Giovanni Boccaccio
Trattatello in laude di Dante
De
origine vita, studiis et moribus
viri clarissimi
dantis
aligerii
florentini, poete illustris,
et de
operibus compositis ab eodem,
incipit feliciter.
I
Proposizione
Solone,
il cui petto uno umano tempio di divina sapienzia fu reputato, e le
cui sacratissime leggi sono ancora alli presenti uomini chiara
testimonianza dell'antica giustizia, era, secondo che dicono alcuni,
spesse volte usato di dire ogni republica, sì come noi, andare
e stare sopra due piedi; de quali, con matura gravità,
affermava essere il destro il non lasciare alcuno difetto commesso
impunito, e il sinistro ogni ben fatto remunerare; aggiugnendo che,
qualunque delle due cose già dette per vizio o per nigligenzia
si sottraeva, o meno che bene si servava, senza niuno dubbio quella
republica, che 'l faceva, convenire andare sciancata: e se per
isciagura si peccasse in amendue, quasi certissimo avea, quella non
potere stare in alcun modo.
Mossi
adunque più così egregii come antichi popoli da questa
laudevole sentenzia e apertissimamente vera, alcuna volta di deità,
altra di marmorea statua, e sovente di celebre sepultura, e tal fiata
di triunfale arco, e quando di laurea corona secondo i meriti
precedenti onoravano i valorosi; le pene, per opposito, a
colpevoli date non curo di raccontare. Per li quali onori e
purgazioni la assiria, la macedonica, la greca e ultimamente la
romana republica aumentate, con l'opere le fini della terra, e con la
fama toccaron le stelle. Le vestigie de quali in così
alti esempli, non solamente da successori presenti, e
massimamente da miei Fiorentini, sono male seguite, ma intanto
s'è disviato da esse, che ogni premio di virtù possiede
l'ambizione; per che, sì come e io e ciascun altro che a ciò
con occhio ragionevole vuole guardare, non senza grandissima
afflizione d'animo possiamo vedere li malvagi e perversi uomini a
luoghi eccelsi e a sommi oficii e guiderdoni elevare, e li
buoni scacciare, deprimere e abbassare. Alle quali cose qual fine
serbi il giudicio di Dio, coloro il veggiano che il timone governano
di questa nave: perciò che noi, più bassa turba, siamo
trasportati dal fiotto, della Fortuna, ma non della colpa partecipi.
E, come che con infinite ingratitudini e dissolute perdonanze
apparenti si potessero le predette cose verificare, per meno scoprire
li nostri difetti e per pervenire al mio principale intento, una sola
mi fia assai avere raccontata (né questa fia poco o picciola),
ricordando l'esilio del chiarissimo uomo Dante Alighieri. Il quale,
antico cittadino né d'oscuri parenti nato, quanto per vertù
e per scienzia e per buone operazioni meritasse, assai il mostrano e
mostreranno le cose che da lui fatte appaiono: le quali, se in una
republica giusta fossero state operate, niuno dubbio ci è che
esse non gli avessero altissimi meriti apparecchiati.
Oh
scellerato pensiero, oh disonesta opera, oh miserabile esemplo e di
futura ruina manifesto argomento! In luogo di quegli, ingiusta e
furiosa dannazione, perpetuo sbandimento, alienazione de
paterni beni, e, se fare si fosse potuto, maculazione della
gloriosissima fama, con false colpe gli fur donate. Delle quali cose
le recenti orme della sua fuga e l'ossa nelle altrui terre sepulte e
la sparta prole per l'altrui case, alquanto ancora ne fanno chiare.
Se a tutte l'altre iniquità fiorentine fosse possibile il
nascondersi agli occhl di Dio, che veggono tutto, non dovrebbe questa
una bastare a provocare sopra sé la sua ira? Certo sì.
Chi in contrario sia esaltato, giudico che sia onesto il tacere. Sì
che, bene ragguardando, non solamente è il presente mondo del
sentiero uscito del primo, del quale di sopra toccai, ma ha del tutto
nel contrario vòlti i piedi. Per che assai manifesto appare
che, se noi e gli altri che in simile modo vivono, contro la sopra
toccata sentenzia di Solone, sanza cadere stiamo in piede, niuna
altra cosa essere di ciò cagione, se non che o per lunga
usanza la natura delle cose è mutata, come sovente veggiamo
avvenire, o è speziale miracolo, nel quale, per li meriti
d'alcuno nostro passato, Dio contra ogni umano avvedimento ne
sostiene, o è la sua pazienzia, la quale forse il nostro
riconoscimento attende; il quale se a lungo andare non seguirà,
niuno dubiti che la sua ira, la quale con lento passo procede alla
vendetta, non ci serbi tanto più grave tormento, che appieno
supplisca la sua tardità. Ma, perciò che, come che
impunite ci paiono le mal fatte cose, quelle non solamente dobbiamo
fuggire, ma ancora, bene operando, d'ammendarle ingegnarci;
conoscendo io me essere di quella medesima città, avvegna che
picciola parte, della quale, considerati li meriti, la nobiltà
e la vertù, Dante Alighieri fu grandissima, e per questo, sì
come ciascun altro cittadino, a suoi onori sia in solido
obbligato come che io a tanta cosa non sia sofficiente, nondimeno
secondo la mia picciola facultà, quello che essa dovea verso
lui magnificamente fare, non avendolo fatto, m'ingegnerò di
far io; non con istatua o con egregia sepoltura, delle quali è
oggi appo noi spenta l'usanza, né basterebbono a ciò le
mie forze, ma con lettere povere a tanta impresa. Di queste ho, e di
queste darò, acciò che igualmente, e in tutto e in
parte, non si possa dire fra le nazioni strane, verso cotanto poeta
la sua patria essere stata ingrata. E scriverò in istilo assai
umile e leggiero, pero che più alto nol mi presta lo 'ngegno,
e nel nostro fiorentino idioma, acciò che da quello, che egli
usò nella maggior parte delle sue opere, non discordi, quelle
cose le quali esso di sé onestamente tacette: cioè la
nobiltà della sua origine, la vita, gli studi, i costumi;
raccogliendo appresso in uno l'opere da lui fatte, nelle quali esso
sé sì chiaro ha renduto a futuri, che forse non
meno tenebre che splendore gli daranno le lettere mie, come che ciò
non sia di mio intendimento né di volere; contento sempre, e
in questo e in ciascun'altra cosa, da ciascun più savio, là
dove io difettuosamente parlassi, essere corretto. Il che acciò
che non avvenga, umilmente priego Colui che lui trasse per sì
alta scala a vedersi, come sappiamo, che al presente aiuti e guidi lo
'ngegno mio e la debole mano.
II
Patria
e maggiori di Dante
Fiorenza,
intra l'altre città italiane più nobile, secondo che
l'antiche istorie e la comune oppinione de presenti pare che
vogliano, ebbe inizio da Romani; la quale in processo di tempo
aumentata, e di popolo e di chiari uomini piena, non solamente città,
ma potente cominciò a ciascun circustante ad apparere. Ma qual
si fosse, o contraria fortuna o avverso cielo o li loro meriti, agli
alti inizii di mutamento cagione, ci è incerto; ma certissimo
abbiamo, essa non dopo molti secoli da Attila, crudelissimo re de
Vandali e generale guastatore quasi di tutta Italia, uccisi prima e
dispersi o tutti o la maggior parte di quegli cittadini, che [in]
quella erano o per nobiltà di sangue o per qualunque altro
stato d'alcuna fama, in cenere la ridusse e in ruine: e in cotale
maniera oltre al trecentesimo anno si crede che dimorasse. Dopo il
quale termine, essendo non senza cagione di Grecia il romano imperio
in Gallia translatato, e alla imperiale altezza elevato Carlo Magno,
allora clementissimo re de Franceschi, più fatiche
passate, credo da divino spirito mosso, alla reedificazione della
desolata città lo 'mperiale animo dirizzò; da quegli
medesimi che prima conditori n'erano stati, come che in picciol
cerchio di mura la riducesse, in quanto poté, simile a Roma la
fe reedificare e abitare; raccogliendovi nondimeno dentro
quelle poche reliquie, che si trovarono, de discendenti degli
antichi scacciati.
Ma
intra gli altri novelli abitatori, forse ordinatore della
reedificazione, partitore delle abitazioni e delle strade, e datore
al nuovo popolo delle leggi opportune, secondo che testimonia la
fama, vi venne da Roma un nobilissimo giovane per ischiatta de
Frangiapani, e nominato da tutti Eliseo; il quale per avventura, poi
ch'ebbe la principale cosa, per la quale venuto v'era, fornita, o
dall'amore della città nuovamente da lui ordinata, o dal
piacere del sito, al quale forse vide nel futuro dovere essere il
cielo favorevole, o da altra cagione che si fosse, tratto, in quella
divenne perpetuo cittadino, e dietro a sé di figliuoli e di
discendenti lasciò non picciola né poco laudevole
schiatta: li quali, l'antico sopranome de loro maggiori
abbandonato, per sopranome presero il nome di colui che quivi loro
aveva dato cominciamento, e tutti insieme si chiamâr gli
Elisei. De quali di tempo in tempo, e d'uno in altro
discendendo, tra gli altri nacque e visse uno cavaliere per arme e
per senno ragguardevole e valoroso, il cui nome fu Cacciaguida; al
quale nella sua giovanezza fu data da suoi maggior per isposa
una donzella nata degli Aldighieri di Ferrara, così per
bellezza e per costumi, come per nobiltà di sangue pregiata,
con la quale più anni visse, e di lei generò più
figliuoli. E come ché gli altri nominati si fossero, in uno,
sì come le donne sogliono esser vaghe di fare, le piacque di
rinnovare il nome de suoi passati, e nominollo Aldighieri; come
che il vocabolo poi, per sottrazione di questa lettera "d"
corrotto, rimanesse Alighieri. Il valore di costui fu cagione a
quegli che discesero di lui, di lasciare il titolo degli Elisei, e di
cognominarsi degli Alighieri; il che ancora dura infino a questo
giorno. Del quale, come che alquanti figliuoli e nepoti e de
nepoti figliuoli discendessero, regnante Federico secondo imperadore,
uno ne nacque, il cui nome fu Alighieri, il quale più per la
futura prole che per sé doveva esser chiaro; la cui donna
gravida, non guari lontana al tempo del partorire, per sogno vide
quale doveva essere il frutto del ventre suo; come che ciò non
fosse allora da lei conosciuto né da altrui, e oggi, per lo
effetto seguìto, sia manifestissimo a tutti.
