Giovanni Boccaccio
Elegia di Madonna Fiammetta
Incomincia il libro chiamato Elegia di Madonna Fiammetta, da lei alle innamorate donne mandato.
Prologo
Suole a' miseri crescere di dolersi vaghezza, quando di sé discernono o sentono compassione in alcuno. Adunque, acciò che in me, volonterosa più che altra a dolermi, di ciò per lunga usanza non menomi la cagione, ma s'avanzi, mi piace, o nobili donne, ne' cuori delle quali amore più che nel mio forse felicemente dimora, narrando i casi miei, di farvi, s'io posso, pietose. Né m'è cura perché il mio parlare agli uomini non pervenga, anzi, in quanto io posso, del tutto il niego loro, però che sì miseramente in me l'acerbità d'alcuno si discuopre, che gli altri simili imaginando, piuttosto schernevole riso che pietose lagrime ne vedrei. Voi sole, le quali io per me medesima conosco pieghevoli e agl'infortunii pie, priego che leggiate; voi, leggendo, non troverete favole greche ornate di molte bugie, né troiane battaglie sozze per molto sangue, ma amorose, stimolate da molti disiri, nelle quali davanti agli occhi vostri appariranno le misere lagrime, gl'impetuosi sospiri, le dolenti voci e li tempestosi pensieri, li quali, con istimolo continuo molestandomi, insieme il cibo, il sonno, i lieti tempi e l'amata bellezza hanno da me tolta via. Le quali cose, se con quel cuore che sogliono essere le donne vederete, ciascuna per sé e tutte insieme adunate, sono certa che li dilicati visi con lagrime bagnerete, le quali a me, che altro non cerco, di dolore perpetuo fieno cagione. Priegovi che d'averle non rifiutate, pensando che, sì come li miei, così poco sono stabili li vostri casi, li quali se a' miei simili ritornassero, il che cessilo Iddio, care vi sarebbero rendendolevi. E acciò che il tempo più nel parlare che nel piagnere non trascorra, brievemente allo impromesso mi sforzerò di venire, da' miei amori più felici che stabili cominciando, acciò che da quella felicità allo stato presente argomento prendendo, me più che altra conosciate infelice; e quindi a' casi infelici, onde io con ragione piango, con lagrimevole stilo seguirò come io posso. Ma primieramente, se de' miseri sono li prieghi ascoltati, afflitta sì come io sono, bagnata delle mie lagrime, priego, se alcuna deità è nel cielo la cui santa mente per me sia da pietà tocca, che la dolente memoria aiuti, e sostenga la tremante mano alla presente opera, e così le faccia possenti, che quali nella mente io ho sentite e sento l'angoscie, cotali l'una profferi le parole, l'altra, più a tale oficio volonterosa che forte, le scriva.
Capitolo I.
Nel quale la donna discrive chi essa fosse, e per quali segnali li suoi futuri mali le fossero premostrati, e in che tempo, e dove, e in che modo, e di cui ella si innamorasse, col seguito diletto.
Nel tempo nel quale la rinvestita terra più che tutto l'altro
anno si mostra bella, da parenti nobili procreata venni io nel mondo,
da benigna fortuna e abondevole ricevuta. Oh maladetto quello giorno,
a me più abominevole che alcuno altro, nel quale io nacqui! Oh
quanto più felice sarebbe stato se nata non fossi, o se dal
tristo parto alla sepultura fossi stata portata, né più
lunga età avessi avuta, che i denti seminati da Cadmo, e ad
una ora rotte e cominciate avesse Lachesis le sue fila! Nella piccola
età si sarebbero rinchiusi gl'infiniti guai, che ora di
scrivere trista cagione mi sono. Ma che giova ora di ciò
dolersi? Io ci pur sono, e così è piaciuto e piace a
Dio che io ci sia. Ricevuta adunque, sì come è detto,
in altissime delizie, e in esse nutrita, e dall'infanzia nella vaga
puerizia tratta, sotto reverenda maestra, qualunque costume a nobile
giovine si conviene apparai. E come la mia persona negli anni
trapassanti crescea, così le mie bellezze, de' miei mali
speciale cagione, multiplicavano. Ohimè, che io, ancora che
piccola fossi, udendole a molti lodare, me ne gloriava, e loro con
sollecitudini e arti faceva maggiori.
Ma già dalla fanciullezza venuta ad età più
compiuta, meco dalla natura ammaestrata sentendo quali disii a'
giovini possono porgere le vaghe donne, conobbi che la mia bellezza,
miserabile dono a chi virtuosamente di vivere disidera, più
miei coetanei giovinetti e altri nobili accese di fuoco amoroso. E me
con atti diversi, male allora da me conosciuti, volte infinite
tentarono di quello accendere di che essi ardevano, e che me dovea
più che altra non riscaldare, anzi ardere nel futuro; e da
molti ancora con istantissima sollecitudine in matrimonio fui
addomandata; ma poi che de' molti uno, a me per ogni cosa dicevole,
m'ebbe, quasi fuori di speranza cessò la infestante turba
degli amanti da sollecitarmi con gli atti suoi. Io, adunque,
debitamente contenta di tale marito, felicissima dimorai infino a
tanto che il furioso amore, con fuoco non mai sentito, non entrò
nella giovine mente. Ohimè! che niuna cosa fu mai che il mio
disio o d'alcuna altra donna dovesse chetare, che prestamente a mia
satisfazione non venisse. Io era unico bene e felicità
singulare del giovine sposo, e così egli da me era igualmente
amato, come egli mi amava. Oh quanto più che altra mi potrei
io dire felice, se sempre in me fosse durato cotale amore!
Vivendo adunque contenta, e in festa continua dimorando, la fortuna,
sùbita volvitrice delle cose mondane, invidiosa de' beni
medesimi che essa avea prestati, volendo ritrarre la mano, né
sappiendo da qual parte mettere li suoi veleni, con sottile argomento
a' miei occhi medesimi fece all'avversità trovare via; e certo
niuna altra che quella onde entrò v'era al presente. Ma
gl'iddii, a me favorevoli ancora, e a' miei fatti di me più
solleciti, sentendo le occulte insidie di costei, vollero, se io
prendere l'avessi sapute, armi porgere al petto mio, acciò che
disarmata non venissi alla battaglia nella quale io dovea cadere; e
con aperta visione ne' miei sonni, la notte precedente al giorno il
quale a' miei danni dovea dare principio, mi chiarirono le future
cose in cotale guisa.
A me, nello
ampissimo letto dimorante con tutti li membri risoluti nell'alto
sonno, pareva, in un giorno bellissimo e più chiaro che alcuno
altro, essere, non so di che, più lieta che mai; e con questa
letizia, a me, sola fra verdi erbette, era avviso sedere in un prato
dal cielo difeso e da' suoi lumi da diverse ombre d'alberi vestiti di
nuove frondi; e in quello diversi fiori avendo còlti, de'
quali tutto il luogo era dipinto, con le candide mani, in uno lembo
de' miei vestimenti raccoltili, fiore da fiore sceglieva, e degli
scelti leggiadra ghirlandetta faccendo, ne ornava la testa mia. E
così ornata levatami, quale Proserpina allora che Pluto la
rapì alla madre, cotale m'andava per la nuova primavera
cantando; poi, forse stanca, tra la più folta erba a giacere
postami, mi posava. Ma non altramente il tenero piè d'Euridice
trafisse il nascoso animale, che me sopra l'erbe distesa, una nascosa
serpe vegnente tra quelle, parve che sotto la sinistra mammella mi
trafiggesse; il cui morso, nella prima entrata degli acuti denti,
parea che mi cocesse; ma poi, assicurata, quasi di peggio temendo, mi
pareva mettere nel mio seno la fredda serpe, imaginando lei dovere,
col beneficio del caldo del proprio petto, rendere a me più
benigna. La quale, più sicura fatta per quello e più
fiera, al dato morso raggiunse la iniqua bocca, e dopo lungo spazio,
avendo molto del nostro sangue bevuto, mi pareva che, me renitente,
uscendo del mio seno, vaga vaga fra le prime erbe col mio spirito si
partisse. Nel cui partire il chiaro giorno turbato, dietro a me
vegnendo, mi copria tutta, e secondo l'andare di quella così
la turbazione seguitava, quasi come a lei tirante fosse la
moltitudine de' nuvoli appiccata, e seguissela; e non dopo molto,
come bianca pietra gittata in profonda acqua a poco a poco si toglie
alla vista de' riguardanti, così si tolse agli occhi miei.
Allora il cielo di somme tenebre chiuso vidi, e quasi partitosi il
sole, e la notte tornata pensai, quale a' Greci tornò nel
peccato d'Atreo; e le corruscazioni correano per quello senza alcuno
ordine, e i crepitanti tuoni spaventavano le terre e me similemente.
Ma la piaga, la quale infino a quella ora per la sola morsura m'avea
stimolata, piena rimasa di veleno vipereo, non valendovi medicina,
quasi tutto il corpo con enfiatura sozzissima parea che occupasse;
laonde io, prima senza spirito non so come parendomi essere rimasa, e
ora sentendo la forza del veleno il cuore cercare per vie molto
sottili, per le fresche erbe aspettando la morte mi voltolava. E già
l'ora di quella venuta parendomi, offesa ancora dalla paura del tempo
avverso, sì fu grave la doglia del cuore quella aspettante,
che tutto il corpo dormente riscosse, e ruppe il forte sonno; dopo il
quale rotto, sùbito, paurosa ancora delle cose vedute, con la
destra mano corsi al morso lato, quello nel presente cercando che nel
futuro m'era apparecchiato; e senza alcuna piaga trovandolo, quasi
rallegrata e sicura, le sciocchezze de' sogni cominciai a deridere, e
così vana feci degl'iddii la fatica. Ahi, misera me! Quanto
giustamente, se io li schernii allora, poi con mia grave doglia gli
ho veri creduti, e piantili senza frutto, non meno degl'iddii
dolendomi, li quali con tanta oscurità alle grosse menti
dimostrano i loro secreti, che quasi non mostrati se non avvenuti si
possono dire! Io, adunque, escitata, alzai il sonnacchioso capo, e
per piccolo buco vidi entrare nella mia camera il nuovo sole; per
che, ogni altro pensiero gittato via, sùbito mi levai.
Quello giorno era solennissimo quasi a tutto il mondo; per che, io
con sollecitudine li drappi di molto oro rilucenti vestitami e con
maestra mano di me ornata ciascuna parte, simile alle dèe
vedute da Parìs nella valle d'Ida tenendomi, per andare alla
somma festa m'apparecchiai. E mentre che io tutta mi mirava, non
altramente che il pavone le sue penne, imaginando di così
piacere ad altrui come io a me piacea, non so come, uno fiore della
mia corona preso dalla cortina del letto mio o forse da celestiale
mano da me non veduta, quella, di capo trattami, cadde in terra; ma
io, non curante alle occulte cose dagl'iddii dimostrate, quasi come
non fosse, ripresala, sopra il capo la mi riposi, e oltre andai.
Ohimè! che segnale più manifesto di quello che avvenne
mi poteano dare gl'iddii? Certo niuno. Questo bastava a dimostrarmi
che quello giorno la mia libera anima, e di sé donna, disposta
la sua signoria, serva dovea divenire, come avvenne. Oh, se la mia
mente fosse stata sana, quanto quel giorno a me nerissimo avrei
conosciuto, e senza uscire di casa l'avrei trapassato! Ma gl'iddii, a
coloro verso i quali essi sono adirati, benché della loro
salute porgano ad essi segno, elli privano lui del conoscimento
debito; e così ad una ora mostrano di fare il loro dovere e
saziano l'ira loro. La fortuna mia adunque me vana e non curante
sospinse fuori; e accompagnata da molte, con lento passo pervenni al
sacro tempio, nel quale già il solenne oficio debito a quel
giorno si celebrava.
La vecchia
usanza e la mia nobiltà m'avea tra l'altre donne assai
eccellente luogo servato; nel quale poi che assisa fui, servato il
mio costume, gli occhi subitamente in giro vòlti, vidi il
tempio d'uomini e di donne parimente ripieno, e in varie caterve
diversamente operare. Né prima, celebrandosi il sacro oficio,
nel tempio sentita fui, che, sì come l'altre volte soleva
avvenire, così e quella avvenne, che non solamente gli uomini
gli occhi torsero a riguardarmi, ma eziandio le donne, non altramente
che se Venere o Minerva, mai più da loro non vedute, fossero
in quello luogo, là dove io era, nuovamente discese. Oh,
quante fiate, tra me stessa ne risi, essendone meco contenta, e non
meno che una dèa gloriandomi di tale cosa! Lasciate adunque
quasi tutte le schiere de' giovini di mirare l'altre, a me mi posero
d'intorno, e diritti quasi in forma di corona mi circuivano, e
variamente fra loro della mia bellezza parlando, quasi in una
sentenza medesima concludendo la laudavano. Ma io che, con gli occhi
in altra parte voltati, mostrava me d'altra cura sospesa, tenendo gli
orecchi a' ragionamenti di quelli sentiva disiderata dolcezza, e
quasi loro parendomene essere obligata, tale fiata con più
benigno occhio li rimirava; e non una volta m'accorsi, ma molte, che
di ciò alcuni, vana speranza pigliando, co' compagni vanamente
se ne gloriavano.
Mentre che io in
cotal guisa, poco altrui rimirando, e molto da molti rimirata,
dimoro, credendo che la mia bellezza altrui pigliasse, avvenne che
l'altrui me miseramente prese. E già essendo vicina al
doloroso punto, il quale o di certissima morte o di vita più
che altra angosciosa dovea essere cagione, non so da che spirito
mossa, gli occhi con debita gravità elevati, intra la
multitudine de' circustanti giovini con acuto riguardamento distesi;
e oltre a tutti, solo e appoggiato ad una colonna marmorea, a me
dirittissimamente uno giovine opposto vidi; e, quello che ancora
fatto non avea d'alcuno altro, da incessabile fato mossa, meco lui e
li suoi modi cominciai ad estimare. Dico che, secondo il mio
giudicio, il quale ancora non era da amore occupato, egli era di
forma bellissimo, negli atti piacevolissimo e onestissimo nell'abito
suo, e della sua giovinezza dava manifesto segnale crespa lanugine,
che pur mo' occupava le guance sue; e me non meno pietoso che cauto
rimirava tra uomo e uomo. Certo io ebbi forza di ritrarre gli occhi
da riguardarlo alquanto, ma il pensiero, dell'altre cose già
dette estimante, niuno altro accidente, né io medesima
sforzandomi, mi poté tòrre. E già nella mia
mente essendo l'effigie della sua figura rimasa, non so con che
tacito diletto meco la riguardava, e quasi con più argomenti
affermate vere le cose che di lui mi pareano, contenta d'essere da
lui riguardata, talvolta cautamente se esso mi riguardasse
mirava.
Ma intra l'altre volte che
io, non guardandomi dagli amorosi lacciuoli, il mirai, tenendo
alquanto più fermi che l'usato ne' suoi gli occhi miei, a me
parve in essi parole conoscere dicenti: "O donna, tu sola se' la
beatitudine nostra". Certo, se io dicessi che esse non mi
fossero piaciute, io mentirei; anzi sì mi piacquero, che esse
del petto mio trassero un soave sospiro, il quale veniva con queste
parole: "E voi la mia". Se non che io, di me ricordandomi,
gli le tolsi. Ma che valse? Quello che non si esprimea, il cuore lo
'ntendeva con seco, in sé ritenendo ciò che, se di
fuori fosse andato, forse libera ancora sarei. Adunque, da questa ora
innanzi concedendo maggiore arbitrio agli occhi miei folli, di quello
che essi erano già vaghi divenuti li contentava; e certo, se
gl'iddii, li quali tirano a conosciuto fine tutte le cose, non
m'avessero il conoscimento levato, io poteva ancora essere mia, ma
ogni considerazione all'ultimo posposta, seguitai l'appetito, e
subitamente atta divenni a potere essere presa; per che, non
altramente il fuoco se stesso d'una parte in un'altra balestra, che
una luce, per un raggio sottilissimo trascorrendo, da' suoi
partendosi, percosse negli occhi miei, né in quelli contenta
rimase, anzi, non so per quali occulte vie, subitamente al cuore
penetrando, se ne gìo. Il quale, nel sùbito avvenimento
di quella temendo, rivocate a sé le forze esteriori, me palida
e quasi freddissima tutta lasciò. Ma non fu lunga la
dimoranza, che il contrario sopravvenne, e lui non solamente fatto
fervente sentii, anzi le forze tornate ne' luoghi loro, seco uno
calore arrecarono, il quale, cacciata la palidezza, me rossissima e
calda rendé come fuoco, e quello mirando onde ciò
procedeva, sospirai. Né da quell'ora innanzi niuno pensiero in
me poteo, se non di piacergli.
A
così fatti sembianti, esso, senza mutare luogo, cautissimo
riguardava, e forse, sì come esperto in più battaglie
amorose, conoscendo con quali armi si dovea la disiata preda
pigliare, ciascuna ora con umiltà maggiore pietosissimo si
mostrava e pieno d'amoroso disio. Ohimè! quanto inganno sotto
sé quella pietà nascondea, la quale, secondo che gli
effetti ora dimostrano, partitasi dal cuore, ove mai poi non ritornò,
fittizia si mostrò nel suo viso. E acciò che io non
vada ogni suo atto narrando, de' quali ciascuno era pieno di
maestrevole inganno, o egli che l'operasse, o i fati che 'l
concedessero, in sì fatta maniera andò, che io, oltre
ad ogni potere raccontare, da sùbito e inoppinato amore mi
trovai presa, e ancora sono.
Questi
adunque, o pietosissime donne, fu colui il quale il mio cuore con
folle estimazione fra tanti nobili, belli e valorosi giovini, quanti
non solamente quivi presenti, ma eziandio in tutta la mia Partenope
erano, primo, ultimo e solo, elesse per signore della mia vita;
questi fu colui, il quale io amai e amo più che alcuno altro;
questi fu colui, il quale essere dovea principio e cagione d'ogni mio
male, e, come io spero, di dannosa morte. Questo fu quel giorno nel
quale io prima, di libera donna, divenni miserissima serva; questo fu
quel giorno nel quale io prima amore, non mai prima da me conosciuto,
conobbi; questo fu quel giorno nel quale primieramente li venerei
veleni contaminarono il puro e casto petto. Ohimè misera!
quanto male per me nel mondo venne sì fatto giorno! Ohimè!
quanto di noia e d'angoscia sarebbe da me lontana, se in tenebre si
fosse mutato sì fatto giorno! Ohimè misera! quanto fu
al mio onore nemico sì fatto giorno! Ma che? Le preterite cose
mal fatte, si possono molto più agevolmente biasimare che
emendare. Io fui pur presa, sì come è detto; e
qualunque si fosse quella o infernal furia, o inimica fortuna che
alla mia casta felicità invidia portasse, ad essa insidiando,
questo dì con speranza d'infallibile vittoria si poté
rallegrare.
Soppresa adunque dalla
passione nuova, quasi attonita e di me fuori, sedeva infra le donne,
e li sacri oficii, appena da me uditi non che intesi, passare
lasciava, e similemente delle mie compagne li ragionamenti diversi. E
sì tutta la mente avea il nuovo e sùbito amore
occupata, che, o con gli occhi o col pensiero sempre l'amato giovine
riguardava, e quasi con meco medesima non sapeva qual fine di sì
fervente disio io mi chiedessi. Oh quante volte, disiderosa di
vederlomi più vicino, biasimai io il suo dimorare agli altri
di dietro, quello tiepidezza estimando, che egli usava a cautela! E
già mi noiavano i giovini a lui stanti dinanzi, de' quali
mentre io fra loro alcuna volta il mio intendimento mirava, alcuni,
credendosi che in loro il mio riguardare terminasse, si credettero
forse da me essere amati. Ma, mentre che in cotali termini stavano li
miei pensieri, si finì l'oficio solenne, e già per
partirsi erano le mie compagne levate, quando io, rivocata l'anima,
che d'intorno alla imagine del piaciuto giovine andava vagando, il
conobbi. Levata adunque con l'altre, e a lui gli occhi rivolti, quasi
negli atti suoi vidi quello che io ne' miei a lui m'apparecchiava di
dimostrare, e mostrai, cioè che il partire mi doleva. Ma pure,
dopo alcuno sospiro, ignorando chi elli si fosse, mi dipartii.
Deh, pietose donne, chi crederà possibile in un punto uno
cuore così alterarsi? Chi dirà che persona mai più
non veduta sommamente si possa amare nella prima vista? Chi penserà
accendersi sì di vederla il disio, che, dalla vista di quella
partendosi, senta gravissima noia, solo disiderando di vederla? Chi
imaginerà tutte l'altre cose, per addietro molto piaciute, a
rispetto della nuova spiacere? Certo niuna persona, se non chi
provato l'avrà o pruova come fo io. Ohimè! che Amore
così come ora in me usa crudeltà non udita, così
nel pigliarmi nuova legge dagli altri diversa gli piacque d'usare! Io
ho più volte udito che negli altri i piaceri sono nel
principio levissimi, ma poi, da' pensieri nutricati, aumentando le
forze loro, si fanno gravi; ma in me così non avvenne, anzi
con quella medesima forza m'entrarono nel cuore, che essi vi sono poi
dimorati, e dimorano. Amore il primo dì di me ebbe interissima
possessione; e certo sì come il verde legno
malagevolissimamente riceve il fuoco, ma quello ricevuto più
conserva e con maggior caldo, così a me avvenne. Io, avanti
non vinta da alcuno piacere giammai, tentata da molti, ultimamente
vinta da uno, e arsi e ardo, e servai e servo più che altra
facesse giammai il preso fuoco.
Lasciando molti pensieri che nella mente quella mattina, con
accidenti diversi, mi furono, oltre alli raccontati, dico che di
nuovo furore accesa, e con l'anima fatta serva, là onde libera
l'avea tratta, mi ritornai. Quivi, poi che nella mia camera sola e
oziosa mi ritrovai, da diversi disii accesa e piena di nuovi pensieri
e da molte sollecitudini stimolata, ogni fine di quelli nella
imaginata effigie del piaciuto giovine terminando, pensai che, se
amore da me cacciare non poteasi, almeno cauto si reggesse e occulto
nel tristo petto; la qual cosa quanto sia dura a fare nullo il può
sapere, se nol pruova: certo io non credo che ella faccia meno noia
che amore stesso. E in tale proponimento fermata, non sappiendo
ancora di cui, me con meco medesima chiamava innamorata.
Quanti e quali fossero in me da questo amore li pensieri nati, lungo
sarebbe a tutti volerli narrare; ma alquanti, quasi sforzandomi, mi
tirano a dichiararsi, con alcune cose oltre all'usato incominciatemi
a dilettare. Dico adunque che, avendo ogni altra cosa proposta, solo
il pensare all'amato giovine m'era caro, e parendomi che, in questo
perseverando, forse quello che io intendeva celare si potrebbe
presumere, me più volte di ciò ripresi; ma che giovava?
Le mie riprensioni davano luogo larghissimo alli miei disii, e
inutili si fuggivano co' venti. Io disiderai più giorni
sommamente di sapere chi fosse l'amato giovine; a che nuovi pensieri
mi dierono aperta via, e cautamente il seppi, di che non poco
contenta rimasi. Similmente gli ornamenti, de' quali io prima, sì
come poco bisognosa di quelli, niente curava, mi cominciarono ad
essere cari, pensando più ornata piacere; e quindi li
vestimenti, l'oro e le perle e l'altre preziose cose più che
prima pregiai. Io infino a quella ora alli templi, alle feste, alli
marini liti e alli giardini andata senza altra vaghezza che solamente
con le giovini ritrovarmi, cominciai con nuovo disio li detti luoghi
a cercare, pensando che e vedere e veduta potrei essere con diletto.
Ma veramente mi fuggì la fidanza, la quale io nella mia
bellezza soleva avere, e mai fuori di sé la mia camera non
m'avea senza prima pigliare del mio specchio il fidato consiglio, e
le mie mani, non so da che maestra nuovamente ammaestrate, ciascuno
giorno più leggiadra ornatura trovando, aggiunta l'artificiale
alla naturale bellezza, tra l'altre splendidissima mi rendeano.
Gli onori similmente a me fatti per propria cortesia dalle donne,
ancora che forse alla mia nobiltà s'affacessero, quasi debiti
cominciai a volerli, pensando che, al mio amante parendo magnifica,
più giustamente mi gradirebbe; l'avarizia, nelle femine
innata, da me fuggendosi, cotale mi lasciò, che così le
mie cose come non mie m'erano care, e liberale diventai; l'audacia
crebbe, e alquanto mancò la feminile tiepidezza, me follemente
alcuna cosa più cara reputando che prima; e oltre a tutto
questo, gli occhi miei, infino a quel dì stati semplici nel
guardare, mutarono modo e mirabilmente artificiosi divennero al loro
oficio. Oltre a queste, ancora molte altre mutazioni in me
apparirono, le quali tutte non curo di raccontare, sì perché
troppo sarebbe lungo, e sì perché credo che voi, sì
come me innamorate, conosciate quante e quali sieno quelle che a
ciascuna avvengono, posta in cotal caso.
Era il giovine avvedutissimo, sì come più volte
esperienza rendé testimonio. Egli rade volte e
onestissimamente vegnendo colà dove io era, quasi quel
medesimo avesse proposto che io, cioè di celare in tutto
l'amorose fiamme, con occhio cautissimo mi mirava. Certo, s'io
negassi che, quando ciò mi avveniva che io il vedessi, amore,
quantunque fosse in me sì possente che più non potea,
alcuna cosa, quasi l'anima ampliando per forza crescesse, io negherei
il vero. Egli allora in me le fiamme accese facea più vive, e
non so quali spente, se alcuna ve n'era, accendeva; ma in questo non
era sì lieto il principio, che la fine non rimanesse più
trista, qualora della vista di quello rimanea privata: perciò
che gli occhi, della loro allegrezza privati, davano al cuore noiosa
cagione di dolersi, di che i sospiri, e in quantità e in
qualità diventavano maggiori, e il disio, quasi ogni mio
sentimento occupando, mi toglieva di me medesima, e quasi non fossi
dov'era, feci più volte maravigliare chi mi vide, dando poi a
cotali accidenti cagioni infinte, da amore medesimo insegnate. E
oltre a questo, sovente la notturna quiete e il cotidiano cibo
togliendomi, alcuna volta ad atti più furiosi che sùbiti,
e a parole mi moveano inusitate.
Ecco che li cresciuti ornamenti, gli accesi sospiri, li nuovi atti,
li furiosi movimenti, la perduta quiete, e l'altre cose in me per lo
nuovo amore venute, tra gli altri domestici familiari a maravigliarsi
mossero una mia balia, d'anni antica e di senno non giovine, la
quale, già seco conoscendo le triste fiamme, mostrando di non
conoscerle, più fiate mi riprese de' nuovi modi. Ma pure un
giorno me trovando sopra il mio letto malinconiosa giacere, vedendo
di pensieri carica la mia fronte, poi che d'ogni altra compagnia ci
vide libere, così mi cominciò a parlare:
"O figliuola a me come me medesima cara, quali sollecitudini da
poco tempo in qua ti stimolano? Tu niuna ora trapassi senza sospiri,
la quale altra volta lieta e senza niuna malinconia sempre vedere
solea".
Allora io, dopo un
gran sospiro, d'uno in altro colore più d'una volta mutatami,
quasi di dormire infignendomi, e di non averla udita, ora qua ora là
rivolgendomi, per tempo prendere alla risposta, appena potendo la
lingua a perfetta parola conducere, pur le risposi:
"Cara nutrice, niuna cosa nuova mi stimola, né più
sollecitudini sento che io mi sia usata; solamente li naturali corsi,
non tenenti sempre d'una maniera li viventi, ora più che
l'usato mi fanno pensosa".
"Certo, figliuola, tu m'inganni, - rispose la vecchia balia - né
pensi quanto sia grave il fare alle persone attempate credere in
parole una cosa, e un'altra negli atti mostrarne; egli non t'è
bisogno celarmi quello che io, già sono più giorni, in
te manifestamente conobbi".
Ohimè! che quando io udii così, quasi dolendomi e
sperando e crucciandomi, le dissi:
"Dunque, se tu il sai, di che addimandi? A te più non
bisogna se non celare quello che conosci".
"Veramente - disse ella allora - celerò io quello che non
è licito che altri sappia; e avanti s'apra la terra e me
tranghiotta, che io mai cosa che a te torni a vergogna, palesi: gran
tempo è che io a tenere celate le cose apparai. E perciò
di questo vivi sicura, e con diligenza guarda non altri conosca
quello che io, senza dirlomi tu o altri, ne' tuoi sembianti ho
conosciuto. Ma, se quella sciocchezza, nella quale io ti conosco
caduta, ti si conviene, se in quel senno fossi nel quale già
fosti, a te sola il lascerei a pensare, sicurissima che in ciò
luogo il mio ammaestrare non avrebbe. Ma perciò che questo
crudele tiranno, al quale, sì come giovine, non avendo tu
presa guardia di lui, semplicemente ti se' sommessa, suole insieme
con la libertà il conoscimento occupare, mi piace di
ricordarti e di pregarti che tu del casto petto esturbi e cacci via
le cose nefande, e ispegni le disoneste fiamme, e non ti facci a
turpissima speranza servente. E ora è tempo da resistere con
forza, però che chi nel principio bene contrastette, cacciò
il villano amore, e sicuro rimase e vincitore; ma chi con lunghi
pensieri e lusinghe il nutrica, tardi può poi ricusare il suo
giogo, al quale quasi volontario si sommise".
"Ohimè - dissi io allora - quanto sono più agevoli
a dire queste cose che a menarle ad effetto!"
"Come ch'elle sieno a fare assai malagevoli, pure possibili
sono, - disse ella - e fare si convengono. Vedi se l'altezza del tuo
parentado, la gran fama della tua virtù, il fiore della tua
bellezza, l'onore del mondo presente, e tutte quell'altre cose che a
donna nobile debbono essere care, e sopra a tutte la grazia del tuo
marito, da te tanto amato e tu da lui, per questa sola di perdere
disideri. Certo volere nol dei, né credo che 'l vogli, se
savia teco medesima ti consigli. Dunque, per Dio, ritienti, e i falsi
diletti promessi dalla sozza speranza caccia via, e con essi il preso
furore. Io supplicemente, per questo vecchio petto e nelle molte cure
affaticato, dal quale tu prima li nutritivi alimenti prendesti, ti
priego che tu medesima t'aiuti, e alli tuoi onori provvegga, e li
miei conforti in questo non rifiutare: pensa che parte della sanità
fu il volere essere guarita".
Allora cominciai io:
"O cara
nutrice, assai conosco vere le cose che narri; ma il furore mi
costrigne a seguitare le piggiori, e l'animo consapevole, e ne' suoi
disideri strabocchevole, indarno li sani consigli appetisce; e quello
che la ragione vuole è vinto dal regnante furore. La nostra
mente tutta possiede e signoreggia Amore con la sua deità, e
tu sai che non è sicura cosa alle sue potenzie
resistere".
E questo detto,
quasi vinta, sopra le mie braccia ricaddi. Ma ella, alquanto più
che prima turbata, con voce più rigida cominciò tali
parole:
"Voi, turba di vaghe
giovini, di focosa libidine accese, sospingendovi questa, vi avete
trovato Amore essere iddio al quale piuttosto giusto titolo sarebbe
furore; e lui di Venere chiamate figliuolo, dicendo che egli dal
terzo cielo piglia le forze sue, quasi vogliate alla vostra follia
porre necessità per iscusa. O ingannate, e veramente di
conoscimento in tutto fuori! Che è quello che voi dite?
Costui, da infernale furia sospinto, con sùbito volo visita
tutte le terre, non deità, ma piuttosto pazzia di chi il
riceve, benché esso non visiti al più se non quelli, li
quali, di soperchio abondanti nelle mondane felicità, conosce
con gli animi vani e atti a fargli luogo: e questo ci è assai
manifesto. Ora non veggiamo noi Venere santissima abitare nelle
piccole case sovenente, solamente e utile al necessario nostro
procreamento? Certo sì; ma questi, il quale, per furore, Amore
è chiamato, sempre le dissolute cose appetendo, non altrove
s'accosta che alla seconda fortuna. Questi, schifo così di
cibi alla natura bastevoli come di vestimenti, li dilicati e
risplendenti persuade, e con quelli mescola i suoi veleni, occupando
l'anime cattivelle; per che, costui così volontieri gli alti
palagi colente, nelle povere case rade volte si vede o non giammai;
però che è pestilenza, che solo elegge i dilicati
luoghi, sì come più al fine delle sue operazioni inique
conformi. Noi veggiamo nell'umile popolo gli affetti sani; ma li
ricchi d'ogni parte di ricchezze splendenti, così in questo
come nell'altre cose insaziabili, sempre più che il
convenevole cercano, e quello che non può chi molto può
disidera di potere; de' quali te medesima sento essere una, o
infelicissima giovine, in nuova sollecitudine e isconcia entrata per
troppo bene".
Alla quale dopo
molto averla ascoltata, io dissi:
"O vecchia, taci, e contro agl'iddii non parlare. Tu oramai a
questi effetti impotente, e meritamente rifiutata da tutti, quasi
volontaria parli contro di lui, quello ora biasimando che altra volta
ti piacque. Se l'altre donne di me più famose, savie e
possenti, così per addietro l'hanno chiamato e chiamano, io
non gli posso dare nome di nuovo; a lui sono veramente suggetta,
quale che di ciò si sia la cagione, o la mia felicità o
la mia sciagura, e più non posso. Le forze mie, più
volte alle sue oppostesi, vinte, indietro si sono tirate. Adunque, o
la morte o il giovine disiato resta per sola fine alle mie pene; alle
quali tu, piuttosto, se così se' savia come io ti tengo, porgi
consiglio e aiuto, il quale minori le faccia, io te ne priego, o tu
ti rimani di inasprirle, biasimando quello a che l'anima mia, non
potendo altro, con tutte le sue forze è disposta".
Ella allora sdegnando, e non senza ragione, senza rispondermi, non so
che mormorando con seco, me, della camera uscita, lasciò
soletta.
Già s'era, senza più favellarmi, partita la cara balia,
li cui consigli male per me rifiutai, e io, sola rimasa, le sue
parole nel sollecito petto fra me volgea; e ancora che abbagliato
fosse il mio conoscimento, di frutto le sentiva piene e quasi ciò
che assertivamente avea davant a lei detto di voler pur seguire,
pentendomi, nella mente mi vacillava, e già cominciando a
pensare di volere lasciare andare le cose meritevolmente dannate, lei
voleva richiamare alli miei conforti; ma nuovo e sùbito
accidente me ne rivolse, però che nella secreta mia camera,
non so onde venuta, una bellissima donna s'offerse agli occhi miei,
circundata da tanta luce che appena la vista la sostenea. Ma pure
stando essa ancora tacita nel mio cospetto, quanto potei per lo lume
gli occhi aguzzare tanto li pinsi avanti, infino a tanto che alla mia
conoscenza pervenne la bella forma, e vidi lei ignuda, fuori
solamente d'uno sottilissimo drappo purpureo, il quale, avvegna che
in alcune parti il candidissimo corpo coprisse, di quello non
altramente toglieva la vista a me mirante, che posta figura sotto
chiaro vetro, e la sua testa, li capelli della quale tanto di
chiarezza l'oro passavano, quanto l'oro de' nostri passa li vie più
biondi, avea coperta d'una ghirlanda di verdi mortine, sotto l'ombra
della quale io vidi due occhi di bellezza incomparabile, e vaghi a
riguardare oltremodo, rendere mirabile luce; e tanto tutto l'altro
viso avea bello quanto quaggiù a quello simile non si trova.
Ella non dicea alcuna cosa, anzi o forse contenta ch'io la
riguardassi, ovvero me vedendo di riguardarla contenta, a poco a poco
tra la fulvida luce di sé le belle parti m'apriva più
chiare, per che io bellezze in lei da non potere con lingua ridire,
né senza vista pensare intra' mortali, conobbi. La quale poi
che sé da me considerata per tutto s'avvide, veggendomi
maravigliare e della sua beltade e della sua venuta quivi, con lieto
viso e con voce più che la nostra assai soave, così
verso me cominciò a parlare:
"O giovine, assai più che alcuna altra mobile, che per li
nuovi consigli della vecchia balia t'apparecchi di fare? Non conosci
tu che essi sono molto più difficili a seguitare, che l'amore
medesimo che disideri di fuggire? Non pensi tu quanto e quale e come
importabile affanno essi ti servino? Tu, stoltissima, nuovamente
nostra, per le parole d'una vecchia, non nostra farti disideri, sì
come colei che ancora quali e quanti sieno i nostri diletti non sai.
O poco savia, sostieni, e per le nostre parole riguarda se a te
quello che al cielo e al mondo è bastato è assai.
Quantunque Febo, surgente co' chiari raggi di Gange, insino all'ora
che nell'onde d'Esperia si tuffa con li lassi carri, alle sue fatiche
dare requie, vede nel chiaro giorno, e ciò che tra 'l freddo
Arturo e 'l rovente polo si inchiude, signoreggia il nostro volante
figliuolo senza alcuno niego. E ne' cieli, non che egli sì
come gli altri sia iddio, ma ancora vi è tanto più che
gli altri potente, quanto alcuno non ve n'è che stato non sia
per addietro vinto dalle sue armi. Questi, con dorate piume
leggierissimo in un momento volando per li suoi regni, tutti li
visita, e il forte arco reggendo sovra il tirato nervo adatta le sue
saette da noi fabbricate e temperate nelle nostre acque; e quando
alcuno più degno che gli altri elegge al suo servigio, quello
prestissimamente manda ove gli piace.
Egli commuove le ferocissime fiamme de' giovini, e negli stanchi
vecchi richiama gli spenti calori, e con non conosciuto fuoco delle
vergini infiamma li casti petti, parimente le maritate e le vedove
riscaldando. Questi con le sue fiaccole riscaldati gl'iddii, comandò
per addietro che essi, lasciati li cieli, con falsi visi abitassero
le terre. Or non fu Febo vincitore del gran Fitone, e accordatore
delle cetare di Parnaso, più volte da costui soggiogato, ora
per Danne, ora per Climenés e quando per Leucotoe e per altre
molte? Certo sì; e ultimamente, rinchiusa la sua gran luce
sotto la vile forma d'un piccolo pastore, innamorato guardò
gli armenti d'Ameto.
Giove
medesimo, il quale regge il cielo, costrignendolo costui, si vestì
minor forma di sé. Egli alcuna volta in forma di candido
uccello movendo l'ali diede voci più dolci che 'l moriente
cigno; e altra volta, divenuto giovenco e poste alla sua fronte
corna, mugghiò per li campi, e i suoi dossi umiliò alli
giuochi virginei, e per li fraterni regni con le fesse unghie,
imitando oficio di remi, con forte petto vietando il profondo, godé
della sua rapina. Quello che per Semelè nella propria forma
facesse, quello che per Almena mutato in Anfitrione, quello che per
Calisto mutato in Diana, o per Danae divenuto oro già fece,
non diciamo, ché sarebbe troppo lungo. E il fiero iddio delle
armi, la cui rossezza ancora spaventa li giganti, sotto la sua
potenza temperò li suoi aspri effetti, e divenne amante. E il
costumato al fuoco fabro di Giove, e facitore delle trisulche
folgori, da quel di costui più possente fu cotto. E noi
similmente, ancora che madre gli siamo, non ce ne siamo potuta
guardare, sì come le nostre lagrime fecero aperto nella morte
d'Adone. Ma perché ci fatichiamo noi in tante parole? Niuna
deità è nel cielo da costui non ferita, se non Diana:
questa sola, ne' boschi dilettandosi, l'ha fuggito, la quale, secondo
l'oppinione d'alcuno, non fuggito, ma piuttosto nascoso.
Ma se tu forse gli essempli del cielo incredula schifi e cerchi chi
del mondo gli abbia sentiti, tanti sono, che da cui cominciare appena
ci occorre; ma tanto ti diciamo veramente, che tutti sono stati
valorosi. Rimirisi primamente al fortissimo figliuolo di Almena, il
quale, poste giù le saette e la minaccevole le pelle del gran
leone, sostenne d'acconciarsi alle dita i verdi smeraldi, e di dar
legge alli rozzi capelli, e con quella mano, con la quale poco
innanzi portato avea la dura mazza e ucciso il grande Anteo e tirato
lo infernale cane, trasse le fila della lana data da Jole dietro al
procedente fuso, e gli omeri, sopra li quali l'alto cielo s'era
posato mutando spalla Atlante, furono in prima dalle braccia di Jole
premuti, e poi coperti, per piacerle, di sottili vestimenti di
porpora. Che fece Parìs per costui, che Elena, che
Clitemestra, e che Egisto, tutto il mondo il conosce; e similmente di
Achille, di Silla, di Adriana, di Leandro, di Didone, e di più
molti, non dico, ché non bisogna. Santo è questo fuoco,
e molto potente, credimi.
Udito hai
il cielo e la terra soggiogata dal mio figliuolo negl'iddii e negli
uomini; ma che dirai tu ancora delle sue forze, estendentisi negli
animali irrazionali, così celesti come terreni? Per costui la
tortora il suo maschio séguita, e le nostre colombe alli suoi
colombi vanno dietro con caldissima affezione, e nessun altro n'è
che dalla maniera di questi fugga alcuna volta; e ne' boschi li
timidi cervi, fatti tra sé feroci quando costui li tocca, per
le disiderate cervie combattono, e, mugghiando, delli costui caldi
mostrano segnali; e i pessimi cinghiari, divenendo per ardore
spumosi, aguzzano gli eburnei denti; e i leoni africani, da amore
tocchi, vibrano i colli. Ma, lasciando le selve, dico che li dardi
del nostro figliuolo ancora nelle fredde acque sentono le greggie de'
marini iddii, e de' correnti fiumi. Né crediamo che occulto ti
sia, quale testimonianza già Nettunno, Glauco e Alfeo e altri
assai n'abbiano renduta, non potendo con le loro umide acque, non che
spegnere, ma solamente alleviare la costui fiamma; la quale, ancora
già sopra terra e nell'acque saputa da ciascuno, se ne venne
penetrando la terra e infino al re dell'oscure paludi si fe'
sentire.
Adunque il cielo, la
terra, il mare, lo 'nferno per esperienza conoscono le sue armi; e
acciò che io in brievi parole ogni cosa comprenda della
potenza di costui, dico che ogni cosa alla natura suggiace, e da lei
niuna potenza è libera, ed essa medesima è sotto Amore.
Quando costui il comanda, gli antichi odii periscono, e le vecchie
ire e le novelle dànno luogo alli suoi fuochi; e ultimamente,
tanto si distende il suo potere, che alcuna volta le matrigne fa
graziose a' figliastri, che è non piccola maraviglia. Dunque
che cerchi? Che dubiti? Che mattamente fuggi? Se tanti iddii, tanti
uomini, tanti animali, da questo son vinti, tu d'essere vinta da lui
ti vergognerai? Tu non sai che ti fare. Se tu forse di sottometterti
a costui aspetti riprensione, ella non ci dee potere cadere, perciò
che mille falli maggiori, e il seguire ciò che gli altri più
di te eccellenti hanno fatto, te, come poco avendo fallito e meno
potente che li già detti, renderanno scusata.
Ma se queste parole non ti muovono, e pure resistere vorrai, pensa la
tua virtù non simile a quella di Giove, né in senno
potere aggiugnere Febo, né in ricchezze Giunone, né noi
in bellezze; e tutti siamo vinti. Dunque tu sola credi vincere? Tu
se' ingannata, e ultimamente pur perderai. Bastiti quello che per
innanzi a tutto il mondo è bastato, né ti faccia a ciò
tiepida il dire: "Io ho marito, e le sante leggi e la promessa
fede mi vietano queste cose"; però che argomenti
vanissimi sono contro alla costui virtù. Elli, sì come
più forte, l'altrui leggi non curando annullisce, e dà
le sue. Pasife similmente avea marito, e Fedra, e noi ancora quando
amammo. Essi medesimi mariti amano le più volte avendo moglie:
riguarda Giasone, Teseo, il forte Ettore e Ulisse. Dunque non si fa
loro ingiuria, se per quelle leggi che essi trattano altrui, sono
trattati essi; a loro niuna prerogativa più che alle donne è
conceduta, e però abandona gli sciocchi pensieri, e sicura
ama, come hai cominciato. Ecco, se tu al potente Amore non vuoi
suggiacere, fuggire ti conviene; e dove fuggirai tu ch'egli non ti
séguiti e non ti giunga? Egli ha in ogni luogo iguale potenza:
dovunque tu vai, ne' suoi regni dimori, ne' quali alcuno non gli si
può nascondere, quando gli piace il ferirlo. Bastiti
solamente, o giovine, che di non abominevole fuoco, come Mirra,
Semiramìs, Biblìs, Canace e Cleopatra fece, ti molesti.
Niuna cosa nuova dal nostro figliuolo verso te sarà operata:
egli ha così leggi, come qualunque altro iddio, alle quali
seguire tu non se' prima, né d'essere ultima dei avere
speranza. Se forse al presente ti credi sola, vanamente credi.
