più potente
ancora, che non lo sia oramai in nessun luogo la nostra.
Ma,
ancorché la nobiltà ereditaria non sussista in gran
parte d'oriente (toltine però la Cina, il Giappone, e molti
stati dell'Indie, il che certamente non è picciola parte
dell'Asia) nondimeno nei paesi maomettani gli strumenti principali
della tirannide sono, come nella cristianità, i sacerdoti, i
capi della milizia, i governatori delle provincie, e i barbassori di
corte: e costoro tutti, benché non vi siano nati nobili, si
debbono pure riputare come una classe, che essendo più che il
popolo e meno che il tiranno, e accattando dal tiranno il lustro e
l'autorità, viene per l'appunto ad occupare lo stessissimo
luogo nelle tirannidi asiatiche, che occupa la nobiltà
ereditaria nelle europee. Vero è, che fra quei nobili d'Asia,
morendo essi di morte naturale o violenta, cessa nei loro figli la
nobiltà: ma tosto pure alle loro cariche ne sottentran degli
altri, e quanti mai ne verranno, tutti, ancorché d'origine
plebea, assumeranno tosto il pensare dei nobili; il quale non è
altro che di opprimere i popoli, e tenersi col tiranno. Ed anzi,
questi nobili recenti, di tanto più feroci saranno, quanto
l'uomo che è nato più vile, che è stato più
oppresso, e che ha conosciuto più eguali, diviene assai più
superbo e feroce ogniqualvolta egli, per altra via che quella della
virtù, perviene ad innalzarsi sovr'essi. Ma certamente la
virtù non potrà essere mai la scala agli onori e
all'autorità, in nessuna tirannide.
L'effetto vien dunque
ad essere lo stesso in oriente come in occidente; poiché fra
il popolo e il tiranno entrano pur sempre di mezzo i nobili (o
ereditarj siano o fattizj) e la permanente milizia: due classi, senza
di cui non v'è né vi può esser tirannide; e
colle quali non v'è, né vi può essere lungamente
mai libertà.
Ma mi si dirà forse, che in ogni
democrazia, od in qualsivoglia mista repubblica, i sacerdoti, i
magistrati, ed i capi della milizia, sono parimente sempre maggiori
del popolo. A ciò è da rispondersi, distinguendo:
Costoro nella repubblica sono ciascuno maggiori d'ogni privato
individuo; ma minori dell'universale, essendo eletti da tutti, o dal
più gran numero; essendo eletti per lo più a tempo, e
non a vita; sottoposti alle leggi, e costretti a dare, quando che
sia, un rigido conto di se stessi. Ma costoro, nella tirannide, sono
maggiori, e d'ogni individuo, e dell'universale; perché sono
eletti da un solo che può più di tutti; perché
non danno conto del loro operare, se non a lui; e perché in
somma niun'altra cosa vien loro apposta a delitto dal tiranno,
fuorché l'aver dispiaciuto, o arrecato danno a lui solo: il
che chiaramente vuol dire per lo più, l'aver giovato, o
tentato di giovare, a tutti od ai più.
Ma, se io abbastanza
ho dimostrato (come a me pare) che nelle tirannidi dell'oriente i
tiranni adoperano gli stessi mezzi che in queste, esaminiamo ora
quali siano le apparenti differenze tra gli effetti; perché vi
siano; e se elle siano in favore o in disfavore degli
europei.
Mostransi di rado al pubblico gli orientali tiranni, e
inaccessibili sono in privato; i nostri veggiamo ogni giorno: ma il
vederli non scema però in noi la paura, né in essi la
potenza; e benché lo avvezzarci a quell'oggetto diminuisca
alquanto la stupida venerazione per esso, l'odio nondimeno dee pur
sempre rimanere il medesimo, e di gran lunga maggiore il fastidio e
la noja.
Difficilissimo è l'accostarsi ai tiranni
d'oriente; ai nostri, a qual con lettere o suppliche, a quale in
persona, possiamo assai facilmente ogni giorno accostarci: ma, e che
ne ridonda? son forse fra noi meno oppressi gl'innocenti ed i buoni?
son forse più conosciuti i rei, allontanati, o
puniti?
Gl'impieghi, gli onori, le dignità si conferiscono
in oriente agli schiavi più graditi al padrone. Il solo
capriccio li dona, e il solo capriccio li ritoglie; ma un ministro o
qualunque altro, che spogliato venga di alcuno importante impiego,
viene altresì privato per lo più della vita. E lo
stesso capriccio conferisce nel nostro occidente gli stessi onori e
dignità a quegli schiavi più dotti nell'arte di piacere
e compiacere al tiranno: e tanto più vili schiavi costoro, e
degni in ciò veramente di esserlo, quanto, non essendo gli
europei, come gli orientali, nati nella servitù effettiva dei
serragli, di buon animo spontaneamente vanno porgendo le mani ed il
collo al più obbrobrioso di tutti i gioghi. Ma, se i nostri
tiranni, nel toglier loro la carica non li privano a un tempo della
vita, ciò forse non accade per altra ragione, se non perché
questi scelti servi europei, a sì manifeste prove si sono
dimostrati per vili, che i tiranni nostri in nessun modo non possono,
né debbono, in nulla temerli.
Nelle tirannidi dell'oriente,
pochissime leggi, oltre alle religiose, vi sussistono: moltissime se
ne ha nelle nostre; ma ogni giorno si mutano, s'infrangono, si
annullano, e per fin si deridono. Qual è men vergognosa ed
infame a soffrirsi delle due seguenti usurpazioni? o d'uno che ti
oltraggia e ti opprime, perché tu, non credendo che altrimenti
una società esistere potesse, glie ne hai conceduto
illimitatamente la signoria, né hai provveduto in nessuna
maniera a moderargliela; o d'uno che ti fa lo stesso e anche peggio,
benché tu abbi provveduto con impotenti leggi, e con
gl'inutili suoi giuramenti, che egli opprimere ed oltraggiare non ti
potesse?
Negli orientali governi nulla vi ha di sicuro, se non la
sola servitù: ma, che v'ha egli di sicuro nei nostri? I
tiranni europei sono di gran lunga più umani? cioè,
hanno i tiranni europei molto minore il bisogno di essere crudeli.
Nell'oriente, le scienze e le lettere proscritte, i regni spopolati,
la stupidità e miseria del popolo, nessuna industria, nessun
commercio; non son tutte queste, e tante altre, le innegabili prove
del vizio distruttivo, che sta in quei governi? Rispondo,
distinguendo di nuovo. La religion maomettana, come più inerte
e meno curante della nostra, riesce altresì molto più
distruttiva di essa. Ma in quelle parti d'oriente, dove non ci è
maomettismo, come specialmente alla Cina e al Giappone, tutti questi
soprammentovati lagrimevoli effetti, che stoltamente noi assegniamo
alla sola orientale tirannide, in un'altra orientale e niente minore
tirannide, vi si vedono cessare; o almeno non v'esistere maggiori che
nelle tirannidi europee.
Parmi adunque, che sia da conchiudere;
che la tirannide nell'Asia, e principalmente nel maomettismo, suol
riuscire più oppressiva che nell'Europa: ma bisogna ad un
tempo stesso confessare; che il tiranno e quelli che fan le sue
parti, assai meno sicuri vivono in Asia che non in Europa. Quindi
dall'essere le nostre tirannidi alquanto più miti, se a noi ne
ridonda pure qualche vantaggio, amaramente ci vien compensato dalla
maggiore infamia che sta nel servire, sapendolo; e dalla quasi
impossibilità, in cui il nostro effemminato vivere ci pone, di
distruggere, di mutare o di crollare almeno d'alquanto le nostre
tirannidi. Noi coltiviamo le scienze, le lettere, il commercio, le
arti tutte, ed ogni civile costume; negar non si può: ma noi
colti, noi dotti, noi in somma che siamo il fiore degli abitanti di
questo globo, noi soffriam pure tacitamente quello stesso tiranno,
che soffrono (è vero) ma che pur anche talvolta robustamente
distruggono quegli asiatici popoli, rozzi, ignoranti, e, a parer
nostro, di tanto più vili di noi. Chi non sa che vi è
stata, e che vi può essere libertà, non conosce e non
sente la servitù; e chi questa non sente, scusabilissimo è
se la soffre. Ma che direm noi di que' popoli, che sanno, e sentono,
e fremono di essere servi; e la servitù pure si godono, e
tacciono?
La differenza dunque, che passa fra l'Asia e l'Europa,
si è; che i tiranni orientali tutto possono, e tutto fanno; ma
sono anche spesso privati del trono ed uccisi: gli occidentali
tiranni possono tutto, fanno soltanto ciò che a loro occorre
di fare, e stanno quasi sempre inespugnabili, securi, e impuniti. I
popoli d'Asia di niuna loro cosa sicuri possessori sen vivono; ma
credono in parte che così debba essere; e dove in certo modo
contro all'universale si ecceda, si vendicano almeno del tiranno,
benché mai non ispengano, né minorino, la tirannide. I
popoli d'Europa niuna cosa possedono con maggior sicurezza che quelli
dell'Asia, benché vengano spogliati del loro in una diversa e
più cortese maniera; ma questi sanno quali siano i dritti
dell'uomo; ed ignorar non li possono, poiché li vedono
felicemente esercitati da alcune pochissime nazioni, che vivono
libere in mezzo alla universal servitù: e benché ogni
giorno si veda nelle tirannidi europee (massime in quanto spetta alle
pecuniarie gravezze) eccedere dal tiranno ogni modo, nondimeno per
codardia e viltà dei nostri popoli non si ardisce mai tentare
nessuna lodevol vendetta, non che si ardiscano tentare di riassumere
i naturali diritti, così inutilmente da lor conosciuti.
Capitolo
Decimoterzo
DEL LUSSO
Non
credo, che mi sarà difficile il provare, che il moderno lusso
in Europa sia una delle principalissime cagioni, per cui la servitù,
gravosa e dolce ad un tempo, vien poco sentita dai nostri popoli, i
quali perciò non pensano né si attentano di scuoterla
veramente. Né intendo io di trattare la questione, oramai da
tanti egregj scrittori esaurita, se sia il lusso da proscriversi o
no. Ogni privato lusso eccedente, suppone una mostruosa
diseguaglianza di ricchezze fra' cittadini, di cui la parte ricca già
necessariamente è superba, necessitosa e avvilita la povera, e
corrottissime tutte del pari. Onde, posta questa disuguaglianza, sarà
inutilissimo e forse anche dannoso il voler proscrivere il lusso: né
altro rimedio rimane contr'esso, che il tentare d'indirizzarlo per
vie meno ree ad un qualche scopo men reo. M'ingegnerò io bensì
di provare in questo capitolo; che il lusso, conseguenza
naturalissima della ereditaria nobiltà, nelle tirannidi riesce
anch'egli una delle principalissime basi di esse; e che dove ci è
molto lusso non vi può sorgere durevole libertà; e che
dove ci è libertà, introducendovisi moltissimo lusso,
questo in brevissimo tempo corromperla dovrà, e quindi
annullarla.