Pareva
alla gentil donna nel suo sonno essere sotto uno altissimo alloro,
sopra uno verde prato, allato ad una chiarissima fonte, e quivi si
sentia partorire unofigliuolo, il quale in brevissimo tempo,
nutricandosi solo delle orbache, le quali dello alloro cadevano, e
delle onde della chiara fonte, le parea che divenisse un pastore, e
s'ingegnasse a suo potere d'avere delle fronde dell'albero, il cui
frutto l'avea nudrito; e, a ciò sforzandosi, le parea vederlo
cadere, e nel rilevarsi non uomo più, ma uno paone il vedea
divenuto. Della qual cosa tanta ammirazione le giunse, che ruppe il
sonno; né guari di tempo passò che il termine debito al
suo parto venne, e partorì uno figliuolo, il quale di comune
consentimento col padre di lui per nome chiamaron Dante: e
meritamente, perciò che ottimamente, sì come si vedrà
procedendo, seguì al nome l'effetto.
Questi fu quel Dante, del quale è il presente sermone; questi fu quel Dante che a nostri seculi fu conceduto di speziale grazia da Dio; questi fu quel Dante, il qual primo doveva al ritorno delle Muse, sbandite d'Italia, aprir la via. Per costui la chiarezza del fiorentino idioma è dimostrata; per costui ogni bellezza di volgar parlare sotto debiti numeri è regolata; per costui la morta poesì meritamente si può dir suscitata: le quali cose, debitamente guardate, lui niuno altro nome che Dante poter degnamente avere avuto dimostreranno.
III
Suoi
studi
Nacque
questo singulare splendore italico nella nostra città, vacante
il romano imperio per la morte di Federigo già detto, negli
anni della salutifera incarnazione del Re dell'universo MCCLXV,
sedente Urbano papa IV nella cattedra di san Piero, ricevuto nella
paterna casa da assai lieta fortuna: lieta dico, secondo la qualità
del mondo che allora correa. Ma, quale che ella si fosse, lasciando
stare il ragionare della sua infanzia, nella quale assai segni
apparirono della futura gloria del suo ingegno, dico che dal
principio della sua puerizia, avendo gia li primi elementi delle
lettere impresi, non, secondo il costume de nobili odierni, si
diede alle fanciullesche lascivie e agli ozii, nel grembo della madre
impigrendo, ma nella propia patria tutta la sua puerizia con istudio
continuo diede alle liberali arti, e in quelle mirabilmente divenne
esperto. E crescendo insieme con gli anni l'animo e lo 'ngegno, non
a lucrativi studi alli quali generalmente oggi corre ciascuno,
si dispose, ma da una laudevole vaghezza di perpetua fama [tratto],
sprezzando le transitorie ricchezze, liberamente si diede a volere
avere piena notizia delle fizioni poetiche e dell'artificioso
dimostramento di quelle. Nel quale esercizio familiarissimo divenne
di Virgilio, d'Orazio, d'Ovidio, di Stazio e di ciascuno altro poeta
famoso; non solamente avendo caro il conoscergli, ma ancora,
altamente cantando, s'ìngegnò d'imitarli, come le sue
opere mostrano, delle quali appresso a suo tempo favelleremo. E,
avvedendosi le poetiche opere non essere vane o semplici favole o
maraviglie, come molti stolti estimano, ma sotto sé dolcissimi
frutti di verità istoriografe o filosofiche avere nascosti;
per la quale cosa pienamente, sanza le istorie e la morale e naturale
filosofia, le poetiche intenzioni avere non si potevano intere;
partendo i tempi debitamente, le istorie da sé, e la filosofia
sotto diversi dottori s'argomentò, non sanza lungo studio e
affanno, d'intendere. E, preso dalla dolcezza del conoscere il vero
delle cose racchiuse dal cielo, niuna altra più cara che
questa trovandone in questa vita, lasciando del tutto ogni altra
temporale sollecitudine, tutto a questa sola si diede. E, acciò
che niuna parte di filosofia non veduta da lui rimanesse, nelle
profondità altissime della teologia con acuto ingegno si mise.
Né fu dalla intenzione l'effetto lontano, perciò che,
non curando né caldi né freddi, [né] vigilie né
digiuni, né alcun altro corporale disagio, con assiduo studio
pervenne a conoscere della divina essenzia e dell'altre separate
intelligenzie quello che per umano ingegno qui se ne può
comprendere. E così come in varie etadi varie scienze furono
da lui conosciute studiando, così in vari studi sotto varii
dottori le comprese.
Egli
li primi inizi, sì come di sopra è dichiarato, prese
nella propia patria e di quella, sì come a luogo più
fertile di tal cibo, n'andò a Bologna; e già vicino
alla sua vecchiezza n'andò a Parigi, dove, con tanta gloria di
sé, disputando, più volte mostrò l'altezza del
suo ingegno, che ancora, narrandosi, se ne maravigliano gli uditori.
E di tanti e sì fatti studii non ingiustamente meritò
altissimi titoli: perciò che alcuni il chiamarono sempre
"poeta", altri "filosofo", e molti "teologo",
mentre visse. Ma, perciò che tanto è la vittoria più
gloriosa al vincitore, quanto le forze del vinto sono state maggiori,
giudico esser convenevole dimostrare, di come fluttuoso e tempestoso
mare costui, gittato ora in qua ora in là, vincendo l'onde
parimenti e venti contrarii, pervenisse al salutevole porto de
chiarissimi titoli già narrati.
IV
Impedimenti
avuti da Dante agli studi
Gli studi generalmente sogliono solitudine e rimozione di sollecitudine e tranquillità d'animo disiderare, e massimamente gli speculativi, a quali il nostro Dante, sì come mostrato è, si diede tutto. In luogo della quale rimozione e quiete, quasi dallo inizio della sua vita infino all'ultimo della morte, Dante ebbe fierissima e importabile passione d'amore, moglie, cura familiare e publica, esilio e povertà; l'altre lasciando più particulari [noie], le quali di necessità queste si traggon dietro: le quali, acciò che più appaia della loro gravezza, partitamente convenevole giudico di spiegarle.
V
Amore
per Beatrice
Nel
tempo nel quale la dolcezza del cielo riveste de suoi ornamenti
la terra, e tutta per la varietà de fiori mescolati fra
le verdi frondi la fa ridente, era usanza della nostra città,
e degli uomini e delle donne, nelle loro contrade ciascuno in
distinte compagnie festeggiare; per la qual cosa, infra gli altri per
avventura, Folco Portinari, uomo assai orrevole in que tempi
tra cittadini, il primo dì di maggio aveva i circustanti
vicini raccolti nella propia casa a festeggiare, infra li quali era
il già nominato Alighieri. Al quale, sì come i
fanciulli piccoli, e spezialmente a luoghi festevoli, sogliono
li padri seguire, Dante, il cui nono anno non era ancora finito,
seguìto avea; e quivi mescolato tra gli altri della sua età,
de quali così maschi come femine erano molti nella casa
del festeggiante, servite le prime mense, di ciò che la sua
picciola età poteva operare, puerilmente si diede con gli
altri a trastullare.
Era
intra la turba de giovinetti una figliuola del sopradetto
Folco, il cui nome era Bice come che egli sempre dal suo primitivo,
cioè Beatrice, la nominasse, la cui età era forse
d'otto anni, leggiadretta assai secondo la sua fanciullezza, e ne
suoi atti gentilesca e piacevole molto, con costumi e con parole
assai più gravi e modeste che il suo picciolo tempo non
richiedea; e, oltre a questo, aveva le fattezze del viso dilicate
molto e ottimamente disposte, e piene, oltre alla bellezza, di tanta
onesta vaghezza, che quasi una angioletta era reputata da molti.
Costei adunque, tale quale io la disegno, o forse assai più
bella, apparve in questa festa, non credo primamente, ma prima
possente ad innamorare, agli occhi del nostro Dante: il quale, ancora
che fanciul fosse, con tanta affezione la bella imagine di lei
ricevette nel cuore, che da quel giorno innanzi, mai, mentre visse,
non se ne dipartì. Quale ora, questa si fosse, niuno il sa; ma
o conformità di complessioni o di costumi o speziale
influenzia del cielo che in ciò operasse, o, sì come
noi per esperienza veggiamo nelle feste, per la dolcezza de
suoni, per la generale allegrezza, per la dilicatezza de cibi e
de vini, gli animi eziandio degli uomini maturi, non che de
giovinetti, ampliarsi e divenire atti a poter essere leggiermente
presi da qualunque cosa che piace; è certo questo esserne
divenuto, cioè Dante nella sua pargoletta età fatto
d'amore ferventissimo servidore.Ma, lasciando stare il ragionare de
puerili accidenti, dico che con l'età multiplicarono l'amorose
fiamme, intanto che niuna altra cosa gli era piacere o riposo o
conforto, se non il vedere costei. Per la qual cosa, ogni altro
affare lasciandone, sollecitissimo andava là dovunque credeva
potere vederla, quasi del viso e degli occhi di lei dovesse attignere
ogni suo bene e intera consolazione.
Oh insensato giudicio degli
amanti! chi altri che essi estimerebbe per aggiugnimento di stipa
fare le fiamme minori? Quanti e quali fossero li pensieri, li
sospiri, le lagrime e l'altre passioni gravissime poi in più
provetta età da lui sostenute per questo amore, egli medesimo
in parte il dimostra nella sua Vita nova, e però più
distesamente non curo di raccontarle. Tanto solamente non voglio che
non detto trapassi, cioè che, secondo che egli scrive e che
per altrui, a cui fu noto il suo disio, si ragiona, onestissimo fu
questo amore, né mai apparve, o per isguardo o per parola o
per cenno, alcuno libidinoso appetito né nello amante né
nella cosa amata: non picciola maraviglia al mondo presente, del
quale è sì fuggito ogni onesto piacere, e abituatosi
l'avere prima la cosa che piace conformata alla sua lascivia che
diliberato d'amarla, che in miracolo è divenuto, sì
come cosa rarissima, chi amasse altramente. Se tanto amore e sì
lungo poté il cibo, i sonni e ciascun'altra quiete impedire,
quanto si dee potere estimare lui essere stato avversario agli sacri
studi e allo 'ngegno? Certo non poco; come che molti vogliano lui
essere stato incitatore di quello, argomento a ciò prendendo
dalle cose leggiadramente nel fiorentino idioma e in rima, in laude
della donna amata, e acciò che li suoi ardori e amorosi
concetti esprimesse, già fatte da lui; ma certo io nol
consento, se io non volessi già affermare l'ornato parlare
essere sommissima parte d'ogni scienza; che non è vero.