Lasciamo stare l'altro mondo, che tutto n'è pieno: ma la tua
città solamente rimira, la quale infinite compagne ti può
mostrare; e ricorditi che niuna cosa fatta da tanti, meritamente si
può dire sconcia. Séguita adunque noi, e la molto
riguardata bellezza con la deità nostra vera ringrazia, la
quale del numero delle semplici, a conoscere il diletto de' nostri
doni, t'abbiamo tirata.
Deh, donne
pietose, se Amore felicemente adempia i vostri disii, che doveva io,
e che potea rispondere a tante e tali parole, e di tale dèa,
se non: "Sia come ti piace"? Adunque dico che ella già
tacea, quando io, le sue parole avendo nello 'ntelletto raccolte, fra
me piene d'infinite scuse sentendole, e lei già conoscendo, a
ciò fare mi disposi. E subitamente del letto levatami, e poste
con umile cuore le ginocchia in terra, così temorosa
incominciai:
"O singulare
bellezza ed etterna, o deità celeste, o unica donna della mia
mente, la cui potenza sente più fiera chi più si
difende, perdona alla semplice resistenza fatta da me contro all'armi
del tuo figliuolo, non conosciuto, e di me sia come ti piace, e, come
prometti, a luogo e tempo merita la mia fede, acciò che io, di
te tra l'altre lodandomi, cresca il numero de' tuoi sudditi senza
fine".
Queste parole aveva io
appena dette, quando ella del luogo dove stava mossasi, verso me
venne, e con ferventissimo disio nel sembiante, abbracciandomi, mi
baciò la fronte. Poi, quale il falso Ascanio, nella bocca a
Didone alitando, accese l'occulte fiamme, cotale a me in bocca
spirando fece li primi disii più focosi, com'io sentii. E
aperto alquanto il drappo purpureo, nelle sue braccia tra le dilicate
mammelle, l'effigie dell'amato giovine, ravvolta nel sottile pallio,
con sollecitudini alle mie non dissimili, mi fece vedere, e così
disse:
"O giovine donna,
riguarda costui: non Lissa, non Geta, non Birria, né loro pari
t'abbiamo per amante donato: egli è per ogni cosa degno
d'essere da qualunque dèa amato; te più che se
medesimo, sì come noi abbiamo voluto, ama, e amerà
sempre; e però lieta e sicura nel suo amore t'abandona. Li
tuoi prieghi hanno con pietà tocchi li nostri orecchi sì
come degni, e però spera che secondo l'opera senza fallo
merito prenderai.
E quinci senza
più dire sùbita si tolse agli occhi miei.
Ohimè misera! che io non dubito che, le cose seguite mirando,
non Venere costei che m'apparve, ma Tesifone fosse piuttosto, la
quale posti più giù gli spaventevoli crini non
altramente che Giunone la chiarezza della sua deità, e vestita
la splendida forma, quale quella si vestì la senile, così
mi si fece vedere come essa a Semelè, simigliante consiglio di
distruzione ultima, qual fece ella, porgendomi; il quale io
miseramente credendo, o pietosissima fede, o reverenda vergogna, o
castità santissima, delle oneste donne unico e caro tesoro, mi
fu cagione di cacciarvi. Ma perdonatemi, se penitenzia data al
peccatore può, sostenuta, perdono alcuna volta
impetrare.
Poi che del mio cospetto
si fu partita la dea, io ne' suoi piaceri con tutto l'animo rimasi
disposta; e come che ogn'altro senno mi togliesse la passione furiosa
che io sostenea, non so per quale mio merito, solo un bene di molti
perduti mi fu lasciato, cioè il conoscere che rade volte, o
non mai, fu ad amore palese conceduto felice fine. E però, tra
gli altri miei più sommi pensieri, quanto che egli mi fosse
gravissimo a fare, disposi di non preporre alla ragione il volere
recare a fine cotal disio. E certo, quanto che io molte volte fossi
per diversi accidenti fortissimamente costretta, pure tanto di grazia
mi fu conceduto, che senza trapassare il segno, virilmente sostenendo
l'affanno passai. E in verità ancora durano le forze a tal
consiglio, però che quantunque io scriva cose verissime, sotto
sì fatto ordine l'ho disposte che, eccetto colui che così
come io le sa, essendo di tutte cagione, niuno altro, per quantunque
avesse acuto l'avvedimento, potrebbe chi io mi fossi conoscere. E io
lui priego, se mai per avventura questo libretto alle mani gli
perviene, che egli, per quello amore il quale già mi portò,
che celi quello che a lui né utile né onore può,
manifestandol, tornare. E s'egli m'ha tolto, senza averlo io
meritato, sé, non mi voglia tòrre quello onore, il
quale avvegna che io ingiustamente porti, esso come sé,
volendo, non mi potrebbe rendere giammai.
Cotale proponimento adunque servando, e sotto grave peso di
sofferenza domando li miei disii volonterosissimi di mostrarsi,
m'ingegnai con occultissimi atti, quando tempo mi fu conceduto,
d'accendere il giovine in quelle medesime fiamme ove io ardea, e di
farlo cauto come io era. E in verità in ciò non mi fu
luogo lunga fatica, però che, se ne' sembianti vera
testimonianza della qualità del cuore si comprende, io in poco
tempo conobbi al mio disiderio esser seguito l'effetto; e non
solamente dell'amoroso ardore, ma ancora di cautela perfetta il vidi
pieno; il che sommamente mi fu a grado. Esso con intera
considerazione, vago di servare il mio onore, e d'adempiere, quando i
luoghi e i tempi il concedessero, li suoi disii, credo non senza
gravissima pena, usando molta arte, s'ingegnò d'avere la
familiarità di qualunque m'era parente, e ultimamente del mio
marito; la quale non solamente ebbe, ma ancora con tanta grazia la
possedette, che a niuno niuna cosa era a grado, se non tanto quanto
con lui la comunicava. Quanto questo mi piacesse, credo che senza
scriverlo il conosciate: e chi sarebbe quella sì stolta, che
non credesse che sommamente da questa familiarità nacque il
potermi alcuna volta, e io a lui, in publico favellare?
Ma già parendogli tempo da procedere a più sottili
cose, ora con uno, ora con un altro, quando vedeva che io e udire
potessi e intenderlo, parlava cose, per le quali io, volonterosissima
d'imparare, conobbi che non solamente favellando si poteva
l'affezione dimostrare ad altrui e la risposta pigliarne, ma eziandio
con atti diversi e delle mani e del viso si poteva fare; e ciò
piacendomi molto, con tanto avvedimento il compresi che né
egli a me, né io a lui, significare voleva alcuna cosa, che
assai convenevolmente l'uno l'altro non intendesse. Né a
questo contento stando, s'ingegnò, per figura parlando, e
d'insegnarmi a tale modo parlare, e di farmi più certa de'
suoi disii, me Fiammetta, e sé Panfilo nominando. Ohimè!
quante volte già in mia presenza e de' miei più cari,
caldo di festa e di cibo e d'amore, fingendo Fiammetta e Panfilo
essere stati greci, narrò egli come io di lui, ed esso di me
primamente stati eravamo presi, quanti accidenti poi n'erano
seguitati, e a' luoghi e alle persone pertinenti alla novella dando
convenevoli nomi! Certo io ne risi più volte, e non meno della
sua sagacità che della semplicità degli ascoltanti; e
tal volta fu che io temetti che troppo caldo non trasportasse la
lingua disavvedutamente dove essa andare non voleva; ma egli, più
savio che io non pensava, astutissimamente si guardava dal falso
latino.
O pietosissime donne, che
non insegna Amore a' suoi suggetti, e a che non li fa egli abili ad
imparare? Io, semplicissima giovine e appena potente a disciogliere
la lingua nelle materiali e semplici cose tra le mie compagne, con
tanta affezione li modi del parlare di costui raccolsi, che in brieve
spazio io avrei di fingere e di parlare passato ogni poeta; e poche
cose furono alle quali, udita la sua posizione, io con una finta
novella non dessi risposta dicevole. Cose assai, secondo il mio
parere, malagevoli ad imprendere, e molto più ad operare ad
una giovine, ho raccontate, ma tutte piccolissime, e di niuno peso
parrebbero, scrivendo io, se la materia presente il richiedesse, con
quanta sottile esperienza fosse per noi provata la fede d'una mia
familiarissima serva, alla quale diliberammo di commettere il nascoso
fuoco ancora a niun'altra persona palese, considerando che lungamente
senza gravissimo affanno, non essendovi alcuno mezzo, non si poteva
servare. Oltre a questo sarebbe lungo il raccontare quanti e quali
consigli e per lui e per me a varie cose fossero presi; forse, non
che per altrui operati, ma appena ch'io creda che pensati giammai; le
quali tutte, ancora che io al presente in mio detrimento le conosca
operate, non però mi duole d'averle sapute.
Se io, o donne, non erro imaginando, egli non fu piccola la fermezza
degli animi nostri, se con intera mente si guarda quanto difficile
cosa sia due amorose menti, e di due giovini, sostenere un lungo
tempo che esse, o d'una parte o d'un'altra, da soperchi disii
sospinte, della ragionevole via non trabocchino; anzi fu bene tanta e
tale, che li più forti uomini, ciò facendo, laude degna
e alta ne acquisterieno.
Ma la mia
penna, meno onesta che vaga, s'apparecchia di scrivere quegli ultimi
termini d'amore, a' quali a niuno è conceduto il potere, né
con disio né con opera, andare più oltre. Ma in prima
che io a ciò pervenga, quanto più supplicemente posso
la vostra pietà invoco, e quella amorosa forza, la quale ne'
vostri teneri petti stando, a cotale fine tira li vostri disii, e
priegole che, se 'l mio parlare vi par grave (dell'opera non dico,
ché so che, se a ciò state non sete già,
d'esservi disiate), che esse prontissime in voi surgano alla mia
scusa. E tu, o onesta vergogna, tardi da me conosciuta, perdonami; e
alquanto ti priego che qui presti luogo alle timide donne, acciò
che, da te non minacciate, sicure di me leggano ciò che di sé,
amando, disiano.
L'uno giorno
all'altro dopo traevano con isperanza sollecita li suoi e miei disii;
e ciò ciascuno agramente portava, avvegna che l'uno il
dimostrasse all'altro occultamente parlando, e l'altro all'uno di ciò
si mostrasse schifo oltremodo, sì come voi medesime, le quali
forse forza cercate a ciò che più vi sarebbe a grado,
sapete che sogliono le donne amate fare. Esso adunque, in ciò
poco alle mie parole credevole, luogo e tempo convenevole riguardato,
più in ciò che gli avvenne avventurato che savio, e con
più ardire che ingegno, ebbe da me quello che io, sì
come egli, benché del contrario infignessimi, disiava. Certo,
se questa fosse la cagione per la quale io l'amassi, io confesserei
che ogni volta che ciò nella memoria mi tornasse, mi fosse
dolore a niuno altro simile; ma in ciò mi sia Iddio testimonio
che cotale accidente fu ed è cagione menomissima dell'amore
che io gli porto; non pertanto niego che ciò, e ora e allora,
non mi fosse carissimo. E chi sarebbe quella sì poco savia,
che una cosa che amasse non volesse, anzi che lontana, vicina? e
quanto maggiore fosse l'amore più sentirsela appresso? Dico
adunque che, dopo cotale avvenimento, da me avanti non che saputo, ma
pur pensato, non una volta, ma molte con sommo piacere, e la fortuna
e il nostro senno ci consolò lungo tempo a tale partito,
avvegna che a me ora in brieve più che alcuno vento fuggitosi
mi si mostri. Ma mentre che questi così lieti tempi passavano,
sì come Amore veramente può dire, il quale solo
testimonio ne posso dare alcuna volta non fu senza tema a me licito
il suo venire, che egli per occulto modo non fosse meco. Oh, quanto
gli era la mia camera cara, e come lieta essa lui vedeva volontieri!
Io lui conobbi ad essa più reverente che ad alcuno tempio.
Ohimè! quanti piacevoli baci, quanti amorosi abbracciari,
quante notti ragionando graziose più che il chiaro giorno
senza sonno passate, quanti altri diletti cari ad ogni amante in
quella avemmo ne' lieti tempi! O santissima vergogna, durissimo freno
alle vaghe menti, perché non ti parti tu pregandotene io?
Perché ritieni tu la mia penna a dimostrare gli avuti beni,
acciò che, mostrati interamente, le seguite infelicità
avessero forza maggiore di porre per me pietà negli amorosi
petti? Ohimè! che tu mi offendi, credendomi forse giovare; io
disiderava di dire più cose, ma tu non mi lasci.
Quelle adunque alle quali tanto di privilegio ha la natura prestato,
che per le dette possano quelle che si tacciono comprendere,
all'altre non così savie il manifestino. Né alcuna me,
quasi non conoscente di tanto, stolta dica, ché assai bene
conosco che più sarebbe il tacere stato onesto, che ciò
manifestare che è scritto; ma chi può resistere ad
Amore, quando egli con tutte le sue forze operando, s'oppone? Io a
questo punto più volte lasciai la penna e più volte, da
lui infestata, la ripresi; e ultimamente a colui al quale io ne'
principii non seppi, libera ancora, resistere, convenne che io,
serva, obbedissi. Egli mi mostrò altrettanto li diletti
nascosi valere, quanto li tesori sotto la terra occultati. Ma perché
mi diletto io tanto intorno a queste parole? Io dico che io allora
più volte ringraziai la santa dèa promettitrice e
datrice di que' diletti. Oh, quante volte io li suoi altari visitai
con incensi, coronata delle sue fronde, e quante volte biasimai li
consigli della vecchia balia! E oltre a questo, lieta sopra tutte
l'altre compagne, scherniva li loro amori, quello ne' miei parlari
biasimando, che più nell'animo mi era caro, fra me sovente
dicendo: "Niuna è amata come io, né ama giovine
degno come io amo, né con tanta festa coglie gli amorosi
frutti come colgo io". Io, brievemente, aveva il mondo per
nulla, e con la testa mi parea il cielo toccare, e nulla mancare a me
al sommo colmo della beatitudine tenere, reputava, se non solamente
in aperto dimostrare la cagione della mia gioia, estimando meco
medesima che così a ciascuna persona, come a me, dovesse
piacere quello che a me piaceva. Ma tu, o vergogna, dall'una parte, e
tu, paura, dall'altra, mi riteneste, minacciandomi l'una d'etterna
infamia, e l'altra di perdere ciò che nemica fortuna mi tolse
poi. Adunque, sì come piacque ad Amore, in cotal guisa più
tempo, senza avere invidia ad alcuna donna, lieta amando vissi, e
assai contenta, non pensando che il diletto il quale io aliora con
ampissimo cuore prendea, fosse radice e pianta nel futuro di miseria,
sì come io al presente senza frutto miseramente conosco.
Capitolo II.
Nel quale Madonna Fiammetta descrive la cagione del dipartire del suo amante da lei; e la partita di lui; e 'l dolore che a lei ne seguitò nel partire.
Mentre che io, o carissime donne, in così lieta e graziosa
vita, sì come di sopra è descritta, menava i giorni
miei, poco alle cose future pensando, la nemica fortuna a me di
nascoso temperava li suoi veleni, e me con animosità continua,
non conoscendolo io, seguitava. Né bastandole d'avermi, di
donna di me medesima, fatta serva d'Amore, veggendo che dilettevole
già m'era cotal servire, con più pungente ortica
s'ingegnò d'affliggere l'anima mia. E venuto il tempo da lei
aspettato, m'apparecchiò, sì come appresso udirete, li
suoi assenzii, i quali a me mal mio grado convenuti gustare, la mia
allegrezza in tristizia e 'l dolce riso in amaro pianto mutarono. Le
quali cose, non che sostenendole, ma pur pensando di doverle altrui
scrivendo mostrare, tanta di me stessa compassione m'assalisce che,
quasi ogni forza togliendomi, e infinite lagrime agli occhi
recandomi, appena il mio proposito lascia ad effetto producere; il
quale, quantunque male io possa, pur m'ingegnerò di
fornire.
Noi, egli e io, come caso
venne, essendo il tempo per piove e per freddo noioso, nella mia
camera, menando la tacita notte le sue più lunghe dimore,
riposando nel ricchissimo letto insieme dimoravamo; e già
Venere, da noi molto faticata, quasi vinta ci dava luogo, e uno lume
grandissimo in una parte della camera acceso gli occhi suoi della mia
bellezza faceva lieti, e i miei similmente faceva della sua. Li
quali, mentre che di quella, parlando io cose varie, essi soperchia
dolcezza beveano, quasi d'essa inebriata la luce loro, non so come
per piccolo spazio da ingannevole sonno vinti, toltemi le parole,
stettero chiusi. Il quale così soave da me passando, come era
entrato, del caro amante ramarichevoli mormorii sentirono li miei
orecchi, e sùbito della sua sanità in varii pensieri
messa, volli dire: "Che ti senti?". Ma vinta da nuovo
consiglio mi tacqui, e con occhio acutissimo, e con orecchie sottili,
lui nell'altra parte del nostro letto rivolto, cautamente mirandolo
per alcuno spazio l'ascoltai. Ma nulla delle sue voci presero gli
orecchi miei, benché lui in singhiozzi di gravissimo pianto
affannato e il viso parimente e il petto bagnato di lagrime
conoscessi.
Ohimè! quali
voci mi sarieno sufficienti ad esprimere quale in tale aspetto, la
cagione ignorando, l'anima mia divenisse mirandolo? E' mi corsero
mille pensieri che la mente in uno momento, e quasi tutti terminavano
in uno, cioè che egli, amando altra donna, contra voglia
dimorasse in tal modo. Le mie parole furono più volte infino
alle labbra per domandarlo qual fosse la sua noia; ma, dubitando che
vergogna non gli porgesse l'esser da me trovato piagnendo, si
ritraevano indietro; e similmente trassi gli occhi più volte
da riguardarlo, acciò che le calde lagrime cadenti da quelli,
venendo sopra di lui, non gli dessero materia di sentire ch'egli
fosse da me veduto. Oh quanti modi, impaziente, pensai da operare,
acciò che egli desta mi sentisse non averlo sentito, e a niuno
m'accordava! Ma ultimamente, vinta dal disio di sapere la cagione del
suo pianto, acciò che egli a me si volgesse, quali coloro che
ne' sogni o da caduta, o da bestia crudele, o da altro spaventati,
subitamente pavidi si riscuotono, il sogno e il sonno ad un'ora
rompendo, cotale sùbita con voce pavida mi riscossi, l'uno de'
miei bracci gittando sopra li suoi omeri. E certo l'inganno ebbe
luogo, perciò che egli, lasciando le lagrime, con infinta
letizia sùbito a me si volse, e disse, con voce pietosa: O
anima mia bella, che temesti?
Al quale io senza intervallo
risposi: Parevami che io ti perdessi. Ohimè! che le mie
parole, non so da che spirito pinte fuori, furono del futuro e agurio
e verissime annunziatrici, come io ora veggio.
Ma egli rispose: O carissima giovine, morte, non altri potrà che tu mi perda operare.
E queste parole senza mezzo seguì un gran sospiro; del quale
non fu sì tosto, da me, che de' primi pianti disiderava saper
la cagione, dimandato, che le abondanti lagrime da' suoi occhi, come
da due fontane, cominciarono a scaturire, e il mal rasciutto petto di
lui a bagnare con maggiore abondanza; e me in greve doglia e già
lagrimante tenne per lungo spazio sospesa, sì l'impediva il
singhiozzo del pianto, anzi che alle mie molte dimande potesse
rispondere. Ma poi che libero alquanto dall'émpito si sentio,
con voce spesso rotta dal pianto, così mi rispose:
"O a me carissima donna e da me amata sopra tutte le cose, sì
come gli effetti aperto ti possono mostrare, se i miei pianti
meritano fede alcuna, credere puoi non senza cagione amara con tanta
abondanza spandano lagrime gli occhi miei, qualora nella memoria mi
torna quello che ora, in tanta gioia con teco stando, mi vi tornò,
e cioè solamente il pensare che di me far due non posso,
com'io vorrei, acciò che ad Amore e alla debita pietà
ad un'ora satisfare potessi qui dimorando, e là dove necessità
strettissima mi tira per forza, andando. Dunque non potendosi, in
afflizione gravissima il mio cuore misero ne dimora, sì come
colui che da una parte traendo pietà, è fuori delle tue
braccia tirato, e dall'altra in quelle con somma forza da Amore
ritenuto".
Queste parole
m'entrarono nel misero cuore con amaritudine mai non sentita, e
ancora che bene non fossero prese dallo intelletto, nondimeno quanto
più di quelle ricevevano le orecchie attente a' danni loro,
tanto più in lagrime convertendosi m'uscivano per gli occhi,
lasciando nel cuore il loro effetto nemico. Questa fu la prima ora,
che io sentii dolori al mio piacer più nimichevoli; questa fu
quell'ora, che senza modo lagrime mi fece spandere, mai prima da me
simili non sparte; le quali niuna sua parola, né conforto, di
che assai era fornito, poteva ristringere. Ma poi che per lungo
spazio ebbi pianto amaramente, quanto potei ancora il pregai che più
chiaro qual pietà il traeva delle mie braccia mi dimostrasse;
onde egli, non ristando però di piangere, così mi
disse:
"La inevitabile morte,
ultimo fine delle cose nostre, di più figliuoli nuovamente me
solo ha lasciato al padre mio, il quale d'anni pieno e senza sposa,
solo d'alcuno mio fratello sollecito a' suoi conforti rimaso, senza
speranza alcuna di più averne, me a consolazione di lui, il
quale egli già sono più anni passati non vide, richiama
a rivederlo. Alla qual cosa fuggire per non lasciarti, già
sono più mesi, varie maniere di scuse ho trovate; e
ultimamente non accettandone alcuna, per la mia puerizia nel suo
grembo teneramente allevata, per l'amore da lui verso di me
continuamente portato e per quello che a lui portar debbo, per la
debita ubidienza filiale, e per qualunque altra cosa più grave
puote, continuo mi scongiura che a rivedere lo vada. E oltre a ciò
da amici e da parenti con prieghi solenni me ne fa stimolare, dicendo
in fine sé la misera anima cacciare del corpo sconsolata, se
me non vede. Ohimè, quanto sono le naturali leggi forti! Io
non ho potuto fare, né posso, che nel molto amore che io ti
porto non abbia trovato luogo questa pietà; onde, avendo in
me, con licenza di te, diliberato d'andare a rivederlo, e con lui
dimorare a consolazione sua alcuno piccolo spazio di tempo, non
sappiendo come senza te viver mi possa, di tal cosa ricordandomi
tuttavia, meritamente piango".
E qui si tacque.
Se alcuna di voi
fu mai, o donne a cui io parlo, alla quale, ferventemente amando,
tale caso avvenisse, colei sola spero che possa conoscere quale
allora fosse la mia tristizia; all'altre non curo di dimostrarlo,
però che così come ogn'altro essemplo che il detto,
così ogni parlare ci sarebbe scarso. Io dico sommariamente
che, udendo io queste parole, l'anima mia cercò di fuggire da
me, e senza dubbio credo fuggita sariesi, se non che essa di colui
nelle braccia cui più amava si sentiva stare; ma nondimeno
paurosa rimasa, e occupata da greve doglia, lungamente mi tolse il
poter dire alcuna cosa. Ma poi che per alquanto spazio si fu
assuefatta a sostenere il mai più non sentito dolore, a'
miseri spiriti rendé le paurose forze, e gli occhi, rigidi
divenuti, ebbero copia di lagrime e la lingua di dire alcuna parola.
Per che, al signore della mia vita rivolta, così li
dissi:
"O ultima speranza
della mia mente, entrino le mie parole nella tua anima con forza di
mutare il proposito, acciò che, se così m'ami come
dimostri, e la tua vita e la mia cacciate non sieno dal tristo mondo
prima che venga il dì segnato. Tu, da pietà tirato e da
amore, in dubbio poni le cose future; ma certo, se le tue parole per
addietro sono state vere, con le quali me da te essere stata amata
non una volta, ma molte hai affermato, niun'altra pietà a
questa potenza dee potere resistere, né mentre ch'io vivo,
altrove tirarti; e odi perché. Egli t'è manifesto, se
tu séguiti quello che parli, in quanto dubbio tu lasci la vita
mia, la quale appena per addietro s'è sostenuta quel giorno
che io non t'ho potuto vedere; dunque puoi esser certo che,
cessandoti tu, ogni allegrezza da me si partirà. E ora
bastasse questo! Ma chi dubita che ogni tristizia mi sopravverrà,
la quale, forse, e senza forse, mi ucciderà? Ben dei tu oramai
conoscere quanta forza sia nelle tenere giovini a potere così
avversi casi con forte animo sostenere. Se forse vuogli dire che io
per addietro, amando saviamente e con forza, gli sostenni maggiori,
certo io il consento in parte, ma la cagione era molto diversa da
questa: la mia speranza posta nel mio volere mi faceva lieve quello
che ora nell'altrui mi graverà. Chi mi negava, quando il disio
m'avesse pure oltre ad ogni misura costretta, che io te, così
di me come io di te innamorato, non avessi potuto avere? Certo
nessuno; quello che, essendomi tu lontano, non m'avverrà.
Oltre a ciò, io allora non sapeva, più che per vista,
chi tu ti fossi, benché io t'estimassi da molto; ma ora io il
conosco, e sento per opera che tu se' d'avere troppo più caro
che non mi mostrava allora il mio imaginare, e se' divenuto mio con
quella certezza che gli amanti possono essere dalle donne tenuti
loro. E chi dubita che egli non sia molto maggiore dolore il perdere
ciò che altri tiene, che quello che egli spera di tenere,
ancora che la speranza debba riuscire vera? E però, bene
considerando, assai aperta si vede la morte mia. Dunque, la pietà
del vecchio padre preposta a quella che di me dei avere mi sarà
di morte cagione, e tu non amatore, ma nemico, se così fai.
Deh, vorrai tu, o potrail fare, pur che io il consenta, i pochi anni
al vecchio padre servati, a' molti, che ancora a me ragionevolmente
si debbono, anteporre? Ohimè! che iniqua pietà sarà
questa? E` egli tua credenza, o Panfilo, che niuna persona, sia di te
quantunque egli vuole o puote per parentado di sangue o per amistà
congiunta, t'ami sì come io t'amo? Male credi, se di sì
credi: veramente niuno t'ama così come io. Dunque, se io più
t'amo, più pietà merito, e perciò degnamente
antiponmi, e di me essendo pietoso, di ogni altra pietà ti
dispoglia che offenda questa, e senza te lascia riposare il tuo
padre; e così come, tu non con lui, lungamente è
vivuto, se gli piace, per innanzi si viva, e se non, muoiasi. Egli è
fuggito molti anni al mortal colpo, s'io odo il vero, e più ci
è vivuto che non si conviene; e se egli con fatica vive, come
i vecchi fanno, sarà vie maggior pietà di te verso lui
lasciarlo morire, che più in lui con la tua presenza
prolungare la fatichevole vita.
Ma
me, che guari senza te vivuta non sono, né vivere saprei senza
te, si conviene aiutare, la quale, giovanissima ancora, con teco
aspetto molti anni di vivere lieti. Deh, se la tua andata quello nel
tuo padre dovesse operare che in Esone i medicamenti di Medea
operarono, io direi la tua pietà giusta, e comanderei che
s'adempiesse, ancora che duro mi fosse; ma non sarà cotale, né
potrebbe essere, e tu il sai. Or ecco, se a te, forse più che
io non credo crudele, di me, la quale per tua elezione, non
isforzato, hai amata e ami, sì poco ti cale, che tu vogli pure
al mio amore preporre la pietà perduta del vecchio padre, il
quale è tale quale il ti diè la fortuna, almeno di te
medesimo t'incresca più che di me o di lui, il quale, se i
tuoi sembianti in prima, e poi le tue parole non m'hanno ingannata,
più morto che vivo ti se' mostrato, quale ora, per accidente,
senza vedermi hai trapassata; e ora a sì lunga dimora, chente
richiede la mal venuta pietà, senza vedermi ti credi potere
dimorare? Deh, per Dio, attentamente riguarda, e vedi te possibile a
morte ricevere (se per lungo dolore avviene che l'uomo si muoia, come
io intendo) per l'altrui vita, di questa andata, la quale che a te
sia durissima le tue lagrime e del tuo cuore il movimento, il quale
nell'ansio petto senza ordine battere ti sento, dimostrano; e se
morte non te ne segue, vita piggiore che morte non te ne falla.
Ohimè! che lo innamorato mio cuore insieme dalla pietà
che a me medesima porto, e da quella che per te sento è ad
un'ora costretto. Per che io ti priego che tu sì sciocco non
sii che, movendoti a pietà d'alcuna persona, e sia chi vuole,
tu vogli te a grave pericolo di te medesimo sottoporre. Pensa che chi
sé non ama, niuna cosa possiede. Tuo padre, di cui tu se' ora
pietoso, non ti diede al mondo perché tu stesso divenissi
cagione di tortene. E chi dubita che, se a lui fosse la nostra
condizione licito di scoprire, che egli, essendo savio, non dicesse
piuttosto: "Rimanti" che "Vieni"? E se a ciò
discrezione non lo inducesse, egli ve lo inducerebbe pietà; e
questo credo che assai ti sia manifesto. Dunque fa' ragione che quel
giudicio che egli darebbe, se la nostra causa sapesse, che egli
l'abbia saputa e dato, e per la sua medesima sentenza lascia stare
questa andata, a me e a te parimente dannosa.
Certo, carissimo signor mio, assai possenti cagioni sono le già
dette da doverle seguire, e rimanerti, considerando ancora dove tu
vai; ché, posto che colà vadi ove nascesti, luogo
naturalmente oltre ad ogni altro amato da ciascuno, nondimeno, per
quello che io abbia già da te udito, egli t'è per
accidente noioso, però che, sì come tu medesimo già
dicesti, la tua città è piena di voci pompose e di
pusillanimi fatti, serva non a mille leggi, ma a tanti pareri quanti
v'ha uomini, e tutta in arme, e in guerra, così cittadina come
forestiera, fremisce, di superba, avara e invidiosa gente fornita, e
piena di innumerabili sollecitudini: cose tutte male all'animo tuo
conformi. E quella che di lasciare t'apparecchi so che conosci lieta,
pacifica, abondevole, magnifica, e sotto ad un solo re: le quali
cose, se io alcuna conoscenza ho di te, assai ti sono gradevoli; e
oltre a tutte le cose contate, ci sono io, la quale tu in altra parte
non troverai. Dunque, lascia l'angosciosa proposta, e, mutando
consiglio, alla tua vita e alla mia insieme, rimanendo, provvedi; io
te ne priego".
Le mie parole
in molta quantità le sue lagrime aveano cresciute, delle quali
co' baci mescolate assai ne bevvi. Ma egli dopo molti sospiri così
mi rispose:
"O sommo bene
dell'anima mia, senza niuno fallo vere conosco le tue parole, e ogni
pericolo in quelle narrato m'è manifesto; ma acciò che
io, non come io vorrei, ma come la necessità presente
richiede, brievemente risponda, ti dico che il potere con un corto
affanno solvere un debito grande, credo da te mi si debbia concedere.
Pensar dei ed esser certa che, benché la pietà del
vecchio padre mi strìnga assai e debitamente, non meno, ma
molto più, quella di noi medesimi mi costrigne; la quale, se
licita fosse a discoprire, scusato mi parrebbe essere, presumendo
che, non che da mio padre solo, ma ancora da qualunque altro fosse
giudicato quel che dicesti; e lascerei il vecchio padre, senza
vedermi, morire. Ma convenendo questa pietà essere occulta,
senza quella palese adempiere, non veggio come senza gravissima
riprensione e infamia far lo potessi. Alla quale riprensione fuggire,
adempiendo il mio dovere, tre o quattro mesi ci torrà di
diletto fortuna; dopo li quali, anzi innanzi che compiuti siano,
senza fallo mi rivedrai nel tuo cospetto tornato, a me come te
medesima rallegrare. E se il luogo al quale io vo è così
spiacevole come fai (ché è così a rispetto di
questo, essendoci tu), ciò ti dee essere molto a grado,
pensando che, dove altra cagione a partirmi quindi non mi movesse,
per forza le qualità del luogo al mio animo avverse me ne
farebbono partire e qui tornare. Dunque concedasi questo da te, che
io vada; e come per addietro ne' miei onori e utili se' stata
sollecita, così ora in questo divieni paziente, acciò
che io, conoscendo a te gravissimo l'accidente, più sicuro per
innanzi mi renda, che in qualunque caso ti sia l'onor mio quant'io
stato caro".
Egli avea detto,
e tacevasi, quando io così ricominciai a parlare:
"Assai chiaro conosco ciò che fermato nell'animo non
pieghevole porti, e appena mi pare che in quello raccogliere vogli
pensando di quante e quali sollecitudini l'anima mia lasci piena da
me lontanandoti; la quale niuno giorno, niuna notte, niuna ora sarà
senza mille paure: io starò in continuo dubbio della tua vita,
la quale io priego Iddio che sopra i miei dì la distenda
quanto tu vuoi. Deh, perché con soperchio parlare mi voglio io
stendere dicendole ad una ad una? Egli non ha, brievemente, il mare
tante arene, né il cielo stelle, quante cose dubbiose e di
pericolo piene possono tutto dì intervenire a' viventi; le
quali tutte, partendoti tu, senza dubbio spaventandomi
m'offenderanno. Ohimè! trista la vita mia! Io mi vergogno di
dirti quello che nella mia mente mi viene; ma però che quasi
possibile per le cose udite mi pare, costretta tel pur dirò.
Or se tu ne' tuoi paesi, ne' quali io ho udito più volte
essere quantità infinita di belle donne e vaghe, atte bene ad
amare e ad essere amate, una ne vedessi che ti piacesse, e me
dimenticassi per quella, qual vita sarebbe la mia? Deh! se così
m'ami come dimostri, pensalo come faresti tu se io per altrui ti
cambiassi! La qual cosa non sarà mai: certo io con le mie
mani, anzi che ciò avvenisse, m'ucciderei.
Ma lasciamo stare questo, e di quello che noi non disideriamo che
avvenga, non tentiamo con tristo annunzio gl'iddii. Se a te pur fermo
giace nell'animo il partire, con ciò sia cosa che niun'altra
cosa mi piaccia, se non piacerti, a ciò volere di necessità
mi conviene disporre. Tuttavia, se essere può, io ti priego
che in questo tu séguiti il mio volere, cioè in dare
alla tua andata alcuno indugio, nel quale io, imaginando il tuo
partire, con continuo pensiero possa apparare a sofferire d'essere
senza te. E certo questo non ti deve essere grave: il tempo medesimo,
il quale ora la stagione mena malvagio, m'è favorevole. Non
vedi tu il cielo pieno d'oscurità, continuo minacciante
gravissime pestilenze alla terra con acque, con nevi, con venti e con
ispaventevoli tuoni? E come tu dei sapere, ora per le continue piove
ogni piccolo rivo è divenuto un grande e possente fiume. Chi è
colui che sì poco se medesimo ami, che in così fatto
tempo si metta a camminare? Dunque, in questo fa il mio piacere; il
quale se far non vuogli, fa il tuo dovere: lascia i dubbiosi tempi
passare, e aspetta il nuovo, nel quale e tu meglio e con meno
pericolo andrai, e io, già co' tristi pensieri costumata più
pazientemente aspetterò la tua tornata".
A queste parole egli non indugiò la risposta, ma disse:
"Carissima giovine, l'angosciose pene e le sollecitudini varie
nelle quali io contro a mio piacere ti lascio, e meco senza dubbio ne
porto l'une e l'altre, mitighi la lieta speranza della futura
tornata; né di quello che così qui come altrove, quando
tempo sarà, mi dee giungere, cioè la morte, è
senno d'averne pensiero, né de' futuri accidenti a nuocere
possibili e a giovare: ovunque l'ira e la grazia di Dio coglie
l'uomo, quivi e il bene e il male, senza potere altro, gli conviene
sostenere. Adunque queste cose senza badarci, nelle mani di lui,
meglio di noi consapevole de' nostri bisogni, le lascia stare, e a
lui con prieghi solamente addimanda che vengano buone. Che mai di
niuna donna io sia altro che di Fiammetta, appena, pure se io il
volessi, il potrebbe fare Giove, con sì fatta catena ha il mio
cuore Amore legato sotto la tua signoria. E di ciò ti rendi
sicura, che prima la terra porterà le stelle, e il cielo arato
da' buoi producerà le mature biade, che Panfilo sia d'altra
donna che tuo. L'allungare di spazio che chiedi alla mia partita, se
io il credessi a te e a me utile, più volontieri che tu nol
chiedi il farei; ma tanto quanto quello fosse più lungo,
cotanto il nostro dolore sarebbe maggiore. Io, ora partendomi, prima
sarò tornato, che quello spazio sia compiuto il quale chiedi
per apparare a sofferire; e quella noia in questo mezzo avrai, non
essendoci io, che avresti pensando al mio dovermi partire. E alla
malvagità del tempo, sì come altra volta uso di
sostenerne, prenderò io salutevole rimedio; il quale volesse
Iddio che così ritornando già l'operassi come
partendomi il saprò operare. E perciò con forte animo
ti disponi a ciò che, quando pure far si conviene, è
meglio sùbito operando passare, che con tristizia e paura di
farlo aspettare".
Le mie
lagrime quasi nel mio parlare allentate altra risposta attendendo,
udendo quella, crebbero in molti doppii; e sopra il suo petto posata
la grave testa, lungamente dimorai senza più dirgli, e varie
cose nell'animo rivolgendo, né affermare sapea, né
negare ciò che e' diceva. Ma ohimè! chi avrebbe a
quelle parole risposto se non: "Fa quel che ti piace, torni tu
tosto"? Niuna credo. E io, non senza gravissima doglia e molte
lagrime, dopo lungo indugio così gli risposi, aggiungendogli
che gran cosa, se egli viva mi trovasse nel suo tornare, senza dubbio
sarebbe.
Queste parole dette, l'uno
confortato dall'altro, rasciugammo le lagrime, e a quelle ponemmo
sosta per quella notte. E servato l'usato modo, anzi la sua partita,
che pochi giorni fu poi, me più volte venne a rivedere; benché
assai d'abito e di volere trasmutata dal primo mi rivedesse. Ma
venuta quella notte la quale dovea essere l'ultima de' miei beni, con
ragionamenti varii non senza molte lagrime trapassammo; la quale,
ancora che per la stagione del tempo fosse delle più lunghe,
brevissima mi parve che trapassasse. E già il giorno, agli
amanti nemico, cominciato aveva a tòrre la luce alle stelle;
del quale vegnente poi che 'l segno venne alle mie orecchie,
strettissimamente lui abbracciai, e così dissi:
"O dolce signor mio, chi mi ti toglie? Quale iddio con tanta
forza la sua ira verso di me adopera che, me vivente, si dica:
"Panfilo non è là dove la sua Fiammetta dimora"?
Ohimè! che io non so ora ove ne vai tu. Quando sarà che
io più ti debba abbracciare? Io dubito che non mai. Io non so
ciò che il cuore miseramente indovinando mi si va
dicendo".
E così
amaramente piagnendo, e riconfortata da lui, più volte il
baciai. Ma dopo molti stretti abbracciari ciascuno pigro a levarsi,
la luce del nuovo giorno strignendoci, pur ci levammo. E
apparecchiandosi egli già di darmi li baci estremi, prima
lagrimando cotali parole gli cominciai:
"Signor mio, ecco tu te ne vai, e in brieve la tornata prometti;
facciami di ciò, se ti piace, la tua fede sicura, sì
che io, a me non parendo invano pigliare le tue parole, di ciò
prenda, quasi come di futura fermezza, alcuno conforto
aspettando".
Allora egli le
sue lagrime con le mie mescolando, al mio collo, credo per la fatica
dell'animo, grave pendendo, con debole voce disse:
"Donna, io ti giuro per lo luminoso Apollo, il quale ora surge
oltre a' nostri disii con velocissimo passo, di più tostana
partita dando cagione, e li cui raggi io attendo per guida, e per
quello indissolubile amore che io ti porto, e per quella pietà
che ora da te mi divide, che il quarto mese non uscirà che,
concedendolo Iddio, tu mi vedrai qui tornato".
E quindi, presa con la sua destra la mia destra mano, a quella parte
si volse, dove le sacre imagini dei nostri iddii figurate vedeansi, e
disse:
"O santissimi iddii,
igualmente del cielo governatori e della terra, siate testimoni alla
presente promessione, e alla fede data dalla mia destra; e tu, Amore,
di queste cose consapevole, sii presente; e tu, o bellissima camera,
a me più a grado che 'l cielo agl'iddii, così come
testimonia secreta de' nostri disii se' stata, così
similemente guarda le dette parole; alle quali, se io per difetto di
me vengo meno, cotale verso di me l'ira d'Iddio si dimostri, quale
quella di Cerere in Erisitone, o di Diana in Atteone, o in Semelè
di Giunone apparve già nel passato".
E questo detto, me con volontà somma abbracciò
ultimamente dicendo "Addio!" con rotta voce.
Poi che egli così ebbe parlato, io misera, vinta
dall'angoscioso pianto, appena li pote' rispondere alcuna cosa; ma
pure isforzandomi, tremanti parole pinsi fuori della trista bocca in
cotale forma:
"La fede a' miei
orecchi promessa, e data alla mia destra mano dalla tua, fermi Giove
in cielo con quello effetto che Inachide fece li prieghi di Teletusa,
e in terra, come io disidero e come tu chiedi, la faccia
intera".
E accompagnato lui
infino alla porta del nostro palagio, volendo dire "Addio!",
sùbito fu la parola tolta alla mia lingua, e il cielo agli
occhi miei. E quale succisa rosa negli aperti campi infra le verdi
fronde sentendo i solari raggi cade perdendo il suo colore, cotale
semiviva caddi nelle braccia della mia serva; e dopo non piccolo
spazio, aiutata da lei fedelissima, con freddi liquori rivocata al
tristo mondo, mi risentii; e sperando ancora d'essere alla mia porta,
quale il furioso toro, ricevuto il mortal colpo, furibondo si leva
saltando, cotale io stordita levandomi, appena ancora veggendo,
corsi, e con le braccia aperte la mia serva abbracciai credendo
prendere il mio signore, e con fioca voce e rotta dal pianto in mille
partì dissi:
"O anima
mia, addio".
La serva tacque,
conoscendo il mio errore; ma io poi, ricevuta veduta più
libera, il mio avere fallito sentendo, appena un'altra volta in
simile smarrimento non caddi.
Il
giorno era già chiaro per ogni parte, onde io nella mia camera
senza il mio Panfilo veggendomi, e intorno mirandomi per ispazio
lunghissimo, come ciò avvenuto si fosse ignorando, la serva
dimandai che di lui avvenuto fosse, a cui ella piagnendo
rispose:
"Già è
gran pezza che egli, qui nelle sue braccia recatavi, da voi il
sopravvegnente giorno con lagrime infinite a forza il divise".
A cui io dissi:
"Dunque si è
egli pure partito?"
"Sì"
rispose la serva.
Cui io ancora
seguendo addimandai:
"Or con
che aspetto si partì? Con grave?"
A cui ella rispose:
"Niuno mai
più dolente ne vidi".
Poi seguitai:
"Quali furono
gli atti suoi? E che parole disse nella partenza?"
Ed ella rispose:
"Voi quasi
morta nelle mie braccia rimasa, vagando la vostra anima non so dove,
egli vi si recò, tosto che tale vi vostra anima non so dove,
egli vi si recò, tosto che tale vi vide, nelle sue
teneramente; e con la sua mano nel vostro petto cercato se con voi
fosse la paurosa anima, e trovatala forte battendo, piagnendo, cento
volte e più agli ultimi baci credo vi richiamasse. Ma poi che
voi immobile non altramente che marmo vide, qui vi recò, e,
dubitando di peggio, lagrimando più volte bagnò il
vostro viso, dicendo: "O sommi iddii, se nella mia partenza
peccato alcuno si contiene, venga sopra di me il giudicio, non sopra
la non colpevole donna. Rendete a' luoghi suoi la smarrita anima, sì
che di questo ultimo bene, cioè di vedermi nella mia partita e
di darmi gli ultimi baci dicendo addio, ed ella e io siamo
consolati". Ma poi che vide voi non risentirvi, quasi senza
consiglio, ignorando che farsi, pianamente in sul letto posatavi,
quali le marine onde, da' venti e dalla pioggia sospinte, ora innanzi
vengono e quando addietro si tornano, cotale da voi partendosi infino
in sul limitare dell'uscio della camera pigramente andando, mirava
per le finestre il minacciante cielo nemico alla sua dimora; e quindi
subitamente verso voi ritornava, da capo chiamandovi e aggiungendo
lagrime e baci al vostro viso. Ma poi che così ebbe fatto più
volte, vedendo che più lunga non poteva essere con voi la sua
dimora, abbracciandovi disse: "O dolcissima donna, unica
speranza del tristo cuore, la quale io, a forza partendomi, lascio in
dubbia vita, Iddio ti renda il perduto conforto, e te a me tanto
servi che insieme felici ancora ci possiamo rivedere, sì come
sconsolati ne divide l'amara partenza". E così come le
parole diceva, così continuamente piagneva forte, tanto che i
singhiozzi del suo pianto più volte mi fecero paura che non
che da' nostri di casa, ma che da' vicini sentiti non fossero. Ma
poi, più non potendo dimorare per la nemica chiarezza
sopravvegnente, con maggiore abondanza di lagrime disse "Addio!",
e quasi a forza tirato, percotendo forte il piede nel limitar
dell'uscio, uscì delle nostre case. Onde uscito, appena si
saria detto che egli potesse andare, anzi ad ogni passo volgendosi,
quasi pareva sperasse che, voi risentita, io il dovessi chiamare a
rivedervi".