Il primo e il più mortifero effetto del privato
lusso, si è; che quella pubblica stima che nella semplicità
del modesto vivere si suole accordare al più eccellente in
virtù, nello splendido vivere vien trasferita al più
ricco. Né d'altronde si ricerchi la cagione della servitù,
in tutti quei popoli, fra cui le ricchezze danno ogni cosa. Ma pure,
la uguaglianza dei beni di fortuna essendo presso ai presenti europei
una cosa chimerica affatto, si dovrà egli conchiudere che non
vi può essere libertà in Europa, perché le
ricchezze vi sono tanto disuguali? e possono elle non esserlo, atteso
il commercio, e il lucro delle pubbliche cariche? Rispondo; che
difficilmente vi può essere o durare una vera politica
libertà, là dove la disparità delle ricchezze
sia eccessiva; ma che pure, due mezzi vi sono per andarla
strascinando (dove ella già fosse allignata) in mezzo a una
tale disparità, ancorché il lusso sterminatore tutto dì
la libertà vi combatta. Il primo di questi mezzi sarà,
che le buone leggi abbiano provveduto, o provvedano, che la eccessiva
disuguaglianza delle ricchezze provenga anzi dalla industria, dal
commercio, e dall'arti, che non dall'inerte accumulamento di
moltissimi beni di terra in pochissime persone, alle quali non
possono questi beni pervenire in tal copia, senza che infiniti altri
cittadini non siano spogliati della parte loro. Con un tale compenso
le ricchezze dei pochi non occasionando allora la povertà
totale dei più, verrà pure ad esservi un certo stato di
mezzo, per cui quel tal popolo sarà diviso in pochi
ricchissimi, in moltissimi agiati, ed in pochi pezzenti. Tuttavia,
questa divisione non può quasi mai nascere, o almeno
sussistere, se non in una repubblica; in vece che la divisione in
alcuni ricchissimi, e in moltissimi pezzenti, dee nascere, e tutto dì
si vede sussistere, nelle tirannidi, le quali di una tale
disproporzione si corroborano. Il secondo mezzo di rettificare il
lusso, e diminuirne la maligna influenza sul dritto vivere civile,
sarà di non permetterlo nelle cose private, e d'incoraggirlo e
onorarlo nelle pubbliche. Di questi due mezzi le poche repubbliche
d'Europa si vanno pur prevalendo, ma debolmente ed invano; come
quelle che sono corrottissime anch'esse dal fastoso e pestifero
vivere delle vicine tirannidi. E questi altresì sono i due
mezzi, che i nostri tiranni non adoprano, e non debbono adoprar mai
contro al lusso; come quelli che in esso ritrovano uno dei più
fidi satelliti della tirannide. Un popolo misero e molle, che si
sostenta col tessere drappi d'oro e di seta, onde si cuoprano poi i
pochi ricchi orgogliosi; di necessità un tal popolo viene a
stimar maggiormente coloro, che più consumandone, gli dan più
guadagno. Così, viceversa, il popolo romano che solea ritrarre
il suo vitto dalle terre conquistate coll'armi, e fra lui distribuite
poi dal senato, sommamente stimava quel console o quel tribuno, per
le di cui vittorie più larghi campi gli venivano
compartiti.
Essendo dunque dal privato lusso sovvertite in tal
modo le opinioni tutte del vero e del retto; un popolo, che onora e
stima maggiormente coloro, che con maggiore ostentazione di lusso lo
insultano, e che effettivamente lo spogliano, benché in
apparenza lo pascano; un tal popolo, potrà egli avere idea,
desiderio, diritto, e mezzi, di riassumere libertà?
E que'
grandi, (cioè chiamati tali) che i loro averi a gara
profondono, e spesso gli altrui, per vana pompa assai più, che
per vero godimento; quei grandi, o sia ricchi, a cui tante
superfluità si son fatte insipide, ma necessarie; que' ricchi
in somma, che a mensa, a veglia, a' festini, ed a letto, traggono fra
gli orrori della sazietà la loro effemminata, tediosa, ed
inutile vita; que' ricchi, potrann' eglino, più che la
vilissima feccia del popolo, innalzarsi a conoscere, a pregiare,
desiderare, e volere la libertà? Costoro primi ne
piangerebbero; e assumere non saprebbero esistenza nessuna, se non
avessero un intero ed unico tiranno, che perpetuando il dolce loro
ozio, alla lor dappocaggine comandasse.
Inevitabile dunque, e
necessario è il lusso nelle tirannidi. E crescono in esse
tutti i vizj in proporzione del lusso, che è il principe loro;
del lusso, che tutti li nobilita, coll'addobbarli; che a tal segno
confonde i nomi delle cose, che la disonestà dei costumi
chiamasi fra' ricchi, galanteria; l'adulare, un saper vivere; l'esser
vile, prudenza; l'essere infame, necessità. E di questi vizj
tutti, e dei molti più altri ch'io taccio, i quali hanno tutti
per base, e per immediata cagione il lusso, chi maggiormente ne gode,
chi ne ricava più manifesto e immenso il vantaggio? I tiranni,
che da essi ricevono, e per via di essi in eterno si assicurano, il
pacifico ed assoluto comando.
Il lusso dunque (che io definirei;
L'immoderato amore ed uso degli agj superflui e pomposi)
corrompe in una nazione ugualmente tutti i ceti diversi. Il popolo,
che ne ritrae anch'egli qualche apparente vantaggio, e che non sa e
non riflette, che per lo più la pompa dei ricchi non è
altro che il frutto delle estorsioni fatte a lui, passate nelle casse
del tiranno, e da esso quindi profuse fra questi secondi oppressori;
il popolo, è anch'egli necessariamente corrotto dal tristo
esempio dei ricchi, e dalle vili oziose occupazioni con che si
guadagna egli a stento il suo vitto. Perciò quel fasto dei
grandi che dovrebbe sì ferocemente irritarlo, al popolo piace
non poco, e stupidamente lo ammira. Che gli altri ceti debbano essere
corrottissimi dal lusso che praticano, inutile mi pare il
dimostrarlo.
Corrotti in una nazione tutti i diversi ceti, è
manifestamente impossibile che ella diventi o duri mai libera, se da
prima il lusso che è il più feroce corruttore di essa,
non si sbandisce. Principalissima cura perciò del tiranno
debb'essere, ed è, (benché alle volte la stolta
ostentazione del contrario ei vada facendo) l'incoraggire, propagare,
ed accarezzare il lusso, da cui egli ritrae più assai
giovamento che da un esercito intero. E il detto fin qui, basti per
provare che non v'ha cosa nelle nostre tirannidi, che ci faccia più
lietamente sopportare e anche assaporare la servitù, che l'uso
continuo e smoderato del lusso: come pure, a provare ad un tempo, che
dove radicata si è questa peste, non vi può sorgere od
allignar libertà.
Si esamini ora, se là, dove già
è stabilita una qualunque libertà, possa allignare il
lusso; e qual dei due debba cedere il campo. S'io bado alle storie,
in ogni secolo, in ogni contrada, vedo sempre sparire la libertà
da tutti quei governi che han lasciato introdurre il lusso dei
privati; e mai non la vedo robustamente risorgere fra quei popoli,
che son già corrotti dal lusso. Ma, siccome la storia di tutto
ciò che è stato non è forse assolutamente la
prova innegabile di tutto ciò che può essere; a me
pare, che alla disuguaglianza delle ricchezze nei cittadini non
ancora interamente corrotti, in quel brevissimo intervallo in cui
possono essi mantenersi tali, i governi liberi non abbiano altro
rimedio da opporre più efficace che la semplice opinione.
Quindi volendo essi concedere a queste mal ripartite ricchezze uno
sfogo che ad un tempo circolare le faccia, e non distrugga del tutto
la libertà, persuaderanno ai ricchi d'impiegarle in opere
pubbliche; onoreranno questo solo loro fasto, annettendo un'idea di
disprezzo a qualunque altro uso che ne facessero i ricchi nella loro
privata vita, oltre quella decenza e quegli agj ragionevoli,
richiesti dal loro stato, e compatibili colla pubblica decenza. I
liberi governi persuaderanno ad un tempo agli uomini poveri, (non
intendo con ciò dire, ai pezzenti) che non è delitto né
infamia l'esser tali; e lo persuaderan facilmente, coll'accordare a
questi non meno che agli altri l'adito a tutti gli onori ed uffizj. E
non per insultare alla miseria escludo io principalmente i
necessitosi; ma perché costoro, come troppo corrottibili, e
per lo più vilmente educati, non sono meno lontani dalla
possibilità del dritto pensare e operare, di quel che lo
siano, per le ragioni appunto contrarie, i ricchissimi.
Ma queste
saggie cautele riusciranno pur anche inutili a lungo andare. La
natura dell'uomo non si cangia; dove ci sono ricchezze grandi e
disugualmente ripartite, o tosto o tardi dee sorgere un gran lusso
fra i privati, e quindi una gran servitù per tutti. Questa
servitù difficilmente da prima si può allontanare da un
popolo dove alcuni ricchissimi siano, e poverissimi i più; ma
quando poi ella si è cominciata a introdurre, provato che
hanno i ricchissimi quanto la universal servitù riesca
favorevole al loro lusso, vivamente poi sempre si adoprano
affinch'ella non si possa più scuoter mai.
Sarebbe dunque
mestieri, a voler riacquistare durevole libertà nelle nostre
tirannidi, non solamente il tiranno distruggere, ma pur troppo anche
i ricchissimi, quali che siano; perché costoro, col lusso non
estirpabile, sempre anderan corrompendo se stessi ed altrui.
Capitolo
Decimoquarto
DELLA
MOGLIE E PROLE DELLA TIRANNIDE
Come
in un mostruoso governo, dove niun uomo vive sicuro né del
suo, né di se stesso, ve ne siano pure alcuni che ardiscano
scegliere una compagna della propria infelicità, e perpetuare
ardiscano la propria e l'altrui servitù col procrearvi dei
figli, difficil cosa è ad intendersi, ragionando; ed
impossibile parrebbe a credersi, se tutto dì nol vedessimo.