VI
Dolore
di Dante per la morte di Beatrice
Come
ciascuno puote evidentemente conoscere, niuna cosa è stabile
in questo mondo; e, se niuna leggiermente ha mutamento, la nostra
vita è quella. Un poco di soperchio freddo o di caldo che noi
abbiamo, lasciando stare gli altri infiniti accidenti e possibili, da
essere a non essere sanza difficultà ci conduce; né da
questo gentilezza, ricchezza, giovanezza, né altra mondana
dignità è privilegiata; della quale comune legge la
gravità convenne a Dante prima per l'altrui morte provare che
per la sua. Era quasi nel fine del suo vigesimoquarto anno la
bellissima Beatrice, quando, sì come piacque a Colui che tutto
puote, essa, lasciando di questo mondo l'angosce, n'andò a
quella gloria che li suoi meriti l'avevano apparecchiata. Della qual
partenza Dante in tanto dolore, in tanta afflizione, in tante lagrime
rimase, che molti de suoi più congiunti e parenti ed
amici niuna fine a quelle credettero altra che solamente la morte; e
questa estimarono dovere essere in brieve, vedendo lui a niuno
conforto, a niuna consolazione pòrtagli dare orecchie. Gli
giorni erano alle notte iguali e agli giorni le notti; delle quali
niuna ora si trapassava senza guai, senza sospiri e senza copiosa
quantità di lagrime; e parevano li suoi occhi due
abbondantissime fontane d'acqua surgente, intanto che i più si
maravigliarono donde tanto umore egli avesse che al suo pianto
bastasse. Ma, si come noi veggiamo, per lunga usanza le passioni
divenire agevoli a comportare, e similmente nel tempo ogni cosa
diminuire e perire; avvenne che Dante infra alquanti mesi apparò
a ricordarsi senza lagrime Beatrice esser morta, e con più
dritto giudicio, dando alquanto il dolore luogo alla ragione, a
conoscere li pianti e li sospiri non potergli, né ancora
alcuna altra cosa, rendere la perduta donna. Per la qual cosa con più
pazienza s'acconciò a sostenere l'avere perduta la sua
presenzia; né guari di spazio passò che, dopo le
lasciate lagrime, li sospiri, li quali già erano alla loro
fine vicini, cominciarono in gran parte a partirsi sanza tornare.
Egli era, sì per
lo lagrimare, sì per l'afflizione che il cuore sentiva dentro,
e sì per lo non avere di sé alcuna cura, di fuori
divenuto quasi una cosa salvatica a riguardare: magro, barbuto e
quasi tutto trasformato da quello che avanti esser solea; intanto che
'l suo aspetto, non che negli amici, ma eziandio in ciascun altro che
il vedea, a forza di sé metteva compassione; come che egli
poco, mentre questa vita così lagrimosa durò, altrui
che ad amici veder si lasciasse.
Questa
compassione e dubitanza di peggio facevano li suoi parenti stare
attenti a suoi conforti; li quali, come alquanto videro le
lagrime cessate e conobbero li cocenti sospiri alquanto dare sosta al
faticato petto, con le consolazioni lungamente perdute,
rincominciarono a sollecitare lo sconsolato; il quale, come che
infino a quella ora avesse a tutte ostinatamente tenute le orecchie
chiuse, alquanto le cominciò non solamente ad aprire, ma ad
ascoltare volentieri ciò che intorno al suo conforto gli fosse
detto. La qual cosa veggendo i suoi parenti, acciò che del
tutto non solamente de dolori il traessero ma il recassero in
allegrezza, ragionarono insieme di volergli dar moglie; acciò
che, come la perduta donna gli era stata di tristizia cagione, così
di letizia gli fosse la nuovamente acquistata. E, trovata una
giovane, quale alla sua condizione era decevole, con quelle ragioni
che più loro parvero induttive, la loro intenzione gli
scoprirono. E, acciò che io particularmente non tocchi
ciascuna cosa, dopo lunga tencione, senza mettere guari di tempo in
mezzo, al ragionamento seguì l'effetto: e fu sposato.
VII
Digressione
sul matrimonio
Oh
menti cieche, oh tenebrosi intelletti, oh argomenti vani di molti
mortali, quanto sono le riuscite in assai cose contrarie a
vostri avvisi, e non sanza ragion le più volte! Chi sarebbe
colui che del dolce aere d'Italia, per soperchio caldo, menasse
alcuno nelle cucenti arene di Libia a rinfrescarsi, o dell'isola di
Cipri, per riscaldarsi, nelle eterne ombre de monti Rodopei?
qual medico s'ingegnerà di cacciare l'aguta febbre col fuoco,
o il freddo delle medolla dell'ossa col ghiaccio o con la neve? Certo
niuno altro, se non colui che con nuova moglie crederà
l'amorose tribulazion mitigare. Non conoscono quegli, che ciò
credono fare, la natura d'amore, né quanto ogni altra sieno,
le quali per sé possano l'amorose fatiche fare obliare.
Che avrà fatto
però chi, per trarmi d'uno pensiero noioso, mi metterà
in mille molto maggiori e di più noia? Certo niuna altra cosa,
se non che per giunta del male che m'avrà fatto, mi farà
disiderare di tornare in quello onde m'ha tratto; il che assai spesso
veggiamo addivenire a più, li quali o per uscire o per
essere tratti d'alcune fatiche, ciecamente o s'ammogliano o sono da
altrui ammogliati; né prima s'avveggiono, d'uno viluppo
usciti, essere intrati in mille, che la pruova, sanza potere,
pentendosi, indietro tornare, n'ha data esperienza. Dierono gli
parenti e gli amici moglie a Dante, perché le lagrime
cessassero di Beatrice. Non so se per questo. Come che le lagrime
passassero, anzi forse eran passate, sì passò l'amorosa
fiamma: ché nol credo; ma, conceduto che si spegnesse, nuove
cose e assai poterono più faticose sopravenire. Egli, usato di
vegghiare ne santi studii, quante volte a grado gli era, con
gl'imperadori, co re e con qualunque altri altissimi prencipi
ragionava; disputava co filosofi, e co piacevolissimi
poeti si dilettava; e l'altrui angosce ascoltando, mitigava le sue.
Ora, quanto alla nuova donna piace, è con costoro; e quel
tempo, ch'ella vuole tolto da così celebre compagnia, gli
conviene ascoltare i femminili ragionamenti, e quegli, se non vuol
crescer la noia, contra il suo piacere non solamente acconsentir, ma
lodare. Egli, costumato, quante volte la volgar turba gli
rincresceva, di ritrarsi in alcuna solitaria parte e, quivi
speculando, vedere quale spirito muove il cielo, onde venga la vita
agli animali che sono in terra, quali sieno le cagioni delle cose, o
premeditare alcune invenzioni peregrine o alcune cose comporre, le
quali appo li futuri facessero lui morto viver per fama; ora non
solamente dalle contemplazioni dolci è tolto quante volte
voglia ne viene alla nuova donna, ma gli conviene essere accompagnato
di compagnia male a così fatte cose disposta. Egli, usato
liberamente di ridere, di piagnere, di cantare o di sospirare,
secondo che le passioni dolci o amare il pungevano, ora o non osa, o
gli conviene non che delle maggiori cose, ma d'ogni picciol sospiro
rendere alla donna ragione, mostrando che 'l mosse, donde venne e
dove andò; la letizia cagione dell'altrui amore, la tristizia
esser del suo odio estimando.
Oh
fatica inestimabile, avere con così sospettoso animale a
vivere, a conversare, e ultimamente a invecchiare o a morire! Io
voglio lasciare stare la sollecitudine nuova e gravissima, la quale
si conviene avere a non usati (e massimamente nella nostra
città), cioè onde vengano i vestimenti, gli ornamenti e
le camere piene di superflue dilicatezze, le quali le donne si fanno
a credere essere al ben vivere opportune; onde vengano li servi, le
serve, le nutrici, le cameriere; onde vengano i conviti, i doni, i
presenti che fare si convengono a parenti delle novelle spose,
a quegli che vogliono che esse credano da loro essere amate; e
appresso queste, altre cose assai prima non conosciute da
liberi uomini; e venire a cose che fuggir non si possono. Chi dubita
che della sua donna, che ella sia bella o non bella, non caggia il
giudicio nel vulgo? Se bella fia reputata, chi dubita che essa
subitamente non abbia molti amadori, de quali alcuno con la sua
bellezza, altri con la sua nobiltà, e tale con maravigliose
lusinghe, e chi con doni, e quale con piacevolezza infestissimamente
combatterà il non stabile animo? E quel, che molti disiderano,
malagevolmente da alcuno si difende. E alla pudicizia delle donne non
bisogna d'essere presa più che una volta, a fare sé
infame e i mariti dolorosi in perpetuo. Se per isciagura di chi a
casa la si mena, fia sozza, assai aperto veggiamo le bellissime
spesse volte e tosto rincrescere; che dunque dell'altre possiamo
pensare, se non che, non che esse, ma ancora ogni luogo nel quale
esse sieno credute trovare da coloro, a quali sempre le
conviene aver per loro, è avuto in odio? Onde le loro ire
nascono, né alcuna fiera è più né tanto
crudele quanto la femmina adirata, né può viver sicuro
di sé chi sé commette ad alcuna, alla quale paia con
ragione esser crucciata; che pare a tutte.
Che
dirò de loro costumi? Se io vorrò mostrare come e
quanto essi sieno tutti contrari alla pace e al riposo degli uomini,
io tirerò in troppo lungo sermone il mio ragionare; e però
uno solo, quasi a tutte generale, basti averne detto. Esse immaginano
il bene operare ogni menomo servo ritener nella casa, e il contrario
fargli cacciare; per che estimano, se ben fanno, non altra sorte
esser la lor che d'un servo: per che allora par solamente loro esser
donne, quando, male adoperando, non vengono al fine che fanti
fanno. Per che voglio io andare dimostrando particularmente quello
che gli più sanno? Io giudico che sia meglio il tacersi che
dispiacere, parlando, alle vaghe donne. Chi non sa che tutte l'altre
cose si pruovano, prima che colui, di cui debbono essere, comperate,
le prenda, se non la moglie, accio che prima non dispiaccia che sia
menata? A ciascuno che la prende, la conviene avere non tale quale
egli la vorrebbe, ma quale la Fortuna gliele concede. E se le cose
che di sopra son dette son vere (che il sa chi provate l'ha),
possiamo pensare quanti dolori nascondano le camere, li quali di
fuori, da chi non ha occhi la cui perspicacità trapassi le
mura, sono reputati diletti. Certo io non affermo queste cose a Dante
essere avvenute, ché nol so; come che vero sia che, o simili
cose a queste, o altre che ne fosser cagione, egli, una volta da lei
partitosi, che per consolazione de suoi affanni gli era stata
data, mai né dove ella fosse volle venire, né sofferse
che là dove egli fosse ella venisse giammai; con tutto che di
più figliuoli egli insieme con lei fosse parente. Né
creda alcuno che io per le su dette cose voglia conchiudere gli
uomini non dover tôrre moglie; anzi il lodo molto, ma non a
ciascuno. Lascino i filosofanti lo sposarsi a ricchi stolti, a
signori e a lavoratori, e essi con la filosofia si dilettino,
molto migliore sposa che alcuna altra.