Tacque allora
quella; e io, o donne, quale voi potete pensare, cotale dolendomi
della partita del caro amante, sconsolata rimasi piagnendo.
Capitolo III.
Nel quale si dimostra chenti e quali fossero di questa donna i pensieri e l'opera, trascorrendo il tempo a lei dal suo amante promesso di ritornare.
Quale voi avete di sopra udito, o donne, cotale, dipartito il mio
Panfilo, rimasi, e più giorni con lagrime di tal partenza mi
dolsi, né altro era nella mia bocca, benché tacitamente
fosse, che: "O Panfilo mio, come può egli essere che tu
m'abbi lasciata?". Certo intra le lagrime mi dava tal nome,
ricordandolo, alcuno conforto. Niuna parte della mia camera era che
io con disiderosissimo occhio non riguardassi, fra me dicendo: "Qui
sedette il mio Panfilo, qui giacque, quivi mi promise di tornare
tosto, quivi il baciai io". E, brievemente, ciascuno luogo m'era
caro. Io alcuna volta meco medesima fingeva lui dovere ancora,
indietro tornando, venirmi a vedere, e quasi come se venuto fosse,
gli occhi all'uscio della mia camera rivolgeva, e rimanendo dal mio
consapevole imaginamento beffata, così ne rimaneva crucciosa
come se con verità fossi stata ingannata. Io più volte
per cacciare da me i non utili riguardamenti cominciai molte cose a
voler fare; ma vinta da nuove imaginazioni, quelle lasciava stare. Il
misero cuore con non usato battimento continuamente m'infestava. Io
mi ricordava di molte cose, le quali io gli vorrei aver dette, e
quelle che dette gli aveva, e le sue ripetendo con meco stessa; e in
tal maniera, non fermando l'animo a nulla cosa, più giorni mi
stetti dogliosa.
Poi che la doglia
gravissima per la nuova partenza incominciò per interposizione
di tempo alquanto ad allenare, a me incominciarono a venire più
fermi pensieri; e venuti, se medesimi con ragioni verisimili
difendevano. Egli, non dopo molti dì dimorando io nella mia
camera sola, m'avvenne ch'io con meco a dir cominciai: "Ecco,
ora l'amante è partito, e vassene; e tu, misera, non che dire
addio, ma rendergli i baci dati al morto viso o vederlo nel suo
partire non potesti; la quale cosa egli forse tenendo a mente, se
alcuno caso noioso gli avviene, della tua taciturnità malo
agurio prendendo, forse di te si biasimerà". Questo
pensiero mi fu nel principio nell'animo molto grave, ma nuovo
consiglio da me il rimosse, perciò che meco pensando dissi:
"Di qui non dee biasimo alcuno cadere, perciò che egli,
savio, piuttosto il mio avvenimento prenderà in agurio felice,
dicendo: "Ella non disse addio, sì come si suol dire a
quelli, i quali o per lungamente dimorare o per non tornare si
sogliono partire d'altrui; ma tacendo, me seco quasi reputando
d'avere, brevissimo spazio disegnò alla mia dimora". E
così, me con meco racconsolata, lascio questo andare, intrando
in altri.
Alcun'altra volta con più
gravezza mi venne pensato lui avere il piè percosso nel
limitare dell'uscio della nostra camera, sì come la fedele
serva m'avea ridetto; e ricordandomi che a niuno altro segnale
Laudomia prese tanta fermezza, quanta a così fatto del non
redituro Protesilao, già molte volte ne piansi, quello
medesimo di ciò sperando che n'è avvenuto. Ma, non
capendomi allora nell'animo che avvenire mi dovesse, quasi vani
cotali pensieri imaginai da dover lasciare andar via. I quali però
non si partiano a mia posta, ma talvolta altri sopravvegnendone,
questi m'uscivano di mente, pensando a già venuti, i quali
tanti e tali erano, che di quelli il numero, non che altro,
graverebbe a ricordarsi.
Egli non
mi venne una volta sola nell'animo l'avere già letto ne' versi
di Ovidio che le fatiche traevano a' giovini amore delle menti, anzi
mi veniva tante quante volte io mi ricordava lui essere in camino. E
sentendo quello non piccolo affanno, e massimamente a chi è di
riposo uso, o il fa contro voglia, forte meco dubitava in prima non
quello avesse forza di torlomi, e appresso non la invita fatica né
il noioso tempo gli fosse cagione d'infermità, o di peggio. E
in questo molto mi ricorda più che negli altri dimorare
occupata, benché sovente io e dalle sue medesime lagrime da me
vedute, e dalle mie fatiche, le quali mai non mutarono la mia
fermezza, argomentai non potere essere vero, che per sì
piccolo affanno si spegnesse amore così grande, sperando
ancora che la sua giovine età e la discrezione da altro
accidente noioso me 'l guarderebbero.
Così adunque a me opponendo, e rispondendo, e solvendo,
trapassai tanti giorni, che non che lui alla sua patria pervenuto
pensai solamente, ma ancora ne fui per sua lettera fatta certa. La
quale essendo a me per molte cagioni graziosissima, lui ardere come
mai mi fece palese, e con maggiori promesse vivificò la mia
speranza del suo tornare.
Da questa
ora innanzi, partiti i primi pensieri, nuovi in luogo di quelli
subitamente ne nacquero. Io alcuna volta diceva: "Ora Panfilo
unico figliuolo al vecchio padre, da lui, il quale già è
molti anni nol vide, con grandissima festa ricevuto, non che egli di
me si ricordi, ma io credo che egli maledice i mesi i quali qui con
diverse cagioni per amor di me si ritenne; e ricevendo onore ora da
questo amico e ora da quell'altro, biasima forse me, che altro che
amarlo non sapea quando c'era. E gli animi pieni di festa sono atti a
potere essere tolti d'uno luogo, e obligarsi in un altro. Deh, ora
potrebbe egli essere che io in così fatta maniera il perdessi?
Certo appena che io il possa credere. Iddio cessi che questo avvenga;
e come egli ha me tenuta e tiene, tra' miei parenti e nella mia
città, sua, così lui tra' suoi e nella sua conservi
mio". Ohimè! con quante lagrime erano mescolate queste
parole, e con quante più sarebbero state, se vero avessi
creduto ciò che esse medesime vero indovinavano! Avvegna che
quelle che allora non vennero, io poi in molti doppii l'abbia sparte
invano.
Oltre a cotal ragionare,
l'anima, spesse volte conoscitrice de' suoi futuri mali, presa da non
so che paura, tremava forte; la qual paura più volte in cotal
pensiero si risolvette: "Panfilo ora nella sua città,
piena di templi eccellentissimi e per molte e grandissime feste
pomposi, visita quelli, li quali senza niuno dubbio trova di donne
pieni, le quali sì come io ho molte fiate udito, ancora che
bellissime sieno, di leggiadria e di vaghezza tutte l'altre
trapassano, né alcune ne sono con tanti lacciuoli da pigliare
animi, quanti loro. Deh, chi può essere sì forte
guardiano di se medesimo, dove tante cose concorrono, che, posto che
egli pure non voglia, egli non sia almeno per forza preso alcuna
volta? E io medesima fui per forza presa. E oltre a ciò le
cose nuove sogliono più che l'altre piacere. Adunque è
leggier cosa che egli a loro nuovo ed esse a lui, e possa ad alcuna
piacere, e a lui similmente alcuna piacerne". Ohimè!
quanto m'era grave cotale imaginare, il quale, che egli non dovesse
avvenire, appena poteva da me cacciare, dicendo: "Or come
potrebbe Panfilo, che te più che sé ama, ricevere nel
cuore da te occupato un altro amore? Non sai tu qui alcuna essere
stata ben degna di lui, la quale con maggior forza che con quella
degli occhi s'ingegnò d'entrarvi, né vi poté
onde trovare? Certo appena, non essendo egli tuo sì come egli
è, trapassando ancora qualunque donne si sono di bellezza e
d'arte le dèe, che egli così tosto, come tu di',
innamorare si potesse. E oltre a questo, come credi tu che egli la
fede a te promessa volesse rompere per alcun'altra? Egli nol farebbe
giammai; e similemente nella sua discrezione ti dei fidare. Tu dei
ragionevolmente pensare che egli non è sì poco savio,
che egli non conosca che mattamente fa chi lascia quel ch'egli ha,
per acquistare quello che non ha; se già quello che lasciasse
non fosse piccolissima cosa per acquistare una grandissima, e di ciò
speranza avere infallibile; il che in questo non può avvenire,
però che se tu hai il vero udito, tu saresti nel numero delle
belle nella sua terra, la quale niuna più ricca di te ne tiene
o gentile; e oltre a questo, cui troverebbe egli, che sì
l'amasse come tu l'ami? Esso, sì come in ciò esperto,
conosce quanta fatica sia il disporre una donna, che di nuovo
piaccia, a farsi amare, le quali, ancora che amino, il che di rado
avviene, sempre il contrario mostrano di ciò che disiano.
Egli, quando pure te non amasse, intorno a molte cose da altri suoi
fatti impedito, non potrebbe ora vacare a dimesticare novelle donne;
e però di ciò non pensare, ma tieni per certa regola,
che quanto tu ami, cotanto se' amata".
Ohimè! quanto falsamente argomentava, fatta sofistica contro
al vero! Ma con tutto il mio argomentare mai non mi pote' dell'animo
cacciare la miserabile gelosia, entratavi per giunta degli altri miei
danni. Ma pure, quasi veramente arguissi, alquanto alleviata, a mio
potere da tale pensiero mi scostava.
Carissime donne, acciò ch'io non metta il tempo in raccontare
ciascuno mio pensiero, quali le mie opere più sollecite
fossero ascolterete; né di ciò piglierete ammirazione,
se furono nuove, perciò che non quali io l'avrei volute, ma
quali Amore le mi dava, seguire le mi conveniva. Egli trapassavano
poche mattine che io, levata, non salissi nella più eccelsa
parte della mia casa, e quindi non altramente che li marinari, sopra
la gabbia del loro legno saliti, speculano se scoglio o terra vicina
scorgono che gli impedisse, riguardo tutto il cielo; poi verso
l'oriente fermata, considero quanto il sole, sopra l'orizonte levato,
abbia del nuovo giorno passato; e tanto quanto io il veggio più
innalzato, cotanto diceva più il termine avvicinarsi della
tornata di Panfilo. E quasi con diletto quello molte volte rimirava
salire; né discernendolo, ora alla mia ombra fatta minore, e
quando dallo spazio del suo corpo alla terra fatto maggiore, di lui
la salita quantità estimava, e meco stessa diceva lui più
pigramente che mai andare, e più dare a' giorni di spazio nel
Capricorno che nel Cancro dar non solea; e così similmente lui
al mezzo cerchio salito, dicea a diletto starsi a riguardare le
terre, e quantunque egli velocemente si calasse all'occaso, sì
mi parea tardo. Il quale, poi che, tolta al nostro mondo la luce sua,
alle stelle la loro lasciava mostrare, io contenta molte volte meco i
dì trapassati annoverando, quello con gli altri passati con
una piccola pietra segnava, non altramente che gli antichi, i lieti
dalli dolenti spartendo, con bianche e con nere petruzze solevano
fare. Oh quante volte già mi ricorda che anzi tempo io la vi
giunsi, parendomi tanto del termine dato scemare, quanto più
tosto l'aggiungeva al trapassato, ora le petruzze per li passati
segnate, e ora quelle, che per quelli che erano a passare stavano,
annoverando, benché di ciascune ottimamente il numero nella
mente avessi; ma quasi ogni volta sperava l'une cresciute e l'altre
dover trovare scemate. Così il disio mi trasportava
volonterosa alla fine del tempo dato.
Usata adunque questa sollecitudine vana, il più delle volte
nella mia camera mi tornava, e quivi più volontieri sola che
accompagnata. Per fuggire i pensieri nocevoli, quando sola mi vi
trovava, aprendo uno mio forziere, di quello molte cose già
state sue ad una ad una traeva, e quelle, con quello disiderio ch'io
soleva già lui riguardare, le mirava, e miratele, appena le
lagrime ritenute, sospirando le baciava; e quasi come se intelligenti
creature state fossero, le dimandava: "Quando ci fia il signor
nostro?". Quindi, riposte queste, infinite sue lettere a me da
lui mandate traeva fuori, e quelle quasi tutte leggendo, quasi con
lui parendomi ragionare, sentiva non poco conforto. E molte volte fu
che io, la mia serva chiamata, varii parlamenti con lei tenni di lui,
ora dimandandola qual fosse la sua speranza della tornata di Panfilo,
ora dimandandola quello che di lui le paresse, e talvolta se di lui
avesse udito alcuna cosa. Alle quali cose essa, o per piacermi, o
pure secondo il suo parere il vero rispondendomi, non poco mi
consolava; e così molte volte gran parte del dì
trapassava con poca noia.
Non meno
che le già dette cose, o pietose donne, m'era caro il visitare
li templi, e il sedere alla mia porta con le mie compagne, dove
spesso da ragionamenti varii alquanto erano da me rimosse le mie
sollecitudini infinite. Nelli quali luoghi stando, più volte
m'avvenne che io vidi di quelli giovini quali io molte volte con
Panfilo avea veduti; né mai che io gli vedessi avvenia che io
tra loro non mirassi, quasi tra essi dovessi Panfilo rivedere. Oh
quante volte io fui in ciò avvedutamente ingannata! E come,
ancora che ingannata fossi, mi giovava di loro vedere! Li quali, se
il loro aspetto non mi mentiva, io gli vedea della mia compassione
medesima pieni, e quasi del loro compagno rimasi soli, mi pareano non
così lieti come soleano. Oh, che voler fu più volte il
mio di dimandarli che fosse del loro compagno, se la ragione non
m'avesse tenuta! Ma certo la fortuna in ciò alcuna volta mi fu
benigna, ché, non credendo essi di lui in alcuno luogo essere
da me intesi, dissero la sua tornata essere vicina. Quanto ciò
mi piacesse, invano mi faticherei ad esprimerlo. E in questa maniera,
con cotali pensieri e con così fatte opere e con molte altre a
queste simili m'ingegnava di trapassare li giorni, a me nella loro
piccolezza gravosi, la notte appetendo, non perché io a me più
utile la sentissi, ma perché, venuta, meno era del tempo a
trapassare.
Poi che 'l dì,
le sue ore finite, era dalla notte occupato, nuove sollecitudini le
più volte mi s'apprestavano. Io dalla mia puerizia nelle
notturne tenebre paurosa, accompagnata da Amore era divenuta sicura;
e sentendo già nella mia casa ciascuno riposare, sola alcuna
volta là onde la mattina il sole montante avea veduto, me ne
saliva, e quale Arunte tra' bianchi marmi de' monti Lucani i corpi
celesti e i loro moti speculava, cotale io la notte lunghissime ore
traente, sentendo alli miei sonni le varie sollecitudini essere
nemiche, da quella parte il cielo mirava, e i suoi moti più
ch'altri veloci, meco tardissimi reputava. E alcuna volta vòlti
gli occhi attenti alla cornuta luna, non che alla sua ritondità
corresse, ma più acuta l'una notte che l'altra la giudicava,
tanto era più il mio disio ardente che tosto le quattro volte
si consumassero, che veloce il còrso suo. Oh quante volte,
ancora che freddissima luce porgesse, la rimirai io a diletto lunga
fiata, imaginando che così in essa fossero allora gli occhi
del mio Panfilo fissi come i miei! Il quale io ora non dubito che,
essendogli io già uscita di mente, non che egli alla luna
mirasse, ma solo un pensiero non avendone, forse nel suo letto si
riposava. E ricordami che io, della lentezza del corso di lei
crucciandomi, con varii suoni, seguendo gli antichi errori, aiutai i
corsi di lei alla sua ritondità pervenire; alla quale poi che
pervenuta era, quasi contenta dello intero suo lume, alle nuove corna
non pareva che di tornare si curasse, ma pigra nella sua ritondità
dimorava, avvegna che io di ciò l'avessi quasi in me medesima
talvolta per iscusata, più grazioso reputando lo stare con la
sua madre, che negli oscuri regni del suo marito tornare. Ma bene mi
ricorda che spesso già le voci in prieghi per li suoi
agevolamenti usate io le rivolsi in minacce, dicendo:
"O Febea, mala guiderdonatrice de' ricevuti servigi, io con
pietosi prieghi le tue fatiche m'ingegno di menomare, ma tu con pigre
dimoranze le mie non ti curi d'accrescere. E però, se più
a' bisogni del mio aiuto cornuta ritorni, me così allora
sentirai pigra, come io ora te discerno. Or non sai tu, che quanto
più tosto quattro volte cornuta, e altrettante tonda t'avrai
mostrata, cotanto più tosto il mio Panfilo tornerammi? Il
quale tornato, così tarda o veloce come ti piace corri per li
tuoi cerchi".
Certo quella
demenza medesima che me a fare cotali prieghi induceva, quella stessa
tolse sì me a me, che ella mi fece parere alcuna volta che
essa, temorosa delle mie minacce, s'avacciasse nel còrso suo
a' miei piaceri; e altre volte, quasi non curantesi di me, più
che l'usato parea che tardasse. Questo riguardarla sovente ma sì
nota del suo andamento rendeo, che ella né di corpo piena o
vòta in alcuna parte era del cielo o con qualunque stella
congiunta, che io non avessi il tempo della notte passato e
l'avvenire giudicato dirittamente; similemente l'una e l'altra Orsa,
se essa non fosse paruta, per lunga notizia me ne facevano certa.
Deh, chi crederebbe che Amore m'avesse potuto mostrare astrologia,
arte da solennissimi ingegni e non da menti occupate dal suo
furore?
Quando il cielo,
d'oscurissimi nuvoli pieno, trascorso da varii e sonanti venti, per
ogni parte questa veduta mi toglieva, alcuna volta, se altro affare
non mi occorreva, ragunate le mie fanti con meco nella mia camera, e
raccontava e facea raccontare storie diverse, le quali quanto più
erano di lungi dal vero, come il più così fatte genti
le dicono, cotanto parea che avessero maggior forza a cacciare i
sospiri e a recare festa a me ascoltante, la quale alcuna volta, con
tutta la malinconia, di quelle lietissimamente risi. E se questo
forse per cagione legittima non potea essere, in libri diversi
ricercando l'altrui miserie e quelle alle mie conformando, quasi
accompagnata sentendomi, con meno noia il tempo passava. Né so
qual più grazioso mi fosse, o vedere i tempi trascorrere, o
trovarli, in altro essendo stata occupata, essere trascorsi.
Ma poi che le operazioni predette e altre me aveano per lungo spazio
tenuta occupata, quasi a forza, assai bene conoscendo che invano
ancora me n'andava a dormire, anzi piuttosto a giacere per dormire. E
nel mio letto dimorando sola, e da niuno romore impedita, quasi tutti
i preteriti pensieri del dì mi venivano nella mente, e mal mio
grado con molti più argomenti e pro e contra mi si faceano
ripetere; e molte volte volli entrare in altri, e rade furono quelle
che io il potessi ottenere; ma pure alcuna volta, loro a forza
lasciati, giacendo in quella parte ove il mio Panfilo era giaciuto,
quasi sentendo di lui alcuno odore, mi pareva essere contenta, e lui
tra me medesima chiamava e, quasi mi dovesse udire, il pregava che
tosto tornasse.
Poi lui imaginava
tornato, e meco fingendolo, molte cose gli dicea, e di molte il
dimandava, e io stessa in suo luogo mi rispondea; e alcuna volta
m'avvenne che io in cotali pensieri m'addormentai. E certo il sonno
m'era alcuna volta più grazioso che la vigilia, perciò
che quello che io con meco falsamente vegghiando fingeva, esso, se
durato fosse, non altramente che vero mel concedeva. Egli mi pareva
alcuna volta, lui tornato, vagare in giardini bellissimi, di frondi,
di fiori e di frutti varii adorni, con lui insieme quasi d'ogni
temenza rimoti, come già facemmo; e quivi lui per la mano
tenendo, ed esso me, farmi ogni suo accidente contare; e molte volte,
avanti che 'l suo dire avesse fornito, mi parea baciandolo rompergli
le parole, e quasi appena vero parendomi ciò che io vedea,
diceva: "Deh, è egli vero che tu sii tornato? Certo sì
è, io ti pur tengo". E quindi da capo il baciava. Altra
volta mi pareva essere con lui sopra i marini liti in lieta festa, e
tal fu che io affermai meco medesima, dicendo: "Ora pur non
sogno io d'averlo nelle mie braccia". Oh, quanto m'era discaro,
quando ciò m'avveniva, che 'l sonno da me si partisse! Il
quale partendosi, sempre seco se ne portava ciò che senza sua
fatica m'avea prestato; e ancora ch'io ne rimanessi malinconiosa
assai, non per tanto tutto il dì seguente, bene sperando,
contentissima dimorava, disiderando che tosto la notte tornasse,
acciò ch'io, dormendo, quello avessi che vegghiando aver non
poteva. E benché così grazioso alcuna volta mi fosse il
sonno, nondimeno non sofferse egli che io cotale dolcezza senza
amaritudine mescolata sentissi, perciò che furono assai di
quelle volte che egli il mi parea vedere in vilissimi vestimenti
vestito, tutto non so di che macchie oscurissime maculato, palido e
pauroso, e come se cacciato fosse, inverso me gridare: "Aiutami!".
Altre, mi pareva udir parlare a più persone della sua morte; e
tal volta fu ch'io mel vidi morto davanti, e in altre molte e varie
forme a me spiacenti. Il che niuna volta avvenne, che il sonno avesse
maggiori le forze che il dolore; e subitamente risvegliata, e la
vanità del mio sogno conoscendo, quasi contenta d'avere
sognato, ringraziava Iddio; non che io turbata non rimanessi, temendo
non le cose vedute, se non tutte, almeno in parte fossero vere o
figure di vere. Né mai, quantunque io meco dicessi, e da
altrui udissi vani essere i sogni, di ciò non era contenta, se
io di lui non sapea novelle, delle quali io astutissimamente era
divenuta sollecita dimandatrice.
In
cotal guisa, quale udito avete, i giorni e le notti trapassava
aspettando. Vero è che, avvicinandosi il tempo della promessa
tornata, io estimai che utile consiglio fosse il vivere lieta, acciò
che le mie bellezze, alquanto smarrite per l'avuto dolore,
ritornassero ne' loro luoghi acciò che egli tornando, io
essendo sformata non gli potessi spiacere. E questo mi fu assai
agevole a fare, però che per il già essermi negli
affanni adusata, quelli con pochissima fatica portava, e oltre a ciò
la propinqua speranza del promesso tornare con non usata letizia ogni
dì mi si faceva più sentire. Io le feste non poco
intralasciate, dando di ciò al sozzo tempo cagione, venendone
il nuovo, ricominciai ad usare; né prima l'animo, da
gravissime amaritudini ristretto, si cominciò in lieta vita ad
ampliare, ch'io più bella che mai ritornai; e li cari
vestimenti e li preziosi ornamenti, non altramente che il cavaliere
per la futura battaglia risarcisce le sue forti armi dove bisogna, li
feci belli, acciò che in quelli più ornata paressi nel
suo tornare, il quale io invano e ingannata aspettava.
Adunque, sì come gli atti si tramutarono, così si
fecero i miei pensieri. A me il non averlo nel suo partir veduto, né
il tristo agurio del piè percosso, né le sostenute
fatiche di lui, né li dolori ricevuti, né la nemica
gelosia più nella mente venivano, anzi già forse a otto
dì alla sua promessa vicina, fra me diceva:
"Ora al mio Panfilo rincresce l'essere a me stato lontano, e
sentendo il tempo vicino a ciò che promise, di tornar
s'apparecchia; e forse ora, lasciato il vecchio padre, è nel
camino". Oh quanto m'era cotal ragionare caro, e quanto
sopr'esso volontieri mi volgeva, molte volte entrando in pensiero con
che atto a lui più grazioso mi dovessi ripresentare! Ohimè!
quante volte dissi:
"Egli fia
nella sua tornata da me centomilia volte abbracciato, e i miei baci
multiplicheranno in tanta quantità, che niuna parola intera
lasceranno della sua bocca uscire; e in cento doppii renderò
quelli che esso, senza riceverne nullo, diede al tramortito
viso".
E nel pensiero più
volte dubitai di non poter raffrenare l'ardente disio d'abbracciarlo,
quando prima il vedessi innanzi a qualunque persona. Ma a queste cose
provvidero gl'iddii per modo a me noievole più che troppo. Io
ancora, nella mia camera stando, quante volte in quella alcuna
persona entrava, tante credeva che venuta mi fosse a dire: "Panfilo
è venuto". Io non udiva voce alcuna in alcuno luogo, che
io con gli orecchi levati non le raccogliessi tutte, pensando che di
lui tornato dovessero dire. Io mi levai, credo, più di cento
volte già da sedere correndo alla finestra, quasi d'altro
sollecita, in giù e 'n su rimirando, avendo prima a me
medesima pensando scioccamente fatto credere: "Egli è
possibile che Panfilo ora venuto ti venga a vedere". E vano
ritrovando il mio avviso, quasi confusa dentro mi ritornava. Io,
dicendo che esso alcune cose dovea al mio marito recare nella sua
tornata, spesso e se venuto fosse o quando s'aspettasse e dimandava e
facea dimandare. Ma di ciò niuna lieta risposta mi pervenia,
se non come di colui che mai più venire non dovea, se non come
ha fatto.
Capitolo IV.
Nel quale questa donna dimostra quali pensieri e che vita fosse la sua, essendo iì termine venuto, e Panfilo suo non veniva.
Così, o pietose donne, sollecita, come udito avete, non
solamente al molto disiderato e con fatica aspettato termine
pervenni, ma ancora di molti dì il passai; e meco medesima
incerta se ancora il dovessi biasimare, o no, allentata alquanto la
speranza, lasciai in parte i lieti pensieri, ne' quali forse troppo
allargandomi era rientrata, e nuove cose ancora non istatevi mi si
cominciarono a volgere per lo capo. E fermando la mente a volere,
s'io potessi, conoscere qual fosse o essere potesse la cagione della
sua più lunga dimora che la impromessa, cominciai a pensare, e
innanzi all'altre cose in iscusa di lui tanti modi truovo, quanti
esso medesimo, se presente fosse, potrebbe trovare, e forse più.
Io dicea alcuna volta: "O Fiammetta, deh, credi tu il tuo
Panfilo dimorare senza tornare a te, se non perché egli non
puote? Gli affari inoppinati opprimono sovente altrui, né è
possibile così preciso termine dare alle cose future come
altri crede. Or chi dubita ancora che la presente pietà non
istringa più assai che la lontana? Io son ben certa che egli
me sommamente ama, e ora pensa alla mia amara vita e di quella ha
compassione e, da amore sospinto, più volte n'è voluto
venire; ma forse il vecchio padre con lagrime e con prieghi ha
alquanto il termine prolungato e, opponendosi a' suoi voleri, l'ha
ritenuto; egli verrà quando potrà".
Da così fatti ragionamenti e scuse mi sospignevano sovente i
pensieri ad imaginare più gravi cose. Io alcuna volta
dicea:
"Chi sa se egli,
volonteroso più che il dovere di rivedermi e pervenire al
posto termine, posposta ogni pietà di padre e lasciato ogni
altro affare, si mosse e forse, senza aspettare la pace del turbato
mare, credendo a' marinari bugiardi e arrischievoli per voglia di
guadagnare, sopra alcuno legno si mise, il quale venuto in ira a'
venti e all'onde, in quelle è forse perito? Niuna altra
cagione tolse Leandro ad Ero. Or chi puote ancora sapere se esso, da
fortuna sospinto ad alcuno inabitato scoglio, quivi la morte fuggendo
dell'acqua, quella della fame o delle rapaci bestie ha acquistata? O
in su quelli come Achemenide, forse per dimenticanza lasciato,
aspetta chi qua nel rechi? Chi non sa ancora che il mare è
pieno d'insidie? Forse è esso da inimiche mani preso, o da
pirate, e nell'altrui prigioni con ferri stretto è ritenuto.
Tutte queste cose essere possono, e molte volte già le vedemmo
avvenire".
Dall'altra parte
poi mi si parava nella mente non essere per terra più sicuro
il suo camino, e in quello similmente mille accidenti possibili a
ritenerlo vedea. Io, subitamente correndo con l'animo pure alle
piggiori cose, estimando a lui più giusta scusa trovare quanto
più grave la cosa poneva, alcuna volta pensava:
"Ecco, il sole, più che l'usato caldo, dissolve le nevi
negli alti monti, onde i fiumi furiosi e con onde torbide corrono;
de' quali egli non pochi ha a passare. Or se egli in alcuno,
volonteroso di trapassare, s'è messo, e in quello caduto e col
cavallo insieme tirato e ravvolto ha renduto lo spirito, come può
egli venire? Li fiumi non apparano ora di nuovo a fare queste
ingiurie a' caminanti, né a tranghiottire gli uomini. Ma se
pur da questo è campato, forse negli agguati de' ladroni è
incappato, e rubato e ritenuto è da loro; o forse nel camino
infermato in alcuna parte ora dimora e, ricuperata la sanità,
senza fallo qui ne verrà".
Ohimè! che qualora cotali imaginazioni mi teneano, un freddo
sudore m'occupava tutta, e sì di ciò divenia paurosa,
che sovente in prieghi a Dio che ciò cessasse rivolgea il
pensiero, né più né meno, come se egli davanti
agli occhi in quello pericolo mi fosse presente. E alcuna volta mi
ricorda che io piansi, quasi come con ferma fede in alcuno de'
pensati mali il vedessi. Ma poi fra me diceva:
"Ohimè! che cose sono queste, che i miseri pensieri mi
porgono davanti? Cessi Iddio che alcuna di queste sia! Innanzi dimori
quanto gli piace, o non torni, che, per contentarmi, a caso si metta
che alcuna di queste cose avvenga. Le quali ora veramente
m'ingannano; però che, posto che possibili siano, impossibili
sono ad essere occulte, e molto credibile è la morte di cotale
giovine non potere essere nascosa, e massimamente a me, la quale,
sollecita, continuamente di lui fo dimandare con investigazioni non
poco sottili. E chi dubita ancora che, se le cose male da me pensate
alcuna ne fosse vera, che la fama, velocissima rapportatrice de'
mali, già qui non l'avesse condotta? Alla quale la fortuna, in
ciò ora poco mia amica, avrebbe data apertissima via per farmi
tristissima. Certo io credo piuttosto che egli in gravissimo affanno,
come io sono se egli non viene, ora a forza ritenuto dimori, e tosto
verrà, o della dimora in mia consolazione, scusandosi,
scriverà la cagione".
Certo li già detti pensieri, ancora che fierissimi
m'assalissero, pure assai lievemente erano vinti, e la speranza, che
per lo passato termine da me di fuggire si sforzava, con ogni mio
potere ritenea, ponendole innanzi il lungo amore da me a lui e da lui
a me portato, la data fede, i giurati iddii, e le infinite lagrime;
le quali cose io affermava essere impossibile che inganno coprissero.
Ma io non poteva fare che essa, così ritenuta, non desse luogo
alli lasciati pensieri, i quali con lento passo e tacitamente lei a
poco a poco pignendo fuori del mio cuore, s'ingegnavano di tornare
nel loro primo luogo, a mente riducendomi e li malvagi agurii e
l'altre cose; né quasi me n'avvidi prima, che io e la speranza
quasi cacciata e loro potentissimi vi sentia.
Ma tra gli altri che me più forte gravava, niuna cosa in
processo di più giorni udendo della tornata di Panfilo, era
gelosia. Questa più che io non voleva mi spronava; questa ogni
scusa che meco di lui faceva, quasi consapevole de' suoi fatti,
annullava; questa spesso ne' ragionamenti per addietro da me dannati
mi rimetteva dicendo:
"Deh,
come se' tu così stolta, che pietà di padre, o altro
qualunque stretto affare o diletto, ora potesse Panfilo soprattenere,
se così t'amasse come diceva? Non sai tu che Amore vince tutte
le cose? Egli fermamente, d'un'altra innamorato, t'avrà
dimenticata, il cui piacere, molto possente sì come nuovo, là
ora il ritiene, come il tuo qua il teneva. Quelle donne, sì
come tu già dicesti, per ogni cosa atte ad amare, ed egli
altresì naturalmente a ciò disposto e degno per
ciascuna cosa da essere amato, conformatesi al suo piacere ed egli al
loro, di nuovo l'avranno innamorato. Non credi tu che l'altre donne
abbiano occhi in capo, sì come tu, e conoscano in queste cose
quanto tu conosci? Sì fanno bene. E a lui altresì non
credi tu che ne possa più che una piacere? Certo io credo che,
se potesse te vedere, malagevole gli sarebbe alcuna altra amarne; ma
egli non ti può ora vedere, né ti vide già sono
cotanti mesi passati. Tu dei sapere che niuno mondano accidente è
etterno; così come egli s'innamorò di te, e come tu gli
piacesti, così è possibile che un'altra ne gli sia
piaciuta, e che egli, avendo il tuo amore abandonato, n'ami un'altra.
Le cose nuove piacciono con più forza che le molto vedute, e
sempre quello che l'uomo non ha, si suole con maggiore affezione
disiderare che quello che l'uomo possiede, e niuna cosa è
tanto dilettevole, che per lungo uso non rincresca. E chi non amerà
più volontieri a casa sua una nuova donna, che una antica
nell'altrui contrade? Egli altresì forse non t'amava con così
fervente amore come mostrava, e alle sue lagrime né a quelle
d'alcuno altro non è da credere così caro pegno come è
cotanto amore, quanto tu forse estimi che egli ti portasse.
Eziandio gli uomini alcuna volta, non avendosi mai più veduti
che alcuno giorno, sono crucciosi e piangono spartendosi; e molte
cose similemente si giurano e impromettono, le quali altri ha fermo
intendimento di fare; ma poi, nuovo caso sopravvegnendo, fa quelli
giuramenti uscire di mente. Le lagrime e' giuramenti e le promessioni
de' giovini non sono ora di nuovo arra di inganno futuro alle donne.
Essi generalmente sanno prima fare queste cose che amare: la loro
volontà vagabunda li tira a questo; niuno n'è che non
volesse piuttosto ogni mese mutare dieci donne che essere dieci dì
d'una. Essi continuamente credono e costumi nuovi e nuove forme
trovare, e gloriansi d'avere avuto l'amore di molte. Dunque che
speri? Perché vanamente ti lasci menare alla vana credenza? Tu
non se' in atto da poterlo da ciò ritrarre: rimanti d'amarlo,
e dimostra che con quell'arte che egli ha te ingannata tu abbi
ingannato lui".
E dietro a
queste parole con molte altre séguito a me dicendo, e in esse
accendevami di fiera ira, la quale con tumorosissimo caldo sì
m'infiammava l'animo, che quasi ad atti rabbiosissimi m'induceva. Né
prima il concreato furore trapassava, che le lagrime
abondevolissimamente per gli occhi uscissero, con le quali, molto
alcuna volta duranti, esso del petto m'usciva; nel quale per conforto
di me medesima, dannando ciò che l'indovina anima mi diceva,
quasi a forza la già fuggita speranza con ragioni vanissime
rivocava. E in cotal guisa, quasi ogni ripresa allegrezza lasciata,
stetti sperando e disperando molto spesso più giorni, sempre
sollecita oltremodo a potere acconciamente sapere che di lui fosse,
che non veniva.
Capitolo V
Nel quale la Fiammetta dimostra come alli suoi orecchi pervenne Panfilo aver presa moglie, mostrando appresso quanto del suo tornare disperata e dolorosa vivesse.
Lievi sono state infino a qui le mie lagrime, o pietose donne, e i
miei sospiri piacevoli a rispetto di quelli, i quali la dolente
penna, piú pigra a scrivere che il cuore a sentire,
s'apparecchia di dimostrarvi. E certo, se bene si considera, le pene
infino a qui trapassate, piú di lasciva giovine che di
tormentata quasi si possono dire; ma le seguenti vi parranno
d'un'altra mano. Adunque fermate gli animi, né vi spaventino
sí le mie promesse, che, le cose passate parendovi gravi, voi
non vogliate ancora vedere le seguenti gravissime; e in verità
io non vi conforto tanto a questo affanno perché voi piú
di me divegniate pietose, quanto perché piú la nequizia
di colui per cui ciò m'avviene conoscendo divegniate piú
caute in non commettervi ad ogni giovine. E cosí forse ad
un'ora a voi m'obligherò ragionando e disobligherò
consigliando, ovvero per le cose a me avvenute ammonendo e
avvisando.
Dico adunque,
donne, che con cosí varie imaginazioni, quali poco avanti
avete potute comprendere nel mio dire, io stava continuo, quando, di
piú duno mese essendo il tempo trapassato promesso, a me
cosí dell'amato giovine un dí novelle pervennero. Io
andata a visitare con animo pio sacre religiose, e forse per fare per
me porgere a Dio pietose orazioni, che o rendendomi Panfilo o
cacciandolmi della mente mi ritornasse il perduto conforto, avvenne
che, sedendo io con le già dette donne, assai discrete e
piacevoli nel loro ragionare e a me molte per parentado e per antica
amistà congiunte, quivi venne un mercatante, né
altramente che Ulisse e Diomedes a Deidamia e alle suore, cominciò
diverse gioie e belle, quali a cosí fatte donne si conveniano,
a mostrare.
Egli, sí
come io alla sua favella compresi, ed esso medesimo da una di quelle
dimandatone confessò, era della terra di Panfilo mio. Ma poi
che egli mostrate molte delle sue cose, e di quelle da esse alcune
per lo convenuto pregio prese, e l'altre rendutegli, entrati in nuovi
motti e lieti, e esse ed esso, .mentre che egli il pagamento
aspettava, una di loro d'età giovine e di forma bellissima e
chiara di sangue e di costumi, quella medesima ch'avanti dimandato
l'avea onde fosse, il dimandò se egli Panfilo suo compatriota
conosciuto avesse giammai. Oh, quanto cotale dimanda diè per
lo mio disio!
Certo io ne
fui contentissima, e gli orecchi alla risposta levai. Il mercatante
senza indugio rispose:
- E
chi è quegli che meglio di me il conosca?
A cui seguí la giovine quasi infignendosi di sapere che di lui
fosse:
- E che è egli
ora di lui?
- Oh, - disse il
mercatante - egli è assai che il padre, non essendogli rimaso
altro figliuolo, il richiamò a casa sua.
Il quale ancora la giovine dimandò:
- Quanto ha che tu di lui sapesti novelle?
- Certo, -.disse egli - non poi che da lui mi partii, che ancora non
credo che siano quindici giorni compiuti.
Continuò la donna:
- E
allora che era di lui?
Alla
quale esso rispose:
- Molto
bene; e dicovi che il dí medesimo che io mi partii, vidi con
grandissima festa entrare di nuovo in casa sua una bellissima
giovine, la quale, secondo che io intesi, era a lui novellamente
sposata.
Io, mentre che il
mercatante queste cose diceva, ancora che con amarissimo dolore
l'ascoltassi, fiso nel viso la dimandante giovine riguardava,
maravigliandomi quale cagione potesse essere che costei inducesse a
dimandare cosí strette particolarità di colui, cui io
appena credeva che altra donna il conoscesse che io, e vidi che prima
a' suoi orecchi non venne Panfilo avere moglie sposata, che, gli
occhi bassati, tutta nel viso si tinse, e la pronta parola le morí
in bocca, e per quello che io presumessi, essa con fatica grandissima
le lagrime già agli occhi venute ritenne, Ma io prima, ciò
udendo, da uno gravissimo dolore presa, súbito, ciò
vedendo, fui da un altro non minore assalita, e appena mi ritenni che
io con gravissima villania la turbazione di colei non riprendessi,
invidiosa che da lei sí aperti segnali d'amore verso Panfilo
si mostrassero, dubitando, non meno che essa, cosí, come io,
non avesse legittima cagione di dolersi delle udite parole. Ma pure
mi tenni, e con noiosa fatica, alla quale non credo che simigliante
si truovi, il turbato cuore sotto non cambiato viso servai, di
piagnere piú disiosa che di piú ascoltare.
Ma la giovine, forse con quella medesima forza che io, ritenendo
dentro il dolore, come se stata non fosse quella che s'era davanti
turbata, fattasi far fede di quelle parole, quanto piú
dimandava piú trovava la cosa contraria al suo disio e al mio.
Onde, dato al mercatante commiato, ché l domandava, e
ricoperta con infinite risa la sua tristizia, con ragionamenti
diversi insieme quivi per piú lungo spazio ch'io non averei
voluto ci rimanemmo.
Venuti
meno i nostri ragionamenti, ciascuna si dipartí, e io con
anima piena d'angosciosa ira, non altramente fremendo che il leone
libico poscia che nelle sue insidie scuopre i cacciatori, ora nel
viso accesa e ora palida divenendo, quando con lento passo e quando
con piú veloce che la donnesca onestà non richiede,
tornai alla mia casa. E poi che licito mi fu di potere di me fare a
mio senno, entrata nella mia camera, amaramente cominciai a piagnere,
e quando per lungo spazio le molte lagrime parte della gran doglia
ebbero sfogata, essendomi alquanto piú libero il parlare, con
voce assai debole incominciai:
- Ora, o misera Fiammetta, sai perché il tuo Panfilo non
ritorna; ora sai la cagione della sua dimora tanto da te disiata; ora
hai quello che tu andavi cercando di trovare. Che, misera, chiedi
piú? Che piú addimandi? Bastiti questo: Panfilo non è
piú tuo. Gitta via omai i disiderii di riaverlo, abandona la
mal ritenuta speranza, poni giú il fervente amore, lascia i
pensieri matti; credi omai agli agurii e alla tua divinante anima, .e
comincia a conoscere glinganni de' giovini. Tu se' a quello
punto venuta, là dove l'altre sogliono venire che troppo si
fidano.
E con queste parole
mi raccesi nellira, e rinforzai il pianto; e da capo con parole
troppo piú fiere ricominciai cosí a parlare:
- O iddii ove sete? Ove ora mirano gli occhi vostri? Ov'è ora
la vostra ira? Perché sopra lo schernitore della vostra
potenza non cade? O spergiurato Giove, che fanno le folgori tue? Ove
ora le adoperi? Chi piú empiamente lha meritate? Come
non scendono esse sopra il pessimo giovine, acciò che gli
altri per innanzi di spergiurarti abbiano temenza? O luminoso Febo,
dove sono ora le tue saette, male merite di ferire il Fitone, a
rispetto di colui che falsamente te a' suoi inganni chiamò
testimonio? Privalo della luce de' raggi tuoi, e non meno gli torna
nemico che tu fosti al misero Edippo. O voi altri qualunque dii e
dèe, e tu Amore, la cui potenza ha schernita il falso amante,
come ora non mostrate le vostre forze e la dovuta ira? Come non
convertite voi il cielo e la terra contra il novello sposo, sí
che egli nel mondo per essemplo d'ingannatore e d'annullatore della
vostra potenza non rimanga a piú schernirvi? Molto minori
falli mossero già lira vostra a vendetta men giusta.
Dunque ora perché tardate? Voi non potreste appena tanto
incrudelire verso di lui, che egli debitamente punito fosse.
Ohimè misera! Perché non è egli possibile che
voi l'effetto de' suoi inganni cosí sentiate come io, acciò
che cosí in voi come in me s'accendesse l'ardore della
punizione? O iddii, rivolgete in lui alcuni di quelli pericoli, o
tutti, de' quali io già dubitai; uccidetelo di qualunque
generazione di morte piú vi piace, acciò che io ad
un'ora tutta e l'ultima doglia senta, che mai debba sentire per lui,
e voi e me vendichiate ad un'ora. Non consentite che io sola per li
peccati di lui pianga la pena, ed egli, voi e me avendo beffati,
lieto si goda con la nuova sposa, e cosí per contrario tagli
la vostra spada.
Poi, non
meno accesa d'ira, ma con pianto piú fiero rivolgendo a
Panfilo le parole, mi ricorda che io cominciai:
- O Panfilo, ora la cagione della tua dimora conosco, ora i tuoi
inganni mi sono palesi, ora veggo che ti ritiene, e qual pietà.