Dovendone addur le ragioni, direi; che la natura, in ciò più
possente ancora che non è la tirannide, spinge gl'individui ad
abbracciar questo conjugale stato con una forza più efficace
di quella con cui la tirannide da esso gli stoglie. E non volendo io
ora distinguere se non in due soli ceti questi uomini soggiogati da
un tale governo, cioè in poveri e ricchi; direi, che si
ammogliano nella tirannide i ricchi, per una loro stolta persuasione
che la stirpe loro, ancorché inutilissima al mondo e spesso
anche oscura, vi riesca nondimeno necessaria, e gran parte del di lui
ornamento componga; i poveri, perché nulla sanno, nulla
pensano, e in nulla possono oramai peggiorare il loro infelicissimo
stato.
Lascio per ora da parte i poveri; non già perché
sprezzabili siano, ma perché ad essi nuoce assai meno il far
come fanno. Parlerò espressamente de' ricchi; non per altra
ragione, se non perché essendo, o dovendo costoro essere
meglio educati; avendo essi in qualche picciola parte conservato il
diritto di riflettere; e non potendo quindi non sentire la loro
servitù; debbono i ricchi, quando non siano del tutto stolidi,
moltissimo riflettere alle conseguenze del pigliar moglie nella
tirannide. E per fare una distinzione meno spiacente, o meno
oltraggiosa per gli uomini, che non è quella di poveri e
ricchi, la farò tra gli enti pensanti, ed i non pensanti. Dico
dunque, che chi pensa, e può campare senza guadagnarsi il
vitto, non dee mai pigliar moglie nella tirannide; perché,
pigliandovela, egli tradisce il proprio pensare, la verità, se
stesso, e i suoi figli. Non è difficile di provare quanto io
asserisco. Suppongo, che l'uomo pensante dee conoscere il vero;
quindi indubitabilmente si dee dolere non poco in se stesso di esser
nato nella tirannide; governo, in cui nulla d'uomo si conserva oltre
la faccia. Ora, colui che si duole di esservi nato, avrà egli
il coraggio, o per dir meglio, la crudeltà, di farvisi
rinascere in altrui? di aggiungere al timore che egli ha per se
stesso, l'avere a temere per la moglie, e quindi pe' figli? Parmi ciò
un moltiplicare i mali a tal segno, che io non potrò pur mai
credere, che chi piglia moglie nella tirannide, pensi, e conosca
pienamente il vero.
Il primo oggetto del matrimonio egli è,
senza dubbio, di avere una fedele e dolce compagna delle private
vicende, la quale dalla morte soltanto ci possa esser tolta.
Supponendo ora il non supponibile, cioè che in una tirannide
non fossero corrotti i costumi, onde questa compagna potesse non aver
altra cura né desiderio, che di piacere al marito; chi può
assicurare costui, che ella dal tiranno, o dai suoi tanti potenti
satelliti, non gli verrà sedotta, corrotta, o anche tolta?
Collatino, parmi, è un esempio chiaro abbastanza per
dimostrare la possibilità di un tal fatto: ma gli alti effetti
che da quello stupro ne nacquero, sono ai tempi nostri assai meno
sperabili, benché le cagioni tutto dì ne sussistano. Mi
odo già dire; Che il tiranno non può voler la moglie di
tutti; che è caso anche raro nei nostri presenti costumi,
ch'egli cerchi a sedurne due o tre; e che questo farà egli con
promesse, doni, ed onori ai mariti, ma non mai con l'aperta violenza.
Ecco le scellerate ragioni che rassicurano il cuore dei presenti
mariti, i quali niun'altra cosa temono al mondo, che di non esser
essi quei felici che compreranno a prezzo della propria infamia il
diritto di opprimere i meno vili di loro. Molti secoli dopo
Collatino, nelle Spagne, rozze ancora e quindi non molto corrotte, un
altro regio stupro ne facea cacciare i tiranni indigeni, e chiamarne
de' nuovi stranieri. Ma nei tempi nostri illuminati e dolcissimi, uno
stupro con violenza accader non potrebbe, perché non v'è
donna che si negasse al tiranno; e la vendetta qualunque, se egli
pure accadesse, ne riuscirebbe impossibile; perché non v'è
padre o fratello o marito, che non si stimasse onorato di un tal
disonore. E la verità qui mi sforza a dir cosa, che nelle
tirannidi moverà al riso il più degli schiavi, ma che
in qualche altro cantuccio del globo, dove i costumi e la libertà
rifugiati si siano, moverà ad un tempo dolore, maraviglia, e
indegnazione; ed è, che se pure ai dì nostri vi fosse
quel tale insofferente e magnanimo, che con memorabile vendetta
facesse ripentire il tiranno di avergli fatto un così grave
oltraggio, l'universale lo tratterebbe di stolido, d'insensato, e di
traditore; e stranezza chiamerebbero in lui il non voler con molti
manifesti vantaggi sopportar dal tiranno quella ingiuria stessa, che
tutto dì si suole, senza utile niuno, ricevere e sopportar dai
privati. Inorridisco io stesso nel dover riferire queste argute
viltà, che sono il più elegante condimento del moderno
pensare; e che, con vocabolo francese, lietamente chiamansi SPIRITO:
ma nella forza del vero talmente confido, che io ardisco sperare che
tornerà pure un tal giorno, in cui, non meno ch'io nello
scrivere di tali costumi, inorridiranno i molti nel leggerli.
Se
nell'ammogliarsi dunque il primo scopo si è d'aver moglie; ove
non si voglia pure confondere (come di tante altre cose si fa) il
mantenerla coll'averla; avere non si può, perché se non
la tolgono al marito il tiranno, o alcuno de' tanti suoi sgherri, ai
quali invano si resisterebbe, gliela tolgono infallibilmente i
corrotti scellerati universali costumi, conseguenza necessarissima
dell'universal servitù.
Ora, che dirò io dei figli?
Quanto più cari essere sogliono i figli che la moglie, tanto
più grave e funesto è l'errore di chi procreandoli
somministra al tiranno un sì possente mezzo di più per
offenderlo, intimorirlo, ed opprimerlo; come a se stesso procaccia un
mezzo di più per esserne offeso ed oppresso. E da una delle
due susseguenti sventure è impossibile cosa di preservarsi. O
i figli dell'uomo pensante si educheranno simili al padre; e perciò,
senza dubbio, infelicissimi anch'essi: o dal padre riescon dissimili,
e infelicissimo lui renderanno. Nati per le triste loro circostanze
al servire, non si possono, senza tradirgli, educare al pensare; ma,
nati pur sempre per natura al pensare, non può lo sventurato
padre, senza tradire la verità il suo onore e se stesso,
educargli al servire.
Qual partito rimane adunque nella tirannide
all'uomo pensante, quando egli, per somma sfortuna e inescusabile
sconsideratezza, ha dato pur l'essere ad altri infelici? È di
tal sorta l'errore, che il pentimento non vale; così terribili
ne sono gli effetti e così inevitabili, che le vie di mezzo
non bastano. Bisognerebbe dunque nelle tirannidi, o soffocare i
proprj figliuoli appena son nati, o abbandonargli alla pubblica
educazione ed al volgar non-pensare. Questo partito da quasi tutti i
moderni padri si siegue, e non è men crudele dell'altro, ma
molto è più vile bensì. E, a chi mi dicesse (ciò
che anch'io pur troppo so, ancorch'io padre non sia) che troppo alla
natura ripugna il trucidare i proprj figliuoli, risponderei; che
ripugna alla natura nostra non meno il ciecamente servire
all'arbitrio e alla violenza d'un solo: e se poi così bene al
servir ci avvezziamo, questo infame pregio in noi non si accresce, se
non se in proporzione che si scemano in noi tutti gli altri naturali
e veri pregi dell'uomo. Quindi è, che i filosofi pensatori fra
i popoli liberi nessuna differenza, o pochissima, han posto infra la
vita d'un bruto, e quella d'un uomo, che non sia per aver mai
libertà, volontà, sicurezza, costumi, ed onore verace.
E tali pur troppo debbono riuscire quei figli, che stoltamente
procreati si sono nella tirannide; a cui se il padre non toglie la
vita del corpo, necessariamente toglie loro una più nobile
vita, quella dell'intelletto e dell'animo: ovvero, se sventuratamente
l'una e l'altra in essi del pari coltiva, altro non fa un tal misero
padre, che educar vittime per la tirannide.
Conchiudo; che chi ha
moglie e prole nella tirannide, tante più volte è
replicatamente schiavo, e avvilito, quanti più sono
gl'individui per cui egli è sforzato sempre a tremare.
Capitolo
Decimoquinto
DELL'AMOR
DI SE STESSO NELLA TIRANNIDE
La
tirannide è tanto contraria alla nostra natura, ch'ella
sconvolge, indebolisce, od annulla nell'uomo presso che tutti gli
affetti naturali. Quindi non si ama da noi la patria, perché
ella non ci è; non si amano i parenti, la moglie, ed i figli,
perché son cose poco nostre e poco sicure; non vi sono veri
amici, perché l'aprire interamente il suo cuore nelle cose
importanti, può sempre trasmutare un amico in un delatore
premiato, e spesso anche (pur troppo!) in un delatore onorato.
L'effetto necessario, che risulta nel cuor dell'uomo dal non potere
amar queste cose su mentovate, si è, di amare smoderatamente
se stesso. E parmi, che ne sia questa una delle principali ragioni:
dal non essere securo, nasce nell'uomo il timore; dal continuo
temere, nascono i due contrarj eccessi; o un soverchio amore, o una
soverchia indifferenza per quella cosa che sta in pericolo: nella
tirannide, temendo sempre noi tutti per le cose nostre e per noi, ma
amando (perché così vuol natura) prima d'ogni altra
cosa noi stessi, ne veniamo a poco a poco a temere sommamente per
noi, e ogni dì meno per quelle cose nostre, che non fanno
parte immediata di noi. Nelle repubbliche vere, amavano i cittadini
prima la patria, poi la famiglia, quindi se stessi: nelle tirannidi
all'incontro, sempre si ama la propria esistenza sopra ogni cosa.
Perciò l'amor di se stesso nella tirannide non è già
l'amore dei proprj diritti, né della propria gloria, né
del proprio onore; ma è semplicemente l'amor della vita
animale. E questa vita, per una non so qual fatalità, nello
stesso modo che la vediamo tenersi tanto più cara dai vecchj,
i quali oramai l'han perduta, che non dai giovani, a cui tutta
rimane; così tanto più riesce cara a chi serve, quanto
ella è men sicura, e val meno.