VIII
Opposte
vicende della vita pubblica di Dante
Natura generale è delle cose temporali, l'una l'altra tirarsi di dietro. La familiar cura trasse Dante alla publica, nella quale tanto l'avvilupparono li vani onori che alli publici ofici congiunti sono, che, senza guardare donde s'era partito e dove andava con abbandonate redine, quasi tutto al governo di quella si diede; e fugli tanto in ciò la Fortuna seconda, che niuna legazion s'ascoltava, a niuna si rispondea, niuna legge si fermava, niuna se ne abrogava, niuna pace si faceva, niuna guerra publica s'imprendeva, e brievemente niuna diliberazione, la quale alcuno pondo portasse, si pigliava, s'egli in ciò non dicesse prima la sua sentenzia. In lui tutta la publica fede, in lui ogni speranza, in lui sommariamente le divine cose e l'umane parevano esser fermate. Ma la Fortuna, volgitrice de nostri consigli e inimica d'ogni umano stato, come che per alquanti anni nel colmo della sua rota gloriosamente reggendo, il tenesse, assai diverso fine al principio recò a lui, in lei fidantesi di soperchio
IX
Come
la lotta delle parti lo coinvolse
Era
al tempo di costui la fiorentina cittadinanza in due parti
perversissimamente divisa, e, con l'operazioni di sagacissimi e
avveduti prencipi di quelle, era ciascuna assai possente; intanto che
alcuna volta l'una e alcuna l'altra reggeva oltre al piacere della
sottoposta. A volere riducere a unità il partito corpo della
sua republica, pose Dante ogni suo ingegno, ogni arte, ogni studio,
mostrando a cittadini più savi come le gran cose per la
discordia in brieve tempo tornano al niente, e le picciole per la
concordia crescere in infinito. Ma, poi che vide essere vana la sua
fatica, e conobbe gli animi degli uditori ostinati, credendolo
giudicio di Dio, prima propose di lasciar del tutto ogni publico
oficio e vivere seco privatamente; poi, dalla dolcezza della gloria
tirato e dal vano favor popolesco e ancora dalle persuasioni de
maggiori, credendosi, oltre a questo, se tempo gli occorresse, molto
più di bene potere operare per la sua città, se nelle
cose publiche fosse grande, che a sé privato e da quelle del
tutto rimosso (oh stolta vaghezza degli umani splendori, quanto sono
le tue forze maggiori, che creder non può chi provati non gli
ha!); il maturo uomo e nel santo seno della filosofia allevato,
nutricato e ammaestrato, al quale erano davanti dagli occhi i
cadimenti de re antichi e de moderni, le desolazioni de
regni, delle province e delle città e li furiosi impeti della
Fortuna, niuno altro cercanti che l'alte cose, non si seppe o non si
poté dalla tua dolcezza guardare.
Fermossi
adunque Dante a volere seguire gli onori caduchi e la vana pompa de
publici ofici; e, veggendo che per se medesimo non potea una terza
parte tenere, la quale, giustissima, la ingiustizia dell'altre due
abbattesse, tornandole ad unità, con quella s'accostò
nella quale, secondo il suo giudicio, era più di ragione e di
giustizia, operando continuamente ciò che salutevole alla sua
patria e a cittadini conoscea. Ma gli umani consigli le più
delle volte rimangon vinti dalle forze del cielo. Gli odii e
l'animosità prese, ancora che sanza giusta cagione nati
fossoro, di giorno in giorno divenivan maggiori, intanto che, non
senza grandissima confusione de cittadini, più volte si
venne all'arme con intendimento di por fine alla lor lite col fuoco e
col ferro: sì accecati dall'ira, che non vedevano sé
con quella miseramente perire. Ma, poi che ciascuna delle parti ebbe
più volte fatta pruova delle sue forze con vicendevoli danni
dell'una e dell'altra; venuto il tempo che gli occulti consigli della
minacciante Fortuna si doveano scoprire, la fama, parimente del vero
e del falso rapportatrice, nunziando gli avversarii della parte presa
da Dante di maravigliosi e d'astuti consigli esser forte e di
grandissima moltitudine d'armati, sì gli prencipi de
collegati di Dante spaventò, che ogni consiglio, ogni
avvedimento e ogni argomento cacciò da loro, se non il cercare
con fuga la loro salute; co quali insieme Dante, in un momento
prostrato della sommità del reggimento della sua città,
non solamente gittato in terra si vide, ma cacciato di quella. Dopo
questa cacciata non molti dì, essendo già stato dal
popolazzo corso alle case de cacciati, e furiosamente votate e
rubate, poi che i vittoriosi ebbero la città riformata secondo
il loro giudicio, furono tutti i prencipi de loro avversari, e
con loro, non come de minori ma quasi principale, Dante, sì
come capitali nemici della republica dannati a perpetuo esilio, e li
loro stabili beni o in publico furon ridotti, o alienati a
vincitori.
X
Si
maledice all'ingiusta condanna d'esilio
Questo
merito riportò Dante del tenero amore avuto alla sua patria!
questo merito riportò Dante dell'affanno avuto in voler tôrre
via le discordie cittadine! questo merito riportò Dante
dell'avere con ogni sollecitudine cercato il bene, la pace e la
tranquillità de suoi cittadini! Per che assai
manifestamente appare quanto sieno vòti di verità i
favori de popoli, e quanta fidanza si possa in essi avere.
Colui, nel guale poco avanti pareva ogni publica speranza esser
posta, ogni affezione cittadina, ogni rifugio populare; subitamente,
senza cagione legittima, senza offesa, senza peccato, da quel romore,
il quale per addietro s'era molte volte udito le sue laude portare
infino alle stelle, è furiosamente mandato in inrevocabile
esilio. Questa fu la marmorea statua fattagli ad etterna memoria
della sua virtù! con queste lettere fu il suo nome tra quegli
de padri della patria scritto in tavole d'oro! con così
favorevole romore gli furono rendute grazie de suoi benefici!
Chi sarà dunque colui che, a queste cose guardando, non dica
la nostra republica da questo piè non andare sciancata?
Oh vana fidanza de
mortali, da quanti esempli altissimi se tu continuamente
ripresa, ammonita e gastigata! Deh! se Cammillo, Rutilio, Coriolano,
e l'uno e l'altro Scipione, e gli altri antichi valenti uomini per la
lunghezza del tempo interposto ti sono della memoria caduti, questo
ricente caso ti faccia con più temperate redine correr ne
tuoi piaceri. Niuna cosa ci ha meno stabilita che la popolesca
grazia; niuna più pazza speranza, niuno più folle
consiglio che quello che a crederle conforta nessuno. Levinsi adunque
gli animi al cielo, nella cui perpetua legge, nelli cui eterni
splendori, nella cui vera bellezza si potrà senza alcuna
oscurità conoscere la stabilità di Colui che lui e le
altre cose con ragione muove; acciò che, sì come in
termine fisso, lasciando le transitorie cose, in lui si fermi ogni
nostra speranza, se trovare non ci vogliamo ingannati.
XI
La
vita del poeta esule sino alla venuta in Italia di Arrigo VII
Uscito adunque in cotal maniera Dante di quella città, della quale egli non solamente era cittadino ma n'erano li suoi maggiori stati reedificatori, e lasciatavi la sua donna, insieme con l'altra famiglia, male per picciola età alla fuga disposta, di lei sicuro, perciò che di consanguinità la sapeva ad alcuno de prencipi della parte avversa congiunta, di se medesimo or qua or là incerto, andava vagando per Toscana. Era alcuna particella delle sue possessioni dalla donna col titolo della sua dote dalla cittadina rabbia stata con fatica difesa, de frutti della quale essa sé e i piccioli figliuoli di lui assai sottilmente reggeva; per la qual cosa povero, con industria disusata gli convenia il sostentamento di se medesimo procacciare. Oh quanti onesti sdegni gli convenne posporre, più duri a lui che morte a trapassare, promettendogli la speranza questi dover esser brievi, e prossima la tornata! Egli, oltre al suo stimare, parecchi anni, tornato da Verona (dove nel primo fuggire a messer Alberto della Scala n'era ito, dal quale benignamente era stato ricevuto), quando col conte Salvatico in Casentino, quando col marchese Morruello Malespina in Lunigiana, quando con quegli della Faggiuola ne monti vicini ad Orbino, assai convenevolmente, secondo il tempo e secondo la loro possibilità, onorato si stette. Quindi poi se n'andò a Bologna, dove poco stato n'andò a Padova, e quindi da capo si ritornò a Verona. Ma poi ch'egli vide da ogni parte chiudersi la via alla tornata, e di dì in dì più divenire vana la sua speranza, non solamente Toscana, ma tutta Italia abbandonata, passati i monti che quella dividono dalla provincia di Gallia, come poté, se n'andò a Parigi; e quivi tutto si diede allo studio e della filosofia e della teologia, ritornando ancora in sé dell'altre scienzie ciò che forse per gli altri impedimenti avuti se ne era partito. E in ciò il tempo studiosamente spendendo, avvenne che oltre al suo avviso, Arrigo, conte di Luzimborgo, con volontà e mandato di Clemente papa V, il quale allora sedea, fu eletto in re de Romani, e appresso coronato imperadore. Il quale sentendo Dante della Magna partirsi per soggiogarsi Italia, alla sua maestà in parte rebelle, e già con potentissimo braccio tenere Brescia assediata, avvisando lui per molte ragioni dovere essere vincitore, prese speranza con la sua forza e dalla sua giustizia di potere in Fiorenza tornare, come che a lui la sentisse contraria. Per che ripassate l'Alpi, con molti nemici di Fiorentini e di lor parte congiuntosi, e con ambascerie e con lettere s'ingegnarono di tirare lo 'mperadore da l'assedio di Brescia, acciò che a Fiorenza il ponesse, sì come a principale membro de suoi nemici; mostrandogli che, superata quella, niuna fatica gli restava, o piccola, ad avere libera ed espedita la possessione e il dominio di tutta Italia. E come che a lui e agli altri a ciò tenenti venisse fatto il trarloci, non ebbe perciò la sua venuta il fine da loro avvisato: le resistenze furono grandissime, e assai maggiori che da loro avvisate non erano; per che, senza avere niuna notevole cosa operata, lo 'mperadore, partitosi quasi disperato, verso Roma drizzò il suo cammino. E come che in una parte e in altra più cose facesse, assai ne ordinasse e molte di farne proponesse, ogni cosa ruppe la troppo avacciata morte di lui: per la qual morte generalmente ciascuno che a lui attendea disperatosi, e massimamente Dante, sanza andare di suo ritorno più avanti cercando, passate l'alpi d'Appennino, se ne andò in Romagna, là dove l'ultimo suo dì, e che alle sue fatiche doveva por fine, l'aspettava.