Tu ora celebri i santi imenei, e io, dal tuo parlare e da te e da me
medesima ingannata, mi consumo piagnendo e con le mie lagrime apro la
via alla mia morte, la quale con titolo della tua crudeltà
debitamente segnerà la sua dolente venuta; e gli anni, i quali
io cotanto disiderai d'allungare, si mozzeranno, essendone tu
cagione. O scelerato giovine e pronto ne' miei affanni! Or con che
cuore hai tu presa la nuova sposa? Con intendimento d'ingannare lei,
come tu hai me fatto? Con quali occhi la riguardasti tu? Con quelli
con li quali miseramente me credula troppo pigliasti? Qual fede le
promettesti tu? Quella che tu avevi a me promessa? Or come potevi tu?
Non ti ricordi tu che piú che una volta la cosa obligata non
si può obligare? Quali iddii giurasti? Gli spergiurati da te?
Ohimè misera! che io non so quale avverso piacere l'animo
t'accecò, sentendoti mio, che tu d'altrui divenissi. Ohimè!
per qual colpa meritai io d'esserti cosí poco a cura? Dove è
fuggito da noi cosí tosto il lieve amore? Ohimè! che fa
trista fortuna cosí .miseramente costrigne i dolenti! Tu ora
fa promessa fede e a me dalla tua destra data, e li spergiurati iddii
per li quali tu con sommo disio giurasti di ritornare, e le tue
lusinghevoli parole delle quali molto eri fornito, e le tue lagrime
con le quali non solamente il tuo viso bagnasti, ma ancora il mio,
tutte insieme raccolte hai gittate a' venti, e me schernendo, lieto
vivi con la nuova donna.
Ohimè! or chi averebbe mai potuto credere che falsità
fosse nelle tue parole nascosta e che le tue lagrime fossero con arte
mandate fuori? Certo non io; anzi cosí come fedelmente
parlava, cosí con fede le parole e le lagrime riceveva E se
forse in contrario dicessi e le lagrime vere e i saramenti e la fede
prestati con puro cuore, concedasi; ma quale scusa darai tu al non
averli servati cosí puramente come promessi? Dirai tu: "La
piacevolezza della nuova donna ne è stata cagione?".
Certo debole fia, e manifesta dimostrazione di mobile animo. E oltre
a tutto questo, sarà egli però satisfatto a me? Certo
no. O malvagissimo giovine! Non t'era egli manifesto l'ardente amore
che io ti portava e porto ancora contro a mia voglia? Certo sí
era; dunque molto meno d'ingegno ti bisognava ad ingannarmi. Ma tu,
acciò che piú sottile ti mostrassi poi ne' tuoi
parlari, ogni arte volesti usare; ma tu non pensavi quanto poco di
gloria ti séguita ad ingannare una giovine, la quale di te si
fidava. La mia semplicità meritò maggior fede che la
tua non era. Ma che? Io ciò credetti non meno agliddii
da te giurati, che a te, li quali io priego che facciano che questa
sia la piú somma parte della tua fama, cioè avere
ingannata una giovine che piú che sé t'amava.
Deh, Panfilo, dimmi ora: avea io commesso alcuna cosa per la quale io
meritassi da te d'essere con cotanto ingegno tradita? Certo niuno
altro fallo feci verso di te giammai se non che poco saviamente di te
innamorai, e oltre al dovere ti portai fede e t'amai; ma questo
peccato almeno da te non meritava ricevere cotale penitenza.
Veramente una iniquità in me conosco, per la quale lira
degliddii, faccendola, giustamente impetrai; e questa fu di
ricevere te, scelerato giovine e senza alcuna pietà, nel letto
mio, e avere sostenuto che il tuo lato al mio s'accostasse; avvegna
che di questo, come essi medesimi videro, non io, ma tu se'
colpevole; il quale col tuo ardito ingegno, me presa nella tacita
notte sicura dormendo, sí come colui che altre volte eri uso
d'ingannare, prima nelle braccia m'avesti e quasi la mia pudicizia
violata, che io appena fossi dal sonno interamente sviluppata. E che
doveva io fare, questo veggendo? Doveva io gridare e col mio grido a
me infamia perpetua, e a te, il quale io piú che me medesima
amava, morte cercare? Io opposi le forze mie, come Iddio sa, quanto
io potei; le quali, alle tue non potendo resistere, vinte, possedesti
la tua rapina. Ohimè! ora mi fosse il dí precedente a
quella notte stato l'ultimo, nel quale io sarei potuta morire
onesta!
Oh, quante doglie e
come acerbe m'assaliranno oggimai! E tu con la menata giovine stando,
per piú piacerle, i tuoi antichi amori racconterai, e me
misera farai in molte cose colpevole, e la mia bellezza avvilendo e i
miei costumi, la quale e li quali da te con somma laude solevano
sopra tutti quelli e quelle dell'altre donne essere essaltati,
sommamente li suoi lauderai; e quelle cose, le quali io pietosamente
verso di te da molto amore sospinta operai, da focosa libidine dirai
nate.
Ma ricorditi, tra le
cose che non vere racconterai, di narrare i tuoi veri inganni, per li
quali me piagnevole e misera potrai dire aver lasciata, e con essi i
ricevuti onori, acciò che bene facci la tua ingratitudine
manifesta all'ascoltante. Né t'esca di mente di raccontare
quanti e quali giovini già d'avere il mio amore tentassero, e
i diversi modi, e le inghirlandate porte da' loro amori, e le
notturne risse e le diurne prodezze per quelli operate; né mai
dal tuo ingannevole amore mi poterono piegare. E tu per una giovine
appena da te ancora conosciuta, súbito mi cambiasti; la quale,
se come me non fia semplice, i tuoi baci prenderà sempre
sospetti e guarderassi da tuoi inganni, da' quali io guardare
non mi seppi. La quale io priego che tale con teco sia, quale con
Atreo fu la sua, o le figliuole di Danao con li nuovi sposi, o
Clitemestra con Agamennone, o almeno quale io, operandolo la tua
nequizia, col mio marito, non degno di queste ingiurie, sono
dimorata; e te a tale miseria perduca, che come io ora per la pietà
di me medesima piango, cosí mi sforzi di spandere lagrime per
te: e questo, se dagliddii verso i miseri con pietà
nulla si mira, priego che tosto sia.
Come che io fossi molto da queste dolenti ramaricazioni offesa, e
sovente sopra esse tornassi, e non solamente quello dí ma
molti altri seguenti, nondimeno mi pungeva d'altra parte non poco la
turbazione veduta della giovine sopraddetta, la quale alcuna volta
m'indusse a cosí con greve doglia pensare; io, sí come
molte volte era usata, diceva con meco stessa:
"Deh, perché, o Panfilo, mi dolgo io del tuo essere
lontano, e che tu di nuova giovine sii divenuto, con ciò sia
cosa che, essendo tu qui presente, non mio ma d'altrui dimoravi? O
pessimo giovine, in quante parti era il tuo amore diviso, o atto a
potersi dividere? Io posso presumere che come questa giovine con meco
insieme, alle quali hai ora aggiunta la terza, t'eravamo donne, che
tu a questo modo n'avevi molte, dove io sola mi credeva essere; e
cosí avveniva che, credendo le mie medesime cose trattare,
occupava l'altrui. E chi può sapere, se questo già si
seppe per alcuna, la quale, piú della grazia degliddii
di me degna, pregando per le ricevute ingiurie, per li miei mali
impetrò che io cosí sia, come io sono, d'angoscie
piena? Ma chiunque ella è, s'alcuna è, perdonimi, ché
ignorantemente peccai, e la mia ignoranza merita il perdono. Ma tu
con quale arte queste cose fingevi? Con quale coscienza l'adoperavi?
Da quale amore o da quale tenerezza eri a ciò tirato? Io ho
piú volte inteso non potersi amare piú che una persona
in un medesimo tempo, ma questa regola mostra che in te non avesse
luogo: tu n'amavi molte ovvero facevi vista d'amare.
Deh, desti tu a tutte, o almeno a questa una, che male ha saputo
celare quello che tu hai bene celato, quella fede, quelle
promessioni, quelle lagrime che a me donasti? Se ciò facesti,
tu puoi, sí come ùa niuna obligato, dimorarti sicuro,
perciò che quello che a molti indistintamente si dona, non
pare che ad alcuno sia donato. Deh, come può egli essere che
chi di tante piglia i cuori non sia il suo alcuna volta preso?
Narcisso, amato da molte, essendo a tutte durissimo, ultimamente fu
preso dalla sua forma; Atalanta, velocissima nel suo córso,
rigida superava i suoi amanti, infino che Ipomenes con maestrevole
inganno, come ella medesima volle, la vinse. Ma perché vo io
per gli essempli antichi? Io medesima, non potuta mai da alcuno
essere presa, fui presa da te. Tu adunque come tra le molte non hai
trovato chi t'abbia preso? La qual cosa io non credo, anzi sicura
sono che preso fosti; e se fosti, chi che colei si fosse che con
tanta forza ti prese, come a lei non torni? Se tu non vuogli a me
tornare, torna a costei che celare non ha saputo il vostro amore; se
la fortuna vuogli che a me sia contraria, che forse secondo la tua
oppinione lho meritato, non nocciano all'altre li miei peccati.
Torna almeno ad esse, e serva loro la promessa fede forse prima che a
me; non volere, per far noia a me, offenderne tante quante io credo
che in isperanza qua n'abbi lasciate, né possa costà
una sola piú che qua molte. Cotesta è oramai tua, né
può, volendo, non essere; dunque, lei sicuramente lasciando,
vieni, acciò che quelle, che non tue si possono fare, per tue
con la tua presenza le conservi".
Dopo questi molti parlari e vani, però che né
l'orecchie degliddii toccavano né quelle del giovine
ingrato, avveniva alcuna volta che io subitamente mutava consiglio,
dicendo:
"O misera,
perché disideri tu che Panfilo qui torni? Credi tu con
maggiore pazienza sostenere vicino quello che gravissimo t'è
lontano? Tu disideri il tuo danno. E cosí come ora in forse
dimori che egli t'ami o no, cosí, lui tornando, potresti
divenire certa che non per te, ma per altrui fosse tornato. Stiasi, e
innanzi, essendo lontano, te tenga del suo amore in forse, che
vegnendo vicino, del non amarti ti faccia certa. Sii almeno contenta
che sola non dimori in cotali pene, e quello conforto piglia che i
miseri sogliono fare nelle miserie accompagnati."
Egli mi sarebbe duro il potere, o donne, mostrare con quanta focosa
ira, con quante lagrime, con quanta strettezza di cuore, io quasi
ogni dí cotali pensieri e ragionamenti solessi fare; ma però
che ogni dura cosa in processo di tempo si pur matura e ammollisce,
avvenne che, avendo io piú giorni cotale vita tenuta, né
potendo piú oltre nel dolore procedere che proceduta mi fossi,
esso alquanto si cominciò a cessare. E tanto quanto egli della
mente disoccupava, cotanto, fervente amore e tiepida speranza ne
raccendevano, e cosí a poco a poco con esso il dolore
dimorandovi, me fecero di voglia cambiare, e il primo disiderio di
riavere il mio Panfilo ritornò. E quantunque in ciò mi
fosse alcuna speranza di mai dover riaverlo contraria, tanto ne
divenne maggiore il disio; e cosí come le fiamme da' venti
agitate crescono in maggiore vampa, cosí amore, per li
contrarii pensieri stati, tutte le sue forze contra di loro
adoperate, si fece maggiore. Laonde delle cose dette súbito
pentimento mi venne.
Io,
riguardando a quello a che m'avea lira condotta a dire, quasi
come se udita m'avesse, mi vergognai, e lei forte biasimai, la quale
ne' primi assalti con tanto fervore piglia gli animi, che alcuna
verità a loro essere palese non lascia. Ma nondimeno quanto
piú viene grave, tanto piú in processo di tempo diventa
fredda, e lascia chiaro conoscere quelle che seco male ha fatte
adoperare; e riavuta la debita mente, cosí incominciai a
dire:
- O stoltissima
giovine, di che cosí ti turbi? Perché senza certa
cagione in ira t'accendi? Posto che vero sia ciò che il
mercatante disse, il che è forse non vero, cioè che
egli abbia moglie sposata, è questo cosí gran fatto e
cosa nuova, o che tu non dovessi sperare? Egli è di necessità
che i giovini in cosí fatte cose compiacciane a padri.
Se il padre ha voluto questo, con che colore il potea esso negare? E
credere dei che né tutti coloro che moglie prendono e che
lhanno, l'amano, come fanno dell'altre donne: la soperchia
copia che le mogli fanno di sé a loro mariti, è
cagione di tostano rincrescimento, quando pure nel principio
sommamente piacesse, e tu non sai quanto costei sipiaccia. Forse che
sforzato Panfilo la prese e, amando ancora te piú di lei, gli
è noia d'essere con essa; e se ella gli pur piace, tu puoi
sperare che ella gli rincrescerà tosto. E certo della sua fede
e de' suoi giuramenti tu non ti puoi con ragione biasimare, però
che egli a te tornando nella tua camera l'uno e l'altro
adempie.
Priega adunque Iddio
che Amore, il quale piú che saramento o promessa fede puote,
il costringa a tornarci. E oltre a questo, perché per la
turbazione della giovine di lui prendi sospetto? Non sai tu quanti
giovini te amano invano, i quali, sappiendo te essere di Panfilo,
senza dubbio si turberebbero? Cosí dei credere possibile lui
essere amato da molte, alle quali pare duro di lui udire quello che a
te dolse, benché per diverse ragioni a ciascuna ne
incresca.
E in cotale modo me
medesima dimentendo quasi in sulla prima speranza tornando, dove
molte bestemmie mandate aveva, con orazioni supplico in
contrario.
Questa speranza in
cotal guisa tornata, non avea però forza di rallegrarmi, anzi
con tutta essa con turbazione continua e nell'animo e nell'aspetto
era veduta, e io medesima non sapeva che farmi. Le prime
sollecitudini erano fuggite; io avea nel primo impeto della mia ira
gittate via le pietre, le quali de' giorni stati erano memorevoli
testimonie, e aveva arse le lettere da lui ricevute, e molte altre
cose guastate. Il rimirare il cielo piú non mi gradiva, sí
come a colei che incerta era della tornata allora, sí come
certa me ne pareva essere avanti. La volontà del favoleggiare
se n'era ita, e il tempo, che molto aveva le notti abbreviate, nol
concedea, le quali sovente, o tutte o gran parte di loro, io passava
senza dormire, continuamente o piagnendo o pensando passandole; e
qualora pure avveniva che io dormissi, diversamente era da' sogni
occupata, alcuna lieti vegnenti, e alcuna tristissimi. Le feste e i
templi m'erano noievoli, né mai se non di rado, quasi non
potendo altro fare, li visitava. E il mio viso, palido ritornato,
faceva tutta malinconiosa la casa mia, e da varii variamente di me
parlare: e cosí, aspettando, e quasi che non sappiendo,
malinconica e trista mi stava.
Li miei dubbiosi pensieri il piú mi traevano tutto il giorno
incerta di dolermi o di rallegrarmi; ma vegnendo la notte, attissimo
tempo alli miei mali, trovandomi nella mia camera sola, avendo prima
e pianto e molte cose con meco dette, quasi mossa da consiglio
migliore, le mie orazioni a Venere rivolgea, dicendo:
- O del cielo bellezza speciale, o pietosissima dèa, o santa
Venere, la cui effigie nel principio de miei affanni in questa
camera fu manifesta, porgi conforto alli miei dolori, e per quello
venerabile e intrinseco amore che tu portasti ad Adone, mitiga li
miei mali. Vedi quanto per te io tribulo; vedi quante volte per te la
terribile imagine della morte sia già stata innanzi agli occhi
miei; vedi se tanto male ha la mia pura fede meritato, quanto io
sostegno. Io, lasciva giovine, non conoscendo li tuoi dardi, al primo
tuo piacere senza disdire mi ti feci suggetta. Tu sai quanto per te
mi fu promesso di bene, e certo io non niego che parte già non
n'avessi; ma, se questi affanni che tu mi dài, di quel bene
parte s'intendono perisca il cielo e la terra ad un'otta, e
rifacciansi col mondo che seguirà le leggi nuove a queste
simili. Se egli è pur male, come a me il pare sentire, venga,
o graziosa dèa, il bene promesso, acciò che la santa
bocca non si possa dire come gli uomini avere apparato a
mentire.
Manda il tuo
figliuolo con le sue saette e con le tue fiaccole al mio Panfilo, là
dove egli ora da me dimora lontano, e lui se forse per non vedermi
nel mio amore è raffreddato, o di quello d'alcun'altra è
fatto caldo, rinfiammilo per tal maniera che, ardendo come io ardo,
niuna cagione il ritenga che egli non torni, acciò che io,
riprendendo conforto, sotto questa gravezza non muoia. O bellissima
dèa, vengano le mie parole a tuoi orecchi, e se lui
riscaldar non vuoi, trai a me di cuore i dardi tuoi acciò che
io, cosí come egli, possa senza tante angoscie passare li
giorni miei.
In questi cosí
fatti prieghi, ancora che vani gli vedessi poi riuscire, pure allora
quasi essauditi credendomi, alquanto con isperanza alleviava il mio
tormento, e nuovi mormorii ricominciando, diceva:
- O Panfilo, dove se tu ora? Deh, che fai tu ora? Hatti la
tacita notte senza sonno e con tante lagrime quante me, o forse nelle
braccia ti tiene della giovine male per me udita? O pure senza alcuno
ricordo di me soavissimamente dormi? Deh, come può questo
essere che Amore due amanti con disiguali leggi governi, ciascuno
ferventemente amando, come io fo, e forse come tu fai? Io non so, ma
se cosí è, che quelli pensieri te, che me, occupino
quali prigioni e quali catene ti tengono, che quelle rompendo a me
non torni? Certo io non so chi mi potesse tenere di venire a te, se
lamia forma sola, la quale senza dubbio d'impedimento e di vergogna
in piú luoghi mi sarebbe cagione, non mi tenesse. Qualunque
affari, qualunque altre cagioni costà trovasti, già
deono essere finite; e il tuo padre, già di te dee essere
sazio, il quale, come gliddii sanno, io priego sovente per la
sua morte, fermamente credendo lui cagione della tua dimora; e se
cosí non è, almeno del tormiti pur fu. Ma io non dubito
che, della morte pregando, non gli si prolunghi la vita, tanto mi
sono gliddii contrarii e male essaudevoli in ogni cosa. Deh,
vinca il tuo amore, se cotale è quale essere solea, le sue
forze, e vienne. Non pensi tu me sola gran parte delle notti giacere,
nelle quali tu fida compagnia mi faresti, se tu ci fossi, come già
facesti? Ohimè! quante il passato verno lunghissime senza te
fredda nel grandissimo letto, sola nho trapassate! Deh,
ricòrditi de' varii diletti da noi molte volte in varie cose
presi de' quali ricordandoti tu, sono certa niuna altra donna mai mi
ti potrà tòrre. E quasi questa credenza piú che
altra mi rende sicura che falsa sia l'udita novella della nuova
sposa, la quale, ancora che vera fosse, non spero mi ti potesse
tòrre, se non un tempo. Dunque ritorna; e se i graziosi
diletti non hanno forza di qua tirarti, tíritici il volere da
morte turpissima liberare colei che sopra tutte le cose t'ama. Ohimè!
che se tu ora tornassi, appena ch'io creda che tu mi riconoscessi, sí
mha trasformata l'angoscia. Ma certo ciò che infinite
lagrime mhanno tolto, brieve letizia, vedendo il tuo bel viso,
mi renderebbe, e senza fallo tornerei quella Fiammetta che già
fui.
Deh vieni, vieni, ché
l cuor ti chiama: non lasciar perire la mia giovinezza presta
a' tuoi piaceri. Ohimè! ch'io non so con che freno io
temperassi la mia letizia, se tu tornassi, in modo che a tutti
manifesta non fosse; per che io, e meritamente, dubito che l
nostro amore, lungamente e con grandissimo senno e sofferenza celato,
non si scoprisse a ciascuno. Ma ora pur venissi tu a vedere, se cosí
ne prosperi casi come negli avversi lingegnose bugie
avessero luogo! Ohimè! or fossi tu già venuto, e se
meglio non potesse essere, sapesselo chi volesse, ché a tutto
mi crederei dare riparo.
E
questo detto, quasi come se egli le mie parole avesse intese súbito
mi levava e correva alla finestra, me nell'estimazione ingannando
dudire quello che io udito non avea, cioè che egli la
nostra porta toccasse, come era usato. Oh quante volte, se i
solleciti amanti avessero saputo questo, forse sarei stata potuta
ingannare, se alcuno malizioso sé Panfilo avesse finto a
cotali punti! Ma poi che la finestra aperta aveva, e riguardata la
porta, gli occhi del conosciuto inganno mi faceano piú certa;
e cotale la vana letizia in me con turbazione súbita si
volgeva, quale, poi che il forte albero rotto da' potenti venti con
le vele ravviluppate in mare a forza da quelli è trasportato,
la tempestosa onda cuopre senza contrasto il legno periclitante. E
nel modo usato alle lagrime ritornando, miseramente piango, e
isforzandomi poi di dare alla mente riposo con gli occhi chiusi
allettando gli umidi sonni, tra me médesima in cotal guisa gli
chiamo:
"O Sonno,
piacevolissima quiete di tutte le cose, e degli animi vera pace, il
quale ogni cura fugge come nemico, vieni a me, e le mie sollecitudini
alquanto col tuo operare caccia del petto mio. O tu, che i corpi ne
duri affanni gravati diletti, e ripari le nuove fatiche, come non
vieni? Deh, tu dài ora a ciascun altro riposo: donalo a me,
piú che altra di ciò bisognosa. Fuggi degli occhi alle
liete giovini, le quali ora tenendo i loro amanti in braccio nelle
palestre di Venere essercitandosi, te rifiutano e odiano, ed entra
negli occhi miei, che sola e abandonata, e vinta dalle lagrime e da'
sospiri dimoro. O domatore de mali e parte migliore dell'umana
vita, consolami di te, e lo stare a me lontano riserva quando Panfilo
co' suoi piacevoli ragionari diletterà le mie avide orecchie
di lui udire. O languido fratello della dura morte, il quale le false
cose alle vere rimescoli, entra negli occhi tristi! Tu già i
cento d'Argo volenti vegghiare occupasti; deh, occupa ora i miei due
che ti disiderano! O porto di vita, o di luce riposo, e della notte
compagno, il quale parimente vieni grazioso agli eccelsi re e agli
umili servi, entra nel tristo petto, e piacevole alquanto le mie
forze ricrea. O dolcissimo Sonno, il quale l'umana generazione pavida
della morte costrigni ad apparare le sue lunghe dimore, occupa me con
le forze tue e da me caccia glinsani movimenti, ne quali
l'animo se medesimo senza pro fatica".
Egli, piú pietoso che alcuno altro iddio a cui io porga
prieghi, avvegna che indugio ponga alla grazia chiesta da' prieghi
miei, pure dopo lungo spazio, quasi piú a servirmi costretto
che volonteroso, pigro viene, e senza dire alcuna cosa, non
avvedendomene io, sottentra al lasso capo, il quale di lui bisognoso,
quello volonteroso pigliando, tutto in lui si ravvolge.
Non viene, posto che il sonno venga, però in me la disiata
pace, anzi, in luogo de pensieri e delle lagrime, mille visioni
piene d'infinite paure mi spaventano. Io non credo che niuna furia
rimanga nella città di Dite, che in diversi modi e terribili
già piú volte mostrata non mi si sia, diversi mali
minacciando, e spesso col loro orribile aspetto li miei sonni rotti,
di che io quasi, per non vederle, mi sono con tentata. E poche sono
brievemente state quelle notti, dopo la male udita novella della
menata sposa, che rallegrata m'abbiano dormendo, come davanti
mostrandomi lietamente il mio Panfilo assai sovente solean fare: il
che senza modo mi doleva, e ancora duole.
Di tutte queste cose, delle lagrime e del dolore dico, ma non della
cagione, s'avvedea il caro marito; e considerando il vivo colore del
mio viso in palidezza essere cambiato, e gli occhi piacevoli e
lucenti veggendo di purpureo cerchio intorniati e quasi della mia
fronte fuggiti, molte volte già si maravigliò perché
fosse; ma pure veggendo me e il cibo e il riposo avere perduto,
alcuna volta mi dimandò che fosse di ciò la cagione. Io
gli rispondea lo stomaco averne colpa, il quale, non sappiendo io per
quale cagione guastatomisi, a quella deforme magrezza m'avea
condotta. Ohimè! che egli intera fede dando alle mie parole,
il mi credeva, e infinite medicine già mi fece apparecchiare;
le quali io per contentarlo usava, non per utile che di quelle
aspettassi. E quale alleviamento di corpo puote le passioni
dell'anima alleviare? Niuno credo; forse che quelle dell'anima via
levate potrebbero il corpo alleviare. La medicina utile al mio male
non era piú che una, la quale troppo era lontana a potermi
giovare.
Poi che lingannato marito vedea le molte medicine poco giovare,
anzi niente, di me piú tenero che il dovere, da me in molte
nuove e diverse maniere la mia malinconia s'ingegnava di cacciare
via, e la perduta allegrezza restituire, ma invano le molte cose
adoperava. Egli alcuna volta mi mosse cotali parole:
- Donna, come tu sai, poco di là dal piacevole monte Falerno,
in mezzo dell'antiche Cume e di Pozzuolo sono le dilettevoli Baie
sopra li marini liti, del sito delle quali piú bello né
piú piacevole ne cuopre alcuno il cielo. Egli di monti
bellissimi tutti d'alberi varii e di viti coperti è
circundato, fra le valli de' quali niuna bestia è a cacciare
abile, che in quelle non sia; né a quelli lontana la
grandissima pianura dimora, utile alle varie cacce de predanti
uccelli e sollazzevole; quivi vicine lisole Pittaguse e Nisida
di conigli abondante, e la sepultura del gran Miseno, dante via a'
regni di Plutone; quivi gli oracoli della Cumana Sibilla, il lago
d'Averno, e 'l Teatro, luogo comune degli antichi giuochi, e le
Piscine, e monte Barbaro, vane fatiche dello iniquo Nerone: le quali
cose antichissime e nuove, a' moderni animi sono non piccola cagione
di diporto ad andarle mirando. E oltre a tutte queste, vi sono bagni
sanissimi ad ogni cosa e infiniti, e il cielo quivi mitissimo in
questi tempi ci dà di visitarle materia. Quivi non mai senza
festa e somma allegrezza con donne nobili e cavalieri si dimora. E
però tu, non sana dello stomaco, e nella mente, per quel che
io discerna, di molesta malinconia affannata, con meco per l'una
sanità e per l'altra voglio che venghi; né fia
fermamente senza utile il nostro andare.
Io allora, queste parole udendo, quasi dubbiosa non nel mezzo della
nostra dimora tornasse il caro amante, e cosí nol vedessi,
lungamente penai a rispondere; ma poi, vedendo il suo piacere,
imaginando che, vegnendo egli, esso dove che io fossi verrebbe,
risposi me al suo volere apparecchiata, e cosí
v'andammo.
Oh, quanto contraria
medicina operava il mio marito alle mie doglie! Quivi posto che i
languori corporali molto si curino, rade volte o non mai vi s'andò
con mente sana, che con sana mente se ne tornasse, non che linferme
sanità v'acquistassero. E in verità di ciò non è
maraviglia, ché o il sito vicino alle marine onde, luogo
natale di Venere, che il dia, o il tempo nel quale egli piú
s'usa, cioè nella primavera, sí come a quelle cose piú
atto, che il faccia, non so; ma per quello che già molte volte
a me paruto ne sia, quivi eziandio le piú oneste donne,
posposta alquanto la donnesca vergogna, piú licenza in
qualunque cosa mi pareva si convenisse, che in altra parte; né
io sola di cotale oppinione sono, ma quasi tutti quelli che già
vi sono costumati. Quivi la maggior parte del tempo ozioso trapassa,
e qualora piú è messo in essercizio, si è in
amorosi ragionamenti, o le donne per sé, o mescolate co
giovini; quivi non s'usano vivande se non dilicate, e vini per
antichità nobilissimi, possenti non che ad eccitare la
dormente Venere, ma a risuscitare la morta in ciascuno uomo; e quanto
ancora in ciò la virtú de bagni diversi adoperi,
quegli il può sapere che lha provato; quivi i marini
liti e i graziosi giardini e ciascun'altra parte sempre di varie
feste, di nuovi giuochi, di bellissime danze, d'infiniti strumenti,
d'amorose canzoni, cosí da giovini come da donne fatti, sonati
e cantate risuonano. Tengasi adunque chi può quivi, tra tante
cose, contra Cupido, il quale quivi, per quello che io creda, sí
come in luogo principalissimo de suoi regni, aiutato da tante
cose, con poca fatica usa le forze sue.
In cosí fatto luogo, o pietosissime donne, mi solea il mio
marito menare a guarire dell'amorosa febbre; nel quale, poi
pervenimmo, non usò Amore vèr .me altro modo che vèr
l'altre facesse; anzi l'anima che presa piú pigliare non si
potea, alquanto, certo assai poco, rattiepidita, e per lo lungo
dimorare lontano a me che Panfilo fatto aveva, e per le molte lagrime
e dolori sostenuti, raccese in sí gran fiamma, che mai tale
non mi ve la pareva avere avuta. E ciò non solamente dalle
predette cagioni procedeva, ma il ricordarmi quivi molte volte essere
stata da Panfilo accompagnata, amore e dolore, vedendomivi senza
esso, senza dubbio nessuno mi cresceva. Io non vedea né monte
né valle alcuna, che io da molti e da lui accompagnata, quando
le reti portando, e quando i cani menando ponendo insidie alle
selvatiche bestie, e pigliandone, non conoscessi per testimonio e
delle mie e delle sue allegrezze essere stata. Niuno lito, né
scoglio, né isoletta ancora si vedea, che io non dicessi: "Qui
fui io con Panfilo, e cosí mi disse, e cosí quivi
facemmo." Similmente niun'altra cosa vedere vi potea, che prima
non mi fosse cagione di ricordarmi con piú efficacia di lui, e
poi di piú fervente disio di rivederlo o quivi o in altra
parte, e ritornare in ieri.
Come al
caro marito aggradiva, cosí quivi varii diletti a prendere si
cominciarono. Noi alcuna volta, levati prima che il giorno chiaro
apparisse, saliti sopra i portanti cavalli, quando con cani e quando
con uccelli e quando con amenduni, ne vicini paesi di ciascuna
caccia copiosi, ora per l'ombrose selve e ora per gli aperti campi,
solleciti n'andavamo; e quivi varie cacce vedendo, ancora che esse
molto rallegrassero ciascuno altro, in me solo alquanto minuivano il
mio dolore. E come alcuno bello volo o notabile córso vedeva,
cosí mi ricorreva alla bocca: "O Panfilo, ora fossi tu
qui a vedere, come già fosti!" Ohimè! Che infino a
quel punto alquanto avendo con meno noia sostenuto e il riguardare e
l'operare, per tale ricordarmi quasi vinta nel nascoso dolore, ogni
cosa lasciava stare. Oh, quante volte e mi ricorda che in tale
accidente già l'arco mi cadde e le saette di mano, nel quale,
né in reti distendere o in lasciare cani, niuna che Diana
seguisse fu piú di me ammaestrata giammai. E non una volta, ma
molte, nel piú spesso uccellare qualunque uccello si fu a ciò
convenevole, quasi essendo io a me medesima uscita di mente, non
lasciandolo io, si levò volando delle mie mani; di che io, già
in ciò studiosissima, quasi niente curava. Ma poi che ciascuna
valle e ogni monte, e li spaziosi piani erano da noi ricercati, di
preda carichi i miei compagni e io a casa ne tornavamo, la quale
lieta per molte feste e varie trovavamo le piú volte.
Noi alcuna volta sotto gli altissimi scogli sopra il mare
estendentisi e facienti ombra graziosissima, sulle arene poste le
mense con compagnia di donne e di giovini grandissima mangiavamo. Né
prima eravamo da quelle levate, che sonantisi diversi strumenti, i
giovini varie danze incominciavano, nelle quali me medesima, quasi
sforzata, alcuna volta convenne pigliare; ma in esse, sí per
l'animo non a quelle conforme, e sí per lo corpo debole, per
piccolo spazio durava; per che indietro trattami, sopra gli stesi
tappeti con alcune altre mi ponea a sedere. Quivi ad un'ora i suoni
ascoltando entranti con dolci note nell'animo mio, e a Panfilo
pensando, discorde, festa con noia comprendo; perciò che i
piacevoli suoni, ascoltando, in me ogni tramortito spiritello d'amore
fanno risuscitare, e nella mente tornare i lieti tempi, ne
quali io al suono di quelli variamente con arte non piccola, in
presenza del mio Panfilo laudevolmente soleva operare; ma quivi
Panfilo non vedendo, volontieri, con tristi sospiri, pianti l'averei
dolentissima, se convenevole mi fosse paruto. E oltre a ciò,
questo medesimo le varie canzoni quivi da molte cantate mi solevano
fare; delle quali se forse alcuna n'era conforme alli miei mali, con
orecchia l'ascoltava intentissima, di saperla disiderando, acciò
che poi fra me ridicendola, con piú ordinato parlare e piú
coperto mi sapessi e potessi in publico alcuna volta dolere, e
massimamente di quella parte de danni miei che in essa si
contenesse.
Ma poi che le danze in
molti giri volte e reiterate hanno le giovini donne rendute stanche,
tutte postesi con noi a sedere, piú volte avvenne che i
giovini vaghi, di sé d'intorno a noi accumulati, quasi
facevano una corona, la quale mai né quivi né altrove
avvenne che io vedessi, che ricordandomi del primo giorno, nel quale
Panfilo a tutti dimorando di dietro, mi prese, che io invano non
levassi piú volte gli occhi fra loro rimirando, quasi tuttavia
sperando in simile modo Panfilo rivedere. Tra questi adunque mirando,
vedea alcuna volta alcuni con occhi intentissimi mirare il suo disio,
e io in quegli atti sagacissima per addietro, con occhio perplesso
ogni cosa mirava, e conosceva chi amava e chi scherniva; e talora
l'uno laudava e talora l'altro, e in me diceva talvolta che il mio
migliore sarebbe stato se cosí io come quelle facevano avessi
fatto, servando lanima libera come quelle, gabbando, servavano;
poi dannando cotal pensiero, piú contenta (se essere si può
contenta di male avere) sono d'avere fedelmente amato. Ritorno
adunque e gli occhi e l pensiero agli atti vaghi de giovini amanti, e
quasi alcuna consolazione prendendo di quelli, li quali ferventemente
amare discerno, piú con meco stessa di ciò li commendo,
e quelli lungamente con intero animo avendo mirati, cosí fra
me medesima tacita incomincio:
- Oh
felici voi a quali come a me non è tolta la vista di voi
stessi! Ohimè! che cosí come voi fate, soleva io per
addietro fare. Lunga sia la vostra felicità, acciò che
io sola di miseria possa essemplo rimanere a mondani. Almeno,
se Amore, faccendomi mal contenta della cosa amata da me, sarà
cagione che li miei giorni si raccorcino, me ne seguirà che
io, come Dido, con dolorosa fama diventerò etterna.
E questo detto, tacendo torno gli occhi a riguardare quello che
diversi diversamente adoperino. Oh quanti già in simili luoghi
ne vidi, li quali dopo avere mirato, e non avendo la loro donna
veduta, reputando meno che bello il festeggiare, malinconiosi si
partivano! De' quali alcuno, avvegna che debole, riso nel mezzo de
miei mali trovava luogo, veggendomi compagnia ne dolori, e
conoscendo per li miei mali stessi li guai altrui.
Adunque, carissime donne, cosí disposta, quale le mie parole
dimostrano, m'aveano li dilicati bagni, le faticose cacce e li marini
liti d'ogni festa ripieni: per che dimostrando il mio palido viso, li
sospiri continui e il cibo parimente col sonno perduti, allo
ingannato marito e alli medici la mia infermità non curabile,
quasi della .mia vita disperandosi, alla città lasciata ne
tornavamo; nella quale la qualità del tempo molte e diverse
feste apprestante, con quelle, cagioni di varie angoscie
m'apparecchiava.
Egli avvenne, non
una volta ma molte, che dovendo novelle spose andare a loro
mariti, primieramente io, o per parentado stretto, o per amistà,
o per vicinanza fui invitata alle nuove nozze, alle quali andare piú
volte mi costrinse il mio marito, credendosi in cotale guisa la
manifesta mia malinconia alleggiare. Adunque in questi cosí
fatti giorni li lasciati ornamenti mi convenia ripigliare, e i
negletti capelli, d'oro per addietro da ognuno giudicati, allora
quasi a cenere simili divenuti, come io poteva in ordine rimetteva. E
ricordandomi con piú piena memoria, a cui essi oltre ad ogni
altra mia bellezza soleano piacere, con nuova malinconia riturbava il
turbato animo; e alcuna volta avendo io me medesima obliata, mi
ricorda che non altramente che da intimo sonno rivocata dalle mie
serve, ricogliendo il caduto pettine, ritornai al dimenticato oficio.
Quindi volendomi, sí come usanza è delle giovini donne
consigliare col mio specchio de' presi ornamenti, vedendomi in esso
orribile quale io era, avendo nella mente la forma perduta, quasi non
quella la mia che nello specchio vedeva, ma d'alcuna infernal furia
pensando, intorno volgendomi, dubitava. Ma pure, poi che ornata era,
non dissimile alla qualità dell'animo con l'altre andava alle
liete feste, liete dico per l'altre, ché, come colui sa a cui
niuna cosa è nascosa, nulla ne fu mai, dopo la partita del mio
Panfilo, che a me non fosse di tristizia cagione.
Pervenute adunque alli luoghi diputati alle nozze, ancora che diversi
e in diversi tempi fossero, non altramente che in una sola maniera mi
videro, cioè con viso infinto, qual io poteva, ad allegrezza,
e con l'animo al tutto disposto a dolersi, prendendo cosí
dalle liete cose come dalle triste che gli avveniano, cagione alla
sua doglia. Ma poi che quivi dall'altre con molto onore ricevute
eravamo, l'occhio disideroso non di vedere ornamenti, de' quali li
luoghi tutti risplendevano, ma se stesso col pensiero ingannando se
forse quivi Panfilo vedesse, come piú volte già in
simile luogo veduto aveva, intorno solea girare; e non vedendolo,
come fatta piú certa di ciò di che prima io era
certissima, quasi vinta, con l'altre mi poneva a sedere, rifiutando
gli offerti onori, non vedendovi io colui per lo quale essere mi
soleano cari. E poi che la nuova sposa era giunta, e la pompa
grandissima delle mense celebrata si toglieva via, come le varie
danze, ora alla voce d'alcuno cantante guidate e ora al suono di
diversi strumenti menate, erano cominciate, risonando ogni parte
della sposaresca casa di festa, io, acciò che non isdegnosa,
ma urbana paressi, data alcuna volta in quelle, mi riponeva a sedere
entrando in nuovi pensieri.
Egli mi
ritornava a mente quanto solenne fosse stata quella festa, la quale a
questa simile già per me s'era fatta, nella quale io semplice
e libera senza alcuna malinconia lieta mi vidi onorare, e quelli
tempi con questi altri misurando in me medesima, e oltremodo
veggendoli variati, con sommo disio, se il luogo conceduto l'avesse,
provocata era a lagrimare. Correvami ancora nell'animo con pensiero
prontissimo, veggendo li giovini parimente e le donne far festa,
quant'io già in simili luoghi, il mio Panfilo me mirando, con
atti varii e maestrevoli a cotali cose, festeggiato avessi; e piú
meco della cagione del far festa, che tolta m'era, che del non far
festa medesimo mi doleva Quindi orecchie porgendo a motti, alle
canzoni e alli suoni, ricordandomi de preteriti, sospirava, e con
infinto piacere, disiderando la fine di cotale festa, meco medesima
mal contenta con fatica passava. Nondimeno, riguardando ogni cosa,
essendo intorno alle riposanti donne la multitudine de' giovini a
rimirarle sopravvenuti, manifestamente scorgea molti di quelli, o
quasi tutti, in me rimirare alcuna volta e quale una cosa del mio
aspetto, e quale un'altra fra sé tacito ragionava, ma non si,
che de loro occulti parlari, o per imaginazione o per udita, non
pervenissero gran parte alle mie orecchie. Alcuni l'uno verso l'altro
dicevano:
- Deh, guarda quella
giovine, alla cui bellezza nulla ne fu nella nostra città
simigliante, e ora vedi quale ella è divenuta! Non miri tu
come ella ne' sembianti pare sbigottita, qua le che la cagione si
sia?
E detto questo, mirandomi con
atto umilissimo quasi da compassione delli miei mali compunti,
partendosi, me di me lasciavano piú che l'usato pietosa. Altri
intra sé dimandavano: "Deh, è questa donna stata
inferma?", e poi a se medesimi rispondevano: "Egli mostra
di sí, sí è magra tornata' e iscolorita; di che
egli è gran peccato, pensando alla sua smarrita
bellezza".
Certi ve n'erano di
piú profondo conoscimento, il che mi dolea, li quali dopo
lungo parlare dicevano:
- La
palidezza di questa giovine dà segnali d'innamorato cuore. E
quale infermità mai alcuno assottiglia, come fa il troppo
fervente amore? Veramente ella ama, e se cosí è,
crudele è colui che a lei è di si fatta noia cagione,
per la quale essa cosí sassottigli.
Quando questo avvenne, dico che io non potei ritenere alcuno sospiro,
veggendo di me molta piú pietà in altrui che in colui
che ragionevolmente avere la dovria. E dopo li mandati sospiri, con
voce tacita pregai per li coloro beni umilemente gliddii. E
certo egli mi ricorda la mia onestà avere avute tra quelli che
cosí ragionavano tante forze che alcuni mi scusavano,
dicendo:
- Cessi Iddio che questo
di questa donna si creda, cioè che amore la molesti; ella, piú
che alcuna altra onesta, mai di ciò non mostrò
sembiante alcuno, né mai ragionamento nessuno tra gli amanti
si poté di suo amore ascoltare: e certo egli non è
passione da potere lungamente occultare.
"Ohimè!" diceva io allora fra me medesima "quanto
sono costoro lontani alla verità, me innamorata non reputando,
perciò che come pazza negli occhi e nelle bocche de
giovini non metto li miei amori, come molte altre fanno!".
Quivi ancora mi si paravano molte volte davanti giovini nobili, e di
forma belli, e d'aspetto piacevoli, li quali per addietro piú
volte con atti e modi diversi tentati aveano gli occhi miei,
ingegnandosi di :trarre quelli a loro disii. Li quali poi che
me cosí deforme un pezzo aveano mirata, forse contenti che io
non gli avessi amati, si dipartivano dicendo: "Guasta è
la bellezza di questa donna.
Perché
nasconderò io a voi, o donne, quel che non solamente a me, ma
generalmente a tutte dispiace d'udire? Io dico che, ancora che l
mio Panfilo non fosse presente, per lo quale era a me sommamente cara
la mia bellezza, con gravissima puntura di cuore d'avere quella
perduta ascoltava.
Oltre a queste
cose, ancora mi ricordo io essermi alcuna volta in cosí fatte
feste avvenuto che io in cerchio con donne d'amore ragionanti mi sono
ritrovata; là dove con disiderio ascoltando quali gli altrui
amori siano stati, agevolmente ho compreso niuno si fervente né
tanto occulto né con si grevi affanni essere stato come il
mio, avvegna che de piú felici e de meno onorevoli
il numero ne sia grande. Adunque in cotal guisa una volta mirando, e
un'altra ascoltando ciò che nelli luoghi ne' quali stava
s'adoperava, pensosa passava il discorrevole tempo.
Essendo adunque per alcuno spazio le donne, sedendosi, riposate,
m'avvenne alcuna volta che, rilevatesi esse alle danze, avendo me piú
volte a quelle invitata indarno, e dimorando esse e li giovini
parimente in quelle, con cuore d'ogni altra intenzione vacuo, molto
attente, quale forse da vaghezza di dimostrare sé in quelle
essere maestra, e quale dalla focosa Venere a ciò sospinta, io
quasi sola rimasa a sedere, con isdegnoso animo li nuovi atti e le
qualità di molte donne mirava. E certo d'alcune avvenne che io
le biasimai, benché io sommamente disiderassi, se essere fosse
potuto, di fare io, se il mio Panfilo fosse stato presente; il quale
tante volte quante a mente mi tornava o torna, tante di nuova
malinconia m'era ed è cagione: il che, come Iddio sa, non
merita il grande amore ch'io gli porto e ho portato.
Ma poi che quelle danze con gravissima noia di me alcuna volta per
lungo spazio rimirate avea, essendomi divenute per altro pensiero
tediose, quasi da altra sollecitudine mossa, del publico luogo
levatami, volonterosa di sfogare il raccolto dolore, se fatto mi
veniva acconciamente, in parte solitaria me n'andava; e quivi dando
luogo alle volonterose lagrime, delle vanità vedute alli miei
folli occhi rendea guiderdone. Né quelle senza parole accese
d'ira uscivano fuori, anzi, conoscendo io la misera mia fortuna,
verso lei mi ricorda d'avere alcuna volta cosí parlato:
- O Fortuna, spaventevole nemica di ciascuno felice, e de piú
miseri singulare speranza, tu, permutatrice de' regni e de
mondani casi adducitrice, sollevi e avvalli con le tue mani, come il
tuo indiscreto giudicio ti porge; e non contenta d'essere tutta
d'alcuno, o in uno caso l'essalti e in uno altro il deprimi, o dopo
alla data felicità aggiugni agli animi nuove cure, acciò
che i mondani in continue necessità dimorando, secondo il
parere loro, te sempre prieghino, e la tua deità orba adorino.