Capitolo
Decimosesto
SE
SI POSSA AMARE IL TIRANNO, E DA CHI
Colui
che potrà impunemente offendere tutti, e non essere mai
impunemente offeso da chi che sia, sarà per necessità
temutissimo, e quindi per necessità abborrito da tutti. Ma
costui potendo altresì beneficare, arricchire, onorare chi più
gli piace, chiunque riceve favori da lui non può senza una
vile ingratitudine, e senza essere assai peggiore di lui, non amarlo.
Rispondo a ciò, che il tutto è verissimo; e più
d'ogni cosa vero è, che chiunque riceve favori dal tiranno
suol essergli sempre ingrato nel cuore; ed è quasi sempre
assai peggiore di lui.
Dovendone assegnar le ragioni, direi; che
il troppo immenso divario fra le cose che il tiranno può dare
e quelle che può togliere, rende necessario ed estremo lo
abborrimento nei molti oltraggiati, e finto e stentato l'amore nei
pochi beneficati. Egli può dare ricchezze, autorità, e
onori supposti; ma egli può togliere tutto ciò ch'ei
dà, e di più la vita, e il vero onore; cose, che non è
in sua possanza di dare egli mai a nessuno.
Con tutto ciò,
la totale ignoranza dei proprj diritti può benissimo far
nascere in alcuni uomini questo funesto errore, di amare in un certo
modo colui che spogliandoli delle loro più sacre prerogative
d'uomo, non toglie però loro la proprietà di alcune
altre cose minori; il che, a parer di costoro, egli potrebbe pur
anche legittimamente, o almeno con impunità, praticare. E
certo uno stranissimo amore fia questo, e in tutto per l'appunto
paragonabile
a quell'amore che si verrebbe ad aver per una tigre,
che non ti divorasse potendolo. Cadranno in questo stupido affetto le
genti rozze e povere, che non hanno altra felicità, se non
quella di non vedere mai il tiranno, e di neppure conoscerlo; e
costoro assai poco verranno a temerlo, perché pochissimo a
loro rimane da perdere: onde una certa tal quale giustizia venendo
loro amministrata in nome di esso, la loro irriflessiva ignoranza fa
loro credere, che senza il tiranno neppur quella semi-giustizia
otterrebbero. Ma non potranno certamente mai pensare in tal modo
coloro, che tutto dì se gli accostano, e che ne conoscono
l'incapacità o la reità; ancorché ne ritraggano
essi splendore, onori, e ricchezze. Troppo è nota a questi
pochi la immensa potenza del tiranno, troppo care tengono essi quelle
ricchezze che ne han ricevute, per non temere sommamente colui che le
può loro nello stesso modo ritogliere: e il temere e l'odiare
sono interamente sinonimi.
Ma pure, il timore, pigliando nelle
corti la maschera dell'amore, vi si viene a comporre un misto
mostruosissimo affetto, degno veramente dei tiranni che lo ispirano,
e degli schiavi che lo professano. Quello stesso Sejano, che nella
grotta crollante e vicinissima a rovinare, salvava la vita a Tiberio
con manifesto pericolo della propria, avendone egli dappoi ricevuti
infiniti altri favori, congiurava pur contro lui. Sejano, amava egli
Tiberio in quel punto in cui pose se stesso a un così evidente
pericolo per salvarlo? certo no: Sejano in quel punto serviva dunque
alla propria sua ambizione, nello stesso modo che ogni giorno vediamo
nei nostri eserciti i più splendidi e molli e corrotti
officiali di essi affrontare la morte, non per altro se non per far
progredire la loro ambizioncella, e per maggiormente acquistarsi la
grazia del tiranno. Sejano, abborriva egli maggiormente Tiberio
quando gli congiurò contra, che quando il salvò? assai
più certamente abborrivalo dopo, perché la immensità
delle cose da lui ricevute, gli facea più da presso e con
maggior terrore rimirare la immensità, più grande
ancora, delle cose che quello stesso Tiberio gli poteva ritogliere.
Quindi, non si credendo Sejano in sicuro, se egli non ispegneva
quella sola potenza che avrebbe potuto trionfar della sua, non dubitò
poscia punto, anzi con lungo e premeditato disegno, imprese a
togliersi il tiranno dagli occhi. Né ai Tiberj, in qualunque
tempo o luogo essi nascano e regnino, toccar mai potranno altri amici
se non i Sejani. Se dunque il tiranno è sommamente abborrito
da quegli stessi ch'egli benefica, che sarà egli poi da quei
tanti che direttamente o indirettamente egli offende o dispoglia?
La
sola intera stupidità dei poveri e rozzi e lontani, può
dunque (come ho di sopra dimostrato) amare il tiranno, appunto perché
nessuno di questi lo vede né lo conosce; e questo amarlo va
interpretato, il non affatto abborrirlo. Da ogni altra persona
qualunque, nella tirannide, si può fingere bensì e
anche far pompa di amare il tiranno; ma veramente amarlo, non mai.
Questa servile bugiarda ed infame pompa verrà per lo più
praticata dai più vili; e da quelli perciò, i quali
maggiormente temendolo, maggiormente lo abborriscono.
Capitolo
Decimosettimo
SE
IL TIRANNO POSSA AMARE I SUOI SUDDITI, E COME
Nello
stesso modo con cui si è di sopra dimostrato, che i sudditi
non possono amare il tiranno, perché essendo egli troppo
smisuratamente maggiore di loro non corre proporzione nessuna fra il
bene ed il male che ne possono essi ricevere; nel modo stesso mi sarà
facile il dimostrare, che il tiranno non può amare i suoi
sudditi; perché, essendo essi tanto smisuratamente minori di
lui, non ne può egli ricevere alcuna specie di bene spontaneo,
riputandosi egli in dritto di prendere qualunque cosa essi volessero
dargli. E si noti così alla sfuggita, che lo amare, o sia egli
di amicizia, o d'amore, o di benignità, o di gratitudine, o
d'altro; lo amare si è uno degli umani affetti, che più
di tutti richiede, se non perfettissima uguaglianza, rapprossimazione
almeno e comunanza, e reciprocità fra gli individui. Ammessa
questa definizione dell'amare umano, ciascuno rimane giudice, se
niuna di tutte queste cose sussistere possa infra il tiranno e i suoi
schiavi; cioè, fra la parte sforzante e la parte
sforzata.
Corre nondimeno una gran differenza, in questa reciproca
maniera del non-amarsi, infra il tiranno ed i sudditi. Questi, come
tutti, (qual più qual meno, quale direttamente quale
indirettamente, quale in un tempo e quale nell'altro) come offesi
tutti e costretti dal tiranno, tutti lo abborriscono per lo più,
e così dev'essere: ma il tiranno, come un ente non offendibile
dall'universale, fuorché per manifesta ribellione contra di
lui; il tiranno non abborrisce se non se quei pochissimi che egli
vede o suppone essere nel loro cuore insofferenti del giogo; che se
costoro mai si attentassero di mostrarlo, la vendetta del tiranno
immediatamente verrebbe ad estinguerne l'odio. Non odia dunque il
tiranno i suoi sudditi, perché in veruna maniera essi non
l'offendono: e qualora si ritrova in trono per caso un qualche
tiranno d'indole mite ed umana, egli si può pur anche usurpare
la fama di amarli; né in tal caso, da altro una tal fama
proviene, se non dall'essere la natura di quel principe, per se
stessa, men rea di quel che lo sia per se stessa l'autorità e
la possibilità impunita del nuocere, che è posta in
lui. Ma io, sbadatamente, quasi ometteva una validissima ragione per
cui il tiranno dee anch'egli (e non poco) se non abborrire,
disprezzare almeno quella parte de' suoi sudditi che egli vede
abitualmente e conosce; ed è questa; che quella parte di essi
che gli si fa innanzi, e che cerca di avere alcuna comunicazione col
tiranno, ella è certamente la più rea di tutte; ed
egli, dopo una certa esperienza di regno, ne viene manifestamente
convinto. Quanto alla parte ch'egli non conosce né vede, e che
in veruna maniera non lo offende, io mi fo a credere che il tiranno
dotato di umana indole la possa benissimo amare: ma questo
indefinibile amore di colui che può giovare e nuocere
sommamente, per quelli che non possono a lui giovare né
nuocere, non si può assomigliare ad alcun altro amore, che a
quello con cui gli uomini amano i loro cani e cavalli; cioè,
in proporzione della loro docilità, ubbidienza, e perfetta
servitù. Ma certamente assai minor differenza soglion porre i
padroni fra essi e i loro cani e cavalli, di quella che ponga il
tiranno, ancorché moderato, infra se stesso e i suoi sudditi.
Cotesto suo amore per essi non sarà dunque altro, che un
oltraggio di più da lui fatto alla trista specie degli
uomini.
Capitolo Decimottavo
DELLE
TIRANNIDI AMPIE, PARAGONATE COLLE RISTRETTE
Che
siano più orgogliosi e superbi i tiranni delle estese
tirannidi, come assai più potenti, la intendo: ma, che gli
schiavi delle estese tirannidi ardiscano reputarsi da più che
gli schiavi delle ristrette, parmi esser questo il più
espresso delirio che possa entrare nella mente dell'uomo; ed una
evidentissima prova mi pare, che gli schiavi non pensano e non
ragionano. Se la ragione potesse ammettere alcuna differenza fra
schiavo e schiavo, ella sarebbe certamente in favore del minor
gregge. Quanti più sono gli uomini che ciecamente obbediscono
ad un solo, tanto più vili e stupidi ed infami riputare si
debbono, vie più sempre scemandosi la proporzione tra
l'oppressore e gli oppressi. Quindi nell'udire io le millanterie d'un
Francese, o d'uno Spagnuolo, che riputar si vorrebbe un ente maggiore
di un Portoghese, o di un Napoletano, parmi di udire una pecora del
regio armento schernire la pecora d'un contadino, perché
questa pasce in una mandra di dieci, ed ella in una mandra di
mille.