XII
Dante
ospite di Guido Novel da Polenta
Era in que tempi signore di Ravenna, famosa e antica città di Romagna, uno nobile cavaliere, il cui nome era Guido Novel da Polenta; il quale, ne liberali studii ammaestrato, sommamente i valorosi uomini onorava, e massimamente quegli che per iscienza gli altri avanzavano. Alle cui orecchie venuto Dante, fuori d'ogni speranza, essere in Romagna, avendo egli lungo tempo avanti per fama conosciuto il suo valore, in tanta disperazione, si dispose di riceverlo e d'onorarlo. Né aspettò di ciò da lui essere richiesto, ma con liberale animo, considerata qual sia a valorosi la vergogna del domandare, e con proferte, gli si fece davanti, richiedendo di spezial grazia a Dante quello ch'egli sapeva che Dante a lui dovea dimandare: cioè che seco li piacesse di dover essere. Concorrendo adunque i due voleri ad un medesimo fine, e del domandato e del domandatore, e piacendo sommamente a Dante la liberalità del nobile cavaliere, e d'altra parte il bisogno strignendolo, senza aspettare più inviti che 'l primo, se n'andò a Ravenna, dove onorevolmente dal signore di quella ricevuto, e con piacevoli conforti risuscitata la caduta speranza, copiosamente le cose opportune donandogli, in quella seco per più anni il tenne, anzi infino a l'ultimo della vita di lui.
XIII
Sua
perseveranza al lavoro
Non poterono gli amorosi disiri, né le dolenti lagrime, né la sollecitudine casalinga, né la lusinghevole gloria de publici ofici, né il miserabile esilio, né la intollerabile povertà giammai con le lor forze rimuovere il nostro Dante dal principale intento, cioè da sacri studii; perciò che, sì come si vederà dove appresso partitamente dell'opere da lui fatte si farà menzione, egli, nel mezzo di qualunque fu più fiera delle passioni sopra dette, si troverà componendo essersi esercitato. E se, ostanti cotanti e così fatti avversarii, quanti e quali di sopra sono stati mostrati, egli per forza d'ingegno e di perseveranza riuscì chiaro qual noi veggiamo, che si può sperare che esso fosse divenuto, avendo avuti altrettanti aiutatori, o almeno niuno contrario, o pochissimi, come hanno molti? Certo, io non so; ma se licito fosse a dire, io direi ch'egli fosse in terra divenuto uno Iddio.
XIV
Grandezza
del poeta volgare - Sua morte
Abitò
adunque Dante in Ravenna, tolta via ogni speranza di ritornare mai in
Firenze, (come che tolto non fosse il disio), più anni sotto
la protezione del grazioso signore; e quivi con le sue dimostrazioni
fece più scolari in poesia e massimamente nella volgare; la
quale, secondo il mio giudicio, egli primo non altramenti fra noi
Italici esaltò e recò in pregio, che la sua Omero tra
Greci o Virgilio tra Latini. Davanti a costui, come che per
poco spazio d'anni si creda che innanzi trovata fosse, niuno fu che
ardire o sentimento avesse, dal numero delle sillabe e dalla
consonanza delle parti estreme in fuori, di farla essere strumento
d'alcuna artificiosa materia; anzi solamente in leggerissime cose
d'amore con essa s'esercitavano. Costui mostrò con effetto con
essa ogni alta materia potersi trattare, e glorioso sopra ogni altro
fece il volgar nostro.
Ma,
poi che la sua ora venne segnata a ciascheduno, essendo egli già
nel mezzo o presso del cinquantesimo sesto suo anno infermato, e
secondo la cristiana religione ogni ecclesiastico sacramento
umilmente e con divozione ricevuto, e a Dio per contrizione d'ogni
cosa commessa da lui contra al suo piacere, sì come da uomo,
riconciliatosi; del mese di settembre negli anni di Cristo MCCCXXI,
nel dì che la esaltazione della santa Croce si celebra dalla
Chiesa, non sanza grandissimo dolore del sopra detto Guido, e
generalmente di tutti gli altri cittadini ravignani, al suo Creatore
rendé il faticato spirito; il quale non dubito che ricevuto
non fosse nelle braccia della sua nobilissima Beatrice, con la quale
nel cospetto di Colui ch'è sommo bene, lasciate le miserie
della presente vita, ora lietissimamente vive in quella, alla cui
felicità fine giammai non s'aspetta.
XV
Sepoltura
e onori funebri
Fece il magnanimo cavaliere il morto corpo di Dante d'ornamenti poetici sopra uno funebre letto adornare; e quello fatto portare sopra gli omeri de suoi cittadini più solenni infino al luogo de frati minori in Ravenna, con quello onore che a sì fatto corpo degno estimava, infino quivi quasi con publico pianto seguitolo, in una arca lapidea, nella quale ancora giace, il fece porre. E, tornato alla casa nella quale Dante era prima abitato, secondo il ravignano costume, esso medesimo, sì a commendazione dell'alta scienzia e della vertù del defunto, e sì a consolazione de suoi amici, li quali egli avea in amarissima vita lasciati, fece uno ornato e lungo sermone; disposto, se lo stato e la vita fossero durati, di sì egregia sepoltura onorarlo, che, se mai alcuno altro suo merito non l'avesse memorevole renduto a futuri, quella l'avrebbe fatto.
XVI
Gara
di poeti per l'epitafio di Dante
Questo laudevole proponimento infra brieve spazio di tempo fu manifesto ad alquanti, li quali in quel tempo erano in poesì solennissimi in Romagna; per che ciascuno sì per mostrare la sua sofficienzia, sì per rendere testimonianza della portata benivolenzia da loro al morto poeta, sì per cattare la grazia e l'amore del signore, il quale ciò sapevano disiderare, ciascuno per sé fece versi, li quali, posti per epitafio alla futura sepultura, con debite lode facessero la posterità certa chi dentro da essa giacesse; e al magnifico signore gli mandarono. Il quale con gran peccato della Fortuna, non dopo molto tempo, toltogli lo Stato, si morì a Bologna; per la qual cosa e il fare il sepolcro e il porvi li mandati versi si rimase. Li quali versi stati a me mostrati poi più tempo appresso, e veggendo loro [non] avere avuto luogo per lo caso già dimostrato, pensando le presenti cose per me scritte, come che sepoltura non sieno corporale, ma sieno, sì come quella sarebbe stata, perpetue conservatrici della colui memoria; imaginai non essere sconvenevole quegli aggiugnere a queste cose. Ma, perciò che più che quegli che l'uno di coloro avesse fatti (che furon più) non si sarebbero ne marmi intagliati, così solamente quegli d'uno qui estimai che fosser da scrivere; per che, tutti meco esaminatigli, per arte e per intendimento più degni estimai che fossero quattordici fattine da maestro Giovanni del Virgilio bolognese, allora famosissimo e gran poeta, e di Dante stato singularissimo amico; li quali sono questi appresso scritti:
XVII
Epitafio
Theologus
Dantes, nullius dogmatis expers,
quod foveat claro philosophya
sinu:
gloria musarum, vulgo gratissimus auctor,
hic iacet, et
fama pulsat utrumque polum:
qui loca defunctis gladiis regnumque
gemellis
distribuit, laycis rhetoricisque modis.
Pascua
Pyeriis demum resonabat avenis;
Amtropos heu letum livida rupit
opus.
Huic ingrata tulit tristem Florentia fructum,
exilium,
vati patria cruda suo.
Quem pia Guidonis gremio Ravenna Novelli
gaudet honorati continuisse ducis,
mille trecentenis ter
septem Numinis annis,
ad sua septembris ydibus astral redit.
XVIII
Rimprovero
ai fiorentini
Oh
ingrata patria, quale demenzia, qual trascutaggine ti teneva, quando
tu il tuo carissimo cittadino, il tuo benefattore precipuo, il tuo
unico poeta con crudeltà disusata mettesti in fuga, o poscia
tenuta t'ha? Se forse per la comune furia di quel tempo mal
consigliata ti scusi; ché, tornata, cessate l'ire, la
tranquillità dell'animo, ripentùtati del fatto, nol
rivocasti? Deh! non ti rincresca lo stare con meco, che tuo figliuol
sono, alquanto a ragione, e quello che giusta indegnazione mi fa
dire, come da uomo che ti rammendi disidera e non che tu sii punita,
piglierai. Parti egli essere gloriosa di tanti titoli e di tali, che
tu quello uno del quale non hai vicina città che di simile si
possa esaltare, tu abbi voluto da te cacciare? Deh! dimmi: di qua
vittorie, di qua triunfi, di quali eccellenzie, di quali
valorosi cittadini se tu splendente? Le tue ricchezze, cosa
mobile e incerta, le tue bellezze, cosa fragile e caduca, le tue
dilicatezze, cosa vituperevole e feminile, ti fanno nota nel falso
giudicio de popoli, il quale più ad apparenza che ad
esistenza sempre riguarda. Deh! gloriera'ti tu dè tuoi
mercatanti e de molti artisti, donde tu se piena?