Tu, cieca e sorda, li pianti de' miseri rifiutando; con gli essaltati
ti godi, li quali te ridente e lusingante abbracciando con tutte le
forze, con inoppinato avvenimento da te si trovano prostrati e allora
miseramente te conoscono aver mutato viso. E di questi cotali io
misera mi trovo, né so quale inimicizia o cosa da me commessa
inverso te a ciò t'inducesse, o mi ci noccia. Ohimè!
chiunque nelle grandi cose si fida, e potente signoreggia negli alti
luoghi, l'animo credulo dando alle cose liete, riguardi me, d'alta
donna piccolissima serva tornata, e peggio, che disdegnata sono dal
mio signore, e rifiutata. Tu non desti mai, o Fortuna, piú
ammaestrevole essemplo di me de' tuoi mutamenti, se con sana mente si
riguarderà. Io da te, o Fortuna mutabile, nel mondo ricevuta
fui in copiosa quantità de tuoi beni, se la nobiltà e
le ricchezze sono di quelli, sí come io credo; e oltre a ciò
in quelle cresciuta fui, né mai ritraesti la mano. Queste cose
certo continuamente magnanima possedei, e come mutabili le trattai e,
oltre alla natura delle femine, liberalissimamente lho
usate.
Ma io, ancora nuova, te
delle passioni dellanima donatrice non sappiendo che tanta
parte avessi ne' regni d'Amore, come volesti, m'innamorai, e quello
giovine amai, il quale tu sola, e altri no, parasti davanti agli
occhi miei allora che io piú ad innamorar mi credea essere
lontana. Il piacere del quale poi che nel cuore con legame
indissolubile mi sentisti legato, non stabile piú volte hai
cercato di farmene noia; e alcuna volta hai li vicini animi con vani
e ingannevoli ingegni sommossi e talvolta gli occhi, acciò che
palesato nocesse il nostro amore. E piú volte, sí come
tu volesti, sconce parole dell'amato giovine alli miei orecchi
pervennero, e alli suoi di me sono certa che facesti pervenire,
possibili, essendo credute, a generare odio; ma esse non vennero mai
al tuo intendimento seconde, ché, posto che tu, dèa,
come ti piace guidi le cose esteriori, le virtú dell'anima non
sono sottoposte alle tue forze: il nostro senno continuamente in ciò
tha soperchiata. Ma che giova però a te opporsi? A te
sono mille vie da nuocere a tuoi nemici, e quelle che per
diritto non puoi, conviene che per obliquo fornischi. Tu non potesti
ne' nostri animi generare inimicizia, e ngegnastiti di mettervi
cosa equivalente, e oltre a ciò gravissima doglia e
angoscia.
I tuoi ingegni, per
addietro rotti col nostre senno, si risarcirono per altra via, e
inimica a lui parimente e a me, con li tuoi accidenti porgesti
cagione di dividere da me l'amato giovine con lunga distanza. Ohimè!
quando avrei io potuto pensare che in luogo a questo tanto distante e
da questo diviso da tanto mare, da tanti monti e valli e fiumi,
dovesse nascere, te operante, la cagione de miei mali? Certo
non mai, ma pure è cosí; ma con tutto questo, avvegna
che egli sia lontano a me, e io a lui, non dubito che egli m'ami, si
come io lui, il quale io sopra tutte le cose amo. ma che vale questo
amore ad effetto piú che se fossimo nemici? Certo niuna cosa:
dunque al tuo contrasto niente valse il senno nostro. Tu insiememente
con lui ogni mio diletto, ogni mio bene e ogni mia gioia te ne
portasti, e con questi le feste, li vestimenti, le bellezze e l
vivere lieto, in luogo de quali pianti, tris tizia e intollerabile
angoscia lasciasti; ma certo che io non l'ami non mhai tu
potuto tòrre, né puoi. Deh, se io giovine ancora avea
contro alla tua deità commessa alcuna cosa, l'età
semplice mi dovea rendere scusata. Ma se tu pure di me volevi
vendetta, perché non l'operavi tu nelle tue cose? Tu ingiusta
hai messa la tua falce nell'altrui biade. Che hanno le cose d'amore a
fare con teco? A me sono altissime case e belle, ampissimi campi e
molte bestie, a me tesori conceduti dalla tua mano; perché in
queste cose, o con fuoco o con acqua o con rapina o con morte non si
distese la tua ira? Tu mhai lasciate quelle cose che alla mia
consolazione non possono valere, se non come a Mida la ricevuta
grazia da Bacco alla fame, e haitene portato colui solo, il quale io
piú che tutte l'altre cose avea caro.
Ahi, maladette siano l'amorose saette, le quali ardirono di prendere
vendetta di Febo, e da te tanta ingiuria sostengono! Ohimè!
che se esse t'avessero mai punta come elle pungono ora me, forse tu
con piú diliberato consiglio offenderesti agli amanti. Ma,
ecco, tu mhai offesa, e a quello condotta che io ricca, nobile
e possente, sono la piú misera parte della mia terra, e ciò
vedi tu manifesto. Ogni uomo si rallegra e fa festa, e io sola
piango; né questo ora solamente comincia, anzi è
lungamente durato tanto, che la tua ira doveria essere mitigata. Ma
tutto il ti perdono se tu solamente, di grazia, il mio Panfilo, come
da me il dividesti con meco il ricongiungi; e se forse ancora la tua
ira pur dúra, sfoghisi sopra il rimanente delle mie cose. Deh,
increscati di me, o crudele! Vedi che io sono divenuta tale che quasi
come favola del popolo sono portata in bocca, dove con solenne fama
la mia bellezza soleva essere narrata. Comincia ad essere pietosa
verso di me, acciò che io, vaga di potermi di te lodare, con
parole piacevoli onori la tua maestà, alla quale, se benigna
mi torni nel dimandato dono, infino ad ora prometto, e qui sieno
testimonii gliddii, di porre la .mia imagine ornata quanto
potrassi ad onore di te, in qual tempio piú ti fia caro, e
quella, con versi soscritti che diranno: Questa è
Fiammetta, dalla Fortuna di miseria infima recata in somma
allegrezza, si vedrà da tutti.
Oh quante piú altre cose ancora dissi piú volte, le
quali lungo e tedioso sarebbe il raccontarle! Ma tutte, brievemente,
in amare lagrime terminavano, dalle quali alcuna volta avvenne che
io, dalle donne sentita, con varii conforti levatane, alle festevoli
danze fui rimenata a mal mio grado.
Chi crederebbe possibile, o amorose donne, tanta tristizia nel pretto
capere d'una giovine che niuna cosa fosse, la quale non solamente non
rallegrar la potesse, ma eziandio cagione di maggior doglia le fosse
continuo? Certo egli pare incredibile a tutti, ma io misera, sí
come colei che l pruovo, sento e conosco ciò essere
vero. Egli avvenia spesse volte che, essendo, sí come la
stagione richiedeva, il tempo caldissimo, molte altre donne e io,
acciò che piú agevolmente quello trapassassimo, sopra
velocissima barca armata di molti remi, solcando le marine onde,
cantando e sonando, li rimoti scogli, e le caverne ne monti
dalla natura medesima fatte, essendo esse e per ombra e per li venti
recentissime, cercavamo. Ohimè, che questi erano al corporale
caldo sommissimi rimedii a me offerti, ma al fuoco dell'anima per
tutto questo niuno alleggiamento era prestato, anzi piuttosto tolto;
però che, cessanti li calori esteriori, li quali senza dubbio
alli dilicati corpi sono tediosi, incontanente piú ampio luogo
si dava agli amorosi pensieri, li quali non solamente materia
sostentante le fiamme di Venere sono, ma aumentante, se bene si
mira.
Venute adunque ne
luoghi da noi cercati, e presi per li nostri diletti ampissimi
luoghi, secondo che il nostro appetito richiedeva, ora qua e ora là,
ora questa brigata di donne e di giovini, e ora quell'altra, delle
quali ogni piccolo scoglietto o lito, solo che d'alcuna ombra di
monte da' solari raggi difeso fosse, erano pieni, veggendo andavamo.
Oh quale e quanto è questo diletto grande alle sane menti!
Quivi si vedevano in molte parti le mense candidissime poste e di
cari ornamenti sí belle, che solo il riguardarle aveva forza
di risvegliare l'appetito in qualunque piú fosse stato
svogliato; e in altra parte, già richiedendolo l'ora, si
discernevano alcuni prendere lietamente li mattutini cibi, da' quali
e noi e quale altro passava con allegra voce alle loro letizie
eravamo convitati.
Ma poi che noi
medesimi avevamo, si come gli altri, mangiato con grandissima festa,
e dopo le levate mense piú giri dati in liete danze al modo
usato, risalite sopra le barche, subitamente or qua e ora colà
n'andavamo. E in alcuna parte cosa carissima agli occhi de' giovini
n'appariva, ciò erano vaghissime .giovini in giubbe .di
zendado spogliate, e scalze e isbracciate nell'acqua andanti, dalle
dure pietre levanti le marine conche; e a cotale oficio bassandosi,
sovente le nascose delizie dell'uberifero petto mostravano. E in
alcuna altra con piú ingegno, altri con reti, e quali con piú
nuovi artificii, alli nascosi pesci si vedeano pescare.
Che giova il faticarsi in voler dire ogni particulare diletto che
quivi si prende? Egli non verrebbero meno giammai. Pensi seco chi ha
intelletto, quanti e quali essi debbano essere, non andandovi (e se
vi pur va, non vi si vede) alcuno altro che giovine e lieto. Quivi
gli animi aperti e liberi sono, e sono tante e tali le cagioni per le
quali ciò avviene, che appena alcuna cosa addimandata negare
vi si puote. In questi cosí fatti luoghi confesso io, per non
turbare le compagne, d'avere avuto viso coperto di falsa allegrezza,
senza avere ritratto l'animo da' suoi mali; la qual cosa quanto sia
malagevole a fare, chi lha provato ne può testimonianza
donare. E come potrei io nell'animo essere stata lieta ricordandomi
già e meco e senza me avere in simili diletti veduto il mio
Panfilo, il quale io sentiva da me oltremodo essere lontano, e oltre
a ciò senza speranza di rivederlo? Se a me non fosse stata
altra noia che la sollecitudine dell'animo, la quale me continuamente
teneva sospesa a molte cose, sí m'era ella grandissima, che è
egli a pensare che il fervente disio di rivederlo avesse sí di
me tolta la vera conoscenza, che, certamente sappiendo lui in quelle
parti non essere, pur possibile che vi fosse argomentassi, e come se
ciò fosse senza alcuna contraddizione vero, procedea a
riguardare se io il vedessi? Egli non vi rimaneva alcuna barca, delle
quali, quale in una parte volante e quale in un'altra, era cosí
il seno di quel mare ripieno come il cielo di stelle, qualora egli
appare piú limpido e sereno, che io, prima a quella con gli
occhi che con la persona, riguardando, non pervenissi. Io non sentiva
alcuno suono di qualunque strumento, quantunque io sapessi lui se non
in uno essere ammaestrato, che con gli orecchi levati non cercassi di
sapere chi fosse il sonatore, sempre imaginando quello essere
possibile d'essere colui il quale io cercava. Niuno lito, niuno
scoglio, niuna grotta da me non cercata vi rimaneva, né ancora
alcuna brigata. Certo io confesso che questa talora vana e talora
infinta speranza mi toglieva molti sospiri; la quale poi che da me
era partita, quasi come se nella concavità del mio cerebro
raccolti si fossero quelli che uscire doveano fuori, convertiti in
amarissime lagrime per li miei dolenti occhi spiravano. E cosí
le finte allegrezze in verissime angoscie si convertiano.
La nostra città, oltre a tutte l'altre italiche di lietissime
feste abondevole, non solamente rallegra li suoi cittadini o con
nozze o con bagni o con li marini liti, ma, copiosa di molti giuochi,
sovente ora con uno ora con un altro letifca la sua gente. Ma tra
l'altre cose nelle quali essa appare splendidissima, è nel
sovente armeggiare. Suole adunque essere questa a noi consuetudine
antica che, poi che i guazzosi tempi del verno sono trapassati e la
primavera con li fiori e con la nuova erba ha al mondo rendute le sue
perdute bellezze, essendo con questo li giovaneschi animi per la
qualità del tempo raccesi e piú che l'usato pronti a
dimostrare li loro disii, di convocare li dí piú
solenni alle logge de' cavalieri le nobili donne, le quali, ornate
delle loro gioie piú care, quivi s'adunano. Né credo
che piú nobile o ricca cosa fosse a riguardare le nuore di
Priamo con l'altre frigie donne, qualora piú ornate davanti al
suocero loro a festeggiare s'adunavano, che sono in piú luoghi
della nostra città le nostre cittadine a vedere; le quali poi
che alli teatri in grandissima quantità radunate si veggono,
ciascuna quanto il suo potere si stende dimostrandosi bella, non
dubito che qualunque forestiere intendente sopravvenisse, considerate
le contenenze altiere, li costumi notabili, gli ornamenti piuttosto
reali che convenevoli ad altre donne, non giudicasse noi non donne
moderne, ma di quelle antiche magnifiche essere al mondo tornate:
quella, per alterezza, dicendo Semiramís simigliare;
quell'altra, agli ornamenti guardando, Cleopatràs si
crederebbe; l'altra, considerata la sua vaghezza, sarebbe creduta
Elena; e alcuna, gli atti suoi bene mirando, in niente si direbbe
dissimigliare a Didone. Perché andrò io simigliandole
tutte? Ciascuna per se medesima pare una cosa piena di divina maestà,
non che d'umana. E io misera, prima che il mio Panfilo perdessi, piú
volte udii tra li giovini quistionare a quale io fossi piú da
essere assimigliata, o alla vergine Pulissena, o alla Ciprigna
Venere, dicenti alcuni di loro essere troppo assimigliarmi a dèa,
e altri rispondenti in contrario essere poco il simigliarmi a femina
umana.
Quivi tra cotanta e cosí
nobile compagnia non lungamente, si siede né vi si tace, né
mormora; ma stanti gli antichi uomini a riguardare, li chiari
giovini, prese le donne per le dilicate mani, danzando, con altissime
voci cantano i loro amori: e in cotal guisa con quante maniere di
gioia si possono divisare, la calda parte del giorno trapassano. E
poi che 'l sole ha cominciato a dare piú tiepidi li suoi raggi
si veggono quivi venire gli onorevoli prencipi del nostro Ausonico
regno in quell'abito, che alla loro magnificenza si richiede; li
quali, poi che alquanto hanno mirato e le bellezze delle donne e le
loro danze, quasi con tutti li giovini cosí cavalieri come
donzelli partendosi, dopo non lungo spazio in abito tutto al primo
contrario con :grandissima comitiva ritornano.
Quale lingua sí d'eloquenza splendida, o sí di vocaboli
eccellenti facunda sarebbe quella che interamente potesse li nobili
abiti e di varietà pieni interamente narrare? Non il greco
Omero, non il latino Virgilio, li quali tanti riti di Greci, di
Troiani e d'Italici già ne loro versi discrissero.
Lievemente adunque, a comparazione del vero, m'ingegnerò di
farne alcuna particella a quelle che non gli hanno veduti palese. E
ciò non fia nella presente materia dimostrato invano; anzi si
potrà per le savie comprendere la mia tristizia essere, oltre
a quella d'ogni altra donna preterita o presente, continua, poi la
dignità di tante e sí eccelse cose vedute non lhanno
potuta intrarompere con alcuno lieto mezzo. Dico, adunque, al
proposito ritornando, che li nostri prencipi sopra cavalli tanto nel
correre veloci, che non che gli altri animali, ma li venti medesimi,
qualunque piú si crede festino, di dietro correndo si
lascerieno, vengono, la cui giovinetta età, la speciosa
bellezza, e la virtú espettabile d'essi, graziosi li rende
oltre modo a' riguardanti. Essi di porpora o di drappi dalle indiane
mani tessuti con lavori di colori varii e d'oro intermisti, e oltre a
ciò soprapposti di perle e di care pietre, vestiti, e i
cavalli coverti, appariscono; de' quali i biondi crini penduli sopra
li candidissimi omeri, da sottiletto cerchiello d'oro, o da
ghirlandetta di fronda novella sono sopra la testa ristretti. Quindi
la sinistra un leggierissimo scudo, e la destra mano arma una lancia,
e al suono delle tostane trombe l'uno appresso l'altro, e seguiti da
molti, tutti in cotale abito cominciano davanti alle donne il giuoco
loro, colui lodando piú in esso, il quale con la lancia piú
vicino alla terra con la sua punta, e meglio chiuso sotto lo scudo,
senza muoversi sconciamente, dimora, correndo sopra il cavallo.
A queste cosí fatte feste e piacevoli giuochi, come io solea,
ancora, misera, sono chiamata; il che senza grandissima noia di me
non avviene, perciò che, queste cose mirando, mi torna a mente
d'avere già, intra li nostri piú antichi e per età
reverendi cavalieri, veduto sedere il mio Panfilo a riguardare, la
cui sufficienza alla sua età giovinetta impetrava sí
fatto luogo. E alcuna volta fu che, stante egli non altramente che
Daniello tra gli antichi sacerdoti ad essaminare l'accusata donna
intra li predetti cavalieri togati, de' quali per autorità
alcuno Scevola simigliava, e alcuno altro per la sua gravezza si
saria detto il censorino Catone, o l'Uticense, e alcuni sí nel
viso appariano orrevoli, che appena altramente si crede che fosse il
Magno Pompeo, e altri, piú robusti, fingono Scipione Africano
o Cincinnato, rimirando essi parimente il correre di tutti, e quasi
delli loro piú giovini anni rimemorandosi, tutti fremendo, or
questo or quell'altro commendavano, affermando Panfilo i detti loro;
al quale io alcuna volta, ragionando esso con essi, quanti ne
correvano udii gli antichi cosí giovini, come valorosi vecchi
assimigliare.
Oh quanto m'era ciò
caro ad udire, sí per colui che'l diceva, e sí per
quelli che ciò ascoltavano intenti, e sí per li miei
cittadini, de quali era detto! Certo tanto, che ancora m'è
caro il rammentarlo. Egli soleva delli nostri prencipi giovinetti, li
quali nelli loro aspetti ottimamente li reali animi dimostravano,
alcuno dire essere allo arcadio Partenopeo simigliante, del quale non
si crede che altro piú ornato all'assedio di Tebe venisse che
esso fu dalla madre mandato, essendo egli ancora fanciullo; l'altro
appresso il piacevole Ascanio parere confessava, del quale Virgilio
tanti versi, d'ottima testificanza del giovinetto descrisse; il terzo
comparando a Deifebo; il quarto per bellezza a Ganimede. Quindi alla
piú matura turba che loro seguiva vegnendo, non meno piacevoli
simiglianze donava. Quivi vegnente alcuno colorito nel viso, con
rossa barba e bionda chioma sopra gli omeri candidi ricadente, e non
altramente che Ercule fare solesse, ristretta da verde fronda in
ghirlandetta protratta assai sottile, vestite di drappi sottilissimi
serici, non occupanti piú spazio che la grossezza del corpo,
ornati di lavori varii fatti da maestra mano, con un mantello sopra
la destra spalla con fibula d'oro ristretto, e con iscudo coperto il
manco lato, portando nella destra un'asta lieve quale
all'apparecchiato giuoco conviensi, ne' suoi modi simile il diceva al
grande Ettore; appresso al quale traendosi un altro avanti in simile
abito ornato, e con viso non meno ardito, avendo del mantello l'un
lembo sopra la spalla gittatosi, con la sinistra maestrevolmente
reggendo il cavallo, quasi un altro Achille il .giudicava; seguendone
alcuno altro, pallando la lancia, e postergato lo scudo, li biondi
capelli avendo legati con sottile velo forse ricevuto dalla sua
donna, Protesilao gli si udia chiamare; quindi seguendone un altro
con leggiadro cappelletto sopra i capelli, bruno nel viso, e con
barba prolissa, e nell'aspetto feroce, nomava Pirro; e alcuno piú
mansueto nel viso, biondisimo e pulito, e piú che altro
ornatissimo, lui credere il troiano París, o Menelao dicea
possibile. Egli non è di necessità il piú in ciò
prolungare la mia novella: egli nella lunghissima schiera mostrava
Agamennone, Aiace, Ulisse, Diomedes, e qualunque altro Greco, Frigio
o Latino fu degno di laude. Né poneva a beneplacito cotali
nomi, anzi con ragioni accettevoli fermando li suoi argomenti sopra
le maniere de' nominati, loro debitamente assimigliati mostrava; per
che, non era l'udire cotali ragionamenti meno dilettevole, che il
vedere coloro medesimi di cui si parlava.
Essendo adunque la lieta schiera due o tre volte, cavalcando con
piccolo passo, dimostratasi a' circustanti, cominciavano i loro
aringhi; e diritti sopra le staffe, chiusi sotto gli scudi, con le
punte delle lievi lance tuttavia igualmente portandole quasi rasente
terra, velocissimi piú che aura alcuna, corrono i loro
cavalli; e l'aere essultante per le voci del popolo circustante, per
li molti sonagli, per li diversi strumenti, e per la percossa del
riverberante mantello del cavallo e di sé, a meglio e piú
vigoroso correre li rinfranca. E cosí tutti veggendoli, non
una volta ma molte, degnamente ne cuori de' riguardanti si
rendono laudevoli. Oh quante donne, quale il marito, quale l'amante,
quale lo stretto parente veggendo tra questi, ne vidi già piú
fiate sommissimamente rallegrare! Certo assai e non che esse, ma
ancora le strane. Io sola, ancora che l mio marito vi vedessi o
vi veggia, e con esso i miei parenti, dolente li riguardava, Panfilo
non veggendovi, e lui essere lontano ricordandomi. Deh, or non è
questa mirabile cosa, o donne, che ciò ch'io veggio mi sia
materia di doglia né mi possa rallegrare cosa alcuna? Deh,
quale anima è in inferno con tanta pena, che, queste cose
veggendo non dovesse sentire allegrezza? Certo niuna, credo. Esse
pur, prese dalla piacevolezza della cetara d'Orfeo, obliarono per
alquanto spazio le pene loro; ma io tra mille strumenti, tra infinite
allegrezze, e in molte e varie maniere di feste, non posso la mia
pena, non che dimenticare, ma solamente un poco alleviare.
E posto che io alcuna volta a queste feste o a simiglianti con
infinto viso la celi, e dea sosta a' sospiri, la notte poi, o qualora
soletta trovandomi prendo spazio, non perdona parte delle sue
lagrime, anzi piú tante ne verso, quanti per avventura ho il
giorno risparmiati sospiri. E inducendomi queste cose in piú
pensieri, e massimamente in considerare la loro vanità, piú
possibile a nuocere che a giovare, si come io manifestamente,
provandolo, conosco, alcuna volta, finita la festa e da quella
partitami, meritamente contra alle mondane apparenze crucciandomi,
cosí dissi:
- Oh, felice
colui il quale innocente dimora nella solitaria villa, usando
l'aperto cielo! Il quale, solamente conoscendo di preparare maliziosi
ingegni alle selvatiche fiere, e lacciuoli a semplici uccelli,
da affanno nell'animo essere stimolato non puote, e se grave fatica
per avventura nel corpo sostiene, incontanente sopra la fresca erba
riposandosi la ristora, tramutando ora in questo lito del corrente
rivo, e ora in quell'altra ombra dell'alto bosco li luoghi suoi, ne'
quali ode i queruli uccelli fremire con dolci canti, e i rami
tremanti e mossi da lieve vento, quasi fermo tenenti alle loro note!
Deh, cotale vita, o Fortuna, avessi tu a me conceduta, alla quale le
tue disiderate larghezze sono di sollecitudine assai dannosa! Deh, a
che mi sono utili gli alti palagi, i ricchi letti e la molta
famiglia, se l'animo da ansietà è occupato, errando per
le contrade da lui non conosciute dietro a Panfilo, non concedendo a
lassi membri quiete alcuna?
Oh come
è dilettevole, e quanto è grazioso con tranquillo e
libero animo il priemere le ripe de trascorrenti fiumi, e sopra i
nudi cespiti menare li lievi sonni, li quali il fuggente rivo con
mormorevoli suoni e dolci senza paura nutrica! Questi senza alcuna
invidia sono conceduti al povero abitante le ville, molto piú
da disiderare che quelli, li quali, allettati con piú
lusinghe, sovente o da pronte sollecitudini cittadine o da strepiti
di tumultuante famiglia sono rotti. La costui fame, se forse alcuna
volta lo stimola, li còlti pomi nelle fedelissime selve
raccolti la scacciano, e le nuove erbette di loro propria volontà
fuori della terra uscite sopra li piccoli monti ancora gli ministrano
saporosi cibi. Oh quanto gli è, a temperare la sete, dolce
l'acqua della fonte presa e del rivo con concava mano. Oh infelice
sollecitudine de' mondani, a sostentamento de' quali la natura
richiede e apparecchia leggierissime cose! Noi nellinfinita
multitudine di cibi la sazietà del corpo crediamo compiere,
non accorgendoci in quelli essere le cagioni nascose, per le quali
gli ordinati omori spesse volte sono piuttosto corrotti che
sostentati; e alli lavorati beveraggi apprestando l'oro e le cavate
gemme, sovente in essi veggiamo gustare li veleni frigidissimi, e se
non questi, almeno Venere pur si bee; e talvolta per quelli a sicurtà
soperchia si viene, per la quale, o con parole o con fatti, misera
vita o vituperevole morte s'acquista. E spesse volte ancora avviene
che, molti di quelli avendo bevuti, assai peggio che insensato corpo
n'è renduto il bevitore. A costui li Satiri, li Fauni, le
Driadi, le Naiadi, le Ninfe fanno semplice compagnia; costui non sa
che si sia Venere né il suo biforme figliuolo, e se pur la
conosce, rozzissima sente la forma sua, e poco amabile.
Deh, or fosse stato piacere d'Iddio, che io similmente mai conosciuta
l'avessi, e da semplice compagnia visitata, rozza mi fossi vivuta! Io
sarei lontana da queste insanabili sollecitudini che io sostengo, e
l'anima insieme con la mia fama santissime non curerebbero di vedere
le mondane feste simili al vento che vola, né da quelle vedute
avrebbero angoscie come io ho. A costui non l'alte torri, non
l'armate case, non la molta famiglia, non i dilicati letti, non i
risplendenti drappi, non i correnti cavalli, non centomilia altre
cose involatrici della miglior parte della vita, sono cagione
d'ardente cura. Questi, de malvagi uomini, non cercanti ne'
luoghi rimoti e oscuri li furti loro, vive senza paura; e, senza
cercare nell'altissime case i dubbiosi riposi, l'aere e la luce
dimanda, e alla sua vita è il cielo testimonio. Oh, quanto è
oggi cotale vita male conosciuta, e da ciascuno cacciata come nemica,
dove piuttosto dovrebbe essere, come carissima, cercata da tutti!
Certo io arbitro che in cotale maniera vivesse la prima età!
la quale insieme gli uomini e gliddii produceva. Ohimè!
niuna è piú libera né senza vizio o migliore che
questa, la quale li primi usarono e che colui ancora oggi usa, il
quale, abandonate le città, abita nelle selve. Oh felice il
mondo, se Giove mai non avesse cacciato Saturno! e ancora l'età
aurea durasse sotto caste leggi! Però che tutti alli primi
simili viveremmo. Ohimè! che chiunque è colui li primi
riti servante, non è nella mente infiammato dal cieco furore
della non sana Venere, come io sono né è colui che sé
dispose ad abitare ne' colli de' monti, suggetto ad alcuno regno: non
al vento del popolo non allinfido vulgo non alla pestilenziosa
invidia, né ancora al favore fragile di fortuna, al quale io
troppo fidandomi, in mezzo l'acque per troppa sete perisco. Alle
piccole cose si presta alta quiete, come che grandissimo fatto sia
senza le grandi potere sostenere di vivere. Quegli che alle
grandissime cose soprasta, o disidera soprastare, séguita li
vani onori delle trascorrenti ricchezze; e certo le piú volte
alli falsi uomini piacciono gli alti nomi; ma quegli è libero
da paura e da speranza, né conosce il nero 'lividore
dellinvidia divoratrice e mordente con dente iniquo, che abita
le solitarie ville, né sente gli odii varii, né gli
amori incurabili, né li peccati de popoli mescolati alle
cittadi, né, come conscio, di tutti gli strepiti ha dottanza,
né gli è a cura il comporre fittizie parole, le quali
lacci sono ad irretire gli uomini di pura fede: ma quell'altro,
mentre sta eccelso, mai non è senza paura, e quello medesimo
coltello, che arma il lato suo, teme.
Oh quanto buona cosa è a niuno resistere, e sopra la terra
giacendo, pigliare li cibi sicuro! Rade volte, o non mai, entrano li
peccati grandissimi nelle piccole case. Alla prima età niuna
sollecitudine d'oro fu, né niuna sacrata pietra fu arbitra a
dividere i campi alli primi popoli. Essi con ardita nave non secavano
il mare; solamente ciascuno si conoscea li liti suoi, né li
forti steccati, né li profondi fossi, né l'altissime
mura con molte torri cignevano i lati delle città loro, né
le crudeli armi erano acconce né trattate da cavalieri,
né era alcuno edificio che con grave pietra rompesse le
serrate porte; e se forse tra loro era alcuna piccola guerra, la mano
ignuda combatteva, e li rozzi rami degli alberi e le pietre si
convertivano in armi. Né ancora era la sottile e lieve asta di
cornio armata di ferro nell'acuto spuntone, né la tagliente
spada cigneva lato alcuno, né la comante cresta ornava i
lucenti elmi; e quello che piú e meglio era a costoro, era
Cupido non essere ancora nato, per la qual cosa li casti petti, poi
da lui pennuto e per lo mondo volante stimolati, potevano vivere
sicuri.
Deh, or m'avesse Iddio
donata a cotal mondo, la gente del quale, di poco contenta e di
niente temente, sola selvatica libidine conosceva! E se niuno di
cotanti beni quanti essi possedevano non me ne fosse seguito, altro
che non aver cosí affannoso amore e cotanti sospiri sentito,
come io sento, sí sarei io da dire piú felice che quale
io sono ne presenti secoli pieni di tante delizie, di tanti
ornamenti e di cotante feste. Ohimè! Che l'empio furore del
guadagnare, e la strabocchevole ira, e quelle menti, le quali la
molesta libidine di sé accese, ruppero li primi patti cosí
santi, cosí agevoli a sostenere, dati dalla natura alle sue
genti. Venne la sete del signoreggiare, peccato pieno di sangue, e il
minore diventò preda del maggiore, e le forze si diedero per
leggi, venne Sardanapallo, il quale Venere, ancora che dissoluta da
Semiramis fosse fatta, primieramente la fe' dilicata, dando a Cerere
e a Bacco forme ancora da loro non conosciute; venne il battaglievole
Marte, il quale trovò nuove arti e mille forme alla morte, e
quinci le terre tutte si contaminarono di sangue, e il mare
similmente ne diventò rosso. Allora senza dubbio li gravissimi
peccati entrarono per tutte le case, e niuna grave sceleratezza in
brieve fu senza essemplo: il fratello dal fratello, il padre dal
figliuolo, il figliuolo dal padre furono uccisi; e il marito giacque
per lo colpo della moglie; e l'empie madri hanno piú volte li
loro medesimi parti morti. La rigidezza delle matrigne ne
figliastri non dico, ché è manifesta ciascuno giorno.
Le ricchezze adunque, avarizia, superbia, invidia e lussuria, e ogni
altro vizio parimente seco recarono; e con le predette cose ancora
entrò nel mondo il duca e facitore di tutti li mali, e
artefice de peccati, il dissoluto amore, per li cui assediamenti
degli animi, infinite città cadute e arse ne fumano, e senza
fine genti ne fanno sanguinose battaglie, e fecero; e li sommersi
regni ancora priemono molti popoli. Ohimè! tacciansi tutti gli
altri suoi pessimi effetti, e quelli li quali egli usa in me siano
soli essempli de' suoi mali e della sua crudeltà, la quale sí
agramente mi stringe, che a niuna altra cosa che a lei posso volgere
la mente mia.
Queste cose cosí
fra me ragionate, alcuna volta, pensando che le cose da me operate
siano appo Iddio gravi molto, e le pene a me senza comparazione
noiose, hanno forza d'alleviare alquanto le mie angoscie, in quanto
li molto maggiori mali già per altrui operati, me quasi
innocente fanno apparere, e le pene da altrui sostenute, benché
io non creda da nessuno cosí gravi come da me, pur veggendomi
non essere prima né sola, alquanto piú forte divengo a
comportarle; alle quali io sovente priego Iddio che, o con morte o
con la tornata di Panfilo, ponga fine.
A cosí fatta vita e a piggiore mha la fortuna lasciata
consolazione cosí piccola, come udite; né intendiate
consolazione che me di dolore privi, sí come l'altre suole:
essa solamente alcuna volta gli occhi toglie dal lagrimare senza piú
prestarmi de suoi beni. Seguitando adunque le mie fatiche, dico
che, con ciò sia cosa che io per addietro tra l'altre giovini
della mia città di bellezze ornatissima, quasi niuna festa
solea, che alli divini templi si facesse, lasciare, né alcuna
bella senza me ne reputavano li cittadini; le quali feste vegnendo, a
quelle mi solevano sollecitare le serve mie, e ancora esse, l'antico
ordine osservando, apparecchiati li nobili vestimenti, alcuna volta
mi dicono:
- O donna, adórnati;
venuta è la solennità di cotale tempio, la quale te
sola aspetta per compimento.
Ohimè!
che egli mi torna a mente che io alcuna volta a loro furiosa rivolta,
non altramente che l'addentato cinghiaro alla turba de cani, a loro
rispondeva turbata, e con voce d'ogni dolcezza vòta, già
dissi:
- Via, vilissima parte della
nostra casa, fate lontani da me questi ornamenti: brieve roba basta a
coprire gli sconsolati membri, né piú alcuno tempio né
festa per voi a me si ricordi, se la mia grazia v'è
cara.
Oh, quante volte già,
come io udii, furono quelli da molti nobili visitati, li quali piú
per vedermi, che per divozione alcuna venuti, non veggendomi, turbati
si tornavano indietro, nulla dicendo senza me valere quella festa! Ma
come che io cosí le rifiuti, pure alcuna volta, in compagnia
delle mie nobili compagne, me le conviene costretta vedere, con le
quali io semplicemente e di feriali vestimenti vestita vi vado, e
quivi non i solenni luoghi, come già feci, cerco, ma,
rifiutando li già voluti onori, umile, ne piú bassi
luoghi tra le donne m'assetto; e quivi diverse cose, ora dall'una ora
dall'altra ascoltando con doglia nascosa quanto io piú posso,
passo quello tempo che io vi dimoro. Ohimè! quante volte già
mho io udito dire assai d'appresso:
- Oh, quale maraviglia è questa! Questa donna, singulare
ornamento della nostra città, cosí rimessa e umile è
divenuta? Qual divino spirito lha spirata? Ove le nobili robe?
Ove gli altieri portamenti? Ove le mirabili bellezze si sono
fuggite?
Alle quali parole, se
licito mi fosse stato, avrei volontieri risposto: "Tutte queste
cose, con molte altre piú care, se ne portò Panfilo
dipartendosi".
Quivi ancora
dalle donne intorniata, e da diverse domande trafitta, a tutte con
infinto viso mi conviene satisfare. L'una con cotali voci mi
stimola:
- O Fiammetta, senza fine
di te me e l'altre donne fai maravigliare, ignorando quale sia stata
sí súbita la cagione che le preziose robe hai lasciate
e li cari ornamenti, e laltre cose dicevoli alla tua giovine
etade; tu, ancora fanciulla, in sí fatto abito andare non
dovresti. Non pensi tu che, lasciandolo ora, per innanzi ripigliar
nol potrai? Usa gli anni secondo la loro qualità. Questo abito
di tanta onestade da te preso non ti falla per innanzi. Vedi qui
qualunque di noi, piú di te attempate, ornate con maestra
mano, e d'artificiali drappi e onorevoli vestite, e cosí tu
similemente dovresti essere ornata.
A costei e a piú altre aspettanti le mie parole rendo io con
umile voce cotale risposta:
-
Donne, o per piacere a Dio o agli uomini si viene a questi templi. Se
per piacere a Dio ci si viene, l'anima ornata di virtú basta,
né forza fa, se il corpo di cilicio fosse vestito; se per
piacere agli uomini ci si viene, con ciò sia cosa che la
maggior parte, da falso parere adombrati per le cose esteriori
giudichino quelle dentro, confesso che gli ornamenti usati e da voi e
da me per addietro, si richieggiono. Ma io di ciò non ho cura,
anzi, dolente delle passate vanità, volonterosa d'ammendare
nel cospetto d'Iddio, mi rendo quanto posso dispetta agli occhi
vostri.
E quinci le lagrime
dallintrinseca verità cacciate per forza fuori mi
bagnano il mesto viso, e con tacita voce cosí con meco
medesima dico:
"O Iddio,
veditore de nostri cuori, le non vere parole dette da me non
m'imputare in peccato. Come tu vedi, non volontà d'ingannare,
ma necessità di ricoprire le mie angoscie a quelle mi strigne,
anzi piuttosto merito me ne rendi, considerando che'l malvagio
essemplo levando, alle tue creature il do buono: egli m'è
grandissima pena il mentire, e con faticoso animo la sostengo, ma piú
non posso".
Oh quante volte, o
donne, ho io per questa iniquità pietose laude ricevute,
dicendo le circustanti donne me divotissima giovine di vanissima
ritornata! Certo, io intesi piú volte di molte essere
oppinione, me di tanta amicizia essere congiunta con Dominedio, che
niuna grazia a lui da me dimandata, negata sarebbe; e piú
volte ancora dalle sante persone per santa fui visitata, non
conoscendo esse quel che nell'animo nascondea il tristo viso, e
quanto li miei disiderii .fossero lontani alle mie parole. O
ingannevole mondo, quanto possono in te glinfinti visi piú
che li giusti animi, se l'opere sono occulte! Io, piú
peccatrice che altra, dolente per li miei disonesti amori, però
che quelli velo sotto oneste parole, sono reputata santa; ma
conoscelo Iddio, che, se senza pericolo essere potesse, io con vera
voce di me sgannerei ogni ingannata persona, né celerei la
cagione che trista mi tiene; ma non si puote.
Come io ho a quella, che prima addimandata m'avea, risposto, l'altra
dal mio lato, veggendo le mie lagrime rasciugare, dice:
- O Fiammetta, dov'è fuggita la vaga bellezza del viso tuo?
Dove l'acceso colore? Quale è la cagione della tua palidezza?
Gli occhi tuoi, simili a due mattutine stelle, ora intorniati di
purpureo giro, perché appena nella tua fronte si scernono? E
gli aurei crini con maestrevole mano ornati per addietro, ora perché
chiusi appena si veggono senza alcuno ordine? Dilloci, tu ne fai
senza fine maravigliare.
Da questa
con poche parole sciogliendomi, dico:
- Manifesta cosa è l'umana bellezza essere fiore caduco e da
un giorno ad un altro venire meno, la quale se di sé dà
fidanza ad alcuna, miseramente a lungo andare se ne trova prostrata.
Quegli che la mi diede, con sordo passo sottomettendomi le cagioni da
cacciarla! se lha ritolta, possibile a renderlami, quando gli
pur piacesse.
E questo detto, non
potendo le lagrime ritenere, chiusa sotto il mio mantello,
copiosamente le spando, e meco con cotali parole mi dolgo:
"O bellezza, dubbioso bene de mortali, dono di piccolo tempo, la
quale piú tosto vieni e pàrtiti, che non fanno ne'
dolci tempi della primavera i piacevoli prati risplendenti di molti
fiori, e gli eccelsi alberi carichi di varie frondi, li quali, ornati
dalla virtú d'Ariete, dal caldo vapor della state sono guasti
e tolti via; e se forse alcuni pure ne risparmia il caldo tempo,
niuno dall'autunno è risparmiato; cosí e tu, bellezza,
le piú volte nel mezzo de migliori anni da molti
accidenti offesa perisci, alla quale, se forse pure ti perdona la
giovinezza, la matura età a forza te resistente ne porta O
bellezza, tu se' cosa fugace, non altramente che l'onde mai non
tornanti alle sue fonti, e in te fragile bene niuno savio si dee
confidare. Ohimè! quanto già t'amai, e quanto a me
misera fosti cara, e con sollecitudine riguardata! Ora, e
meritamente, ti maladico. Tu prima cagione de miei danni, e
prenditrice prima dell'animo del caro amante, lui non hai avuto forza
di ritenere, né lui partito di rivocare. Se tu non fossi
stata, io non sarei piaciuta agli occhi vaghi di Panfilo; e, non
essendo piaciuta, egli non si sarebbe ingegnato di piacere alli miei;
e non essendo egli piaciuto, sí come piacque, ora non avrei
queste pene. Dunque tu sola cagione e origine se' d'ogni mio male.
Oh, beate quelle che senza te li rimproveri della rustichezza
sostengono! Esse caste le sante leggi osservano, e senza stimoli
possono vivere con l'anime libere dal crudele tiranno Amore; ma tu a
noi cagione di continuo infestamento ricevere da chi ci vede, a forza
ci conduci a rompere quello che piú caramente si dee guardare.
O felice Spurinna e degno d'etterna fama, il .quale, li tuoi effetti
conoscendo, nel fiore della sua gioventude da sé con mano
acerba ti discacciò eleggendo piuttosto volere da' savii per
virtuosa opera essere amato, che dalle lascive giovini per la sua
concupiscevole bellezza. Ohimè! cosí avessi fatto io!
Tutti questi dolori, questi pensieri e queste lagrime sarebbero
lontane, e la vita per addietro corrotta ancora ne' termini primi
laudevoli si sarebbe".
Quinci
mi richiamano le donne, e biasimano le mie soperchie lagrime,
dicendo:
- O Fiammetta, che maniera
è questa? Disperiti tu della misericordia di Dio? Non credi tu
lui pietoso a perdonarti le tue piccole offese senza tante lagrime?
Questo che tu fai è piuttosto cercare morte che perdono. Lieva
su, asciuga il viso tuo, e attendi al sacrificio pòrto al
sommo Giove dalli nostri sacerdoti.
A queste voci io, le lagrime restrignendo, alzo la testa, la quale
già in giro non volgo come io soleva, fermamente sappiendo che
quivi non è il mio Panfilo ,per mirarlo, né per vedere
se da altrui, o da cui sono mirata, o quello che di me pare agli
occhi de circustanti; anzi attenta a colui, che per la salute
di tutti diede se medesimo; porgo pietosi prieghi per lo mio Panfilo,
e per la sua tornata, con cotali parole tentandolo:
- O grandissimo rettore del sommo cielo e generale arbitro di tutto
il mondo, poni oramai alle mie gravi fatiche modo, e fine alli miei
affanni. Vedi niuno giorno a me essere sicuro; continuamente il fine
dell'uno male è a me principio dell'altro. Io, che già
mi dissi felice, non conoscendo le mie miserie, prima ne vani
affanni d'ornare la mia giovinezza, piú che l debito
ornata dalla natura, te non sapevole offendendo, per penitenza
allindissolubile amore che ora mi stimola mi sottoponesti;
quinci la mente non usa a cosí gravi affanni riempiesti per
quello di nuove cure, e ultimamente colui, cui io piú che me
amo, da me dividesti, onde infiniti pericoli sono cresciuti l'uno
dopo l'altro alla mia vita. Deh, se li .miseri sono da te uditi
alcuna volta, porgi li tuoi pietosi orecchi alli miei prieghi, e
senza guardare a' molti falli da me verso te commessi, i pochi beni,
se mai ne feci alcuno, benigno considera, e in merito di quelli le
mie orazioni e preghiere essaudisci, le quali, cose a te assai
leggiere, e a me grandissime, conterranno: io non ti cerco altro, se
non che a me sia renduto il mio Panfilo. Ohimè! quanto e come
conosco bene questa preghiera nel cospetto di te giustissimo giudice
essere ingiusta!
Ma dalla tua
giustizia medesima si dee muovere il meno male piuttosto volere che
'l maggiore. A te, a cui niente s'occulta, è manifesto a me
per niuna maniera potere uscire della mente il grazioso amante né
li preteriti accidenti, del quale e de quali la memoria a sí
fatto partito mi rieca con gravi dolori, che già per fuggirli
mille modi di morte ho dimandati; li quali tutti un poco di speranza,
che di te m'è rimasa, mha levati di mano. Dunque, se
minore male è il mio amante tenere, come io già tenni,
che insieme il corpo uccidere con l'anima trista, sí come io
credo, torni e rendamisi. Sieti piú caro li peccatori vivere,
e possibili a te conoscere! che morti, senza speranza di redenzione,
e vogli innanzi parte che tutto perdere delle creature da te
create.