Se dunque differenza alcuna vi passa fra le tirannidi
grandi e le picciole, ella non istà nella essenza della cosa,
che una sola è per tutto; ma nella persona bensì del
tiranno. Qualunque di essi si troverà soverchiare oltremodo in
potenza i vicini tiranni, ne diverrà verisimilmente più
prepotente coi sudditi, dovendo egli nelle sue ampie circostanze
molto minori rispetti adoprare: ma per altra parte, avendo egli più
numero di sudditi, più importanti affari, più onori da
distribuire, più ricchezze da pigliarsi e da dare, (e non
avendo con tutto ciò maggior senno) quella sua autorità
riuscirà alquanto men fastidiosa nelle cose minute, ma
egualmente inetta, ed assai più gravosa, nelle importanti. Il
tiranno picciolo dovendo all'incontro usare infiniti rispetti co'
suoi vicini, sforzato sarà di rimbalzo ad osservarne anche
qualcuno più co' suoi sudditi: onde egli nell'offenderli,
massimamente nella roba, dovrà procedere alquanto più
guardingo. Ma, volendo egli pur dare sfogo alla sua autorità
soverchiante, facilmente verrà ad impacciarsi nei più
minuti affari dei privati; ed affacciandosi, direi così, allo
sportello di ogni casa, vorrà saperne, e frammettersi nei più
minimi pettegolezzi di quelle.
Nelle tirannidi ampie i miseri
sudditi saranno dunque maggiormente angariati, nelle ristrette più
infastiditi; ed ugualmente infelici in entrambe: perché agli
uomini non arreca minor danno e dolore la noja, che l'oppressione.
LIBRO SECONDO
Capitolo
Primo
INTRODUZIONE AL LIBRO SECONDO
Ho ragionato nel passato libro, quanto più seppi brevemente, delle cagioni e mezzi della tirannide; e accennata ho di volo una minima parte degli effetti che ne derivano. Non intendo io di aver detto su ciò tutto quel che può dirsi; ma quanto bensì mi parve più importante, e meno detto da altri. Più brevemente ancora ragionerò, in questo secondo libro, dei modi con cui si possa sopportar la tirannide volendola, o non volendola, scuoterla.
Capitolo
Secondo
IN QUAL MODO SI POSSA VEGETARE NELLA TIRANNIDE
Il vivere senz'anima, è il più breve e il più sicuro compenso per lungamente vivere in sicurezza nella tirannide; ma di questa obbrobriosa morte continua (che io per l'onore della umana specie non chiamerò vita, ma vegetazione) non posso, né voglio insegnare i precetti; ancorché io gli abbia, senza volerli pure imparare, pur troppo bevuti col latte. Ciascuno per sé li ricavi dal proprio timore, dalla propria viltà, dalle proprie circostanze più o meno servili e fatali; e in fine, dal tristo e continuo esempio dei più, ciascun li ricavi.
Capitolo
Terzo
COME SI POSSA VIVERE NELLA TIRANNIDE
Io
dunque parlerò a quei pochissimi, che degni di nascere in
libero governo fra uomini, si trovano dalla sempre ingiusta fortuna,
direi balestrati, in mezzo ai turpissimi armenti di coloro, che
nessuna delle umane facoltà esercitando, nessuno dei dritti
dell'uomo conoscendo, o serbandone, si vanno pure usurpando di uomini
il nome.
E, dovendo io pur dimostrare a que' pochissimi, in
qual modo si possa vivere quasi uomo nella tirannide, sommamente mi
duole che io dovrò dar loro dei precetti pur troppo ancora
contrarj alla libera loro e magnanima natura. Oh quanto più
volentieri, nato io in altri tempi e governi, m'ingegnerei di dar
(non coi detti, ma coi fatti bensì) gli esempj del viver
libero! Ma, poiché vano è del tutto il dolersi dei mali
che sono o pajono privi di un presente rimedio, facciasi come nelle
insanabili piaghe, a cui non si cerca oramai guarigione, ma solamente
un qualche sollievo.
Dico per tanto; che allorché
l'uomo nella tirannide, mediante il proprio ingegno, vi si trova
capace di sentirne tutto il peso, ma per la mancanza di proprie ed
altrui forze vi si trova ad un tempo stesso incapace di scuoterlo;
dee allora un tal uomo, per primo fondamentale precetto star sempre
lontano dal tiranno, da' suoi satelliti, dagli infami suoi onori,
dalle inique sue cariche, dai vizj, lusinghe, e corruzioni sue, dalle
mura terreno ed aria perfino, che egli respira, e che lo circondano.
In questa sola severa total lontananza, non che troppo, non mai
esagerata abbastanza; in questa sola lontananza ricerchi un tal uomo
non tanto la propria sicurezza, quanto la intera stima di se
medesimo, e la purità della propria fama; entrambe sempre, o
più o meno, contaminate, allorché l'uomo in qualunque
modo si avvicina alla pestilenziale atmosfera delle corti.
Debitamente
così, ed in tempo, allontanatosi l'uomo da esse, sentendosi
egli purissimo, verrà ad estimare se stesso ancor più
che se fosse nato libero in un giusto governo; poiché
liber'uomo egli ha saputo pur farsi in uno servile. Se costui, oltre
ciò, non si trova nella funesta necessità di doversi
servilmente procacciare il vitto, poiché la nobile fiamma di
gloria non è spenta affatto nel di lui cuore dalla perversità
de' suoi tempi, non potendo egli assolutamente acquistare la gloria
del fare, ricerchi, con ansietà bollore ed ostinazione, quella
del pensare, del dire, e dello scrivere. Ma, come pensare, e dire, e
scrivere potrà egli in un mostruoso governo, in cui l'una sola
di queste tre cose diventa un capitale delitto? Pensare, per proprio
sollievo, e per ritrovare in quel giusto orgoglio di chi pensa un
nobile compenso alla umiliazion di chi serve: dire, ai pochissimi
avverati buoni, e come tali, degnissimi di compassione, di amicizia,
e di conoscere pienamente il vero: scrivere, finalmente, per proprio
sfogo, da prima; ma, dove sublimi poi riuscissero gli scritti, ogni
cosa allora sagrificare alla lodevole gloria di giovar veramente a
tutti od ai più, col pubblicare gli scritti.
L'uomo,
che in tal modo vive nella tirannide, e degno così manifestasi
di non vi essere nato, sarà da quasi tutti i suoi conservi o
sommamente sprezzato, ovvero odiatissimo: sprezzato da quelli, che
per non aver idea nessuna di vera virtù, stoltamente credono
da meno di loro chiunque vive lontano dal tiranno e dai grandi; cioè
da ogni vizio, viltà, e corruzione: odiato da quegli altri,
che avendo mal grado loro l'idea del retto e del bene, per esecrabile
viltà d'animo, e reità di costumi, sfacciatamente
seguono il peggio. Ma, e quello sprezzo di una gente per se stessa
disprezzabilissima, sarà una convincente prova, che un tal
uomo è veramente stimabile; e l'odio di questi altri per se
stessi odiosissimi, indubitabil prova sarà, che egli merita e
l'amore e la stima de' buoni. Quindi non dee egli punto curare né
lo sprezzo, né l'odio.
Ma, se questo sprezzo e
quest'odio degli schiavi si propaga fino al padrone, quel vero e solo
uomo, che ne merita il nome, e i doveri ne compie, per via dello
sprezzo può essere sommamente avvilito nella tirannide; e, per
via dell'odio, può esservi ridotto a manifesto e inevitabil
pericolo. Questo libricciuolo non è scritto pe' codardi.
Coloro, che con una condotta di mezzo fra la viltà e la
prudenza, non se ne possono viver sicuri, venendo pur ricercati nella
loro oscura e tacita dimora dalla inquirente autorità del
tiranno, arditamente si mostrino tali ch'ei sono; e basti per loro
discolpa il poter dire, che non hanno essi ricercato i pericoli; ma
che, trovatili, non debbono, né vogliono, né sanno
sfuggirli.
Capitolo
Quarto
COME SI DEBBA MORIRE NELLA TIRANNIDE
Benché
la più verace gloria, cioè quella di farsi utile con
alte imprese alla patria ed ai concittadini, non possa aver luogo in
chi, nato nella tirannide, inoperoso per forza ci vive; nessuno
tuttavia può contendere a chi ne avesse il nobile ed ardente
desiderio, la gloria di morire da libero, abbenché pur nato
servo. Questa gloria, quantunque ella paja inutile ad altrui, riesce
nondimeno utilissima sempre, per mezzo del sublime esempio; e, come
rarissima, Tacito, quell'alto conoscitore degli uomini, la giudica
pure esser somma. Alla eroica morte di Trasea, di Seneca, di Cremuzio
Cordo, e di molti altri Romani proscritti dai loro primi tiranni,
altro in fatti non mancava, che una più spontanea cagione, per
agguagliar la virtù di costoro a quella dei Curzj, dei Decj, e
dei Regoli. E siccome, là dove ci è patria e libertà,
la virtù in sommo grado sta nel difenderla e morire per essa,
così nella immobilmente radicata tirannide non vi può
essere maggior gloria, che di generosamente morire per non viver
servo.
Parmi adunque, che nei nostri scellerati governi, i
pochissimi uomini virtuosi e pensanti vi debbano vivere da prudenti,
finché la prudenza non degenera in viltà; e morire da
forti, ogniqualvolta la fortuna, o la ragione, a ciò li
costringa. Un cotal poco verrà ammendata così, con una
libera e chiara morte, la trapassata obbrobriosa vita servile.
Capitolo
Quinto
FINO A QUAL PUNTO SI POSSA SOPPORTAR LA TIRANNIDE
Ma,
fino a qual segno si possa sopportar l'oppressione di un tirannico
governo, difficile riesce a prefiggersi: poiché non a tutti i
popoli, né a tutti gl'individui, gli stessi oltraggi portano
un egual colpo. Nondimeno, parlando io sempre a coloro, che non
meritando oltraggio nessuno, vivissimamente quindi sentono nel più
profondo cuore i più leggieri eziandio; ed essendo costoro i
pochissimi (che se tali i moltissimi fossero, immediatamente ogni
pubblico oltraggiator cesserebbe) a costoro dico; che si può
da lor sopportare che il tiranno tolga loro gli averi, perché
nessun privato avere vale quell'estremo universale scompiglio, che ne
potrebbe nascere dalla loro dubbia vendetta. Così perversi
sono i presenti tempi, che da una privata vendetta, ancorché
felicemente eseguita, non ne potrebbe pur nascer mai nessun vero
permanente bene pel pubblico, ma se gli potrebbe accrescer bensì
moltissimo il danno. Onde, volendo io che i buoni, nella stessa
tirannide, siano, per quanto essere il possono, cittadini; e volendo,
che ai loro conservi, o giovino, o inutilmente almeno non nuocano; ai
buoni non darei mai per consiglio di sturbare inutilmente la pace, o
sia il sopore di tutti, per far vendetta delle loro tolte sostanze.