Scioccamente farai: l'uno fu, continuamente l'avarizia operando, lo
mestiere servile; l'arte, la quale un tempo nobilitata fu
dagl'ingegni, intanto che una seconda natura la fecero, dall'avarizia
medesima è oggi corrotta, e niente vale. Gloriera'ti tu della
viltà e ignavia di coloro li quali, perciò che di molti
loro avoli si ricordano, vogliono dentro da te della nobiltà
ottenere il principato, sempre con ruberie e con tradimenti e con
falsità contra quella operanti? Vana gloria sarà la
tua, e da coloro, le cui sentenzie hanno fondamento debito e stabile
fermezza, schernita. Ahi! misera madre, apri gli occhi e guarda con
alcuno rimordimento a quello che tu facesti; e vergógnati
almeno, essendo reputata savia come tu se', d'avere avuta ne
falli tuoi falsa elezione! Deh! se tu da te non avevi tanto
consiglio, perché non imitavi tu gli atti di quelle città,
le quali ancora per le loro laudevoli opere son famose? Atene, la
quale fu l'uno degli occhi di Grecia, allora che in quella era la
monarcia del mondo, per iscienzia, per eloquenzia e per milizia
splendida parimente; Argos, ancora pomposa per li titoli de
suoi re; Smirna a noi reverenda in perpetuo per Niccolaio suo
pastore; Pilos, notissima per lo vecchio Nestore; Chimi, Chios e
Colofon, città splendidissime per addietro, tutte insieme,
qualora più gloriose furono, non si vergognarono né
dubitarono d'avere agra quistione della origine del divino poeta
Omero, affermando ciascuna lui di sé averla tratta; e sì
ciascuna fece con argomenti forte la sua intenzione, che ancora la
quistion vive; né è certo donde si fosse, perché
parimente di cotal cittadino così l'una come l'altra ancor si
gloria. E Mantova, nostra vicina, di quale altra cosa l'è più
alcuna fama rimasa, che l'essere stato Virgilio mantovano? il cui
nome hanno ancora in tanta reverenzia, e sì è appo
tutti accettevole, che non solamente ne publici luoghi, ma
ancora in molti privati si vede la sua imagine effigiata; mostrando
in ciò che, non ostante che il padre di lui fosse lutifigolo,
esso di tutti loro sia stato nobilitatore. Sulmona d'Ovidio, Venosa
d'Orazio, Aquino di Iovenale, e altre molte, ciascuna si gloria del
suo, e della loro sufficienzia fanno quistione. L'esemplo di queste
non t'era vergogna di seguitare; le quali non è verisimile
sanza cagione essere state e vaghe e tènere di cittadini così
fatti. Esse conobbero quello che tu medesima potevi conoscere e puoi:
cioè che le costoro perpetue operazioni sarebbero ancora dopo
la lor ruina ritenitrici eterne del nome loro: così come al
presente divulgate per tutto il mondo le fanno conoscere a coloro che
non le vider giammai. Tu sola, non so da qual cechità
adombrata, hai voluto tenere altro cammino, e, quasi molto da te
lucente, di questo splendore non hai curato: tu sola, quasi i
Camilli, i Publicoli, i Torquati, i Fabrizi, i Catoni, i Fabii e gli
Scipioni con le loro magnifiche opere ti facessero famosa e in te
fossero, non solamente, avendoti lasciato l'antico tuo cittadino
Claudiano cadere de le mani, non hai avuto del presente poeta cura;
ma l'hai da te cacciato, sbandito e privatolo, se tu avessi potuto,
del tuo sopranome. Io non posso fuggire di vergognarmene in tuo
servigio. Ma ecco: non la Fortuna, ma il corso della natura delle
cose è stato al tuo disonesto appetito favorevole in tanto, in
quanto quello che tu volentieri, bestialmente bramosa, avresti fatto
se nelle mani ti fosse venuto, cioè uccisolo, egli con la sua
etterna legge l'ha operato. Morto è il tuo Dante Alighieri in
quello esilio che tu ingiustamente, del suo valore invidiosa, gli
desti. Oh peccato da non ricordare, che la madre alle virtù
d'alcuno suo figliuolo porti livore! Ora adunque se di
sollicitudine libera, ora per la morte di lui vivi ne tuoi
difetti sicura, e puoi alle tue lunghe e ingiuste persecuzioni porre
fine. Egli non ti può far, morto, quello che mai, vivendo, non
t'avria fatto; egli giace sotto altro cielo che sotto il tuo, né
più dèi aspettar di vederlo giammai, se non quel dì,
nel quale tutti li tuoi cittadini veder potrai, e le lor colpe da
giusto giudice esaminate e punite.
Adunque
se gli odii, l'ire e le inimicizie cessano per la morte di qualunque
è che muoia, come si crede, comincia a tornare in te medesima
e nel tuo diritto conoscimento; comincia a vergognarti d'avere fatto
contra la tua antica umanità; comincia a volere apparire madre
e non più inimica; concedi le debite lagrime al tuo figliuolo;
concedigli la materna pietà; e colui, il quale tu rifiutasti,
anzi cacciasti vivo sì come sospetto, disidera almeno di
riaverlo morto; rendi la tua cittadinanza, il tuo seno, la tua grazia
alla sua memoria. In verità, quantunque tu a lui ingrata e
proterva fossi,egli sempre come figliuolo ebbe te in reverenza, né
mai di quello onore che per le sue opere seguire ti dovea, volle
privarti, come tu lui della tua cittadinanza privasti. Sempre
fiorentino, quantunque l'esilio fosse lungo, si nominò e volle
essere nominato, sempre ad ogni altra ti prepose, sempre t'amò.
Che dunque farai? starai sempre nella tua iniquità ostinata?
sarà in te meno d'umanità che ne barbari, li
quali troviamo non solamente aver li corpi delli loro morti
raddomandati, ma per riavergli essersi virilmente disposti a morire?
Tu vuogli che 'l mondo creda te essere nepote della famosa Troia e
figliuola di Roma: certo, i figliuoli deono essere a padri e
agli avoli simiglianti. Priamo nella sua miseria non solamente
raddomandò il corpo del morto Ettore, ma quello con
altrettanto oro ricomperò. Li Romani, secondo che alcuni pare
che credano, feciono da Miturna venire l'ossa del primo Scipione, da
lui a loro con ragione nella sua morte vietate. E come che Ettore
fosse con la sua prodezza lunga difesa de Troiani, e Scipione
liberatore non solamente di Roma, ma di tutta Italia (delle quali due
cose forse così propiamente niuna si può dire di
Dante), egli non è perciò da posporre; niuna volta fu
mai che l'armi non dessero luogo alla scienzia. Se tu primieramente,
e dove più si sarìa convenuto, l'esemplo e l'opere
delle savie città non imitasti, ammenda al presente,
seguendole. Niuna delle sette predette fu che o vera o fittizia
sepultura non facesse ad Omero. E chi dubita che i Mantovani, li
quali ancora in Piettola onorano la povera casetta e i campi che fûr
di Virgilio, non avessero a lui fatta onorevole sepoltura, se
Ottaviano Augusto, il quale da Brandizio a Napoli le sue ossa avea
trasportate, non avesse comandato quello luogo dove poste l'avea,
volere loro essere perpetua requie? Sermona niuna altra cosa pianse
lungamente, se non che l'isola di Ponto tenga in incerto luogo il suo
Ovidio; e così di Cassio Parma si rallegra tenendolo. Cerca tu
adunque di volere essere del tuo Dante guardiana; raddomandalo;
mostra questa umanità, presupposto che tu non abbi voglia di
riaverlo; togli a te medesima con questa fizione parte del biasimo
per addietro acquistato: raddomandalo. Io son certo ch'egli non ti
fia renduto; e ad una ora ti sarai mostrata pietosa, e goderai, non
riavendolo, della tua innata crudeltà. Ma a che ti conforto
io? Appena che io creda, se i corpi morti possono alcuna cosa
sentire, che quello di Dante si potesse partire di là dove è,
per dovere a te tornare. Egli giace con compagnia troppo più
laudevole che quella che tu gli potessi dare. Egli giace in Ravenna,
molto più per età veneranda di te; e come che la sua
vecchiezza alquanto la renda deforme, ella fu nella sua giovanezza
troppo più florida che tu non se'. Ella è quasi un
generale sepolcro di santissimi corpi, né niuna parte in essa
si calca, dove su per reverendissime ceneri non si vada. Chi dunque
disidererebbe di tornare a te per dovere giacere fra le tue, le quali
si può credere che ancora servino la rabbia e l'iniquità
nella vita avute, e male concorde insieme si fuggano l'una da
l'altra, non altramenti che facessero le fiamme de due Tebani?
E come che Ravenna già quasi tutta del prezioso sangue di
molti martiri si bagnasse, e oggi con reverenzia servi le loro
reliquie, e similmente i corpi di molti magnifici imperadori e
d'altri uomini chiarissimi e per antichi avoli e per opere virtuose,
ella non si rallegra poco d'esserle stato da Dio, oltre a l'altre sue
dote, conceduto d'essere perpetua guardiana di così fatto
tesoro, come è il corpo di colui, le cui opere tengono in
ammirazione tutto il mondo, e del quale tu non ti se saputa far
degna. Ma certo egli non è tanta l'allegrezza d'averlo, quanta
la invidia ch'ella ti porta che tu t'intitoli della sua origine,
quasi sdegnando che dove ella sia per l'ultimo dì di lui
ricordata, tu allato a lei sii nominata per lo primo. E perciò
con la tua ingratitudine ti rimani, e Ravenna de tuoi onori
lieta si glorii tra futuri.
XIX
Breve
ricapitolazione
Cotale, quale di sopra è dimostrata, fu a Dante la fine della vita faticata da vari studii; e, perciò che assai convenevolmente le sue fiamme, la familiare e la publica sollecitudine e il miserabile esilio e la fine di lui mi pare avere secondo la mia promessa mostrate, giudico sia da pervenire a mostrare della statura del corpo, dell'abito, e generalmente de più notabili modi servati nella sua vita da lui; da quegli poi immediatamente vegnendo all'opere degne di nota, compilate da esso nel tempo suo, infestato da tanta turbine quanta di sopra brievemente è dichiarata.
XX
Fattezze
e costumi di Dante
Fu
adunque questo nostro poeta di mediocre statura, e, poi che alla
matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto, e era
il suo andare grave e mansueto, d'onestissimi panni sempre vestito in
quell'abito che era alla sua maturità convenevole. Il suo
volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che
piccioli, le mascelle grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra
avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri
e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso. Per la qual
cosa avvenne un giorno in Verona ,essendo già divulgata
pertutto la fama delle sue opere, e massimamente quella parte della
sua Comedia, la quale egli intitola Inferno, e esso conosciuto da
molti e uomini e donne, che, passando egli davanti a una porta dove
più donne sedevano, una di quelle pianamente, non però
tanto che bene da lui e da chi con lui era non fosse udita, disse
all'altre: "Donne, vedete colui che va nell'inferno, e torna
quando gli piace, e qua su reca novelle di coloro che là giù
sono?" Alla quale una dell'altre rispose semplicemente: "In
verità tu dèi dir vero: non vedi tu com'egli ha la
barba crespa e il color bruno per lo caldo e per lo fummo che è
là giù?". Le quali parole udendo egli dir dietro a
sé, e conoscendo che da pura credenza delle donne venivano,
piacendogli, e quasi contento ch'esse in cotale oppinione fossero,
sorridendo alquanto, passò avanti.