E se questo è grave
ad essermi conceduto, concedamisi quella che d'ogni male è
ultimo fine, prima che io costretta da maggiore doglia, da me con
diterminato consiglio la prenda. Vengano le mie voci nel tuo
cospetto; le quali se te toccare non possono, o qualunque altri iddii
tenenti le celestiali regioni s'alcuno di voi vi si trova, il quale
mai quaggiú vivendo, quell'amorosa fiamma provasse la quale io
pruovo, ricevetele, e per me le porgete a colui, il quale da me non
le prende, si che impetrandomi grazia, prima quaggiú
lietamente, e poi nella fine de miei giorni costassú con
voi io possa vivere, e innanzi tratto alli peccatori dimostrare
convenevole l'uno peccatore all'altro perdonare, e dare aiuto.
Queste parole dette, odorosi incensi e degne offerte, per farli abili
a' prieghi miei e alla salute di Panfilo, pongo sopra li loro altari;
e, finite le sacre cerimonie, con l'altre donne partendomi, torno
alla trista casa.
Capitolo VI.
Nel quale Madonna Fiammetta, avendo sentito Panfilo non aver moglie presa, ma d'altra donna essere innamorato, e però non tornare, dimostra come ad ultima disperazione, volendosi uccidere, ne venisse.
Quale voi avete potuto comprendere, pietosissime donne, per le cose
davanti dette, è stata nelle battaglie d'amore la vita mia, e
ancora assai peggiore; la quale certo a rispetto della futura forse
non ingiustamente si potrebbe dire dilettevole, bene pensando. Io,
ancora paurosa ricordandomi di quello a che egli ultimamente mi
condusse e quasi ancora tiene, per più prendere indugio di
pervenirvi, sì perché del mio furore mi vergogno, e sì
perché, scrivendolo, inin esso mi parrà rientrare, con
lenta mano, le cose men gravi, distendendomi molto, n'ho scritte; ma
ora, più non potendo a quelle fuggire, tirandomi l'ordine del
mio ragionare, paurosa vi pur verrò. Ma tu, o santissima
pietà, abitante ne' dilicati petti delle morbide giovini,
reggi li tuoi freni in quelli con più forte mano che infino a
qui non hai fatto, acciò che trascorrendo, e di te più
parte che 'l convenevole dando, non forse di quello che io cerco ti
convertissi in contrario, e di grembo togliessi alle leggenti donne
le lagrime mie.
Egli era già
un'altra volta il sole tornato nella parte del cielo, che si cosse
allora che male li suoi carri guidò il presuntuoso figliuolo,
poi che Panfilo fu da me partito; e io misera per lunga usanza aveva
apparato a sostenere li dolori, e più temperatamente mi doleva
che l'usato, né credeva che più si potesse durare di
male, che quello che io durava, quando la fortuna, non contenta de'
danni miei, mi volle mostrare ch'ancora più amari veleni aveva
che darmi. Avvenne, adunque, che de' paesi di Panfilo alle nostre
case tornò un nostro carissimo servidore, il quale da tutti, e
massimamente da me, graziosamente fu ricevuto. Questi, narrando i
casi suoi e le vedute cose, mescolando le prospere con l'avverse, per
avventura gli venne Panfilo ricordato; del quale molto lodandosi,
ricordando l'onore da lui ricevuto, me nell'ascoltare faceva
contenta, e appena poté la ragione la volontà
raffrenare di correre ad abbracciarlo, e del mio Panfilo dimandare
con quell'affezione che io sentiva; ma pure ritenendomi, e quello
essendo dello stato di lui dimandato da molti, e avendo bene essere
di lui a tutti risposto, io sola il dimandai con viso lieto, quello
che egli faceva e se suo intendimento era di tornarci, alla quale
egli così rispose:
-
Madonna, e a che fare tornerebbe qua Panfilo? Niuna più bella
donna è nella terra sua, la quale oltre ad ogni altra è
di bellissime copiosa, che quella la quale lui ama sopra tutte le
cose, per quello che io da alcuno intendessi; ed egli, secondo che io
credo, ama lei; altramente io il reputerei folle, dove per addietro
savissimo l'ho tenuto.
A queste
parole mi si mutò il cuore, non altramente che ad Oenone sopra
gli alti monti d'Ida aspettante, veggendo la greca donna col suo
amante venire nella nave troiana; e appena ciò nel viso
nascondere potei, avvegna che io pur lo facessi, e con falso riso
dissi:
- Certo tu di' il vero:
questo paese a lui male grazioso, non gli poté concedere per
amanza una donna alla sua virtù debita; però se colà
l'ha trovata, saviamente fa, se con lei si dimora. Ma dimmi con che
animo sostiene ciò la sua novella sposa?
Egli allora rispose:
- Niuna sposa
è a lui; e quella, la quale non ha lungo tempo ne fu detto che
venne nella sua casa, non a lui, ma al padre è vero che
venne.
Mentre che egli queste
parole da me ascoltato diceva, io d'una angoscia uscita ed entrata in
un'altra molto maggiore, da ira sùbita stimolata e da dolore,
così il tristo cuore si cominciò a dibattere, come le
preste ali di Progne, qualora vola più forte, battono i
bianchi lati; e li paurosi spiriti non altramente mi cominciarono per
ogni parte a tremare, che faccia il mare da sottile vento ristretto
nella sua superficie minutamente, o li pieghevoli giunchi lievemente
mossi dall'aura; e cominciai a sentire le forze fuggirsi via. Per che
quindi, come più acconciamente potei, nella mia camera mi
ricolsi.
Partita adunque dalla
presenza d'ogni uomo, non prima sola in quella pervenni, che per gli
occhi, non altramente che vena che pregna sgorghi nell'umide valli,
amare lagrime cominciai a versare, e appena le voci ritenni dagli
alti guai, e sopra al misero letto de' nostri amori testimonio,
volendo dire "O Panfilo, perché m'hai tradita?", mi
gittai, ovvero piuttosto caddi supina, e nel mezzo della loro via
furono rotte le mie parole, sì sùbito alla lingua e
agli altri membri furono le forze tolte; e quasi morta, anzi morta da
alcune creduta, quivi per lunghissimo spazio fui guardata; né
valse a farmi tornare la vita errante ne' suoi luoghi di fisico
alcuno argomento.
Ma poi che la
trista anima, la quale piagnendo più volte li miseri spiriti
aveva per partirsi abbracciati, pure si rifermò
nell'angoscioso corpo, le sue forze rivocate di fuori sparse, agli
occhi miei ritornò il perduto lume; e alzando la testa, sopra
me vidi più donne, le quali con pietoso servigio piagnendo,
con preziosi liquori m'aveano tutta bagnata; e più altri
strumenti vidi atti a cose varie a me vicini; onde io de' pianti
delle donne e delle cose ebbi non piccola maraviglia; e poi che il
potere parlare mi fu conceduto, qual fosse la cagione di quelle cose
esser quivi addimandai; ma alla mia dimanda rispose una di loro, e
disse:
- Per ciò qui quelle
cose erano venute, per fare in te la smarrita anima ritornare.
Allora, dopo un lungo sospiro, con fatica dissi:
- Ohimè! con quanta pietà crudelissimo oficio operavate
voi contrario alla mia volontà! Credendomi servire, disservita
m'avete; e l'anima, disposta a lasciare il più misero corpo
che viva, sì com'io veggio, meco a forza ritenuta avete.
Ohimè! che egli è assai che niuna cosa da me né
da altrui con pari affezione fu disiata come da me quella che voi
m'avete negato; io, già disciolta da queste tribulazioni,
vicina era al mio disio, e voi me n'avete tolta.
Varii conforti dalle donne dati seguirono queste parole; ma di quelli
l'operazioni furono vane. Io m'infinsi riconfortata, e nuove cagioni
diedi al misero accidente, acciò che, partendosi quelle, luogo
mi rimanesse a dolermi. Ma poi che di loro alcuna si fu partita, e
all'altre fu dato commiato, essendo io quasi lieta nell'aspetto
tornata, sola con la mia antica balia e con la consapevole serva de'
danni miei quivi rimasi, delle quali ciascuna alla mia vera infermità
porgeva confortevoli unguenti, da doverla guarire, se ella non fosse
mortale. Ma io l'animo avendo solamente alle parole udite,
subitamente nemica divenuta d'una di voi, o donne, non so di quale,
gravissime cose cominciai a pensare, e il dolore, che tutto dentro
stare non poteva, con rabbiosa voce in cotal guisa fuori del tristo
petto sospinsi:
- O iniquo giovine,
o di pietà nemico, o più che altro pessimo Panfilo il
quale ora, me misera avendo dimenticata, con nuova donna dimori,
maladetto sia il giorno che io prima ti vidi, e l'ora, e 'l punto nel
quale tu mi piacesti! Maladetta sia quella dèa che,
apparitami, me, fortemente resistente ad amarti, rivolse con le sue
parole dal giusto intendimento! Certo io non credo che essa fosse
Venere, ma piuttosto in forma di lei alcuna infernal furia, me non
altramente empiente d'insania, che facesse il misero Atamante. O
crudelissimo giovine, da me tra molti nobili e belli e valorosi solo
eletto pessimamente per lo migliore, ove sono ora li prieghi, li
quali tu più volte a me per iscampo della tua vita piagnendo
porgesti, affermando quella e la tua morte stare nelle mie mani? Ove
sono ora li pietosi occhi co' quali a tua posta, misero, lagrimavi?
Ove è ora l'amore a me mostrato? Ove le dolci parole? Ove li
gravi affanni ne' miei servigi profferti? Sono essi del tutto della
tua memoria usciti? O haigli nuovamente adoperati ad irretire la
presa donna?
Ahi maladetta sia la
mia pietà, la quale quella vita da morte prosciolse, che di sé
facendo lieta altra donna, la mia dovea recare a morte oscura! Ora
gli occhi, che nella mia presenza piagnevano, davanti alla nuova
donna ridono, e il mutato cuore ha ad essa rivolte le dolci parole e
le profferte. Ohimè! dove sono ora, o Panfilo, gli spergiurati
iddii? Dove la promessa fede? Dove le infinte lagrime, delle quali io
gran parte miseramente bevvi, pietose credendole, ed esse erano piene
del tuo inganno? Tutte queste cose nel seno della nuova donna
rimesse, con teco insieme m'hai tolte.
Ohimè! quanto mi fu già grave udendo te per giunonica
legge dato ad altra donna! Ma sentendo che li patti da te a me donati
non erano da preporre a quelli, posto che faticosamente il portassi,
pur vinta dal giusto dolore, con meno angoscia il sostenea. Ma ora,
sentendo che per quelle medesime leggi, per le quali tu a me se'
stretto, tu ti sii, a me togliendoti, dato ad altra donna, m'è
importabile supplicio a sostenere. Ora le tue dimoranze conosco, e
similmente la mia semplicità, con la quale sempre te dovere
tornare ho creduto, se tu avessi potuto. Ohimè! ora
abbisognavanti, o Panfilo, tante arti ad ingannarmi? Perché li
giuramenti grandissimi e la fede interissima così mi porgevi,
se d'ingannarmi per cotal modo intendevi? Perché non ti
partivi tu senza commiato cercare, o senza promessa alcuna di
ritornare? Io, come tu sai, fermissimamente t'amava, ma io non
t'aveva perciò in prigione, che tu a tua posta senza le
infinte lagrime non ti fossi potuto partire. Se tu così avessi
fatto, io mi sarei senza dubbio di te disperata, subitamente
conoscendo il tuo inganno, e ora, o morte o dimenticanza averebbe
finiti li miei tormenti; li quali tu, acciò che fossero più
lunghi, vana speranza donandomi, nutricare li volesti; ma questo non
aveva io meritato.
Ohimè!
come mi furono già le tue lagrime dolci! Ma ora conoscendo il
loro effetto, mi sono amarissime ritornate. Ohimè! se Amore
così fieramente ti signoreggia, come egli fa me, non t'era
egli assai una volta essere stato preso, se di nuovo la seconda
incappare non volevi? Ma che dico io? Tu non amasti giammai, anzi di
schernire le giovini donne ti se' dilettato. Se tu avessi amato, come
io credeva, tu saresti ancora mio. E di cui potresti tu mai essere
che più t'amasse di me? Ohimè! chiunque tu se', o
donna, che tolto me l'hai, ancora che nemica mi sii, sentendo il mio
affanno, a forza di te divengo pietosa. Guàrdati da' suoi
inganni, però che chi una volta ha ingannato ha per innanzi
perduta l'onesta vergogna, né per innanzi d'ingannare ha
coscienza. Ohimè! iniquissimo giovine, quanti prieghi e quante
offerte agl'iddii ho io porte per la salute di te, che tòrre
mi ti dovevi e darti ad altra!
O
iddii, li miei prieghi sono essauditi, ma ad utilità d'altra
donna; io ho avuto l'affanno, e altri di quello si prende il diletto.
Deh, non era, o pessimo giovine, la mia forma conforme a' tuoi disii,
e la mia nobiltà non era alla tua convenevole? Certo molto
maggiore. Le ricchezze mie furonti mai negate, o da me tolte le tue?
Certo no. Fu mai amato in atto, o in fatto o in sembiante, da me
altro giovine, che tu? E questo ancora che no confesserai, se 'l
nuovo amore non t'ha tolto dal vero. Dunque qual fallo mio, qual
giusta cagione a te, quale bellezza maggiore della mia, o più
fervente amore mi t'ha tolto e datoti ad altrui? Certo niuno: e a
questo mi sieno testimonii gl'iddii, che mai verso di te niuna cosa
operai, se non che oltre ad ogni termine di ragione t'ho amato. Se
questo merita il tradimento da te verso me operato, tu il
conosci.
O iddii, giusti
vendicatori de' nostri difetti, io dimando vendetta e non ingiusta.
Io non voglio né cerco di colui la morte, che già da me
fu scampato e vuole la mia, né altro sconcio dimando di lui,
se non che, se egli ama la nuova donna come io lui, che ella,
togliendosi a lui e ad un altro donandosi, come egli a me s'è
tolto, in quella vita il lasci che egli ha me lasciata.
E quinci, torcendomi con movimenti disordinati, su per lo letto
impetuosa mi giro e mi rivolgo.
Quel giorno tutto non fu in altre voci che nelle predette o in simili
consumato; ma la notte, assai piggiore che 'l giorno ad ogni doglia,
in quanto le tenebre sono più alle miserie conformi che la
luce, sopravvenuta, avvenne che, essendo io nel letto a lato al caro
marito, tacita per lungo spazio ne' pensieri dolorosi vegghiando, e
nella memoria ritornandomi, senza essere da alcuna cosa impedita,
tutti li tempi passati, così li lieti come li dolenti, e
massimamente l'avere Panfilo per nuovo amore perduto, in tanta
abondanza mi crebbe il dolore che, non potendolo ritenere dentro,
piagnendo forte con voci misere lo sfogai, sempre di quello tacendo
l'amorosa cagione. E sì fu alto il pianto mio, che, essendo
già per lungo spazio nel profondo sonno stato involto il mio
marito, costretto da quello si risvegliò, e a me, che tutta di
lagrime era bagnata, rivoltosi, nelle braccia recandomisi, con voce
benigna e pietosa così mi disse:
- O anima mia dolce, qual cagione a questo pianto così
doloroso nella quieta notte ti muove? Qual cosa, già è
più tempo, t'ha sempre malinconica e dolente tenuta? Niuna
cosa, che a te dispiaccia, dee essere a me celata. E` egli alcuna
cosa, la quale il tuo cuore disideri, che per me si possa, che
dimandandola tu, fornita non sia? Non se' tu solo mio conforto e
bene? Non sai tu che io sopra tutte le cose del mondo t'amo? E di ciò
non una pruova, ma molte ti possono far vivere certa. Dunque perché
piagni? Perché in dolore t'affliggi? Non ti paio io giovine
degno alla tua nobiltà? O reputimi colpevole in alcuna cosa,
la quale io possa ammendare? Dillo, favella, scuopri il tuo disio:
niuna cosa sarà che non s'adempia, solo che si possa. Tu,
tornata nell'aspetto, nell'abito e nelle operazioni angosciosa, mi
dài cagione di dolorosa vita, e se mai dolorosa ti vidi, oggi
mi se' più che mai apparuta. Io pensai già che
corporale infermità fosse della tua palidezza cagione; ma io
ora manifestamente conosco che angoscia d'animo t'ha condotta a
quello in che io ti veggio; per che io ti priego che quello che di
ciò t'è cagione mi scuopra.
Al quale io con feminile subitezza preso consiglio al mentire, il
quale mai per addietro mia arte non era stata, così
rispondo:
- Marito a me più
caro che tutto l'altro mondo, niuna cosa mi manca la quale per te si
possa, e te più degno di me senza fallo conosco, ma solo a
questa tristizia per addietro e al presente recata m'ha la morte del
mio caro fratello, la quale tu sai. Essa a questi pianti, ogni volta
che a memoria mi torna, mi strigne; e non certo tanto la morte, alla
quale noi tutti conosco che dobbiamo venire, quanto il modo di quella
piango, il quale disavventurato e sozzo conoscesti, e oltre a ciò
le male andate cose dopo lui a maggior doglia mi stringono. Io non
posso sì poco chiudere o dare al sonno gli occhi dolenti, come
egli palido e di squallore coperto e sanguinoso, mostrandomi l'acerbe
piaghe m'apparisce davanti. E pure testé, allora che tu
piagner mi sentisti, di prima m'era egli nel sonno apparito con
imagine orribile, stanco, pauroso, e con ansio petto, tale che appena
pareva che potesse le parole riavere; ma pur con fatica grandissima
mi disse: "O cara sorella, caccia da me la vergogna, che con
turbata fronte mirando la terra mi fa tra gli altri spiriti andare
dolente". Io, ancora che di vederlo alcuna consolazione
sentissi, pure vinta dalla compassione presa dell'abito suo e delle
parole, sùbito riscotendomi, fuggì il sonno; al quale a
mano a mano le mie lagrime, le quali tu ora consoli, solvendo il
debito dell'avuta pietà, seguitarono; e, come gl'iddii
conoscono, se a me l'armi si convenissero, già vendicato
l'averei, e lui tra gli altri spiriti renduto con alta fronte, ma più
non posso. Adunque, caro marito, non senza cagione miseramente
m'attristo.
Oh quante pietose
parole egli allora mi porse, medicando la piaga, la quale assai
davanti era guarita, e li miei pianti s'ingegnò di
rattemperare con quelle vere ragioni, che alle mie bugie si
confaceano! Ma poi che egli, me racconsolata credendosi, si diede al
sonno, io, pensando alla pietà di lui, con più crudele
doglia tacitamente piagnendo, ricominciai la tramezzata angoscia,
dicendo:
- O crudelissime spelunche
abitate dalle rabbiose fiere, o inferno, o etterna prigione decretata
alla nocente turba, o qualunque altro essilio maggiore più giù
si nasconde, prendetemi, e me a' meritati supplicii date nocente. O
sommo Giove, contro a me giustamente adirato, tuona e con tostissima
mano in me le tue saette discendi; o sacra Giunone, le cui santissime
leggi io sceleratissima giovine ho corrotte, véndicati; o
caspie rupi, lacerate il tristo corpo; o rapidi uccelli, o feroci
animali, divorate quello; o cavalli crudelissimi dividitori
dell'innocente Ipolito, me nocente giovine squartate; o pietoso
marito, volgi nel petto mio con debita ira la spada tua, e con molto
sangue la pessima anima di te ingannatrice ne caccia fuori. Niuna
pietà, niuna misericordia in me sia usata, poiché la
fede debita al santo letto posposi all'amore di strano giovine. O più
che altra iniqua femina di questi e d'ogni maggiori supplicii degna,
qual furia ti si parò davanti agli occhi casti, il dì
che prima Panfilo ti piacque? Dove abandonasti tu la pietà
debita alle sante leggi del matrimonio? Dove la castità, sommo
onore delle donne, cacciasti allora che per Panfilo il tuo marito
abandonasti? Ove è ora verso te la pietà dell'amato
giovine? Ove li conforti da lui dati a te nella tua miseria si
trovano? Egli nel seno d'un'altra giovine lieto trascorre il
fuggevole tempo, né di te si cura; e a ragione e meritamente
così ti doveva avvenire, e a te e a qualunque altra li
legittimi amori pospone alli libidinosi. Il tuo marito, più
debito ad offenderti che ad altro, s'ingegna di confortarti, e colui
che ti doveria confortare, non cura d'offenderti.
Ohimè! or non era egli bello come Panfilo? Certo sì. Le
sue virtù, la sua nobiltà e qualunque altra cosa non
avanzavano molto quelle di Panfilo? Or chi ne dubita? Dunque perché
lui per altrui abandonasti? Qual cecità, quale traccutanza,
quale peccato, quale iniquità vi ti condusse? Ohimè!
che io medesima nol conosco. Solamente le cose liberamente possedute
sogliono essere reputate vili, quantunque elle sieno molto care; e
quelle che con malagevolezza s'hanno, ancora che vilissime sieno,
sono carissime reputate. La troppa copia del mio marito, a me da
dovere essere cara, m'ingannò, e io, forse potente a
resistere, quello che io non feci miseramente piango; anzi senza
forse era potente, se io voluto avessi, pensando a quello che
gl'iddii e dormendo e vigilando m'aveano mostrato la notte, e la
mattina precedente alla mia ruina.
Ma ora che da amare, per ch'io voglia, non mi posso partire, conosco
qual fosse la serpe che me sotto il sinistro lato trafisse, e piena
si partì del mio sangue; e similmente veggo quello che la
corona caduta del tristo capo volle significare: ma tardi mi giugne
questo avvedimento. Gl'iddii forse a purgare alcuna ira contra me
concreata, pentuti de' dimostrati segni, di quelli mi tolsero la
conoscenza, non potendo indietro tornarli, altresì come Apollo
all'amata Cassandra, dopo la data divinità tolse l'essere
creduta: laond'io, in miseria costituta non senza ragionevole colore,
consumo la mia vita.
E così
dolendomi e voltandomi e rivoltandomi per lo letto, quasi tutta la
notte passai senza potere alcuno sonno pigliare, il quale, se forse
pure entrava nel tristo petto, sì debole in quello dimorava,
che ogni piccolo mutamento l'avrebbe rotto; e come che egli ancora
fievole fosse, senza fiere battaglie nelle sue dimostrazioni alla mia
mente non dimorava con meco. E questo non solamente quella notte,
della quale di sopra parlo, m'avvenne, ma prima molte volte, e poi
quasi continuamente m'è avvenuto; per che iguale tempesta,
vegghiando e dormendo, sente e ha sentito l'anima tuttavia.
Non tolsero le notturne querele luogo alle diurne, anzi, quasi come
del dolermi scusata, per le bugie dette al mio marito, quasi da
quella notte innanzi non mi sono ridottata di piagnere e di dolermi
in publico molte volte.
Ma pure
venuta la mattina la fida nutrice, alla quale niuna parte de' danni
miei era nascosa, però che essa era stata la prima che nel mio
viso aveva gli amorosi stimoli conosciuti e ancora in esso aveva i
casi futuri imaginati, veggendomi quando detto mi fu Panfilo avere
altra donna, di me dubitando e istantissima a' miei beni, come prima
il mio marito della camera uscì, così v'entrò; e
me veggendo per l'angoscie della notte preterita quasi semiviva
ancora giacere, con parole diverse si cominciò ad ingegnare di
mitigare li furiosi mali, e in braccio recatamisi, con la tremante
mano m'asciugava il tristo viso, movendo ad ora ad ora cotali
parole:
- Giovine, oltremodo
m'affliggono li tuoi mali, e più m'affliggerebbero, se davanti
non te ne avessi fatta avvedere; ma tu, più volonterosa che
savia, lasciando li miei consigli, seguisti li tuoi piaceri, onde al
fine debito a cotali falli con dolente viso ti veggo venuta. Ma però
che sempre, solo che altri voglia, mentre si vive si può
ciascuno da malvagio camino dipartire e al buono ritornare, mi
sarebbe caro che tu omai gli occhi alla tua mente dalle tenebre di
questo iniquo tiranno occupati svelassi, e loro della verità
rendessi la luce chiara. Chi egli sia, assai li brievi diletti e li
lunghi affanni che per lui hai sostenuti e sostieni ti possono fare
manifesto. Tu, sì come giovine, più la volontà
seguitante che la ragione, amasti, e amando, quel fine che da amore
si può disiare, prendesti; e, come già è detto,
brieve diletto essere il conoscesti, né più avanti che
quello che avuto n'hai, mai avere né disiare se ne puote. E se
egli pure avvenisse che 'l tuo Panfilo nelle tue braccia tornasse,
non altramente che l'usato diletto ne sentiresti.
Li ferventi disiderii sogliono essere nelle cose nuove, nelle quali
molte volte sperandosi che quello bene sia nascoso, il quale forse
non v'è, fanno con noia sostenere il fervente disio, ma le
conosciute più temperatamente si sogliono disiderare; ma tu
troppo nel disordinato appetito trascorsa e tutta dispostati al
perire, fai il contrario. Sogliono le discrete persone, trovandosi
ne' faticosi luoghi e pieni di dubbii tirarsi indietro, volendo anzi
avere la fatica, la quale infino al luogo hanno spesa dove già
pervenuti s'avveggono, perduta, e ritornare sicuri, che, più
avanti andando, mettersi a rischio di guadagnare la morte. Segui
adunque tu, mentre che tu puoi, cotale essemplo, e più ora
temperata che tu non suoli, metti la ragione innanzi alla volontà,
e te medesima saviamente cava de' pericoli e dell'angoscie, nelle
quali mattamente ti se' lasciata trascorrere. La fortuna a te
benivola, se con sano occhio riguarderai, non t'ha richiusa la via di
dietro, né occupata sì che, bene discernendo ancora le
tue pedate, non possi per quelle tornare là onde tu ti
movesti, ed essere quella Fiammetta che tu ti solevi. La tua fama è
intera, né da alcuna cosa da te stata fatta è nelle
menti delle genti commaculata, la quale essendo corrotta, a molte
giovini fu già cagione di cadere nell'infima parte de' mali.
Non volere più procedere, acciò che tu non guasti
quello che la fortuna t'ha riservato; confòrtati, e teco
medesima pensa di non avere veduto mai Panfilo, o che 'l tuo marito
sia desso. La fantasia s'adatta ad ogni cosa, e le buone imaginazioni
sostengono leggiermente d'essere trattate. Sola questa via ti può
rendere lieta; la qual cosa tu dei sommamente disiderare, se cotanto
l'angoscie t'offendono, quanto gli atti e le tue parole
dimostrano.
Queste parole, o
simiglianti, non una volta ma molte, senza rispondervi alcuna cosa,
ascoltai io con grave animo, e avvegna che io oltremodo turbata
fossi, nondimeno vere le conosceva; ma la materia, mal disposta
ancora, senza alcuna utilità le riceveva; anzi, ora in una
parte e ora in un'altra voltandomi, avvenne alcuna volta che, da
impetuosa ira commossa, non guardandomi dalla presenza della mia
balia, con voce oltre alla donnesca gravezza rabbiosa, e con pianto
oltre ad ogni altro grandissimo così dissi:
- O Tesifone, infernale furia, o Megera, o Aletto, stimolatrici delle
dolenti anime, dirizzate li feroci crini, e le paurose idre con ira
accendete a nuovi spaventamenti, e veloci nell'iniqua camera entrate
della malvagia donna, e ne' suoi congiugnimenti con l'involato amante
accendete le misere facelline, e quelle intorno al dilicato letto
portate in segno di funesto agurio a' pessimi amanti! O qualunque
altro popolo delle nere case di Dite, o iddii degl'immortali regni di
Stige, siate presenti qui, e co' vostri tristi ramarichii porgete
paura ad essi infedeli. O misero gufo, canta sopra l'infelice tetto!
E voi, o Arpie, date segno di futuro danno! O ombre infernali, o
etterno Caos, o tenebre d'ogni luce nemiche, occupate l'adultere
case, sì che gl'iniqui occhi non godano d'alcuna luce; e li
vostri odii, o vendicatrici delle scelerate cose, entrino negli animi
acconci a' mutamenti, e impetuosa guerra generate fra loro!
Appresso questo, gittato un ardente sospiro, aggiunsi alle rotte
parole:
- O iniquissima donna,
qualunque tu se', da me non conosciuta, tu ora l'amante, il quale io
lungamente ho aspettato, possiedi, e io misera languisco a lui
lontana. Tu delle mie fatiche possiedi il guiderdone, e io vacua
senza frutto dimoro de' seminati prieghi. Io ho porte l'orazioni e
gl'incensi agl'iddii per la prosperità di colui il quale
furtivamente tu mi dovevi sottrarre, e quelle furono udite per utile
di te. Or ecco, io non so con quale arte né come tu me gli
abbi tratta del cuore e messavi te, ma pure so che così è;
ma così ne possi tu tosto rimanere contenta, come tu n'hai me
lasciata. E se forse a lui la terza volta innamorarsi è
malagevole, gl'iddii non altramente dividano il vostro amore che quel
della greca donna e del giudice d'Ida divisero, o quel del giovine
abideo dalla sua dolente Ero, o de' miseri figliuoli d'Eolo,
volgendosi contro di te l'aspro giudicio, ed egli rimanendo salvo. O
pessima femina, tu dovevi bene, la sua faccia mirando, pensare che
egli senza donna non era; dunque, se ciò pensasti, che so che
'l pensasti, con quale animo procedesti a tòrre quel che
d'altrui era? Certo con nemico animo, avviso; e io sempre come nemica
e occupatrice de' miei beni ti seguirò e sempre, mentre ci
viverò, mi nutricherò della speranza della tua morte;
la quale io non comune priego che sia come l'altre, ma, posta in
luogo di pesante piombo o di pietra nella concava fionda, tu sia
intra li nemici gittata, né al tuo lacerato corpo sia dato o
fuoco o sepultura, ma, diviso e sbranato, sazii gli agognanti cani,
li quali io priego che, poi che consumate avranno le molli polpe,
delle tue ossa commettano asprissime zuffe, acciò che,
rapinosamente rodendole, te di rapina dilettata in vita dimostrino.
Niuno giorno, niuna notte, niuna ora sarà la mia bocca senza
esser piena delle tue maladizioni, né a questo mai si porrà
fine: prima si tufferà la celestiale Orsa in Oceano, e la
rapace onda della ciciliana Cariddi starà ferma, e taceranno
li cani di Silla, e nell'Ionio mare surgeranno le mature biade, e
l'oscura notte darà nelle tenebre luce, e l'acqua con le
fiamme, e la morte con la vita, e il mare co' venti saranno concordi
con somma fede; anzi, mentre che Gange durerà tiepido e
l'Istro freddo, e li monti porteranno le querce, e li campi li
morbidi paschi, con teco avrò battaglie. Né finirà
la morte questa ira, anzi tra li morti spiriti seguitandoti, con
quelle ingiurie che di là s'adoperano m'ingegnerò di
noiarti. E se tu forse a me sopravvivi, quale che si sia della mia
morte il modo, dovunque il misero spirito se n'andrà, di
quindi a forza m'ingegnerò di scioglierlo, e in te entrando,
furiosa ti farò divenire non altramente che sieno le vergini
dopo il ricevuto Apollo; o vegnendo nel tuo cospetto, vegghiando,
orribile mi vedrai, e ne' sonni spaventevole sovente ti desterò
nelle tacite notti; e, brievemente, ciò che tu farai,
continuamente volerò dinanzi agli occhi tuoi, e lamentandomi
di questa ingiuria, te in niuna parte lascerò quieta; e così,
mentre viverai, da cotal furia, me operante, sarai stimolata, e,
morta, poi di piggiori cose ti sarò cagione.
Ohimè misera! In che si stendono le mie parole? Io ti
minaccio, e tu mi nuoci, e il mio amante tenendoti, quello delle
minacciate offese ti curi che gli altissimi re de' meno possenti
uomini. Ohimè! ora fosse a me lo 'ngegno di Dedalo, o li carri
di Medea, acciò che per quello aggiugnendo ali alle mie
spalle, o per l'aere portata, subitamente dove tu gli amorosi furti
nascondi mi ritrovassi! Oh quante e quali parole al falso giovine e a
te, rubatrice degli altrui beni, direi con viso turbato e
minaccevole! Oh con quanta villania i vostri falli riprenderei! E poi
che te e lui delle commesse colpe vergognosi avessi renduti, senza
alcuno freno o indugio procederei alla vendetta, e li tuoi capelli
con le proprie mani pigliandoli e laniandoli forte, te ora qua e ora
là tirando per quelli, davanti al perfido amante sazierei le
mie ire, e con essi tutti li vestimenti ti straccerei. Né
questo mi basterebbe, anzi, con tagliente unghia il viso piaciuto
agli occhi falsi arerei in molte parti, lasciando etterni segnali in
quello delle mie vendette; e il misero corpo tutto con li bramosi
denti lacererei, il quale poi lasciando a colui che ora ti lusinga a
medicare, lieta ricercherei le triste case.
Mentre che io queste parole dico, con gli occhi sfavillanti e co'
denti serrati, e con le pugna strette, quasi a' fatti fossi, dimoro,
e pare che parte della disiata vendetta mi rechino; ma la vecchia
balia quasi piagnendo mi dice:
- O
figliuola, posci che tu conosci la fiera tirannia dello iddio che ti
molesta, tempera te medesima, e li tuoi pianti raffrena; e se la
debita pietà di te stessa a ciò non ti muove, muovati
il tuo onore, al quale nuova vergogna d'antica colpa potrebbe nascere
di leggieri; o almeno taci, non forse il tuo marito senta le triste
cose, e per doppia cagione meritevolmente si dolga del fatto
tuo.
Allora al ricordato sposo
pensando, da nuova pietà mossa, più forte piango, e
nell'anima volgendo la rotta fede e le male servate leggi, così
dico alla mia balia:
- O fidissima
compagna delle nostre fatiche, di poco si può dolere il mio
marito. Colui che fu del nostro peccato cagione, di quello è
stato agrissimo purgatore; io ho ricevuto e ricevo secondo i meriti
il guiderdone. Niuna pena mi poteva il marito dare maggiore, che
quella che m'ha porta l'amante: sola la morte, se la morte è
penosa come si dice, mi puote il marito per pena accrescere. Venga
adunque, e déalami: ella non mi fia pena, anzi diletto, però
che io la disidero, e più dalla sua mano che dalla mia mi fia
graziosa. Se egli non la mi dà, o ella da sé non viene,
il mio ingegno da sé la troverà, però che io per
quella spero ogni mia doglia finire. Lo 'nferno, de' miseri suppremo
supplicio, in qualunque luogo ha in sé più cocente, non
ha pena alla mia simigliante. Tizio ci è porto per gravissimo
essemplo di pena dagli antichi autori, dicenti a lui sempre essere
pizzicato dagli avoltoi il ricrescente fegato, e certo io non la
stimo piccola, ma non è alla mia simigliante; ché se a
colui avoltoi pizzicano il fegato, a me continuo squarciano il cuore
cento milia sollecitudini più forti che alcuno rostro
d'uccello. Tantalo similmente dicono tra l'acque e li frutti morirsi
di fame e di sete; certo e io, posta nel mezzo di tutte le mondane
delizie, con affettuoso appetito il mio amante disiderando, né
potendolo avere, tal pena sostengo quale egli, anzi maggiore, però
che egli con alcuna speranza delle vicine onde e de' propinqui pomi
pure si crede alcuna volta potere saziare, ma io ora del tutto
disperata di ciò che a mia consolazione sperava, e più
amando che mai colui che nell'altrui forza con suo volere è
ritenuto, tutta di sé m'ha fatta di speranza rimanere di
fuori. E ancora il misero Issione nella fiera ruota voltato non sente
doglia sì fatta, che alla mia si possa agguagliare: io, in
continuo movimento da furiosa rabbia per gli avversarii fati rivolta,
patisco più pena di lui assai. E se le figliuole di Danao ne'
forati vasi con vana fatica continuo versano acque credendoli
empiere, e io con gli occhi, tirate dal tristo cuore, sempre lagrime
verso.
Perché ad una ad una le infernali pene mi fatico io di
raccontare? Con ciò sia cosa che in me maggior pena tutta
insieme si trova, che quelle in diviso o congiunte non sono. E se
altro in me più che in loro d'angoscia non fosse, se non che a
me conviene tenere occulti li miei dolori, o almeno la cagione
d'essi, là dove essi con voci altissime e con atti conformi
alle loro doglie li possono mostrare, si sarieno le mie pene maggiori
che le loro da giudicare. Ohimè! quanto più fieramente
cuoce il fuoco ristretto, che quello il quale per ampio luogo manda
le fiamme sue! E quanto è grave cosa e di guai piena il non
potere nelle sue doglie spandere alcuna voce, o dire la nociva
cagione, ma convenirle sotto lieto viso nascondere solo nel cuore!
Dunque non doglia, ma piuttosto di doglia alleggiamento mi sarebbe la
morte. Venga adunque il caro marito, e sé ad un'ora vendichi,
e me cacci di doglia; apra il suo coltello il mio misero petto, e
fuori la dolente anima, amore e le mie pene ad un'ora ne tragga con
molto sangue; e il cuore, di queste cose ritenitore, sì come
ingannatore principale e ricettatore de' suoi nemici, laceri come
merita la commessa nequizia.
Dappoi
che la vecchia balia me tacita del parlare e nel profondo delle
lagrime vide, così con voce sommessa mi cominciò a
dire:
- O cara figliuola, che è
quello che tu favelli? Le tue parole sono vane, e pessimi sono
gl'intendimenti. Io in questo mondo vecchissima molte cose ho vedute,
e gli amori di molte donne senza dubbio ho conosciuti; e ancora che
io tra 'l numero di voi da mettere non sia, non per tanto io pur già
conobbi gli amorosi veleni, li quali così vengono gravi, e
molto più tal fiata, alle menome genti come alle più
possenti, in quanto più alle indigenti sono chiuse le vie a'
loro piaceri, che a coloro che con le ricchezze le possono trovare
per l'ozio loro, né quello che tu quasi impossibile e tanto a
te penoso favelli, non udii, né sentii mai essere duro come ne
porgi. Il quale dolore, pure posto che gravissimo sia, non è
però da consumarsene come fai, e quindi cercare la morte, la
quale tu più adirata che consigliata domandi. Bene conosco io
che la rabbia dalla focosa ira stimolata è cieca, e non cura
di coprirsi, né freno alcuno sostiene, né teme morte,
anzi essa medesima da se stessa sospinta, si fa contro alle mortali
punte dell'acute spade, la quale, se alquanto raffreddare fia
lasciata, non dubito che l'accesa follia saria manifesta al
raffreddato. E però, figliuola, sostieni il tuo grave impeto,
e dà luogo al furore, e alquanto nota le mie parole; e negli
essempli da me detti ferma l'animo tuo.
Tu ti duoli con gravi ramarichii, se io ho bene le tue parole
raccolte, dell'amato giovine da te dipartito e della rotta fede, e
d'Amore e della nuova donna, e in questo dolerti niuna pena alla tua
reputi iguale; e certo, se tu savia sarai come io disidero, a tutte
queste cose con effetto raccogliendo le mie parole, prenderai tu
utile medicina. Il giovine, il quale tu ami, senza dubbio secondo
l'amorose leggi, come tu lui, te dee amare; ma se egli nol fa, fa
male, ma niuna cosa a farlo il può costrignere. Ciascheduno il
beneficio della sua libertà, com gli pare, può usare.
Se tu fortemente ami lui, tanto che di ciò pena intollerabile
sostieni, egli di ciò non t'ha colpa, né giustamente di
lui ti puoi dolere: tu stessa di ciò ti se' principalissima
cagione. Amore, ancora che potentissimo signore sia, e incomparabili
le sue forze, non però, te invita, ti poteva il giovine
pignere nella mente: il tuo senno e gli oziosi pensieri di questo
amore ti furono principio; al quale se tu vigorosamente ti fossi
opposta, tutto questo non avvenia, ma, libera, lui e ogni altro
averesti potuto schernire, come tu di' che egli di te non curantesi
ti schernisce. Egli adunque t'è bisogno, poi la tua libertà
gli sommettesti, di reggerti secondo li suoi piaceri: piacegli ora di
stare a te lontano; a te similemente senza ramaricarti si conviene
che egli piaccia. Se egli intera fede lagrimando ti diede, e di
tornare impromise, non cosa nuova, ma antichissima usanza fe' degli
amanti: questi sono de' costumi che s'usano nella corte del tuo
iddio.
Ma se egli attenuta non te
l'ha, niuno giudice si trovò mai che di ciò tenesse
ragione, né di ciò più si puote che dire: "Male
ha fatto", e darsi pace, sappiendo che a lui sia da fare, se mai
a tal partito la fortuna tel desse, a quale ella ha te a lui
conceduta. Egli ancora non è il primo che questo fa, né
tu la prima a cui avviene. Giasone si partì di Lemnos
d'Isifile, e tornò in Tessaglia di Medea; Parìs si
partì di Oenone delle selve d'Ida, e ritornò a Troia di
Elena; Teseo si partì di Creti di Adriana, e giunse ad Attene
di Fedra: né però Isifile, o Oenone, o Adriana
s'uccisero, ma posponendo li vani pensieri, misero in oblio li falsi
amanti. Amore, come io di sopra ti dissi, niuna ingiuria ti fa o t'ha
fatta, più che tu t'abbi voluto pigliare. Egli usa il suo arco
e le sue saette senza provedimento alcuno, sì come noi tutto
giorno veggiamo; e deeti per manifesti e infiniti essempli la sua
maniera essere chiara, che niuno meritamente di cosa che gli avvenga
per lui, non si dovria di lui ma di sé condolere. Egli
fanciullo lascivo, ignudo e cieco, volta e gitta, e non sa modo
rimuoverlo, è anzi piuttosto un perdersi le parole.
La nuova donna, dal tuo amante presa, forse da lei preso il tuo
amante, alla quale tu con tante ingiurie minacci, forse non con sua
colpa l'ha fatto suo, ma egli forse di lei con improntitudine è
divenuto, e come tu a' prieghi di lui non potesti resistere, per
avventura né ella medesima, forse non meno di te pieghevole,
li poté senza pietà sostenere. Se egli così sa
piagnere, come narri, quando gli piace, sieti manifesto le lagrime e
la bellezza congiunte avere grandissime forze. E oltre a ciò,
poniamo pure che la gentil donna con le sue parole e atti l'abbia
irretito: così s'usa oggi nel mondo, che ciascuna persona
cerca il suo vantaggio, e senza altrui riguardare, quando il trova
sel piglia comunque puote. La buona donna, non forse meno di te savia
in queste cose, lui destro alla milizia di Venere conoscendo, sel
recò a sé. E chi tiene te che tu non possi fare il
simigliante d'un altro? La qual cosa non lodo, ma pure, se più
non si puote e di seguire Amore se' costretta, ove tu la tua libertà
da colui vogli ritrarre, ché potrai, infiniti giovini ci sono
più di lui degni, per quello che io creda, che volontieri a te
diverranno suggetti: il diletto de' quali così lui trarrà
della tua mente, come la nuova donna ha forse te della sua
tratta.
Di queste fedi promesse e
giuramenti fatti intra gli amanti, Giove se ne ride quando si
rompono; e chi tratta altrui secondo che egli è trattato,
forse non falla soperchio, anzi usa il mondo secondo li modi altrui.
Il servare fede a chi a te la rompe, è oggi reputata mattezza,
e lo 'nganno compensare con lo 'nganno si dice sommo sapere. Medea da
Giasone abbandonata si prese Egeo, e Adriana da Teseo lasciata si
guadagnò Bacco per suo marito, e così li loro pianti
mutarono in allegrezza. Dunque più pazientemente le tue pene
sostieni, poiché meritamente più d'altrui che di te non
t'hai a dolere, e a quelle trovansi molti modi a lasciarle, quando
vorrai, considerando ancora che già ne furono sostenute per
altre delle sì gravi, e trapassate. Che dirai tu di Deianira
essere abbandonata per Iole da Ercule, e Fillis da Demofonte, e
Penelope da Ulisse per Circe? Tutte queste furono più gravi
che le tue pene, in quanto così o più era fervente
l'amore, e se si considera il modo e gli uomini più notabili e
le donne; e pure si sostennero. Dunque, a queste cose non se' sola né
prima, e quelle alle quali l'uomo ha compagnia, appena possono essere
importabili o gravi, come tu le dimostri. E però rallégrati
e le vane sollecitudini caccia, e del tuo marito dubita; al quale
forse se questo pervenisse agli orecchi, posto, come tu di', che
nulla più oltre te ne potesse per pena dare che la morte,
quella medesima, con ciò sia cosa che più che una volta
non si muoia, si dee, quando l'uomo può, pigliare la migliore.
Pensa, se quella come adirata dimandi ti seguisse, di questo di
quanta infamia ed etterna vergogna rimarrebbe la tua memoria
fregiata. Egli si vogliono le cose del mondo così apparare ad
usare come mobili; e per innanzi né tu né niuno in esse
molto si confidi se vengono prospere, né nell'avverse
prostrato delle migliori si disperi. Cloto mescola queste cose con
quelle, e vieta che la fortuna sia stabile, e ciascuno fato rivolge;
niuno ebbe mai gl'iddii sì favorevoli che nel futuro li
potesse obligare; Iddio le nostre cose, da' peccati incitato, con
turbazione rovescia; la Fortuna similmente teme li forti, e avvilisce
li timidi.