Ma
le offese di sangue nella persona dei più stretti parenti od
amici, allorch'elle siano manifestamente ingiuste, ed atroci; e così,
le offese nel proprio verace onore; io non ardirei mai consigliare a
chi ha faccia d'uomo di tollerarle. Si può vivere senza le
sostanze, perché nessuno muore di necessità; e perché
l'uomo, per l'esser povero, non riesce perciò mai vile a se
stesso, ove egli non lo sia divenuto pe' suoi vizj e reità: ma
non si può sopravvivere alla perdita sforzata ed ingiusta di
una teneramente amata persona; né, molto meno, alla perdita
del proprio onore. Quindi, dovendo assolutamente un tal uomo morire,
ed essendo estrema la ingiuria ricevuta, non può egli né
dee più allora conservare rispetti; e, che che avvenire ne
possa, il forte dee sempre morir vendicato: e chi nulla teme, può
tutto.
Per unica prova di quanto asserisco, addurrò
la sola riflessione, che di quante tirannidi sono state distrutte, o
di quanti tiranni sono stati spenti, per destare quel primo impeto
universale necessarissimo a ciò, non vi fu mai altra più
incalzante ragione che le ingiurie fatte dal tiranno nell'onore
principalmente, quindi nel sangue, poi nell'avere. Questo
insegnamento non è dunque mio; ma egli sta nella natura degli
uomini tutti. Ma pure, a chi dovesse, e volesse, vendicare una simile
ingiuria, consiglierei pur sempre di farsi solo all'impresa, e di
omettere interamente ogni pensiero alla propria salvezza, e come non
alto, e come vano, e come sempre dannoso ad ogni magnanima importante
vendetta. E chi non si sente capace di questa totale omissione di se
stesso, non si reputi stoltamente capace, né degno, di
eseguire una sì alta vendetta; e si persuada, che meritava
egli veramente l'oltraggio che ha ricevuto; e pazientemente quindi
sel goda. Ma, se l'offeso si trova del pari dotato di alto animo e
d'illuminato intelletto; se da quella sua privata vendetta ne ardisce
egli concepire e sperare la universale permanente libertà;
tanto più allora si muova egli (ma sempre pur solo) al
compiere la prima e la più importante impresa; ometta egli
parimente ogni pensiero della propria salvezza; tutte quelle
risentite parole, che, con grave ed inutil pericolo per sé e
per l'impresa, egli avrebbe mosso agli amici per indurgli a
congiurare con lui, tutte le cangi in un solo importantissimo,
tacito, e ben assestato colpo: e lasci poi all'effetto che ne dee
necessariamente ridondare, l'incarico di estendere e di corroborar la
congiura; e al solo destino ogni cura della propria salvezza
abbandoni. Ma cogli esempli più estesamente mi spiego.
Il
popolo di Roma si sollevò contro ai tiranni, congiurò
felicemente contr'essi, e la tirannide al tutto distrusse, allorché
finalmente si mosse, dopo tante altre battiture, colpito dal
compassionevole atroce spettacolo di Lucrezia contaminata dal
tiranno, e di propria mano svenata. Ma, se Lucrezia non avesse in se
stessa generosamente compiuta la prima vendetta, egli è da
credersi che Collatino, o Bruto, inutilmente forse, e con grave
dubbio e pericolo, avrebbero congiurato contro ai tiranni: perché
il popolo, e il più degli uomini, non son mai commossi, né
per metà pure, dalle più convincenti ragioni, quanto lo
sono da una giusta e compiuta vendetta; massimamente, allorché
ad essa si aggiunge un qualche spettacolo terribile e sanguinoso, che
ai loro occhi apprestatosi, i loro cuori fortemente riscuota. Se
dunque Lucrezia non si fosse uccisa da sé, Collatino, come il
più fieramente oltraggiato, avrebbe dovuto perdere
risolutamente se stesso uccidendo l'adultero tiranno; e se egli in
tale impresa periva, doveva lasciar poi a Bruto l'incarico di
muovere, per via di quella sua giusta uccisione, il popolo a libertà
e a furore. Ma, se non fosse stato così pubblico ed importante
quest'ultimo tirannico oltraggio; e se, per essere questo aggiunto a
molti altri, non fosse stata oramai matura la liberazione del popolo
di Roma; i parenti e gli amici di Collatino avrebbero forse
congiurato, ma contra i soli Tarquinj: in vece che Collatino, senza
punto congiurare con altri, avrebbe egli solo certamente potuto
uccidere il tiranno, e quindi forse anche salvare se stesso; e,
congiunto poscia con Bruto, avrebbe liberato anco Roma.
È
dunque da notarsi in codesto accidente, che l'uomo oltraggiato
gravemente nella tirannide, non dee mai da prima congiurare con altri
che con se stesso; perché almeno assicura egli così la
propria privata vendetta; e, con quel terribile spettacolo che egli
appresta ai suoi cittadini, lascia in qualche aspetto di probabilità,
e assai più matura, la pubblica, a chi la volesse e sapesse
eseguirla. All'opposto, col congiurare in molti per fare la prima
privata vendetta, elle si perdono spessissimo entrambe. Quell'uomo
dunque, che capace si reputa di ordire e spingere una alta e giovevol
congiura, il cui fine debba essere la vera politica libertà,
non la imprenda giammai, se non se dopo moltissimi universali
oltraggi fatti dal tiranno, e immediatamente dopo una qualche privata
atroce vendetta contr'essi, felicemente eseguita da uno dei
gravemente oltraggiati. E così, chi si sente davvero capace di
solennemente vendicare un proprio privato importantissimo oltraggio,
senza cercarsi compagni, altamente e pienamente lo vendichi; e lasci
poscia ordir la congiura da chi vien dopo: che s'ella riesce a buon
fine, l'onore ne sarà pur sempre in gran parte anche suo;
bench'egli rimanesse spento già prima: e se la pubblica
consecutiva congiura poi non riesce, tanto maggiore ne risulterà
a lui privato la gloria, e la maraviglia degli uomini, che vedranno
la sua privata congiura aver da lui solo ottenuto un pienissimo
effetto.
Ma le congiure, ancorch'elle riescano, hanno per lo
più funestissime conseguenze, perché elle si fanno
quasi sempre contro al tiranno, e non contra la tirannide. Onde, per
vendicare una privata ingiuria, si moltiplicano senza alcun pro
gl'infelici; e, o sia che il tiranno ne scampi, o sia che un nuovo
gli succeda, si viene ad ogni modo per quella privata vendetta e
centuplicar la tirannide, e la pubblica calamità.
Quell'uomo
dunque, che dal tiranno riceve una mortale ingiuria nel sangue, o
nell'onore, si dee figurare che il tiranno lo abbia condannato
inevitabilmente a morire; ma che nella impossibilità, in cui
egli è, di scamparne, gli rimane pure la intera possibilità
di vendicarsene prima, e di non morir quindi infame del tutto. Né
altro deve egli pensare in quel punto, se non che, tra i precetti del
tiranno, il primo e il solo non mai trasgredito da lui, si è
di vendicarsi di quelli che ha offeso egli stesso. Sia dunque il
primo precetto di chi più gravemente è stato offeso da
lui, il prevenire a ogni costo con la sua giusta vendetta la non
giusta e feroce d'altrui.
Capitolo
Sesto
SE UN POPOLO, CHE NON SENTE LA TIRANNIDE, LA MERITI, O NO
Quel
popolo che non sente la propria servitù, è
necessariamente tale, che non concepisce alcuna idea di politica
libertà. Pure, siccome la totale mancanza di questa naturale
idea non proviene già dagli individui, ma bensì dalle
invecchiate loro circostanze, che son giunte a segno di soffocare in
essi ogni lume primitivo della ragion naturale; la umanità
vuole, che al loro errore si compatisca, e che non si disprezzino
affatto costoro, ancorché disprezzati siano e disprezzabili.
Nati nella servitù, di servi padri, nati anch'essi di servi,
donde oramai, donde potrebber costoro aver ritratto alcuna idea di
libertà primitiva? Naturale ed innata nell'uomo ella è,
mi si dirà da taluno; ma, e quante altre cose non meno
naturali, dalla educazione, dall'uso, e dalla violenza, non vengono
in noi indebolite o cancellate interamente ogni giorno?
Nella
romana repubblica, in cui ogni Romano nascea cittadino e riputavasi
libero, vi nasceano pur anco fra i soggiogati popoli alcuni schiavi,
che non poteano ignorar di esser tali, ogni giorno vedendo davanti a
sé i loro padroni esser liberi; e coloro si credeano pur di
esser servi, e nati per esserlo; e ciò soltanto, perché
erano educati, e di padre in figlio sforzati, a riputarsi tali. Ora,
se nel seno stesso della più splendida politica libertà
che siasi mai vista sul globo, quegli uomini ignoranti e avviliti
credeano di dover essi soli esser servi, non sarà maraviglia
che nelle nostre tirannidi, dove non si profferisce né il nome
pure di libertà, veri servi si credano quei che vi nascono; o,
per dir meglio, che non conoscendo essi libertà, non conoscano
né anche servaggio.
Parmi perciò, che i popoli
nostri si debbano assi più compiangere che non odiare o
sprezzare; essendo essi innocentemente, e per sola ignoranza,
complici senza saperlo del delitto di servire, di cui ben ampia già
e terribile ne van sopportando la pena. Ma l'odio, lo sprezzo, e se
altro sentimento vi ha più obbrobrioso e feroce, tutti si
debbono bensì dai pochi enti pensanti fieramente rivolgere
contro a quella picciola classe di uomini, che, non essendo stolidi
affatto né inetti, ed accorgendosi benissimo di viver servi
nella tirannide, sfacciatamente pure ogni giorno il vero, se stessi,
e gli altri tutti tradiscono, correndo a gara ad adulare il tiranno,
ad onorarlo, a difenderlo, ed a porgere primi l'infame collo a' suoi
lacci; e ciò, col sol patto che doppiamente da essi avvinto ed
oppresso ne rimanga il misero ed innocente popolo; presso cui, per
ottenere il lor barbaro intento, caldissimi propagatori con astuzia
si fanno di ogni dannosa ignoranza.