Ne
costumi domestici e publici mirabilemente fu ordinato e composto, e
in tutti più che alcuno altro cortese e civile.
Nel
cibo e nel poto fu modestissimo, sì in prenderlo all'ore
ordinate e sì in non trapassare il segno della necessità,
quel prendendo; né alcuna curiosità ebbe mai più
in uno che in uno altro: li dilicati lodava, e il più si
pasceva di grossi, oltre modo biasimando coloro, li quali gran parte
del loro studio pongono e in avere le cose elette e quelle fare con
somma diligenzia apparare; affermando questi cotali non mangiare per
vivere, ma più tosto vivere per mangiare.
Niuno
altro fu più vigilante di lui e negli studii e in qualunque
altra sollecitudine il pugnesse; intanto che più volte e la
sua famiglia e la donna se ne dolfono, prima che, a suoi
costumi adusate, ciò mettessero in non calere .
Rade
volte, se non domandato, parlava, e quelle pesatamente e con voce
conveniente alla materia di che diceva; non pertanto, là dove
si richiedeva, eloquentissimo fu e facundo, e con ottima e pronta
prolazione.
Sommamente
si dilettò in suoni e in canti nella sua giovanezza, e a
ciascuno che a que tempi era ottimo cantatore o sonatore fu
amico e ebbe sua usanza; e assai cose, da questo diletto tirato,
compose, le quali di piacevole e maestrevole nota a questi cotali
facea rivestire.
Quanto
ferventemente esso fosse ad amor sottoposto, assai chiaro è
già mostrato. Questo amore è ferma credenza di tutti
che fosse movitore del suo ingegno a dovere, prima imitando, divenir
dicitore in volgare; poi, per vaghezza di più solennemente
mostrare le sue passionie, di gloria, sollecitamente esercitandosi in
quella, non solamente passò ciascuno suo contemporaneo, ma
intanto la dilucidò e fece bella, che molti allora e poi di
dietro a sé n'ha fatti e farà vaghi d'essere
esperti.
Dilettossi
similemente d'essere solitario e rimoto dalle genti, acciò che
le sue contemplazioni non gli fossero interrotte; e se pure alcuna
che molto piaciuta gli fosse ne gli veniva, essendo esso tra gente,
quantunque d'alcuna cosa fosse stato addomandato, giammai infino a
tanto che egli o fermata o dannata la sua imaginazione avesse, non
avrebbe risposto al dimandante: il che molte volte, essendo egli alla
mensa, e essendo in cammino con compagni, e in altre parti,
domandato, gli avvenne.
Ne
suoi studi fu assiduissimo, quanto è quel tempo che ad essi si
disponea, intanto che niuna novità che s'udisse da quegli il
poteva rimuovere. E, secondo che alcuni degni di fede raccontano di
questo darsi tutto a cosa che gli piacesse, egli, essendo una volta
tra l'altre in Siena, e avvenutosi per accidente alla stazzone d'uno
speziale, e quivi statogli recato uno libretto davanti promessogli, e
tra valenti uomini molto famoso, né da lui stato giammai
veduto, non avendo per avventura spazio di portarlo in altra parte,
sopra la panca che davanti allo speziale era, si pose col petto, e,
messosi il libretto davanti, quello cupidissimamente cominciò
a vedere. E come che poco appresso in quella contrada stessa, e
dinanzi da lui, per alcuna general festa de Sanesi, s
incominciasse da gentili giovani e facesse una grande armeggiata, e
con quella grandissimi romori da circustanti (sì come in
cotali casi con istrumenti varii e con voci applaudenti suol farsi),
e altre cose assai v'avvenissero da dover tirare altrui a vedersi, sì
come balli di vaghe donne e giuochi molti di giovani; mai non fu
alcuno che muovere quindi il vedesse, né alcuna volta levare
gli occhi dal libro: anzi, postovisi quasi ad ora di nona, prima fu
passato vespro, e tutto l'ebbe veduto e quasi sommariamente compreso,
che egli da ciò si levasse; affermando poi ad alcuni, che il
domandavano come s'era potuto tenere di riguardare a così
bella festa come davanti a lui s'era fatta, sé niente averne
sentito: per che alla prima maraviglia non indebitamente la seconda
s'aggiunse a dimandanti.
Fu
ancora questo poeta di maravigliosa capacità e di memoria
fermissima e di perspicace intelletto, intanto che, essendo egli a
Parigi, e quivi sostenendo in una disputazione de quolibet che nelle
scuole della teologia si facea, quattordici quistioni da diversi
valenti uomini e di diverse materie, con gli loro argomenti pro e
contra fatti dagli opponenti, senza mettere in mezzo raccolse, e
ordinatamente, come poste erano state, recitò; quelle poi,
seguendo quello medesimo ordine, sottilmente solvendo e rispondendo
agli argomenti contrari. La qual cosa quasi miracolo da tutti i
circustanti fu reputata.
D'altissimo
ingegno e di sottile invenzione fu similmente, sì come le sue
opere troppo più manifestano agl'intendenti che non potrebbono
fare le mie lettere.
Vaghissimo
fu e d'onore e di pompa per avventura più che alla sua inclita
virtù non si sarebbe richiesto. Ma che? qual vita è
tanto umile, che dalla dolcezza della gloria non sia tocca? E per
questa vaghezza credo che oltre ad ogni altro studio amasse la
poesia, veggendo, come che la filosofia ogni altra trapassi di
nobiltà, la eccellenzia di quella con pochi potersi
comunicare, e esserne per lo mondo molti famosi; e la poesia più
essere apparente e dilettevole a ciascuno, e li poeti rarissimi. E
perciò, sperando per la poesì allo inusitato e pomposo
onore della coronazione dell'alloro poter pervenire, tutto a lei si
diede e istudiando e componendo. E certo il suo disiderio veniva
intero, se tanto gli fosse stata la Fortuna graziosa, che egli fosse
giammai potuto tornare in Firenze, nella quale sola sopra le fonti di
San Giovanni s'era disposto di coronare; acciò che quivi, dove
per lo battesimo aveva preso il primo nome, quivi medesimo per la
coronazione prendesse il secondo. Ma così andò che,
quantunque la sua sufficienza fosse molta, e per quella in ogni
parte, ove piaciuto gli fosse, avesse potuto l'onore della laurea
pigliare (la quale non iscienzia accresce, ma è
dell'acquistata certissimo testimonio e ornamento); pur, quella
tornata, che mai non doveva essere, aspettando, altrove pigliar non
la volle; e cosi, senza il molto disiderato onore avere, si morì.
Ma, percio che spessa quistione si fa tra le genti, e che cosa sia la
poesì e che il poeta, e donde sia questo nome venuto e perché
di lauro sieno coronati i poeti, e da pochi pare essere stato
mostrato; mi piace qui di fare alcuna transgressione, nella quale io
questo alquanto dichiari, tornando, come più tosto potrò,
al proposito.
XXI
Disgressione
su''origine della poesia
La
prima gente ne primi secoli, come che rozzissima e inculta
fosse, ardentissima fu di conoscere il vero con istudio, sì
come noi veggiamo ancora naturalmente disiderare a ciascuno. La quale
veggendo il cielo muoversi con ordinata legge continuo, e le cose
terrene avere certo ordine e diverse operazioni in diversi tempi,
pensarono di necessità dovere essere alcuna cosa, dalla quale
tutte queste cose procedessero, e che tutte l'altre ordinasse, sì
come superiore potenzia da niun'altra potenziata. E, questa
investigazione seco diligentemente avuta, s'immaginarono quella, la
quale "divinità" ovvero "deità"
nominarono, con ogni cultivazione, con ogni onore e con più
che umano servigio esser da venerare. E perciò ordinarono, a
reverenza del nome di questa suprema potenzia, ampissime ed egregie
case, le quali ancora estimarono fossero da separare così di
nome, come di forma separate erano, da quelle che generalmente per
gli uomini si abitavano; e nominaronle "templi". E
similmente avvisarono doversi ministri, li quali fossero sacri e, da
ogni altra mondana sollecitudine rimoti, solamente a divini
servigi vacassero, per maturità, per età e per abito,
più che gli altri uomini, reverendi; gli quali appellarono
"sacerdoti". E oltre a questo, in rappresentamento della
immaginata essenzia divina, fecero in varie forme magnifiche statue,
e a servigi di quella vasellamenti d'oro e mense marmoree e
purpurei vestimenti e altri apparati assai pertinenti a
sacrificii per loro istabiliti. E, acciò che a questa cotale
potenzia tacito onore o quasi mutolo non si facesse, parve loro che
con parole d'alto suono essa fosse da umiliare e alle loro necessità
rendere propizia. E così come essi estimavano questa eccedere
ciascuna altra cosa di nobilità, così vollono che, di
lungi da ogni plebeio o publico stilo di parlare, si trovassero
parole degne di ragionare dinanzi alla divinità, nelle quali
le si porgessero sacrate lusinghe. E oltre a questo, acciò che
queste parole paressero avere più d'efficacia, vollero che
fossero sotto legge di certi numeri composte, per li quali alcuna
dolcezza si sentisse, e cacciassesi il rincrescimento e la noia. E
certo, questo non in volgar forma o usitata, ma con artificiosa ed
esquisita e nuova convenne che si facesse. La qual forma li greci
appellano poetes; laonde nacque, che quello che in cotale forma fatto
fosse s'appellasse poesis; e quegli, che ciò facessero o
cotale modo di parlare usassono, si chiamassero
"poeti".
Questa
adunque fu la prima origine del nome della poesia, e per consequente
de poeti, come che altri n'assegnino altre ragioni, forse
buone: ma questa mi piace più.