Ora è tempo da
provare se in te ha luogo niuna virtù, avvegna che a quella in
niuno tempo si possa tòrre luogo, ma le prosperità la
ricuoprono assai spesso. La speranza ancora ha questa maniera, che
ella nelle cose afflitte non mostra alcuna via: e però chi
niuna cosa puote sperare, di nulla si disperi. Noi siamo agitati da'
fati; e credimi che non di leggieri si possono con sollecitudine
mutare le cose apparecchiate da loro. Ciò che noi generazione
mortale facciamo e sosteniamo, quasi la maggior parte viene da'
cieli; Lachesis serva alla sua rocca la decreta legge, e ogni cosa
mena per limitata via: il primo dì ci diede lo stremo, né
è licito d'avere le avvenute cose rivolte in altro corso.
L'avere voluto il mobile ordine tenere nocque già a molti, e a
molti ancora l'averlo temuto; però che mentre essi li loro
fati temono, già a quelli sono pervenuti. Adunque lascia li
dolori li quali volontaria hai eletti, e vivi lieta negl'iddii
sperando, e opera bene, però che spesso avvenne già che
qualora l'uomo più alla felicità si crede lontano,
allora in quella con disavveduto passo è entrato. Molte navi,
correndo felicemente per gli alti mari, già ruppero
all'entrata de' salvi porti; e così alcune, di salute
disperate del tutto, salve in quelli alla fine si ritrovarono. E io
ho già veduti molti alberi, dalle fiammifere folgori di Giove
percossi, ivi a pochi tempi pieni di verdi frondi; e alcuni, con
sollecitudine riguardati, da non conosciuto accidente essersi secchi.
La fortuna dà varie vie, e così come ella di noia t'è
stata cagione, così, se sperando la tua vita nutrichi, ti sarà
similmente di gioia.
Non una sola
volta ma molte usò verso me la savia balia cotali parole,
credendosi da me potere cacciare li dolori, e l'ansietà
riservate solamente alla morte; ma di quelle poco o nulla toccava con
frutto l'occupata mente, e la maggior parte perduta si smarria tra
l'aure, e il mio male di giorno in giorno più comprendea la
dolente anima; per che spesso supina sopra il ricco letto col viso
tra le braccia nascoso, nella mente varie cose e grandi rivolgea. Io
dirò crudelissime cose, e quasi da non dovere essere credute
da donna essere pensate, se avvenire per addietro così fatte,
o maggiori, non si fossero vedute. Essendo io nel cuore vinta da
incomparabile doglia, sentendomi dal mio amante, disperata, lontana,
così fra me a dire cominciai:
"Ecco, quella cagione che la sidonia Elissa ebbe d'abandonare il
mondo, quella medesima m'ha Panfilo donata, e molto piggiore. A lui
piace che io, abandonate queste, nuove regioni cerchi; e io, poiché
suggetta gli sono, farò quello che gli piace, e al mio amore e
al commesso male e all'offeso marito ad un'ora satisfarò
degnamente; e se agli spiriti sciolti dalla corporal carcere e al
nuovo mondo è alcuna libertà, senza alcuno indugio con
lui mi ricongiugnerò, e dove il corpo mio esser non puote,
l'anima vi starà in quella vece. Ecco, adunque morrò, e
questa crudeltà, volendo l'aspre pene fuggire, si conviene di
usare a me in me stessa, però che niuna altra mano potrebbe sì
essere crudele, che degnamente quella che io ho meritata operasse.
Prenderò adunque senza indugio la morte, la quale, ancora che
oscurissima cosa sia a pensare, più graziosa l'aspetto che la
dolente vita".
E poi che io
ultimamente fui in questo proponimento diliberata, fra me cominciai a
cercare quale dovesse de' mille modi esser l'uno che mi togliesse di
vita: e prima m'occorsero ne' pensieri li ferri, a molti di quella
stati cagione, tornandomi a mente la già detta Elissa partita
di vita per quelli. Dopo questo mi si parò davanti la morte di
Biblis e d'Amata, il modo delle quali s'offeriva a finire la mia
vita; ma io, più tenera della mia fama che di me stessa, e
temendo più il modo del morire che la morte, parendomi l'uno
pieno d'infamia, e l'altro di crudeltà soperchia nel ragionare
delle genti, mi fu cagione di schifare e l'uno e l'altro. Poi
imaginai di voler fare sì come fecero li Saguntini o gli
Abidei, gli uni tementi Annibale cartaginese e gli altri Filippo
macedonico, li quali le loro cose e se medesimi alle fiamme
commisero; ma veggendo in questo del caro marito, non colpevole ne'
miei mali, gravissimo danno, come gli altri precedenti modi avea
rifiutati, così e questo ancora rifiutai. Vennermi poi nel
pensiero li velenosi sughi, li quali per addietro a Socrate e a
Sofonisba e ad Annibale e a molti altri prencipi l'ultimo giorno
segnarono, e questi assai a' miei piaceri si confecero; ma veggendo
che a cercare d'averli tempo si convenia interporre, e dubitando non
in quel mezzo si mutasse il mio proponimento, di cercare altra
maniera imaginai, e pensato mi venne di volere... come molti già
fecero, rendere il tristo spirito: dubitando d'impedimento, ché
'l vedea, ad altra specie di pensiero trapassai. E questa cagion
medesima gli accesi carboni di Porzia mi fece lasciare: ma venutami
nella mente la morte d'Ino e di Melicerte, e similmente quella di
Erisitone, il bisognarvi lungo spazio all'una ad andare, all'altra ad
aspettare, me le fece lasciare, imaginando dell'ultima il dolore
lungamente nutricare i corpi. Ma oltre tutti questi modi, m'occorse
la morte di Pernice caduto dell'altissima arce cretense, e questo
solo modo mi piacque di seguitare per infallibile morte e vòta
d'ogni infamia, fra me dicendo:
"Io
dell'alte parti della mia casa gittandomi, il corpo rotto in cento
parti, per tutte e cento renderà l'infelice anima maculata e
rotta a' tristi iddii, né fia chi quinci pensi crudeltà
o furore in me stato di morte, anzi a fortunoso caso imputandolo,
spandendo pietose lagrime per me, la fortuna maladiranno".
Questa diliberazione nell'animo mio ebbe luogo, e sommamente mi
piacque di seguitarla, pensando in me grandissima pietà usare,
se forte spietata contro a me divenissi.
Già era il pensier fermo, né altra cosa aspettava che
tempo, quando un freddo sùbito entrato per le mie ossa, tutta
mi fece tremare, il quale con seco recò parole così
dicenti:
"O misera, che pensi
tu di fare? Vuo' tu per ira e per corruccio divenire nulla? Or se tu
fossi pure ora per morire da infermità grave costretta, non ti
dovresti tu ingegnare di vivere, acciò che almeno una volta
innanzi la morte tua tu potessi vedere Panfilo? Non pensi tu che
morta nol potrai vedere, né la pietà di lui verso te
niuna cosa potrà operare? Che valse a Fillis non paziente la
tarda tornata di Demofonte? Essa fiorendo senza alcuno diletto sentì
la venuta sua, la quale se sostenere avesse potuto, donna, non albero
l'averia ricevuto. Vivi adunque, ché egli pure tornerà
qui alcuna volta, o amante o nemico che egli ci torni; e quale che
egli d'animo ci torni, tu pur l'amerai, e per avventura il potrai
vedere, e farlo pietoso de' casi tuoi: egli non è di quercia,
o di grotta, o di dura pietra scoppiato, né bevve latte di
tigre o di quale altro più fiero animale, né ha cuore
di diamante o d'acciaio, che egli a quelli non sia pietoso e
pieghevole; ma se pure da pietà non fia vinto, vivendo tu,
allora di morire più licito ti sarà. Tu hai oltre ad
uno anno senza lui sostenuta la trista vita; bene la puoi ancora
sostenere oltre ad uno altro. In niuno tempo falla la morte a chi la
vuole: ella fia così presta, e molto meglio allora che ella
non è ora; e potraine andare con isperanza che egli alcuna
lagrima, quantunque nemico e crudele sia, porgerà alla tua
morte. Ritira adunque indietro il troppo sùbito consiglio,
però che chi di consigliare s'affretta, si studia di pentere.
Questo che tu vuoi fare, non è cosa che pentimento ne possa
seguire, e, se egli ne pur seguisse, da poterla indietro
tornare".
Così da
queste cose l'anima occupata, il proponimento sùbito
lungamente in libra tenne; ma stimolandomi Megera con aspre doglie,
vinsi di seguire il proposto, e tacitamente pensai di mandarlo ad
effetto; e con benigne parole alla mia balia, che già tacea,
nel tristo viso mostrai infinto conforto, alla quale, acciò
che quindi si dipartisse, dissi:
"Ecco, carissima madre, li tuoi parlari verissimi con utile
frutto luogo nel petto mio hanno trovato, ma acciò che 'l
cieco furore esca della pazza anima, alquanto di qui ti cessa, e me
di dormire disiderosa al sonno lascia".
Ella sagacissima, e quasi de' miei intendimenti indovina, il mio
dormire loda, e da me dilungatasi alquanto per lo ricevuto
comandamento, della camera uscire non volle in niuno modo. Ma io, per
non farla del mio intendimento sospetta, oltre al mio piacere
sostenni la sua dimora, imaginando che, dopo alquanto, quieta
veggendomi, si dovesse partire. Fingo adunque con riposo tacito il
pensato inganno; nel quale, benché di fuori niuna cosa appaia,
così nell'ore le quali a me ultime dovere essere pensava, fra
me dogliosa dicea cotali parole:
"O
misera Fiammetta, o più che altra dolorosissima donna, ecco
che 'l tuo dì è venuto! Oggi, poi che dell'alto palagio
ti sarai gittata in terra, e l'anima avrà lasciato il rotto
corpo, terminate fieno le lagrime tue, li sospiri, l'angoscie e li
disiri, e ad un'ora te e il tuo Panfilo libero farai della promessa
fede. Oggi avrai da lui li meritati abbracciari; oggi le militari
insegne d'Amore copriranno il corpo tuo con disonesto strazio oggi il
tuo spirito il vedrà; oggi conoscerai per cui t'abbia
abandonata; oggi a forza pietoso il farai; oggi comincerai le
vendette della nemica donna. Ma, o iddii, se in voi niuna pietà
si trova, negli ultimi miei prieghi siatemi graziosi: fate la mia
morte senza infamia passare tra le genti. Se in quella alcuno
peccato, prendendola, si commette, ecco che di quello la satisfazione
è presente, cioè che io muoio senza osare manifestare
la cagione, la quale cosa non piccola consolazione mi sarebbe, se io
credessi, ciò dicendo, passare senza biasimo. Fatela ancora
con pazienza sostenere al caro marito, il cui amore se io debitamente
avessi guardato, ancora lieta senza porgervi questi prieghi, di
vivere chiederei. Ma io, sì come femina mal conoscente del
ricevuto bene, e come l'altre sempre il peggio pigliando, ora questo
guiderdone me ne dono. O Atropos, per lo tuo infallibile colpo a
tutto il mondo, umilmente ti priego che il cadente corpo guidi nelle
tue forze, e con non troppa angoscia l'anima sciogli dalle fila della
tua Lachesis; e tu, o Mercurio, di quella ricevitore, io ti priego
per quell'amor che già ti cosse, e per lo mio sangue, il quale
io da ora offero a te, che tu benignamente la guidi a' luoghi a lei
disposti dalla tua discrezione, né sì aspri glieli
apparecchi, che lievi reputi i mali avuti".
Queste cose così fra me dette, Tesifone stette dinanzi agli
occhi miei, e con non intendevole mormorio, e con minaccevole aspetto
mi fe' pavida di piggiore vita che la preterita. Ma poi, con più
sciolta favella dicendo: "Niuna cosa una sola volta provata non
può essere grave", il turbato animo alla morte infiammò
con più focoso disio. Per che, veggendo io che ancora non si
partia la vecchia balia, dubitando non troppo aspettare, me
apparecchiata a morire indietro traesse il proposto, o che accidente
via nol togliesse, stese le braccia sopra il mio letto quasi
abbracciandolo, dissi piagnendo:
-
O letto, rimanti con Dio, il quale io priego che alla seguente donna,
più che a me non t'ha fatto, ti facci grazioso.
Poi, gli occhi rivolti per la camera, la quale più mai non
sperava vedere, presa da dolore sùbito il cielo perdei, e
quasi palpando, e presa da non so che tremito mi volli levare, ma le
membra vinte da paura orribile non mi sostennero; anzi ricaddi, e non
solo una, ma tre fiate sopra il mio viso, e in me fierissima
battaglia sentiva tra li paurosi spiriti e l'adirata anima, li quali
lei volente fuggire a forza teneano. Ma pure l'anima vincendo, e da
me la fredda paura cacciando, tutta di focoso dolore m'accesi, e
riebbi le forze. E già nel viso del colore palido della morte
dipinta, impetuosamente su mi levai, e, quale il forte toro ricevuto
il mortal colpo furioso in qua e in là saltella, sé
percotendo, cotale dinanzi agli occhi miei errando Tesifone, del
letto, non conoscendo gl'impeti miei, come baccata mi gittai in
terra, e dietro alla furia correndo, verso le scale saglienti alla
somma parte delle mie case mi dirizzai; e già fuori della
camera trista saltata, forte piagnendo, con disordinato sguardo tutte
le parti della casa mirando, con voce rotta e fioca dissi:
- O casa, male a me felice, rimani etterna, e la mia caduta fa
manifesta all'amante, se egli torna; e tu, o caro marito, confòrtati
e per innanzi cerca d'una più savia Fiammetta. O care sorelle,
o parenti, o qualunque altre compagne e amiche, o servitrici fedeli,
rimanete con la grazia degl'iddii.
Io rabbiosa intendeva con tutte le parole al tristo còrso, ma
la vecchia balia, non altramente che chi dal sonno a' furori è
escitato, lasciato della rocca lo studio, sùbito stupefatta
questo veggendo, levò li gravissimi membri, e gridando, come
poteva mi cominciò a seguire. Ella con voce appena da me
creduta diceva:
- O figliuola, ove
corri? Qual furia ti sospigne? E` questo il frutto che tu dicevi che
le mie parole in te aveano di preso conforto messo? Ove vai tu?
Aspettami.
Poi con voci ancora
maggiori gridava:
- O giovini,
venite, occupate la pazza donna, e ritenete li suoi furori.
Il suo romore era nulla, e molto meno il grave corso. A me parea che
fossero ali cresciute, e più veloce che alcuna aura correva
alla mia morte. Ma li non pensati casi, sì a' buoni come a'
rei proponimenti opponentisi, furono cagione che io sia viva: però
che li miei panni lunghissimi, e al mio intendimento nemici, non
potendo con la loro lunghezza raffrenare il mio còrso, ad uno
forcuto legno, mentre io correva, non so come, s'avvilupparono, e la
mia impetuosa fuga fermarono, né per tirare che io facessi, di
sé parte alcuna lasciarono; per che, mentre io tentava di
riaverli, la grave balia mi sopraggiunse, alla quale io con viso
tinto mi ricorda che io dissi con alto grido:
- O misera vecchia, fuggi di qui, se la vita t'è cara! Tu ti
credi aiutarmi, e offendimi; lasciami usare il mortale oficio ora a
ciò disposta con somma voglia; però che niuna altra
cosa fa chi colui di morire impedisce che disidera di morire, se non
che egli l'uccide: tu di me diventi micidiale, credendomi tòrre
dalla morte, e come nemica tenti di prolungare i danni miei.
La lingua gridava, e il cuore ardeva d'ira, e le mani per la fretta
credendosi sviluppare, avviluppavano; né prima a me occorse il
rimedio dello spogliarmi, che sopraggiunta dalla gridante balia, come
ella potea così da lei era impedita; ma la sua forza in me già
sviluppata niente valeva, se le giovini serve al colei grido da ogni
parte non fossero còrse, e me avessero ritenuta; delle mani
delle quali più volte con guizzi diversi e con forze maggiori
mi credetti ritrarre, ma, vinta da loro, stanchissima fui nella
camera, la quale mai più vedere non credeva, menata. Ohimè!
quante volte loro dissi con piagnevole voce:
- O vilissime serve, quale ardire è questo, che vi concede che
la vostra donna da voi violentemente sia presa? Qual furia, o misere,
v'ha spirate? E tu, o iniqua nutrice del misero corpo, futuro
essemplo di tutti li dolori, perché all'ultimo disio m'hai
impedita? Ora non sai tu ch'egli mi sarebbe maggior grazia comandarmi
la morte che da quella difendermi? Lascia la misera impresa da me
adempiere, e me di me a mio senno lascia fare, se così m'ami
come io credo; e se così se' pietosa come dimostri, adopera la
tua pietà in salvare la dubbia fama, che dopo me di me
rimarrà, però che in questo in che tu ora m'impedisci,
la tua fatica fia vana. Credimi tu potere tòrre gli acuti
ferri, nelle punte de' quali consiste il mio disio, o li dolenti
lacci, o le mortali erbe o il fuoco? Che profitto adopera questa tua
cura? Prolunga un poco la dolorosa vita, e forse alla morte, che ora
senza infamia mi veniva, indugiata, aggiungerà vergogna. Tu, o
misera, non la mi potrai per guardia tòrre, però che la
morte è in ogni luogo, e consiste in tutte le cose, ed
eziandio ne' vitali argomenti fu già trovata: dunque, lasciami
morire prima che più divenendo dolente che io mi sia, con più
feroce animo la domandi.
Io, mentre
che queste parole miseramente diceva, non teneva le mie mani in
riposo, ma ora questa ora quella serva rabbiosamente pigliando, a
quale levate le treccie tutta la testa pelava, e a quale ficcando le
unghie nel viso, miseramente graffiandola, la faceva filare sangue, e
ad alcuna mi ricorda che io tutti i poveri vestimenti in dosso le
squarciai. Ma ohimè! che né la vecchia balia né
le lacerate serve ad alcuna cosa mi rispondevano, anzi piagnendo in
me usavano pietoso oficio. Io allora più mi sforzava vincerle
con parole, ma nulla valeano; per che con romore a gridare
cominciai:
- O mani inique e
possenti ad ogni male, voi, ornatrici della mia bellezza, foste gran
cagione di farmi tale che io fossi disiderata da colui il quale io
più amo: dunque, poiché male del vostro oficio m'è
seguito, in guiderdone di ciò ora l'empia crudeltà
usate nel vostro corpo, laceratelo, apritelo, e quindi la crudele
anima e inespugnabile ne traete con molto sangue. Tirate fuori il
cuore ferito dal cieco Amore; e poiché tolti vi sono i ferri,
lui con le vostre unghie, sì come di tutti i vostri mali
cagione principale, senza alcuna pietà laniate.
Ohimè! che le mie voci mi minacciavano li disiderati mali, e
comandavanlo alle volonterose mani ad eseguire; ma le preste fanti
m'impedirono, tenendole contro a mia voglia.
Poi la trista balia e importuna con dolenti voci incominciò
cotali parole:
- O cara figliuola,
io ti priego per questo misero seno onde tu li primi alimenti
traesti, che con umiliata mente alquante mie poche parole m'ascolti.
Io non cercherò in quelle di torti che tu non ti dolghi, o che
forse la degna ira che a questo furore t'accende, tu la cacci da te,
o per dimoranza la rompi, o con rimesso petto e piacevole la
sostenghi; ma quello solo che vita ti sarà e onore, riducerò
alla smarrita memoria. Egli si conviene a te, famosa giovine di tanta
virtù quanta tu se', il non stare soggetta al dolore, né
come vinta dare le spalle a' mali. Egli non è virtù il
chiedere la morte, come se la vita si temesse, come tu fai, ma a'
sopravvegnenti mali contrastare, né a quelli davanti fuggire,
è virtù somma. Chi li suoi fati abbatteo, e li beni
della sua vita da sé gittò e divise, sì come tu
hai fatto, non so perché uopo gli si sia di cercare morte, né
so perché la domandi: l'una e l'altra è volontà
di timido. Dunque se tu te in somma miseria porre desideri, non
cercare la morte per quella, però che essa è ultima
cacciatrice di quella; fuga questo furore dalla tua mente, per lo
quale ad un'ora d'avere e di perdere mi pare che cerchi l'amante.
Credi tu, nulla divenendo, acquistarlo?
Io non risposi alcuna cosa; ma intanto il romore si sparse per la
spaziosa casa e per la contrada circunvicina, e non altramente che
all'urlare d'un lupo si sogliono tutti i circustanti in uno
convenire, corsero quivi li servidori d'ogni parte, e tutti dolenti
dimandavano che ciò fosse. Ma già era stato vietato da
me a chi 'l sapeva di dirlo, per che con menzogna ricoprendo
l'orribile accidente, satisfatti erano. Corsevi il caro marito, e
corsonvi le sorelle e li cari parenti e gli amici, ed egualmente
tutti da uno inganno occupati, là dove io era iniqua, pietosa
fui reputata; e ciascuno dopo molte lagrime la mia vita riprese così
dolente, ingegnandosi appresso di confortarmi. Ohimè! Che
quinci avvenne che alcuni me stimolata da alcuna furia credettero, e
me quasi furiosa guardavano! Ma altri più pietosi la mia
mansuetudine riguardando, dolore, sì come era, stimandolo, di
ciò che quelli dicevano si fecero beffe, portandomi
compassione. E così visitata da molti, più giorni
stupefatta rimasi, e sotto discreta custodia della sagace balia fui
tacitamente guardata.
Niuna ira è
sì focosa che per passamento di tempo freddissima non divenga.
Io alcuni giorni così dimorata come io disegno, mi riconobbi,
e manifestamente le parole della savia balia vidi vere, e certo io la
mia passata follia piansi amaramente. Ma posto che il mio furore nel
tempo si consumasse e ritornasse nulla, il mio amore per questo non
ebbe alcun mutamento, anzi mi pur rimase la malinconia usata negli
altri accidenti d'avere, e gravemente portava l'essere stata per
altra donna abandonata; e spesse volte sopra ciò con la
discreta balia ebbi consiglio, volendo modo trovare per lo quale a me
rivocassi l'amante. E alcuna volta proponemmo con lettere
pietosissime i miei casi dolenti narranti, e altra volta più
utile essere pensammo che per savio messaggio con viva voce gli
annunziassimo li miei mali; e certo che, ancora che vecchia fosse la
balia, e il camino lungo e malvagio, per me si volle disporre ad
andarvi. Ma bene riguardando ogni cosa, le lettere, quantunque
fossero state pietose, efficaci non reputammo a rispetto de' presenti
e nuovi amori; sì che per perdute le giudicammo, avvegna che
con tutto questo pure ne scrivessi alcuna, che quello uscimento ebbe
che divisammo. Il mandarvi la balia chiaramente conobbi lei non viva
potere a lui pervenire, né ad altrui da fidarsene reputai; sí
che frivoli furono li primi avvisi, e solamente nell'animo mi rimase
niuna via esserci a riaverlo, se non se io per lui andassi; alla qual
cosa fare diversi modi per la mente m'occorsero, li quali ultimamente
furono per cagioni legittime annullati dalla mia balia. Io pensai
alcuna volta di prendere abito peregrino con alcuna fida compagna, e
in quello cercare li suoi paesi; e benché questo mi paresse
possibile, non per tanto in esso pericolo grandissimo conobbi del mio
onore, sapendo come le viandanti peregrine, alle quali alcuna forma
si vede, sieno sovente ne' camini trattati dagli scedanti; e oltre a
questo, me al caro marito sentendo obligata, senza lui non vidi come
essere potesse l'andata o senza sua licenza, la quale da sperare non
era giammai; per la qual cosa questo pensiero come vano abandonai; e
subitamente in un altro non poco malizioso mi trasportai, e fatto mi
credetti ch'ei venisse, e sarebbe, se alcuno caso avvenuto non fosse;
ma nel futuro spero non mancherà, solo che io viva. Io mi
infinsi d'avere in queste mie predette avversità, se Iddio mi
traesse di quelle, fatto alcuno vóto, il quale volendo
fornire, con giusta cagione poteva e posso volere passare per lo
mezzo della terra del mio amante; per la quale passando, non mi
mancava cagione di lui volere e dover vedere, e a quello rivocare per
che io andava.
E certo, come io
dico, io lo scopersi al caro marito, il quale a ciò fornire sé
lietamente offerse, ma tempo a ciò competente, come è
detto, disse volea che attendessi. Ma l'indugio a me gravissimo, e
temendolo vizioso, mi fu cagione d'entrare in altri avvisi, e tutti
mi vennero meno, fuori solamente d'Ecate le mirabili cose, delle
quali, acciò che a' paurosi spiriti sicurissima mi
commettessi, più vole con diverse persone, vantatisi ciò
sapere operare, ebbi ragionamenti; e alcune di trasportarmi
subitamente impromettendomi, altre di sciogliere la sua mente da ogni
altro amore e nel mio ritornarlo, altre dicendo di rendere a me la
pristina libertà, volendo io d'alcune di queste all'effetto
venire, più di parole che d'opere le trovai piene; onde non
una volta, rimasi da loro nella mia speranza confusa, e, per lo
migliore, senza più a queste cose pensare, mi diedi ad
aspettare il tempo congruo dal mio caro marito promesso a fornire il
vóto fittizio.
Capitolo VII
Nel quale Madonna Fiammetta dimostra come, essendo un altro Panfilo, non il suo, tornato là dove ella era, ed essendole detto, prese vana letizia, e ultimamente, ritrovando lui non esser desso, nella prima tristizia si ritornò.
Continuavansi le mie angoscie non ostante la speranza del futuro
viaggio, e il cielo con movimento continuo seco menando il sole,
l'uno dì dopo l'altro traeva senza intervallo, e me in affanni
e in amore non iscemante, un più lungo tempo che io non volea
mi tenne la vana speranza. E già quello Toro che trasportò
Europa tenea Feboonon la sua luce, e li giorni alle notti togliendo
luogo, di brevissimi, grandissimi diveniano; e il florigero Zefiro
sopravvenuto, col suo lene e pacifico soffiamento aveva le impetuose
guerre di Borea poste in pace, e cacciati del frigido aere li
caliginosi tempi e dall'altezze de' monti le candide nevi, e, li
guazzosi prati rasciutti delle cadute piove, ogni cosa d'erbe e di
fiori avea rifatta bella; e la bianchezza per la soprastante freddura
del verno venuta negli alberi era da verde vesta ricoperta in ogni
parte; ed era già in ogni luogo quella stagione, nella quale
la lieta primavera graziosamente spande in ciascun luogo le sue
ricchezze, e che la terra di varii fiori, di viole e di rose quasi
stellata, di bellezza contrasta col cielo ottavo, e ogni prato teneva
Narcisso, e la madre di Bacco già aveva della sua pregnezza
cominciato a mostrar segni, e più che l'usato gravava il
compagno olmo, già da sé ancora divenuto più
grave per la presa vesta; Driope e le misere sirocchie di Fetone
mostravano similmente letizia, cacciato il misero abito del canuto
verno; li gai uccelli s'udivano con dilettevole voce per ogni parte,
e Cerere negli aperti campi lieta venìa nuova con li frutti
suoi. E oltre a queste cose, il mio crudel signore più focosi
faceva li suoi dardi sentire nelle vaghe menti, onde li giovini e le
vaghe donzelle, ciascuno secondo la sua qualità ornato,
s'ingegnava di piacere all'amata cosa.
Le liete feste rallegravano ciascuna parte della nostra città,
più copiosa di quelle che non fu mai l'alma Roma, e li teatri
ripieni di canti e di suoni invitavano a quella letizia ciascuno
amante. Li giovini quando sopra li correnti cavalli con le fiere armi
giostravano, e quando circundati da sonanti sonagli armeggiavano,
quando con ammaestrata mano lieti mostravano come gli ardenti cavalli
con ispumante freno si debbano reggere. Le giovini donne, vaghe di
queste cose, inghirlandate delle nuove frondi, lieti sguardi
porgevano a' loro amanti, ora dall'alte finestre e quando dalle basse
porte, e quale con nuovo dono, e tale con sembiante, e tale con
parole confortava il suo del suo amore.
Ma me sola solitaria parte teneva quasi romita, e sconsolata per la
fallita speranza, de' lieti tempi avea noia. Niuna cosa mi piaceva,
nulla festa mi poteva rallegrare, né conforto porgere pensiero
né parola; niuna verde fronda, niuno fiore, niuna lieta cosa
toccavano le mie mani, né con lieto occhio le riguardava. Io
era divenuta dell'altrui letizie invidiosa, e con sommo disiderio
appetiva che ciascuna donna così fosse da Amore e dalla
Fortuna trattata come io era. Ohimè! con quanta consolazione
più volte già mi ricorda d'avere udite le miserie e le
disavventure degli amanti nuovamente avvenute!
Ma mentre che in questa disposizione mi tenevano dispettosa gl'iddii,
la Fortuna ingannevole, la quale alcuna volta per affliggere con
maggior doglia li miseri loro nel mezzo dell'avversità quasi
mutata si mostra con lieto viso, acciò che essi più
abandonandosi a lei caggiano maggiore stoscio cessando la sua letizia
(li quali, se come folli s'appoggiano allora ad essa, cotali
abbattuti si trovano, quale il misero Icaro nel mezzo del camino,
presa troppa fidanza nelle sue ali, salito all'alte cose, da quelle
nell'acque cadde del suo nome ancora segnate); questa, me sentendo di
quelli, non contenta de' dati mali apparecchiandomi peggio, con falsa
letizia indietro trasse le cose avverse e il suo corruccio, acciò
che, più movendosi di lontano, non altramente che facciano li
montoni africani per dare maggiore percossa, più m'offendesse;
e in questa maniera con vana allegrezza alquanto diede sosta alle mie
doglie.
Essendo già per ogni
mese promesso troppo più di quattro dimorato il poco fedele
amante, avvenne che un giorno, dimorando io ne' pianti usati, la
vecchia balia, con passo più spesso che la sua età non
prestava tutta nel vizzo viso di sudore molle, entrò nella
camera nella quale io era, e postasi a sedere, battendole forte il
petto, negli occhi lieta, più volte cominciò a parlare;
ma l'ansietà del polmone procedente ogni volta nel mezzo le
rompea le parole. Alla quale io piena di maraviglia dissi:
- O cara nutrice, che fatica è questa che t'ha così
presa? Qual cosa disideri tu di dire con tanta fretta, che prima
l'affannato spirito non lasci posare? E` ella lieta o dolente?
Apparecchiomi io di fuggire o di morire, o che debbo fare? Il tuo
viso alquanto, non so di che né per che, rinverdisce la mia
speranza, ma le cose lungamente state contrarie mi porgono quella
paura di peggio che ne' miseri suole capére. Di' adunque
tosto, non mi tenere più sospesa: qual fu la cagione della tua
rattezza? Dimmi se lieto Iddio, o infernal furia, qui t'ha
sospinta.
Allora la vecchia, ancora
appena riavuta la lena, intrarompendo le mie parole, assai più
lieta disse:
- O dolce figliuola,
rallégrati, niuna paura è ne' nostri detti; gitta via
ogni dolore, e la lasciata letizia ripiglia: il tuo amante
torna.
Questa parola entrata
nell'animo mio sùbita allegrezza vi mise, sì come li
miei occhi mostrarono; ma la miseria usata in brieve la tolse via e
nol credetti, anzi piagnendo dissi:
- O cara balia, per li tuoi molti anni e per li tuoi vecchi membri,
li quali omai l'etterno riposo domandano, non ischernire me misera,
li cui dolori in parte dovrebbero essere tuoi. Prima torneranno li
fiumi alle fonti, ed Espero recherà il chiaro giorno, e Febea
co' raggi del suo fratello darà luce la notte, che torni lo
'ngrato amante. Chi non sa che egli ora ne' lieti tempi, con altra
donna, più amando che mai si rallegra? Ove che egli fosse ora,
si tornerebbe egli a lei, non che egli da lei si partisse per venir
qua.
Ma ella sùbito
seguitò:
- O Fiammetta, se
gl'iddii lieta ricevano l'anima di questo vecchio corpo, la tua balia
di niente ti mente; né si conviene alla mia età omai
andare di così fatte cose nessuna persona gabbando, e te
massimamente, la quale io amo sopra tutte le cose.
-Adunque, - dissi io - come è ciò pervenuto alle tue
orecchie, e onde il sai? Dillo tosto, acciò che, se verisimile
mi parrà, io mi rallegri della lieta novella.
E levatami del luogo ove io stava, già più lieta
m'appressai alla vecchia, ed ella disse:
- Io, sollecita alli fatti familiari, questa mattina sopra li salati
liti, quelli esseguendo, andava con lento passo, e intenta sopra
quelli dimorando con le reni al mare rivolta, uno giovine d'una barca
saltato, sì come io vidi poi, disavvedutamente portato
dall'impeto del suo salto, me urtò gravemente; per che io
contra di lui gl'iddii scongiurando, crucciosa rivoltami contra lui
per dolermi della ricevuta ingiuria, egli con parole umili
subitamente mi chiese perdono. Io il riguardai, e nel viso e
nell'abito del paese del tuo Panfilo lo stimai, e dimandailo:
"Giovine, se Iddio bene ti dia, dimmi, vieni tu di paese
lontano?"
"Sì,
donna" rispose.
Allora
diss'io: "Deh, dimmi donde, s'egli è licito".
Ed egli: "Delle parti d'Etruria, e della più nobile città
di quella vengo, e quindi sono".
Come io udii questo, d'una patria col tuo Panfilo il conobbi, e
dimandailo se egli il conosceva, e che di lui era; e quegli rispose
di sì, e di lui molto bene mi narrò, e oltre a ciò
disse che egli con lui ne sarebbe venuto, se alcuno piccolo
impedimento non l'avesse tenuto, ma che senza fallo in pochi dì
qua sarebbe. In questo mezzo, mentre queste parole avevamo, li
compagni del giovine tutti in terra scesi con le loro cose, ed egli
con esso loro, si partirono. Io, lasciato ogni altro affare, con
tostissimo passo, appena tanto vivere credendomi che io te 'l
dicessi, qui ne venni ansando, come vedesti, e però lieta
dimora, e caccia la tua tristizia.
Presila allora, e con lietissimo cuore baciai la vecchia fronte, e
con dubbioso animo poi più volte la scongiurai e dimandai da
capo se questa novella vera fosse, disiderando che non il contrario
dicesse, e dubitando che non m'ingannasse; ma poi che più
volte sé dire il vero con più giuramenti m'ebbe
affermato, benché 'l sì e 'l no, credendolo, nel capo
mi vacillasse, lieta con cotali voci gl'iddii ringraziai:
- O superno Giove, de' cieli rettore solennissimo, o luminoso Apollo
a cui niente s'occulta, o graziosa Venere pietosa de' tuoi suggetti,
o santo fanciullo portante li cari dardi, laudati siate voi.
Veramente chi in voi sperando persevera, non può perire a
lungo andare. Ecco che per la grazia di voi, non per li meriti miei,
il mio Panfilo torna; il quale io non vedrò prima che li
vostri altari, stati per addietro incitati da li miei ferventissimi
prieghi e bagnati d'amare lagrime, d'accettevoli incensi saranno
onorati, dandoli io. E a te, o Fortuna, pietosa tornata de' miei
danni, la promessa imagine testante li tuoi beneficii donerò
di presente. Priegovi nonpertanto con quella umiltà e
divozione che più vi puote essaudevoli rendere, che voi ogni
accidente possibile a sturbare la proposta tornata del mio Panfilo
sturbiate e togliate via, e lui sano e senza impedimento qui
produciate, come egli fu mai.
Finita l'orazione, non altramente che falcone uscito di cappello
plaudendomi, così a dire cominciai:
- O amorosi petti, lungamente da' mali indeboliti, omai ponete giù
le sollecite cure, poscia che 'l caro amante di noi ricordantesi
torna come promise. Fuggasi il dolore, la paura e la grave vergogna
nell'afflitte cose abondante, né come per addietro la fortuna
v'abbia guidati vi venga in pensiero, anzi cacciate via le nebbie de'
crudeli fati, e ogni sembiante del misero tempo da voi si parta, e
torni il lieto viso al presente bene, e la vecchia Fiammetta della
rinnovata anima del tutto si spogli fuori.
Mentre che io cotali parole lieta fra me dicea, il cuore divenne
dubbio, e non so onde né come tutta m'occupasse una sùbita
tiepidezza, che indietro tirò la volontà presta a
rallegrarsi; per che quasi smarrita rimasi nel mezzo del mio parlare.
Ohimè! che questo vizio propriamente li miseri séguita,
cioè il non potere mai credere alle cose liete; e avvegna che
la felice fortuna ritorni, nonpertanto agli afflitti incresce di
rallegrarsi, e quasi sognare credendosi, quella, come non fosse,
usano mollemente; per che io fra me quasi come attonita
cominciai:
"Chi mi richiama o
vieta dalla cominciata allegrezza? Non torna egli il mio Panfilo?
Certo sì: dunque chi mi comanda di piagnere? Da niuna parte
m'è ora giunta di tristizia cagione; ora adunque chi mi vieta
d'adornarmi di nuovi fiori e delle ricche robe? Ohimè! che io
non so, e pur vietato m'è, né so da chi".
E così stando, quasi in me non fossi, intra li miei errori,
non volendo io, da' miei occhi caddero lagrime, e in mezzo le voci
mie venne l'usato pianto: così il lungamente afflitto petto
ancora amava gli assuefatti lagrimari. La mente mia, quasi del futuro
indovina, col pianto, di ciò che avvenire doveva mandò
fuori aperti segni, per li quali io ora veramente conosco allora a'
navicanti grandissima tempesta essere apparecchiata, quando senza
vento enfiano li mari tranquilli; ma pure, vaga di vincere quello che
l'anima non voleva, dissi:
- O
misera, quali annunzii, quali émpeti, non bisognandoti,
venturi t'infigni? Presta la credula mente a' beni venuti: che che
questo sia che tu t'annunzi, tardi temi e senza profitto.
Adunque, da questo ragionare innanzi io mi diedi sopra la cominciata
letizia, e li tristi pensieri, come potei, da me cacciai; e
sollecitata la cara balia che intenta stesse della tornata del nostro
amante, trasmutai li tristi vestimenti in lieti, e di me cominciai ad
avere cura, acciò che da lui tornato per afflitto viso
rifiutata non fossi. La palida faccia cominciò a riprendere il
perduto colore, e la partita grassezza cominciò a ritornare, e
le lagrime, del tutto andate via, se ne portarono con loro il
purpureo cerchio fatto d'intorno agli occhi miei; e gli occhi nel
debito luogo tornati riebbero intera la luce loro, e le guance per lo
lagrimare divenute aspre si ritornarono nella pristina loro
morbidezza; e li nostri capelli, avvegna che subitamente aurei non
tornassero, nondimeno l'ordine usato ripresero; e li cari e preziosi
vestimenti, lungamente senza essere stati adoperati, m'adornarono.
Che più? Io con meco insieme rinnovai ogni cosa, e nella prima
bellezza e stato quasi mi ridussi tutta, tanto che le vicine donne, e
li parenti, e il caro marito n'ebbero ammirazione, e ciascheduno in
sé disse: "Quale spirazione ha di costei tratta la lunga
tristizia e malinconia, la quale né per prieghi, né per
conforti mai per addietro da lei si poté cacciar via? Questo
non è meno che gran fatto"; e con tutto il maravigliare
n'erano lietissimi. La nostra casa lungamente stata trista per la mia
tribulazione, tutta meco ritornò lieta; e così come il
mio cuore era mutato, così tutte le cose di triste in liete
pareva che si mutassero.
Li giorni,
che più che l'usato mi pareano lunghi, per la presa speranza
della futura tornata di Panfilo, trapassavano con passo lento; né
più volte furono li primi da me contati, che fossero quelli,
ne' quali io alcuna volta in me raccolta, alle preterite tristizie
pensando e agli avuti pensieri, sommamente in me li dannava, così
dicendo:
- Oh quanto male per
addietro ho pensato del caro amante, e come perfidamente ho dannate
le sue dimoranze, e follemente ho creduto a chi lui essere d'altra
donna che mio m'ha detto alcuna volta! Maladette sieno le loro bugie!
O Iddio, come possono gli uomini con così aperto viso mentire?
Ma certo dalla mia parte ciascuna di queste cose era da fare con più
pensato consiglio che io non faceva. Io doveva contrappesare la fede
del mio amante tante volte a me promessa, e con tante lagrime e così
affettuosamente, e l'amore il quale egli mi portava e porta, con le
parole di coloro li quali senza alcuno saramento parlavano, e non
curantisi d'avere più investigato, di quello che essi
parlavano, che solamente il loro primo e superficiale parere. Il che
assai manifestamente appare: l'uno veggendo entrare una novella sposa
nella casa di Panfilo, però che altro giovane di lui in quella
non conosceva, non considerando alla biasimevole lascivia de' vecchi,
sua la credette, e così ne disse, a che assai appare lui poco
di noi curarsi; l'altro, però che forse alcuna volta o
riguardarlo, o motteggiare il vide ad alcuna bella donna, la quale
per avventura era o sua parente o onestamente dimestica, sua la
credette, e così con semplici parole affermandolo, gliele
credetti. Oh se io avessi queste cose debitamente considerate, quante
lagrime, quanti sospiri, e quanto dolore sarebbe da me stato
lontano!
Ma qual cosa possono
gl'innamorati dirittamente fare? Come gli émpiti vengono, così
si muovono le nostre menti. Gli amanti credono ogni cosa, però
che amore è cosa sollecita e piena di paura. Essi, per usanza
continua, sempre s'adattano gli accidenti nocivi, e, molto
disideranti, ogni cosa credono possibile ad essere contraria a' loro
disii, e alle seconde prestano lenta fede. Ma io sono da essere
scusata, però che io pregai sempre gl'iddii che me de' miei
disii facessero mentitrice. Ecco che le mie preghiere sono state
udite: egli ancora non saprà queste cose; le quali se pure le
sapesse, che altro se ne potrà per lui dire, se non
"Ferventemente m'amava costei"? E gli dovrà essere
caro sapere le mie angoscie, e li corsi pericoli, però che
essi gli fieno verissimo argomento della mia fede. E appena che io
dubiti che egli ad altro fine sia dimorato cotanto, se non per
provare se con forte animo, senza cambiarlo, lui ho potuto
aspettare.
Ecco che fortemente l'ho
aspettato: dunque di quinci, sentendo egli con quanta fatica e
lagrime e pensieri atteso l'abbia, nascerà amore e non altro.
O Iddio, quando sarà che egli venuto mi vegga, e io lui? O
Iddio che vedi tutte le cose, potrò io temperare l'ardente mio
disio d'abbracciarlo in presenza d'ogni uomo, come io primieramente
il vedrò? Certo appena che io il creda. O Iddio, quando sarà
che io, nelle mie braccia tenendolo stretto, gli renda li baci, i
quali egli nel suo partire diede al mio tramortito viso senza
riaverli? Certo l'agurio preso da me del non potergli dire addio è
stato vero, e bene m'hanno in quello gl'iddii mostrata la sua futura
tornata. O Iddio, quando sarà che io le mie lagrime e le mie
angoscie gli possa dire, e ascoltare le cagioni della sua lunga
dimoranza? Vivrò io tanto? Appena che io il creda. Deh, venga
tosto quel giorno, però che la morte, molto da me per addietro
non solamente chiamata, ma cercata, ora mi spaventa: la quale, se
possibile è che alcuno priego alle sue orecchie pervenga, la
priego che, da me lontanandosi, col mio Panfilo li miei giovini anni
in allegrezza lasci trascorrere.
Io
era sollecita che niuno giorno passasse che io della tornata di
Panfilo non sentissi vera novella, e più volte la cara balia
sollecitai a ritrovare il giovine nunziatore della lieta novella,
acciò che con più fermezza si facesse accertare di ciò
che detto m'avea, ed ella il fece non una volta sola, ma molte, e
tuttavia secondo li procedenti tempi più prossimana tornata mi
nunziava. Io non solamente il tempo promesso aspettava, ma
precorrendo innanzi, imaginava possibile lui essere venuto, e
infinite volte il giorno, ora alle mie finestre, ora alla porta
correva, in giù e in su riguardando per la lunga via, se io
lui venire vedessi; né per quella di lontano vedeva alcuno
uomo venire, che io non imaginassi possibile essere esso, e quello
con disiderio aspettava infino a tanto che, fattomisi vicino, lui
conosceva non essere desso; di che alquanto meco rimanendo confusa,
agli altri, se alcuno ne veniva, attendeva, e ora questo e ora quello
trapassando mi tenevano sospesa; e se forse io richiamata dentro in
casa, o per altra cagione, da me v'andava, come da infiniti cani
fossi nell'anima addentata mi stimolavano centomilia pensieri
dicendo: "Deh! forse passa egli testé, o è passato
mentre che tu a riguardare non se' stata: ritorna". E così
ritornava, e poi mi levava, e da capo mi ritornava a vedere, poco
altro tempo mettendo in mezzo che ad andare dalla finestra alla
porta, e dalla porta alla finestra. Oh misera me! quanta fatica per
quello che mai avvenire non doveva, d'ora in ora aspettando,
sostenni!