E, spingendo io più
oltre questa importante differenza fra quella parte di schiavi che
nella tirannide si fa istrumento d'oppressione, e quella che (senza
saperne il perché) si fa vittima, ardisco asserire una cosa
che parrà forse ai molti non vera, ma che io credo pure
verissima. Ed è; che dalla fedeltà stessa, dalla cecità
e ostinazione maggiore, con cui i popoli nella tirannide difendono il
loro tiranno, si debbe arguire che essi farebbero altrettanti e più
sforzi per la libertà, se mai l'acquistassero; e se fin dalle
fasce, in vece del nome del tiranno, come cosa sacra avessero udito
sempre religiosamente insegnarsi il nome di repubblica.
Il
vizio dunque della tirannide, e il maggiore obbrobrio della servitù,
non risiede nel popolo; che in ogni governo è sempre la classe
la meno corrotta; ma interamente risiede in quei pochi che il popolo
ingannano. Ed in prova, si osservi che ogniqualvolta il tiranno
eccede quel modo comportabile dalla umana stupidità, il primo
sempre, anzi il solo per lo più che risentirsi ardisca delle
estreme ingiurie, si è il più basso popolo, il quale
pure, nella pienissima sua ignoranza, stoltamente reputa il tiranno
essere quasi un Dio. All'incontro, gli ultimi sempre ad offendersi e
a ricercarne vendetta, ancorché ingiuriatissimi siano dal
tiranno, son quelli della più illustre classe, ed i suoi più
famigliari, i quali pure indubitabilmente convinti sono, ch'egli è
assai meno che un uomo.
Onde conchiudo; che nella tirannide
meritano solo di esser servi quei pochi, che avendo in sè la
idea di libertà, (e quindi o la forza o l'arte per tentare
almeno di riacquistarla per sé, facendola ad un tempo
riacquistare ad altrui) antepongono tuttavia di vivere in servitù;
ed anzi se ne pregiano essi; e, quanto più sanno e possono, vi
costringono il rimanente dei loro simili.
Capitolo
Settimo
COME SI POSSA RIMEDIARE ALLA TIRANNIDE
La
volontà, o la opinione di tutti o dei più, mantiene
sola la tirannide: la volontà e l'opinione di tutti o dei più,
può sola veramente distruggerla. Ma, se nelle nostre tirannidi
l'universale non ha idea d'altro governo, come si può egli
arrivare ad infondere in tutti, o nei più, questo nuovo
pensiero di libertà? Risponderò, piangendo, che mezzo
brevemente efficace a produr tale effetto, nessuno ve ne ha; e che
ne' paesi dove la tirannide da molte generazioni ha preso radice,
moltissime ve ne vuole prima che la lenta opinion la disvelga.
E
già mi avveggo, che in grazia di questa fatal verità,
mi perdonano i tiranni europei tutto ciò che finora intorno ad
essi mi è occorso di ragionare. Ma, per moderare alquanto
questa loro non meno stolta che inumanissima gioja, osserverò;
che ancorché non vi siano efficaci e pronti rimedj contro la
tirannide, ve ne sono molti tuttavia ed uno principalissimo,
rapidissimo, ed infallibile, contra i tiranni.
Stanno i
rimedj contro al tiranno in mano d'ogni qualunque più oscuro
privato: ma i più efficaci e brevi e certi rimedj contra la
tirannide, stanno (chi 'l crederebbe?) in mano dello stesso tiranno:
e mi spiego. Un animo feroce e libero, allor quando è
privatamente oltraggiato, o quando gli oltraggi fatti all'universale
vivissimamente il colpiscono, può da sé solo in un
istante e con tutta certezza efficacemente rimediare al tiranno, col
ferro: e, se molti di questi animi allignassero nelle tirannidi, ben
presto anco la moltitudine stessa cangerebbe il pensiero, e si
verrebbe così a rimediare ad un tempo stesso alla tirannide.
Ma, siccome gli animi di una tal tempra sono cosa rarissima, e
principalmente in questi scellerati governi; e siccome lo spegnere il
solo tiranno null'altro opera per lo più, che accrescere la
tirannide; io sono costretto, fremendo, a scrivere qui una durissima
verità; ed è, che nella crudeltà stessa, nelle
continue ingiustizie, nelle rapine, e nelle atroci disonestà
del tiranno, sta posto il più breve, il più efficace,
il più certo rimedio contra la tirannide. Quanto più
reo e scellerato è il tiranno, quanto più oltre spinge
manifestamente l'abuso dell'abusiva sua illimitata autorità;
tanto più lascia egli luogo a sperare, che la moltitudine
finalmente si risenta; e che ascolti ed intenda e s'infiammi del
vero; e ponga quindi solennemente fine per sempre a un così
feroce e sragionevol governo. È da considerarsi, che la
moltitudine rarissimamente si persuade della possibilità di
quel male che ella stessa provato non abbia, e lungamente provato:
quindi gli uomini volgari la tirannide non reputano per un mostruoso
governo, finché uno o più successivi mostri imperanti
non ne han fatto loro funesta ed innegabile prova con mostruosi
eccessi inauditi. Se in verun conto mai un buon cittadino potesse
divenire ministro d'un tiranno, ed avesse fermato in se stesso il
sublime pensiero di sagrificare la propria vita, e di più
anche la propria fama, per sicuramente ed in breve tempo spegnere la
tirannide, costui non avrebbe altro migliore né più
certo mezzo, che di consigliare in tal modo il tiranno, di secondare
e per fino talmente instigare la sua tirannesca natura, che
abbandonandosi egli ad ogni più atroce eccesso rendesse ad un
tempo del pari la sua persona e la sua autorità odiosissima e
insopportabile a tutti. E dico io espressamente queste tre parole; La
sua persona, la sua autorità, e a tutti; perché
ogni eccesso privato del tiranno non nuocerebbe se non a lui stesso;
ma ogni pubblico eccesso, aggiuntosi ai privati, egualmente a furore
movendo l'universale e gl'individui, nuocerebbe ugualmente alla
tirannide ed al tiranno; e li potrebbe quindi ad un tempo stesso
interamente entrambi distruggere. Questo infame ed atrocissimo mezzo
(che io primo il conosco per tale) indubitabilmente pure sarebbe,
come sempre lo è stato, il solo efficace e brevissimo mezzo ad
una impresa così importante e difficile. Inorridito ho nel
dirlo; ma vie più inorridiscono in pensare quai siano questi
governi, ne' quali se un uomo buono operar pur volesse colla maggior
certezza e brevità il sommo bene di tutti, si troverebbe
costretto a farsi prima egli stesso scellerato ed infame, ovvero a
desistersi dall'altramente ineseguibile impresa. Quindi è, che
un tal uomo non si può mai ritrovare; e che questo
sopraccennato rapido effetto dell'abuso della tirannide non si può
aspettare se non per via di un ministro scellerato davvero. Ma
questi, non volendo perdere del proprio altro che la fama (che già
per lo più mai non ebbe); e volendo egli assolutamente
conservare la usurpata autorità, le prede, e la vita; questi
lascierà bensì diventare il tiranno crudele e reo
quanto è necessario per fare infelicissimi i sudditi, ma non
mai a quell'eccesso che si bisognerebbe per tutti destargli a furore
e a vendetta.
Da ciò proviene, che in questo
mansuetissimo secolo cotanto si è assottigliata l'arte del
tiranneggiare, ed ella (come ho dimostrato nel primo libro) si
appoggia su tante e così ben velate e varie e saldissime basi,
che non eccedendo i tiranni, o rarissimamente eccedendo i modi
coll'universale, e non gli eccedendo quasiché mai co' privati,
se non sotto un qualche velo di apparente legalità, la
tirannide si è come assicurata in eterno.
Or ecco,
ch'io già mi sento dintorno gridare: "Ma, essendo queste
tirannidi moderate e soffribili, perché con tanto calore ed
astio svelarle e perseguirle?" Perché non sempre le più
crudeli ingiurie son quelle che offendono più crudelmente;
perché si debbono misurare i mali dalla loro grandezza e dai
loro effetti, più che dalla lor forza; perché, in
somma, colui che ti cava ogni giorno poche oncie di sangue ti uccide
a lungo andare ugualmente che colui che ad un tratto ti svena, ma ti
fa stentare assai più. Tutte le facoltà dell'animo
nostro intorpidite; tutti i diritti dell'uomo menomati o ritolti;
tutte le magnanime volontà impedite o deviate dal vero; e
mille e mille altre simili continue offese, che troppo lungo e
pomposo declamatore parrei, se qui ad una ad una annoverarle volessi;
ove la vita vera dell'uomo consista nell'anima e nell'intelletto, il
vivere in tal modo tremando, non è egli un continuo morire? E
che rileva all'uomo, che nato si sente al pensare e all'operare
altamente, di conservare tremante la vita del corpo, gli averi, e
l'altre sue cose (e queste né anco sicure) per poi perdere,
senza speranza di riacquistarli giammai, tutti, assolutamente tutti,
i più nobili e veri pregi dell'anima?
Capitolo
Ottavo
CON QUAL GOVERNO GIOVEREBBE PIÙ DI SUPPLIRE ALLA
TIRANNIDE
Ma,
già già mille altre obbiezioni non meno importanti
m'insorgono d'ogni intorno: e queste saranno le ultime alle quali io
mi creda in dovere di alquanto rispondere. "Più facil
cosa è il biasimare e il distruggere, che non il rettificare e
creare. Che la tirannide sia un governo esecrabile e vizioso in se
stesso, già ben lo sapevano tutti coloro che stupidi affatto
non sono; e per quelli che il sono, inutilissimo era il dimostrarlo.
Le storie tutte fanno fede della massima instabilità dei
liberi governi: onde riesce cosa intieramente vana il dimostrare che
non si dee soffrir la tirannide, se infallibili mezzi non s'insegnano
per eternare la libertà".
Queste, o simili
obbiezioni (che ne potrei riempire inutilmente le pagine) è
assai facile il farle, e non così facile l'impugnarle. Quanto
alla prima, rispondo di volo; che io non credo niente inutile il
dimostrare ai non affatto stupidi, non già che la tirannide
sia un governo esecrabile e vizioso in se stesso, poich'essi dicono
di saperlo, ma che quella specie di governo sotto cui essi vivono, e
che sotto il blandissimo nome di monarchia si vanno godendo, altro in
fatti non è se non una intera e schietta tirannide, accomodata
ai tempi; tirannide niente meno insultante e gravosa per gli uomini
che qualsivoglia altra antica od asiatica, ma assai più
saldamente fondata, e assai più durevole quindi, e fatale.
Alla
seconda obbiezione mi conviene rispondere alquanto più
lungamente. Il dimostrare qual sia il male, quali ne siano le
cagioni, i mezzi, ed in parte gli effetti, vien certamente ad essere
un tacito insegnamento di ciò che potrebbe essere il bene; che
in tutto è il contrario del male. "Se dunque venisse
fatto pur mai di estirpar la tirannide in alcuna ragguardevol parte
di Europa, come per esempio in tutta la Italia, qual tempra di
governo vi si potrebb'egli introdurre, che non venisse dopo alcun
tempo a ricadere in tirannide di uno o di più?"
Se
io, colla dovuta modestia e coscienza delle poche mie proprie forze,
mi fo a rispondere a questo importante quesito, dico; che quando si
ritrovasse l'Italia nelle circostanze a ciò necessarie,
quegl'Italiani che a quei tempi si troveranno aver meglio letto e
considerato tutto ciò che da Platone in poi è stato
scoperto e insegnato da tanti uomini sommi circa alla meno viziosa
forma dei governi; quegl'Italiani d'allora, che avran meglio studiato
e conosciuto nelle diverse storie, e nei diversi paesi dello stesso
lor secolo, la natura, l'indole, i costumi, e le passioni degli
uomini; quelli soli potranno allora con adequato senno provvedere a
ciò che operare allor si dovrebbe pel meglio; cioè, pel
meno male.
Se io, all'incontro, presuntuosamente rispondere
volessi al quesito, mi troverei costretto di farlo col pormi ad
un'altra opera, e intitolarla DELLA REPUBBLICA; nella quale
individuatamente ed a lungo mi proverei a ragionare su tale materia.
Ma, quando pur anche mi credessi io di avere e senno, e lumi, e
dottrina, ed ingegno da ciò; bisognerebbe nondimeno sempre,
che io (per non acquistarmi gratuitamente alla prima il nome di
stolto) in fronte di un tal libro mi protestassi, ch'ella è
impossibil cosa fra gli uomini di nulla stabilir di perfetto e
d'inalterabile; e principalmente in un tal genere di cose, che
richiedendo continuamente sforzo e virtù, (atteso il contrario
e continuo impulso della umana natura, che assai più è
propensa al bene dei privati individui, e quindi tosto al male di
tutti o dei più) vanno insensibilmente ogni giorno menomandosi
e corrompendosi per se stesse. E sarei anche sforzato in quella mia
prefazione di aggiungervi, che quegli ordini che convengono ad uno
stato, disconvengono spessissimo all'altro; che quelli che bene si
adattano al principiare di uno stato novello, non operano poi
abbastanza nel progredire, e alle volte anzi nuocono nel continuare;
che il cangiargli a seconda col cangiarsi degli uomini dei costumi e
dei tempi, ella è cosa altrettanto necessaria, quanto
impossibile a prevedersi, e difficilissima ad eseguirsi in tempo. E
mille e mille altre simili cose io mi troverei costretto a premettere
a quella REPUBBLICA mia; le quali cose per essere già state
dette meglio ch'io non le direi mai, massimamente da quel nostro
divino ingegno del Machiavelli, non solamente inutili per se stesse
riuscirebbero, ma pur troppo, contra l'intenzione dell'autore, una
preventiva dimostrazione sarebbero della inutilità di un tal
libro. E per quanto poi quella mia teorica repubblica potesse parer
saggia, ragionata, e adattabile a' tempi, luoghi, religioni,
opinioni, e costumi diversi; ella non verrebbe tuttavia mai ad essere
eseguibile in nessunissimo cantuccio della terra, senza quivi prima
ricevere da un saggio legislatore effettivo quelle tante e tali
modificazioni e mutazioni, che necessarie sarebbero per quella data
effettiva società; la quale certamente in alcuna cosa
differirà da alcuna delle supposizioni dell'ideale
legislatore. Ma quando anche poi una tale scritta repubblica venisse
effettivamente nel suo intero adattata ad un qualche popolo, tutta la
umana saviezza (non che la pochissima mia) non perverrebbe pur mai a
stabilirvi in tal modo un governo, che il caso, cioè un
avvenimento non preveduto, non avesse la forza di poterlo
inaspettatamente assai peggiorare, come anche di poter migliorarlo, o
mutarlo, o affatto distruggerlo.
Stoltissima superbia
sarebbe or dunque la mia, se un tale assunto imprendessi, sapendo già
prima, che quando anche pure mi lusingassi di poter dire delle cose
non dette, per lo meno inutile riuscirebbe il mio libro. Tuttavia non
meno scusabile che folle una mia tale superbia sarebbe (come di
chiunque altro a simile impresa oramai si accingesse), ogniqualvolta
un tal libro non avesse stoltamente per fine la gloria letteraria e
legislatrice, ma fosse semplicemente un virtuoso e ben intenzionato
sfogo di un ottimo cittadino: e come tale, inutile allora non
riuscirebbe del tutto.
Dalle cose finora da me, per quanto
ho saputo, rapidamente presentare al lettore, ne potrebbe frattanto,
s'io non erro, ridondar questo bene: che, ove una repubblica
insorgente in questi, o nei futuri tempi, sopra le rovine d'alcuna
distrutta tirannide, badasse a spegnere, o a menomare quanto più
le fosse possibile la pestifera influenza di quelle tante cagioni
della passata servitù da me ampiamente nel primo libro
dimostrate, si può credere che una tale insorgente repubblica
verrebbe ad ottenere alcun peso, e stabilità. Che se io
minutamente ho dimostrato come sia costituita la tirannide,
indirettamente avrò dimostrato forse, come potrebbe essere
costituita una repubblica. E il primo di tutti i rimedj contro alla
tirannide, ancorché tacito e lento, egli è pur sempre
il sentirla; e sentirla vivamente i molti non possono, (abbenché
oppressi ne siano) là dove i pochi non osino appien
disvelarla.
Ma, quanto è necessario l'impeto,
l'audacia, e (per così dire) una sacra rabbia, per disvelare,
combattere, e distruggere la tirannide, altrettanto è
necessaria una sagace e spassionata prudenza, per riedificare su
quelle rovine; onde difficilmente l'uomo stesso potrebbe esser atto
egualmente a due imprese pur tanto diverse nei loro mezzi, benché
similissime nella lor meta. Ed io, per amor del vero, son pure
costretto a notar qui di passo, che le opinioni politiche (come le
religiose) non si potendo mai totalmente cangiare senza che molte
violenze si adoprino, ogni nuovo governo è da principio pur
troppo sforzato ad essere spesso crudelmente severo, e alcune volte
anche ingiusto, per convincere o contenere con la forza chi non
desidera, o non capisce, o non ama, o non vuole innovazioni ancorché
giovevoli. Aggiungerò, che, per maggiore sventura delle umane
cose, è altresì più spesso necessaria la
violenza, e qualche apparente ingiustizia nel posar le basi di un
libero governo su le rovine d'uno ingiusto e tirannico, che non per
innalzar la tirannide su le rovine della libertà. La ragione,
a parer mio, è patente. La tirannide non sottentra alla
libertà, se non se con una forza effettiva, e talmente
preponderante, che col solo continuo minacciare facilmente contiene
l'universale. E mentre con l'una mano brandisce un ferro spietato,
ella spande coll'altra a piena mano quell'oro che ha colla spada
estorquito. Onde, distrutti alcuni pochi capi-popolo, corrottine
molti altri più, che già guasti erano e preparati al
servaggio, il rimanente obbedisce e si tace. Ma, la nascente libertà,
combattuta ferocissimamente da quei tanti che s'impinguavano della
tirannide, freddamente spalleggiata dal popolo, che, oltre alla sua
propria lieve natura, per non averla egli ancora gustata, poco
l'apprezza e mal la conosce; la nascente libertà, divina
impareggiabile fiamma, che in pochi petti arde pura nella sua
immensità, e che da quei soli pochi viene alquanto inspirata e
a stento mantenuta nel petto agghiacciato dei più; ov'essa per
qualche beata circostanza perviene a pigliare alcun corpo, non
dovendo trascurar l'occasione di mettere, se può, profonde e
salde radici, si trova pur troppo costretta ad abbattere quei tanti
rei che cittadini ridivenir più non possono, e che pur possono
tanti altri impedirne, o guastarne. Deplorabile necessità, a
cui Roma, felice maestra in ogni sublime esempio, ebbe pur anche la
ventura di non andar quasi punto soggetta; poiché dal
lagrimevole straordinario spettacolo dei figli di Bruto fatti uccider
dal padre, ella ricevea fortemente quel lungo e generoso impulso di
libertà, che per ben tre secoli poi la fece sì grande e
beata.
Ritornando ora al proposito mio, conchiudo con questo
capitolo il libro, col dire; che non vi essendo alla tirannide altro
definitivo rimedio che la universal volontà e opinione; e non
potendosi questa cangiare se non lentissimamente e incertamente pel
solo mezzo dei pochi che pensano, sentono, ragionano, e scrivono; il
più virtuoso individuo, il più costumato, il più
umano, si trova pur troppo sforzato a desiderar nel suo cuore, che i
tiranni stessi, coll'eccedere ogni ragionevole modo, più
rapidamente e con maggior certezza cangino questa universal volontà
e opinione. E se al primo aspetto un tal desiderio pare inumano,
iniquo, e perfino scellerato, si consideri che le importantissime
mutazioni non possono mai succedere fra gli uomini (come dianzi ho
notato) senza importanti pericoli e danni; e che a costo di molto
pianto e di moltissimo sangue (e non altramente giammai) passano i
popoli dal servire all'essere liberi, più ancora, che
dall'esser liberi al servire. Un ottimo cittadino può dunque,
senza cessar di esser tale, ardentemente desiderare questo mal
passeggero; perché, oltre al troncare ad un tratto moltissimi
altri danni niente minori ed assai più durevoli, ne dee
nascere un bene molto maggiore e permanente. Questo desiderio non è
reo in se stesso, poiché altro fine non si propone che il vero
e durevol vantaggio di tutti. E giunge avventuratamente pure quel
giorno, in cui un popolo, già oppresso e avvilito, fattosi
libero felice e potente, benedice poi quelle stragi, quelle violenze,
e quel sangue, per cui da molte obbrobriose generazioni di servi e
corrotti individui se n'è venuta a procrear finalmente una
illustre ed egregia, di liberi e virtuosi uomini.
PROTESTA
DELL'AUTORE |
Non
la incalzante povertade audace, Non
l'ozio servo, in che la Italia giace; Un
Dio feroce, ignoto un Dio, da tergo Né
pace han mai, né tregua, i caldi affanni |