Ma poi che venne il
giorno stato detto alla mia balia che egli dovea venire, il quale
essa più volte m'avea predetto, non altramente che Almena alla
fama del suo venturo Anfitrione m'adornai, e con maestrissima mano
niuna parte in me lasciai senza bellezza nell'essere suo; e appena mi
pote' ritenere d'andare a' marini liti, acciò che io lui più
tosto potessi vedere, nunziandosi fermamente quelle galee giugnere
sopra le quali la mia balia era stata accertata lui dovere venire; ma
meco pensando: "La prima cosa la quale egli farà sarà
ch'egli mi verrà a vedere", per questo adunque raffrenai
il caldo disio. Ma egli, sì come io imaginava, non veniva:
ond'io oltremodo mi cominciai a maravigliare, e nel mezzo
dell'allegrezza mi sursero nella mente varie dubitazioni, le quali
non leggiermente furono vinte da' lieti pensieri. Rimandai adunque
dopo alquanto la vecchia a sapere che di lui fosse, e se venuto fosse
o no; la quale andatavi, per quel che a me paresse più
pigramente che mai, per la qual cosa io più volte maladissi la
sua tarda vecchiezza. Ma dopo alquanto spazio ella a me ritornò
con tristo viso e lento passo. Ohimè! che quando io la vidi,
appena vita rimase nel tristo petto, e sùbito pensai non morto
nel cammino, o infermo venuto fosse l'amante. Il mio viso mutò
mille colori in un punto, e fattami incontro alla pigra vecchia
dissi:
- Di' tosto: che novelle
rechi tu? Vive l'amante mio?
Ella
non mutò il passo né rispose alcuna cosa, ma postasi
nella prima giunta a sedere, mi riguardava nel viso; ma io già
tutta come novella fronda agitata dal vento tremava, e appena le
lagrime ritenente, messemi le mani nel petto, dissi:
- Se tu non di' tosto che vuole significare il tristo viso che porti,
niuna parte de' nostri vestimenti rimarrà salda. Quale cagione
ti tiene tacita, se non rea? Non la celare più, manifestala,
mentre che io spero peggio. Vive il nostro Panfilo?
Ella, stimolata dalle mie parole, con voce sommessa, mirando la terra
disse:
- Vive.
- Dunque - diss'io allora - perché non di' tosto quale
accidente l'occupi? Perché sospesa mi tieni in mille mali? E`
egli d'infermità occupato? O quale accidente il ritiene che
egli a vedermi della galea smontato non viene?
Ed ella disse:
- Non so se
infermità o altro accidente l'occupa.
- Dunque - diss'io - non l'hai tu veduto, o forse non è
venuto?
Ella allora disse:
- Veramente l'ho io veduto, ed è venuto, ma non quello che noi
attendevamo.
Allora diss'io:
- E chi t'ha fatta certa che quegli che è venuto non sia
desso? Vedestil tu altra volta, o ora con occhio chiaro il
rimirasti?
- Veramente - disse ella
- io nol vidi altra volta costui, che io sappia; ma ora, a lui
venuta, da quello giovine menata che della sua tornata m'aveva prima
parlato, dicendogli egli che io più volte di lui avea
dimandato, mi dimandò che dimandassi; al quale io risposi la
sua salute; e dimandatolo io come il vecchio padre stesse, e in che
stato l'altre cose sue fossero, e quale era stata la cagione di sì
lunga dimora dopo la sua partita, rispose sé padre mai non
avere conosciuto, però che postumo era, e che le sue cose,
degl'iddii grazia, tutte prosperamente stavano, e che mai più
quivi non era dimorato e ora intendeva di dimorarci poco. Queste cose
mi fecero maravigliare, e dubitando non fossi gabbata, dimandai del
suo nome, il quale egli semplicemente mi disse; il quale io non udii
prima, che da somiglianza di nome me con teco conobbi
ingannata.
Udite io queste cose, il
lume fuggì agli occhi miei e ogni spirito sensitivo per paura
di morte se n'andò via, e appena, sopra le scale cadendo là
dove io era, tanta forza rimase in tutto il corpo che mi bastasse a
dire "Ohimè!". La misera vecchia piagnendo, e
l'altre servigiali della casa chiamate, me per morta nella trista
camera sopra il mio letto portarono, e quivi con acque fredde
rivocando gli smarriti spiriti, per lungo spazio credendo e non
credendo me viva guardarono; ma poi che le perdute forze tornarono,
dopo molte lagrime e sospiri, un'altra volta dimandai la dolente
balia se così era come avea detto.
E oltre a ciò, ricordandomi quanto cauto essere solesse
Panfilo, dubitando non egli si celasse dalla balia, con la quale mai
non aveva parlato, aggiunsi che le fattezze di quel Panfilo, col
quale ella era stata in ragionamento, mi dichiarasse. Ed essa
primieramente con saramento affermandomi così essere come
detto aveva, ordinatamente e la statura e le fattezze de' membri, e
massimamente quelle del viso e l'abito di colui mi dimostrò;
li quali intera fede mi fecero così essere come la vecchia
diceva. Per che, cacciata d'ogni speranza, rientrai ne' primi guai, e
levata, quasi furiosa, le liete robe mi trassi, e li cari ornamenti
riposi, e gli ordinati capelli con inimica mano trassi dell'ordine
loro, e senza niuno conforto a piagnere cominciai duramente, e con
amare parole biasimare la fallita speranza e li non veri pensieri
avuti dell'iniquo amante, e in brieve tutta nelle prime miserie
tornai, e troppo più fervente disio di morte ebbi che prima;
né da quella sarei fuggita, come già feci, se non che
la speranza del futuro viaggio da ciò con forza non piccola mi
ritenne.
Capitolo VIII.
Nel quale Madonna Fiammetta le pene sue con quelle di molte antiche donne commensurando, le sue maggiori che alcune altre essere dimostra, e poi finalmente a' suoi lamenti conchiude.
Sono adunque, o pietosissime donne, rimasa in cotale via, qual voi
potete nelle cose udite presumere; e tanto opera più verso me
che l'usato il mio ingrato signore, che quanto più vede la
speranza da me fuggire, tanto più con disiderii soffiando
nelle sue fiamme, le fa maggiori; le quali come crescono, così
le mie tribulazioni s'aumentano; ed esse mai da unguento debito non
essendo allenite, più ognora inaspriscono e, più aspre,
più affliggono la trista mente. Né dubito che ad esse
secondo il loro còrso seguendo, che già esse alla mia
morte da me tanto per addietro disiderata con dicevole modo avessero
aperta la via; ma avendo io ferma speranza posta di dovere, come già
dissi, nel futuro viaggio rivedere colui che di ciò m'è
cagione, non di mitigarle m'ingegno, ma piuttosto di sostenerle. Alla
qual cosa fare solo un modo possibile ho trovato intra gli altri, il
quale è le mie pene con quelle di coloro che sono dolorosi
passati commensurare, e in ciò mi seguitano due acconci: l'uno
è che sola nelle miserie non mi veggio né prima, come
già confortandomi la mia nutrice mi disse; l'altro è
che, secondo il mio giudicio, compensata ogni cosa degli altrui
affanni, li miei ogni altri trapassare di gran lunga dilibero; il che
a non piccola gloria mi reco, potendo dire che io sola sia colei, che
viva abbia sostenute più crudeli pene che alcuna altra. E con
questa gloria, fuggita sì come somma miseria da ognuno e da
me, se io potessi, al presente in cotale guisa quale udirete il tempo
malinconosa trapasso.
Dico adunque
che ne' miei dolori affannata gli altrui ricercando, primieramente
gli amori della figliuola d'Inaco, la quale io morbida e vezzosa
donzella primieramente figuro, quindi la sua felicità,
sentendosi amata da Giove, con meco penso: la qual cosa ad ogni donna
per sommo bene senza dubbio dovria essere assai; quindi lei
trasmutata in vacca e guardata da Argo ad instanzia di Giunone
rimirandola, in grandissima ansietà oltremodo essere la credo.
E certo io giudico li suoi dolori li miei in molto avanzare, se ella
non avesse avuto continuamente a sua protezione l'amante iddio. E chi
dubita, se io il mio amante avessi aiutatore ne' danni miei, o pure
di me pietoso, che pena niuna mi fosse grave? Oltre a ciò il
fine di costei fa le sue passate fatiche levissime, però che,
morto Argo, con grave corpo leggierissimamente trasportata in Egitto,
e, quivi in propria forma tornata e maritata ad Osiri, felicissima
reina si vide. Certo se io potessi sperare pure nella mia vecchiezza
rivedere mio il mio Panfilo, io direi le mie pene non essere da
mescolare con quelle di questa donna; ma solo Iddio il sa se essere
dee, come che io con isperanza falsa me stessa di ciò
inganni.
Appresso costei, mi si
para davanti l'amor della sventurata Biblìs, la quale ogni suo
bene mi pare vederli lasciare, e seguitare il non pieghevole Cauno. E
con questa insieme considero la scelerata Mirra, la quale, dopo li
suoi mal goduti amori, fuggendo la morte dall'adirato padre
minacciatale, in quella, misera, incappò. Veggio ancora la
dolorosa Canace, a cui, dopo il miserabile parto mal conceputo, niuna
altra cosa che 'l morir fu conceduto; e meco stessa pensando bene
all'angoscia di ciascheduna, senza niuno dubbio grandissima la
discerno, avvegna che abominevoli fossero li loro amori. Ma se bene
considero, io le veggo finite, o per finire in corto spazio, però
che Mirra nell'albero del suo nome, avendo gl'iddii secondi al suo
disio, senza alcuno indugio fuggendo, fu permutata, né più
(posto che egli sempre lagrimi, sì come ella, allora che mutò
forma, faceva) alcuna delle sue pene sente; e così come la
cagione da dolersi le venne, così quella le giunse che le
tolse la doglia. Biblìs similmente, secondo che alcuno dice,
col capestro le terminò senza indugio, avvegna che altri tenga
che ella, per beneficio delle ninfe pietose de' suoi danni, in fonte,
ancora il suo nome servante, si convertisse; e questo avvenne, come
conobbe a sé da Cauno negato del tutto il suo piacere. Che
dunque dirò, mostrando la mia pena molto maggiore che quella
di queste donne, se non che la brevità della loro è
dalla mia molto lunga avanzata?
Considerate adunque costoro, mi viene la pietà dello
sfortunato Piramo e della sua Tisbe, a' quali io porto non poca
compassione, imaginandoli giovinetti, e con affanno lungamente avere
amato, ed essendo per congiugnere i loro disii, perdere se medesimi.
Oh, quanto è da credere che con amara doglia fosse il
giovinetto trafitto nella tacita notte, sopra la chiara fontana appiè
del gelso trovando li vestimenti della sua Tisbe laniati da salvatica
fiera e sanguinosi, per li quali segnali egli meritamente lei
divorata comprese! Certo l'uccidere se medesimo il dimostra. Poi, in
me rivolgendo i pensieri della misera Tisbe guardante davanti da sé
il suo amante pieno di sangue, e ancora con poca vita palpitante,
quelli e le sue lagrime sento, e sì le conosco cocenti, che
appena altre più che quelle, fuori che le mie, mi si lascia
credere che cuocano, però che questi due, sì come li
già detti, nel cominciare de' loro dolori quelli terminarono.
Oh, felici anime le loro, se così nell'altro mondo s'ama come
in questo! Niuna pena di quello si potrà adeguare al diletto
della loro etterna compagnia.
Vienmi poi innanzi, con molta più forza che alcuno altro, il
dolore dell'abandonata Dido, però che più al mio
simigliante il conosco quasi che altro alcuno. Io imagino lei
edificante Cartagine, e con somma pompa dare leggi nel tempio di
Giunone a' suoi popoli, e quivi benignamente ricevere il forestiere
Enea naufrago, ed essere presa della sua forma, e sé e le sue
cose rimettere nell'arbitrio del troiano duca; il quale, avendo le
reali delizie usate al suo piacere, e lei di giorno in giorno più
accesa del suo amore, abandonatala si diparte. Oh quanto senza
comparazione mi si mostra miserevole, mirando lei riguardante il mare
pieno di legni del fuggente amante! Ma ultimamente, più
impaziente che dolorosa la tengo, considerando alla sua morte. E
certo io nel primo partire di Panfilo sentii per mio avviso quel
medesimo dolore, che nella partita di Enea; così avessero
allora gl'iddii voluto che io poco sofferente mi fossi subitamente
uccisa! Almeno, sì come lei, sarei stata fuori delle mie pene,
le quali poi continuamente sono diventate maggiori.
Oltre a questi pensieri miserabili mi si para davanti la tristizia
della dolente Ero di Sesto, e vedere la mi pare discesa dell'alta
torre sopra li marini liti, ne' quali essa era usata di ricevere il
faticato Leandro nelle sue braccia, e quivi con gravissimo pianto la
mi pare vedere riguardare il morto amante sospinto da uno dalfino,
ignudo giacere sopra la rena, e poi essa con li suoi vestimenti
asciugare il morto viso della salata acqua, e bagnarlo di molte
lagrime. Ahi! con quanta compassione mi strigne costei nel pensiero!
In verità con molta più che nessuna delle donne ancora
dette, tanto che talvolta fu che, obliati li miei dolori, de' suoi
lagrimai. E ultimamente alla sua consolazione modo alcuno io non
conosco, se non de' due l'uno: o morire, o lui, sì come gli
altri morti si fanno, dimenticare. Qualunque di questi si prende, è
il dolore finire; niuna cosa perduta, la quale di riavere non si
possa sperare, può lungamente dolere. Ma cessi Iddio, però,
che questo avvenga a me; il che se pure avvenisse, niuno consiglio se
non la morte ci piglierei. Ma mentre che il mio Panfilo vive, la cui
vita lunghissima facciano gl'iddii come egli stesso disia, non mi
puote quello avvenire, però che, veggendo le mondane cose in
continuo moto, sempre mi si lascia credere che egli alcuna volta
debba ritornare mio, sì come egli fu altra fiata; ma questa
speranza non venendo ad effetto, gravissima fa la mia vita
continuamente, e però me di maggior doglia gravata
tengo.
Ricordami alcuna volta avere
letti li franceschi romanzi, a' quali se fede alcuna si puote
attribuire, Tristano e Isotta oltre ad ogni altro amante essersi
amati, e con diletto mescolato a molte avversità avere la loro
età più giovine essercitata dobbiamo credere; li quali,
però che molto amandosi insieme vennero ad un fine, non pare
che si creda che senza grandissima doglia e dell'uno e dell'altro li
mondani diletti abandonassero: il che agevolmente si può
concedere, se essi con credenza si partirono del mondo, che altrove
questi diletti non si potessero avere; ma se questa oppinione ebbero
d'essere altrove, come di qua erano, piuttosto a loro nel loro morire
letizia si dee credere che tristizia la ricevuta morte, la quale,
benché da molti sia fierissima e dura tenuta, non credo che
sia così. E che certezza di doglia puote uno rendere,
testimoniando cosa che egli non provò mai? Certo niuna. Nelle
braccia di Tristano era la morte di sé e della sua donna: se
quando strinse gli fosse doluto, egli avrebbe aperte le braccia, e
saria cessato il dolore. E oltre a ciò, diciamo pure che
gravissima sia ragionevolmente: che gravezza diremo noi che possa
essere in cosa che non avvenga se non una volta, e quella occupi
pochissimo spazio di tempo? Certo niuna. Finirono adunque Isotta e
Tristano ad un'ora li diletti e le doglie, ma a me molto tempo in
doglia incomparabile è sopra gli avuti diletti avanzato.
Aggiugne ancora il mio pensiero al numero delle predette la misera
Fedra, la quale, col suo mal consigliato furore, fu cagione di
crudelissima morte a colui il quale ella più che se medesima
amava. E certo io non so quello che a lei si seguì di cotale
fallo, ma certa sono, se a me mai avvenisse, niuna altra cosa che
rapinosa morte il purgherebbe; ma se essa pure in vita si sostenne
così come già dissi, agevolmente il mise in oblio, come
mettere si sogliono le cose morte.
E oltre a ciò con costei accompagno la doglia che sentì
Laudomia, e quella di Deifile e d'Argìa e di Evannes e di
Deianira e d'altre molte, le quali o da morte o da necessaria
dimenticanza furono racconsolate. E che può cuocere il fuoco,
o il caldo ferro, o li fonduti metalli a chi dentro subitamente vi
tuffa il dito, e sùbito fuori nel trae? Senza dubbio credo che
molto, ma nulla è a rispetto di chi per lungo spazio vi sta
dentro con tutto il corpo; il che a quante ne ho di sopra in pene
discritte, si può dire il simigliante essere incontrato nelle
loro doglie, là dove io in esse sono stata e sto
continuamente.
Sono state le
predette noie amorose; ma, oltre a queste, lagrime non meno triste mi
si parano davanti, mosse da miserabili e inoppinati assalti della
fortuna, se quello è vero che egli sia generazione di sommo
infortunio l'essere stato felice. E queste sono quelle di Giocasta,
d'Ecuba, di Sofonisba, di Cornelia e di Cleopatras. Oh quanta
miseria, bene investigando di Giocasta gli avvenimenti, vedremo noi
avvenuta tutta a lei pertinente ne' giorni suoi, possibile a turbare
ogni forte animo! Ella, giovine maritata a Laio re tebano, il primo
suo parto convenne che alle fiere mandasse a divorare, credendo per
quello il misero padre fuggire quello che li cieli con còrso
infallibile gli apprestavano. Oh chente dolore dobbiamo pensare che
questo fosse, e maggiore pensando il grado di colei che mandava! Ella
poi da' portanti il tristo figliuolo certificata di ciò che
fatto aveano, lui reputando morto, dopo certo tempo da colui medesimo
cui ella avea partorito le fu il marito miseramente ucciso, e del non
conosciuto figliuolo divenne sposa, e generògli quattro
figliuoli; e così madre e moglie ad un'ora del patricida si
vide, e 'l riconobbe poi che egli, del regno e degli occhi privatosi
insiememente, la sua colpa fece palese.
Chente l'animo di lei già d'anni piena allora fosse, essendo
più di riposo vaga che di angoscia? Pensare si può che
fosse dolorosissimo; ma la sua fortuna, ancora non perdonante, più
guai aggiunse alla sua miseria. Ella vide con patti tra' due
figliuoli del regnare diviso il tempo, poi al non servante fratello
nella città rinchiuso vide dintorno gran parte di Grecia sotto
sette re, e ultimamente l'uno l'altro de' due figliuoli, dopo molte
battaglie e incendii, vide uccidere, e sotto altro reggimento,
scacciato il marito figliuolo, vide cadere le mura antiche della sua
terra edificate al suono della cetara d'Anfione, e perire il regno
suo; e impiccatasi, in forse lasciò le figliuole di
vituperevole vita. Che poterono più gl'iddii, il mondo e la
fortuna contro a costei? Certo nulla mi pare: cerchisi tutto lo
'nferno, appena che in esso tanta miseria si trovi. Ogni parte
d'angoscia provò, e così di colpa. Niuna sarebbe che
giudicasse la mia potere a questa aggiugnere; e certo io direi che
così fosse se ella non fosse amorosa. Chi dubita che costei,
sé e la sua casa e il marito degni dell'ira degl'iddii
conoscendo, non reputasse li suoi accidenti degni? Certo niuno che
lei senta discreta. Se ella fu pazza, vie meno li suoi danni conobbe,
li quali non conoscendo, non le dolevano. E chi sé degno
conosce del male che egli sostiene, senza noia, o con poca, il
comporta.
Ma io mai non commisi
cosa onde giustamente verso me si potessero o dovessero turbare
gl'iddii: continuamente gli ho onorati, e con vittime sempre la loro
grazia ho cercata, né sono di quelli stata dispregiatrice,
come già furono li Tebani. Bene potrebbe forse dire alcuna:
"Come di' tu non avere meritata ogni pena né mai avere
fallito? Or non hai tu rotte le sante leggi e con adultero giovine
violato il matrimoniale letto?" Certo sì. Ma, se bene si
guarderà, questo fallo solo è in me, il quale però
non merita queste pene, ché pensare si dee me tenera giovine
non potere resistere a quello che gl'iddii e li robusti uomini non
poterono. E in questo io non sono prima, né sarò
ultima, né sono sola, anzi quasi tutte quelle del mondo ho in
compagnia, e le leggi contro alle quali io ho commesso, sogliono
perdonare alla multitudine. Similmente la mia colpa è
occultissima, la qual cosa gran parte dee della vendetta sottrarre. E
oltre a tutto questo, posto che gl'iddii pure debitamente contro a me
crucciati fossero, e vendetta del mio fallo cercassero, non saria da
commettere il pigliar la vendetta a colui che del peccato m'è
stato cagione. Io non so chi mi condusse a rompere le sante leggi, o
Amore o la forma di Panfilo: qualunque si fosse, l'uno e l'altro avea
maggiori forze a tormentarmi aspramente, sì che già
questo non m'avvenne per lo fallo commesso, anzi è un dolore
nuovo e diviso dagli altri, più aspramente che alcuno
tormentante il suo sostenitore; il quale ancora se per lo peccato
commesso mel dessero gl'iddii, essi fariano contro al loro diritto
giudicio e usato costume, ché essi non compenserieno col
peccato la pena; la quale, se a' peccati di Giocasta si mira e alla
pena data, e al mio e alla pena che io soffero si guarda, ella poco
punita, e io di soperchio sarò conosciuta.
Né a questo s'appicchi alcuna, dicendo a lei privato il regno,
i figliuoli e il marito, e ultimamente la propria persona essere
stato, e a me solamente l'amante. Certo io il confesso; ma la fortuna
con questo amante trasse ogni felicità, e ciò che forse
alla vista degli uomini m'è felice rimaso, è il
contrario, però che il marito, le ricchezze, li parenti e
l'altre cose tutte mi sono gravissimo peso, e contrarie al mio disio;
le quali se come l'amante mi tolse m'avesse tolte, a fornire il mio
disio mi rimaneva apertissima via, la quale io avrei usata; e se
fornire non l'avessi potuta, mille generazioni di morte m'erano
presenti a potere usare per termine de' miei guai. Dunque più
gravi le pene mie che alcuna delle predette meritamente
giudico.
Ecuba appresso vegnente
nella mia mente, oltre modo mi pare dolorosa, la quale sola rimase a
vedere le dolenti reliquie scampate di sì gran regno, di sì
mirabile città, di sì fatto marito, di tanti figliuoli,
di tante figliuole e così belle, di tante nuore, di tanti
nipoti e di così grande ricchezza, di tanta eccellenza, di
tanti tagliati re, di così crudeli opere, e dello sperso
popolo troiano, de' caduti templi, de' fuggiti iddii, vecchia
mirandole; e nella memoria riducendo chi fosse il potente Ettore, chi
Troiolo, chi Deifebo e chi Polidoro, chi gli altri e come miseramente
tutti li vedesse morire; tornandosi a mente il sangue del suo marito,
poco avanti reverendo e da temere da tutto il mondo, spandere nel
tristo grembo, e l'avere veduta Troia d'altissimi palagi e di nobile
popolo piena, accesa di greco fuoco e abbattuta tutta; e oltre a ciò
il misero sacrificio fatto da Pirro della sua Pulissena, con quanta
tristizia si dee pensare che il riguardasse? Certo con molta. Ma
brieve fu la sua doglia; ché la debole e vecchia mente, non
potendo ciò sostenere, in lei smarritasi, la rendé
pazza, sì come il suo latrare per li campi fe'
manifesto.
Ma io con più
ferma e più sostenente memoria che non mi bisogna, a mio
danno, continuo rimango nel tristo senno, e più discerno le
cagioni da dolermi; per che, più lungamente perseverando in
male, come io fo, estimo quello, quantunque leggiero sia, da parere
molto più grave, sì come più volte ho già
detto, che il gravissimo il quale in brieve tempo si finisce e
termina.
Sofonisba, mescolata tra
l'avversità del vedovatico e le letizie delle nozze, in un
medesimo momento di tempo dolente e lieta, prigione e sposa,
spogliata del regno e rivestitane, e ultimamente in queste medesime
brievi permutazioni bevente il veleno, piena di noiosa angoscia
m'apparisce. Videsi costei reina altissima dei Numidi; quindi,
andando avversamente le cose de' suoi parenti, vide preso Siface suo
marito, e prigione divenire di Massinissa re, e ad un'ora caduta del
regno, e prigione del nemico nel mezzo dell'armi, facendolasi
Massinissa moglie, in quello restituita. Oh, con quanto sdegno
d'animo si dee credere che ella queste mutabili cose mirasse, né
sicura dalla volubile fortuna, con tristo cuore celebrasse le nuove
nozze! Il che il suo ardito finire assai chiaro dimostra; però
che non essendo dopo le sue sponsalizie ancora uno dì naturale
valicato, appena credendosi ella rimanere nel reggimento e seco di
ciò combattente, non accostandosi ancora al suo animo il nuovo
amore di Massinissa, come l'antico di Siface, ricevette dal servo,
mandato dal nuovo sposo, con ardita mano lo stemperato veleno, e
quello, premesse sdegnose parole, senza paura bevve, poco appresso
rendendo lo spirito. Oh, quanto amara si puote immaginare che stata
saria la vita di costei, se spazio avesse avuto di pensare! La quale
però tra le poco dolenti è da porre, considerando che
la morte quasi prevenne alla sua tristizia, dove ella a me ha
prestato tempo lunghissimo, e presta oltre a mia voglia, e presterà,
per farla maggiore.
Dietro a
questa, così piena di tristizia come fu, mi si para Cornelia,
la quale la fortuna avea tanto levata in alto, che prima di Crasso, e
poi moglie del magno Pompeo, il cui valore quasi sommo principato in
Roma avea acquistato, si vide; la quale prima di Roma, poi di tutta
Italia quasi in fuga, rivolgendo la fortuna le cose, col marito da
Cesare seguitato miseramente uscì, e dopo molti casi in Lesbo
lasciata da lui, quivi lui medesimo sconfitto in Tessaglia, e le sue
forze dal suo avversario abbattute, ricevette. E oltre a tutto
questo, lui ancora con isperanza di rintegrare la sua potenza nel
conquistato Oriente, il mare solcando, ne' regni d'Egitto arrivato,
da lui medesimo conceduti al giovine re, seguitò, e quivi il
suo busto senza capo infestato dalle marine onde vide. Le quali cose
ciascuna per sé, e tutte insieme, dobbiamo pensare che senza
comparazione afflissero l'anima sua; ma li sani consigli
dell'Uticense Catone, e la perduta speranza di più riaver
Pompeo, lei in piccolo tempo di molto poco renderono dogliosa, là
dove io, vanamente sperando, né da me potendo questa speranza
cacciare, senza alcuno consiglio o conforto, fuor che della vecchia
mia balia consapevole de' miei mali, nella quale io conosco più
fede che senno, perché spesso credendomi dare alle mie pene
rimedio, m'accresce doglia, dimoro piagnendo.
Sono ancora molti che crederebbero Cleopatras reina d'Egitto pena
intollerabile e oltre alla mia assai maggiore avere sofferta, però
che prima veggendosi col fratello insieme regnante e di ricchezza
abondante, e da questo in prigione messa, senza modo si crede
dolente; ma questo dolore futura speranza di quel che avvenne l'aiutò
agevolmente a portare. Ma poi di prigione uscita e divenuta di Cesare
amica, e da lui poi abandonata, sono chi pensano ciò da lei
con gravissimo affanno essere passato, non riguardando essere corta
noia d'amore in colui, o in colei, il quale a diletto si può
tòrre ad uno e darsi ad uno altro, come essa mostrò
spesse volte di potere. Ma cessi Iddio che in me mai tale
consolazione possa avvenire! Egli non fu né fia giammai, da
colui in fuori di cui io ragionevolmente esser dovrei, chi potesse
dire, o possa, che io mai fossi sua, o sia, se non Panfilo; e sua
vivo e viverò; né spero che mai alcuno altro amore
abbia forza di potermi il suo spegnere della mente. Oltre a ciò,
se ella di Cesare rimase sconsolata nel suo partire, sarebbero, chi
non sapesse il vero, di quelli che crederebbero ciò esserle
doluto; ma egli non fu così; ché, se essa del suo
partire si doleva, d'altra parte con allegrezza avanzante ogni
tristizia la racconsolava l'esserle rimaso di lui uno figliuolo e il
restituito regno. Questa letizia ha forza di vincere troppo maggiori
doglie che non sono quelle di chi lentamente ama, come io già
dissi che ella faceva.
Ma quello
che per sua gravissima ed estrema doglia s'aggiugne, è
l'essere stata moglie d'Antonio; il quale ella con le sue libidinose
lusinghe avea a cittadine guerre incitato contro il fratello; quasi
di quelle vittoria sperando, aspirava all'altezza del romano imperio,
ma venutale di ciò ad un'ora doppia perdita, cioè
quella del morto marito, e della spogliata speranza, lei
dolorosissima oltre ad ogni altra femina essere rimasa si crede. E
certo, considerando sì alto intendimento venire meno per una
disavventurata battaglia, quale è il dovere essere generale
donna di tutto il circuito della terra, senza aggiugnervi il perdere
così caro marito, è da credere essere dolorosissima
cosa; ma ella a ciò trovò subitamente quella sola
medicina che v'era a spegnere il suo dolore, cioè la morte; la
quale ancora che rigida fosse, non si distese però in lungo
spazio, però che in piccola ora possono per le poppe due
serpenti trarre d'un corpo il sangue e la vita. Oh quante volte io,
non minore doglia sentendo di lei, posto che per minore cagione
secondo il parere di molti, avrei volontieri fatto il simigliante se
io fossi stata lasciata, o pure paura di futura infamia da ciò
non m'avesse ritratta!
Con questa e
con le predette m'occorrono la eccellenzia di Ciro da Tamiris morto
nel sangue; il fuoco e l'acqua di Creso; li ricchi regni di Persio;
la magnificenza di Pirro; la potenza di Dario; la crudeltà di
Giugurta; la tirannia di Dionisio; l'altezza d'Agamennone, e altri
molti. Tutti da doglie simili alle predette o furono stimolati, o
altrui lasciarono sconsolati; li quali similmente furono da sùbiti
argomenti aiutati, né lungamente in quelle dimorando,
sentirono intera la loro gravezza, come io faccio.
Mentre che io vado agli antichi danni in cotal guisa, quale avanti
vedete, nella mia mente cercando per trovare lagrime o fatiche
meritamente alle mie simiglianti, acciò che avendo compagni mi
dolga meno, mi vengono innanzi quelle di Tieste e di Tereo, li quali
amenduni furono misera sepultura de' loro figliuoli. E senza dubbio
io non conosco qual temperanza a' riluttanti figliuoli nelle
interiora paterne per uscir fuori, abominando il luogo donde erano
entrati, di ritornarvi, ancora dubitando i crudeli morsi, né
avendo luogo per altra parte, li ritenne di loro aprire con li
taglienti ferri. Ma questi con ciò che poterono ad un'ora
l'odio e il dolore sfogarono, e quasi ne' danni prendevano conforto,
sentendo che senza colpa erano tenuti miseri da' loro popoli: quello
che a me non avviene. A me è portata compassione di ciò
onde io non ho doglia niuna, né oso scoprire quello onde io mi
doglio; la qual cosa se fare osassi, non dubito che, come agli altri
dolenti è stato alcuno rimedio, che a me similmente non si
trovasse.
Vengonmi ancora nella
mente talvolta le pietose lagrime di Licurgo e della sua casa,
meritamente avute del morto Archemoro, e con queste quelle della
dolente Atalanta madre di Partenopeo morto ne' tebani campi; e sì
proprie a me con li loro effetti s'accostano e sì mi si fanno
conoscere, che appena più sapere le potrei, se io non le
provassi, come già da me un'altra volta provate furono. Dico
che di tanta mestizia sono piene, che più non potrebbero, ma
ciascune con tanta gloria sono in etterno ritratte, che quasi liete
si potriano dire: quelle di Licurgo con le notabili essequie onorate
da sette re e da infiniti giuochi fatti da loro, e quelle d'Atalanta
dalla laudevole vita e morte vittoriosa del figliuolo. A me non è
niuna cosa che le mie lagrime bene impiegate faccia contente, però
che se questo fosse, là dove io più che alcuna mi
chiamo dogliosa, e sono, forse al contrario affermare
m'accosterei.
Mostranmisi ancora le
lunghe fatiche d'Ulisse, e li mortali pericoli, e gli strabocchevoli
fatti essere a lui non senza gravissime angoscie d'animo intervenute;
ma in me ripetute più volte, le mie fanno più gravi
estimare; e udite perché. Egli prima e principalmente, uomo,
dunque di natura più forte a sostenere di me tenera giovine;
egli robusto e fiero, sempre negli affanni e ne' pericoli usato,
quasi naturato fra loro, allora che egli faticava gli pareva avere
sommo riposo; ma io nella mia camera tra le morbide cose dilicata e
usa di trastullarmi col lascivo amore, ogni piccola pena m'è
grave molto; egli da Nettuno stimolato e in varie parti portato, e da
Eolo similmente le sue fatiche ricevette; ma io sono infestata dal
sollecito Amore, da signore il quale già molestò e
vinse coloro che infestarono Ulisse; e se a lui erano imminenti li
mortali pericoli, egli li andava cercando; e chi si può
ramaricare, se egli trova quello che cerca? Ma io misera volontieri
viverei quieta, se io potessi; e quelli fuggirei, se ad essi non
fossi sospinta. Oltre a ciò, egli non temeva la morte, e però
sicuramente si metteva nelle sue forze, ma io la temo, e da doglia
sforzata, alcuna volta non senza speranza di grave doglia corsi verso
lei. Egli ancora della sua fatica e pericoli sperava etterna gloria e
fama, ma io delle mie vituperio temo e infamia, se avvenisse che si
scoprissero. Sì che già non avanzano le sue le mie,
anzi sono dalle mie molto le sue avanzate; e in tanto più, in
quanto di lui molto più che non fu se ne scrive, ma le mie
sono molto più che io non posso contare.
Dopo tutti questi, quasi da se medesimi riservati, come molto gravi
mi si fanno sentire i guai d'Isifile, di Medea, d'Oenone e d'Adriana,
le lagrime delle quali e i dolori assai con le mie simiglianti le
giudico; però che ciascuna di queste, dal suo amante
ingannata, così come io, sparse lagrime, gittò sospiri,
e amarissime pene senza frutto sostenne; le quali, avvegna che, come
è detto, sì come io si dolessero, pure ebbero termine
con giusta vendetta le lagrime loro, la qual cosa ancora non hanno le
mie. Isifile avvegna che molto avesse onorato Giasone, e suo per
debita legge se lo avesse obligato, veggendolsi da Medea tolto, come
io posso, ragionevolmente si poté dolere; ma la provvidenza
degl'iddii con occhio giusto guardante ad ogni cosa, se non a miei
danni, le rendé gran parte della disiderata letizia, però
che ella vide Medea, che Giasone le aveva tolto, da Giasone per
Creusa abandonata. Certo io non dico che la mia miseria finisse, se
questo vedessi a colei avvenire che m'ha tolto il mio Panfilo,
eccetto se io non fossi già colei che gliel togliessi, ma ben
dico che gran parte mancherebbe di quella. Medea similmente si
rallegrò di vendetta, posto che essa così crudele
divenisse contro di sé, come contro lo 'ngrato amante,
uccidendo li comuni figliuoli in presenza di lui, ardendo li reali
ostieri con la nuova donna. Oenone ancora, lungamente dolutasi, alla
fine sentì l'infedele e disleale amante avere sostenuta
meritamente pena delle rotte leggi, e la sua terra per la mal mutata
donna vide in fiamme consumarsi miseramente. Ma certo io amo meglio
li miei dolori che cotal vendetta del mio.
Adriana ancora, divenuta moglie di Bacco, vide dal cielo furiosa
Fedra dell'amor del figliastro, la quale prima era stata consenziente
al suo abandonamento nell'isola per divenire di Teseo. Sì che,
ogni cosa pensata, io sola tra le misere mi trovo ottenere il
principato, e più non posso.
Ma se forse, o donne, li miei argomenti frivoli già tenete, e
ciechi come da cieca amante li reputate, l'altrui lagrime più
che le miei infelici estimando, quest'uno solo e ultimo a tutti gli
altri dea supplimento: se chi porta invidia è più
misero che colui a cui la porta, io sono di tutti li predetti de'
loro accidenti, meno miseri che li miei reputandoli, invidiosa.
Ecco, adunque, o donne, che per gli antichi inganni della Fortuna io
sono misera; e oltre a questo, essa, non altramente che come la
lucerna vicina al suo spegnersi suole alcuna vampa piena di luce
maggiore che l'usato gittare, ha fatto; però che, dandomi in
apparenza alcuno rifrigerio, me poi nelle separate lagrime
ritornante, ha miserissima fatta. E acciò che io, proposta
ogni altra comparazione, con una sola m'ingegni di farvi certe de'
nuovi mali, v'affermo con quella gravità che le misere mie
pari possono maggiore affermare, cotanto essere le mie pene al
presente più gravi, che esse avanti la vana letizia fosero,
quanto più le febbri sogliono, con egual caldo o freddo
vegnendo, offendere li ricaduti inferni che le primiere. E perciò
che accumulazione di pene, ma non di nuove parole, vi potrei dare,
essendo alquanto di voi diventata pietosa, per non darvi più
tedio in più lunga dimoranza traendo le vostre lagrime,
s'alcuna di voi forse leggendo n'ha sparte o spande, e per non
ispendere il tempo, che me a lagrimare richiama, in più
parole, di tacere omai dilibero, faccendovi manifesto non essere
altra comparazione dal mio narrare verissimo a quello che io sento,
che sia dal fuoco dipinto a quello che veramente arde. Al quale io
priego Iddio, che per li vostri prieghi, o per li miei, sopra quello
salutevole acqua mandi, o con trista morte di me, o con lieta tornata
di Panfilo.
Capitolo IX.
Nel quale Madonna Fiammetta parla al libro suo, imponendogli in che abito, e quando e a cui egli debba andare, e da cui guardarsi; e fa fine.
O piccolo mio libretto, tratto quasi della sepultura della tua donna,
ecco, sì come a me piace, la tua fine è venuta con più
sollecito piede che quella de' nostri danni; adunque, tale quale tu
se' dalle mie mani scritto, e in più parti dalle mie lagrime
offeso, dinanzi dalle innamorate donne ti presenta: esse, pietà
guidandoti, sì come io fermissimamente spero, ti vedranno
volontieri, se Amore non ha mutate leggi poi che noi misera
divenimmo. Né ti sia in questo abito così vile come io
ti mando, vergogna d'andare a ciascheduna, quantunque ella sia
grande, pure che essa te avere non ricusi. A te non si richiede abito
altramente fatto, posto che io pure dare tel volessi. Tu dei essere
contento di mostrarti simigliante al tempo mio, il quale, essendo
infelicissimo, te di miseria veste, come fa me; e però non ti
sia cura d'alcuno ornamento, sì come gli altri sogliono avere,
cioè di nobili coverte di colori varii tinte e ornate, o di
pulita tonditura, o di leggiadri minii, o di gran titoli; queste cose
non si convengono a' gravi pianti, li quali tu porti; lascia e queste
e li larghi spazii e li lieti inchiostri e l'impomiciate carte a'
libri felici; a te si conviene d'andare rabbuffato con isparte
chiome, e macchiato e di squallore pieno, là dove io ti mando,
e co' miei infortunii negli animi di quelle che ti leggeranno destare
la santa pietà. La quale se avviene che per te di sé
ne' bellissimi visi mostri segnali, incontanente di ciò rendi
merito qual tu puoi. E io né tu non siamo sì dalla
fortuna avvallati, che essi non sieno grandissimi in noi da poter
dare; né questi sono però altri, se non quelli li quali
essa a niuno misero può tòrre, cioè essemplo di
sé donare a quelli che sono felici, acciò che essi
pongano modo a' loro beni, e fuggano di divenire simili a noi; il
quale, sì come tu puoi, sì fatto dimostra di me, che,
se savie sono, ne' loro amori savissime ad ovviare agli occulti
inganni de' giovini diventino per paura de' nostri mali.
Va adunque: io non so qual passo si convenga a te piuttosto, o
sollecito o quieto, né so quali partì prima da te sieno
da essere cercate, né so come tu sarai né da cui
ricevuto. Così come la fortuna ti pigne, così procedi:
il tuo corso non può essere guari ordinato. A te occulta il
nuvoloso tempo ogni stella, le quali se pure tutte paressero, niuno
argomento t'ha l'impetuosa fortuna lasciato a tua salute; e perciò
in qua e in là ributtato, come nave senza temone e senza vela
dall'onde gittata, così t'abandona, e come li luoghi
richieggiono, così usa varii li consigli. Se tu forse alle
mani d'alcuna pervieni, la quale sì felici usi li suoi amori
che le nostre angoscie schernisca, e per folle forse riprendane,
umile sostieni li gabbi fatti, li quali menomissima parte sono de'
nostri mali, e a lei la fortuna essere mobile torna a mente, per la
qual cosa noi lieta, e lei come noi potrebbe rendere in brieve, e
risa e beffe per beffe le renderemmo. E se tu alcuna troverai che,
leggendoti, li suoi occhi asciutti non tenga, ma dolente e pietosa
de' nostri mali con le sue lagrime multiplichi le tue macchie, quelle
in te, sì come santissime, con le mie raccogli, e più
pietoso e afflitto mostrandoti, umile priega che per me prieghi colui
il quale che egli, forse da più degna bocca che la nostra
pregato, e più ad altrui pieghevole che a noi, allevii le
nostre angoscie. E io, chiunque ella fia, priego da ora con quella
voce che a' miseri più essaudevole è data, che ella mai
a tali miserie non pervenga, e che sempre le sieno gl'iddii placabili
e benigni, e li suoi amori secondo li suoi disii felici produca per
lunghi tempi.
Ma se per avventura
tra l'amorosa turba delle vaghe donne, delle mani d'una in altra
cambiandoti, pervieni a quelle dell'inimica donna usurpatrice de'
nostri beni, come di luogo iniquo fuggi incontanente, né parte
di te non mostrare agli occhi ladri, acciò che ella la seconda
volta, sentendo le nostre pene, non si rallegri d'averci nociuto. Ma
se pure avviene che essa per forza ti tenga, e pure ti voglia vedere,
per modo ti mostra, che non risa, ma lagrime le vengano de' nostri
danni, e a conscienza tornando, ci renda il nostro amante. Oh quanto
felice pietà sarebbe questa, e come fruttuosa la tua
fatica!
Gli occhi degli uomini
fuggi, da' quali se pure se' veduto di': "O generazione ingrata
e detrattrice delle semplici donne, non si convengono a voi di vedere
le cose pie". Ma se a colui che è de' nostri mali radice
pervieni, sgridalo dalla lunga e di': "O tu, più rigido
che alcuna quercia, fuggi di qui, e noi con le tue mani non violare:
la tua rotta fede è di tutto ciò che io porto cagione;
ma se con umana mente leggere mi vuogli, forse riconoscendo il fallo
commesso contro a colei, che, tornando tu ad essa, di perdonarti
disidera, vedimi; ma se ciò fare non vuogli, non si conviene a
te di vedere le lagrime che date hai, e specialmente se d'accrescerle
dimori nel volere primo".
E se
forse alcuna donna delle tue parole rozzamente composte si
maraviglia, di' che quelle ne mandi via, però che li parlari
ornati richieggiono gli animi chiari e li tempi sereni e tranquilli.
E però piuttosto dirai che prenda ammirazione come a quel poco
che narri disordinato, bastò lo 'ntelletto e la mano,
considerando che dall'una parte amore e dall'altra gelosia con varie
trafitte in continua battaglia tengono il dolente animo, e in
nebuloso tempo favoreggiandogli la contraria fortuna.
Tu puoi da ogni aguato andar sicuro, sì come io credo, però
che nulla invidia te morderà con acuto dente; ma se pure più
misero di te si trovasse, che no 'l credo, il quale quasi a te come a
più beato di sé la portasse, làsciati mordere.
Io non so bene qual parte di te nuova offesa possa ricevere, sì
per tutto dalle percosse della fortuna ti veggio essere lacerato.
Egli non ti può guari offendere, né farti d'alto
tornare in basso luogo, sì è infimo quello ove dimori.
E posto ancora che non bastasse alla Fortuna d'averci con la
superficie della terra congiunti, e ancora sotto quella cercasse di
sotterrarci, sì siamo nell'avversità anticati, che con
quelle spalle con le quali le maggiori cose abbiamo sostenute e
sosteniamo, sosterremo le minori: e però entra dove ella
vuole.
Vivi adunque: nullo ti può
di questo privare; ed essemplo etterno a' felici e a' miseri dimora
dell'angoscie della tua donna.
Qui finisce il libro chiamato elegia della nobile Madonna Fiammetta, mandato da lei a tutte le donne innamorate.