Questa
buona e laudevole intenzione della rozza età mosse molti a
diverse invenzioni nel mondo multiplicante per apparere; e dove i
primi una sola deità onoravano, mostrarono i seguenti molte
esserne, come che quella una dicessono oltre ad ogni altra ottenere
il principato; le quali molte vollero che fossero il Sole, la Luna,
Saturno, Iove e ciascuno degli altri de sette pianeti, dagli
loro effetti dando argomento alla loro deità; e da questi
vennero a mostrare ogni cosa utile agli uomini, quantunque terrena
fosse, deità essere, sì come il fuoco, l'acqua, la
terra e simiglianti. Alle quali tutte e versi e onori e sacrificii
s'ordinarono. E poi susseguentemente cominciarono diversi in diversi
luoghi, chi con uno ingegno, chi con un altro, a farsi sopra la
moltitudine indòtta della sua contrada maggiori; diffinendo le
rozze quistioni, non secondo scritta legge, ché non l'aveano
ancora, ma secondo alcuna naturale equità della quale più
uno che un altro era dotato; dando alla loro vita e alli loro costumi
ordine, dalla natura medesima più illuminati; resistendo con
le loro corporali forze alle cose avverse possibili ad avvenire; e a
chiamarsi <<re>>, e mostrarsi alla plebe e con servi e
con ornamenti non usati infino a que tèmpi dagli uomini;
a farsi ubbidire; e ultimamente a farsi adorare. Il che, solo che
fosse chi 'l presumesse, sanza troppa difflcultà avvenia:
perciò che a rozzi popoli parevano, così
vedendogli, non uomini ma iddii. Questi cotali, non fidandosi tanto
delle lor forze, cominciarono ad aumentare le religioni, e con la
fede di quelle ad impaurire i suggetti e a strignere con sacramenti
alla loro obbedienza quegli li quali non vi si sarebbono potuti con
forza costrignere. E oltre a questo diedono opera a deificare li lor
padri, li loro avoli e li loro maggiori, acciò che più
fossero e temuti e avuti in reverenzia dal vulgo. Le quali cose non
si poterono comodamente fare senza l'oficio de poeti, li quali,
sì per ampliare la loro fama, sì per compiacere a
prencipi, sì per dilettare i sudditi, e sì per
persuadere il virtuosamente operare, a ciascuno-quello che con aperto
parlare saria suto della loro intenzione contrario- con fizioni varie
e maestrevoli, male da grossi oggi non che a quel tempo intese,
facevano credere quello che li prencipi volevan che si credesse;
servando negli nuovi iddii e negli uomini, gli quali degl'iddii nati
fingevano, quello medesimo stile che nel vero Iddio solamente e nel
suo lusingarlo avevan gli primi usato. Da questo si venne allo
adequare i fatti de forti uomini a quegli degl'iddii; donde
nacque il cantare con eccelso verso le battaglie e gli altri notabili
fatti degli uomini mescolatamente con quegli degl'iddii; il quale e
fu ed è oggi, insieme con l'altre cose di sopra dette, uficio
ed esercizio di ciascuno poeta. E perciò che molti non
intendenti credono la poesia niuna altra cosa essere che solamente un
fabuloso parlare, oltre al promesso mi piace brievemente quella
essere teologia dimostrare, prima ch'io vegna a dire perché di
lauro si coronino i poeti.
XXII
Difesa
della poesia
Se
noi vorremo por giù gli animi e con ragion riguardare, io mi
credo che assai leggiermente potremo vedere gli antichi poeti avere
imitate, tanto quanto a lo 'ngegno umano è possibile, le
vestigie dello Spirito Santo; il quale, sì come noi nella
divina Scrittura veggiamo, per la bocca di molti i suoi altissimi
secreti revelò a futuri, facendo loro sotto velame
parlare ciò che a debito tempo per opera, senza alcuno velo,
intendeva di dimostrare. Imperciò che essi, se noi
ragguarderemo ben le loro opere, acciò che lo imitatore non
paresse diverso dallo imitato, sotto coperta d'alcune fizioni, quello
che stato era, o che fosse al loro tempo presente, o che disideravano
o che presummevano che nel futuro dovesse avvenire, discrissono; per
che, come che ad uno fine l'una scrittura e l'altra non riguardasse,
ma solo al modo del trattare, al che più guarda al presente
l'animo mio, ad amendune si potrebbe dare una medesima laude, usando
di Gregorio le parole. Il quale della sacra Scrittura dice ciò
che ancora della poetica dir si puote: cioè che essa in uno
medesimo sermone, narrando, apre il testo e il misterio a quel
sottoposto; e così ad un'ora coll'uno gli savi esercita e con
l'altro gli semplici riconforta, e ha in publico donde li pargoletti
nutrichi, e in occulto serva quello onde essa le menti de
sublimi intenditori con ammirazione tenga sospese. Perciò che
pare essere un fiume, acciò che io così dica, piano e
profondo, nel quale il piccioletto agnello con gli piè vada, e
il grande elefante ampissimamente nuoti. Ma da procedere è al
verificare delle cose proposte.
Intende
la divina Scrittura, la qual noi "teologia" appelliamo,
quando con figura d'alcuna istoria, quando col senso d'alcuna
visione, quando con lo 'ntendimento d'alcun lamento, e in altre
maniere assai, mostrarci l'alto misterio della incarnazione del Verbo
divino, la vita di quello, le cose occorse nella sua morte, e la
resurrezione vittoriosa, e la mirabile ascensione, e ogni altro suo
atto, per lo quale noi ammaestrati, possiamo a quella gloria
pervenire, la quale Egli e morendo e resurgendo ci aperse, lungamente
stata serrata a noi per la colpa del primiero uomo. Così li
poeti nelle loro opere, le quali noi chiamiamo "poesia",
quando con fizioni di vari iddii, quando con trasmutazioni d'uomini
in varie forme, e quando con leggiadre persuasioni, ne mostrano le
cagioni delle cose, gli effetti delle virtù e de vizi, e
che fuggire dobbiamo e che seguire, acciò che pervenire
possiamo virtuosamente operando, a quel fine, il quale essi, che il
vero Iddio debitamente non conosceano, somma salute credevano. Volle
lo Spirito Santo mostrare nel rubo verdissimo, nel quale Moisè
vide, quasi come una fiamma ardente, Iddio, la verginità di
Colei che più che altra creatura fu pura, e che dovea essere
abitazione e ricetto del Signore della natura, non doversi, per la
concezione né per lo parto del Verbo del Padre, contaminare.
Volle, per la visione veduta da Nabucodonosor, nella statua di più
metalli abbattuta da una pietra convertita in monte, mostrare tutte
le preterite età dalla dottrina di Cristo, il quale fu ed è
viva pietra, dovere summergersi; e la cristiana religione, nata di
questa pietra, divenire una cosa immobile e perpetua, sì come
gli monti veggiamo. Volle nelle lamentazioni di Ieremia, l'eccidio
futuro di Ierusalem dichiarare.
Similmente
li nostri poeti, fingendo Saturno avere molti figliuoli, e quegli,
fuori che quattro, divorar tutti, niuna altra cosa vollono per tale
fizione farci sentire, se non per Saturno il tempo, nel quale ogni
cosa si produce, e come ella in esso è prodotta, così è
esso di tutte corrompitore, e tutte le riduce a niente. I quattro
suoi figliuoli non divorati da lui, è l'uno Iove, cioè
l'elemento del fuoco; il secondo è Iunone, sposa e sorella di
Iove, cioè l'aere, mediante la quale il fuoco quaggiù
opera li suoi effetti: il terzo è Nettunno, iddio del mare,
cioè l'elemento dell'acqua; e il quarto e ultimo è
Plutone, iddio del ninferno, cioè la terra, più bassa
che alcuno altro elemento. Similemente fingono li nostri poeti Ercule
d'uomo essere in dio trasformato, e Licaone in lupo. Moralmente
volendo mostrarci che, virtuosamente operando, come fece Ercule,
l'uomo diventa iddio per participazione in cielo; e, viziosamente
operando, come Licaone fece, quantunque egli paia uomo, nel vero si
può dire quella bestia, la quale da ciascuno si conosce per
effetto più simile al suo difetto: sì come Licaone per
rapacità e per avarizia, le quali a lupo sono molto conformi,
si finge in lupo esser mutato. Similemente fingono li nostri poeti la
bellezza de Campi elisii, per la quale intendo la dolcezza del
paradiso; e la oscurità di Dite, per la quale prendo
l'amaritudine dello 'nferno; acciò che noi, tratti dal piacere
dell'uno, e dalla noia dell'altro spaventati, seguitiamo le virtù
che in Eliso ci meneranno, e i vizi fuggiamo che in Dite ci farieno
trarupare. Io lascio il tritare con più particulari
esposizioni queste cose, perciò che, se quanto si converrebbe
e potrebbe le volessi chiarire, come che elle più piacevoli ne
divenissero e più facessero forte il mio argomento, dubito non
mi tirassero più oltre molto che la principale materia non
richiede e che io non voglio andare. E certo, se più non se ne
dicesse che quello ch'è detto, assai si dovrebbe comprendere
la teologia e la poesia convenirsi quanto nella forma dell'operare,
ma nel suggetto dico quelle non solamente molto essere diverse, ma
ancora avverse in alcuna parte: perciò che il suggetto della
sacra teologia è la divina verità, quello dell'antica
poesì sono gl'iddii de Gentili e gli uomini. Avverse
sono, in quanto la teologia niuna cosa presuppone se non vera; la
poesia ne suppone alcune per vere, le quali sono falsissime ed
erronee e contra la cristiana religione. Ma, perciò che alcuni
disensati si levano contra li poeti, dicendo loro sconce favole e
male a niuna verità consonanti avere composte, e che in altra
forma che con favole dovevano la loro sofficienzia mostrare e a
mondani dare la loro dottrina; voglio ancora alquanto più
oltre procedere col presente ragionamento.
Guardino
adunque questi cotali le visioni di Danièllo, quelle d'Isaia,
quelle d'Ezechiel, e degli altri del Vecchio Testamento con divina
penna discritte, e da Colui mostrate al quale non fu principio né
sarà fine. Guardinsi ancora nel Nuovo le visioni dello
evangelista, piene agl'intendenti di mirabile verità; e, se
niuna poetica favola si truova tanto di lungi dal vero o dal
verisimile, quanto nella corteccia appaiono queste in molte parti,
concedasi che solamente i poeti abbiano dette favole da non potere
dare diletto né frutto. Senza dire alcuna cosa alla
riprensione che fanno de poeti, in quanto la loro dottrina in
favole ovvero sotto favole hanno mostrata, mi potrei passare;
conoscendo che, mentre che essi mattamente gli poeti riprendono di
ciò, incautamente caggiono in biasimare quello Spirito, il
quale nulla altra cosa è che via, vita e verità; ma
pure alquanto intendo di soddisfargli.
Manifesta
cosa è che ogni cosa, che con fatica s'acquista, avere
alquanto più di dolcezza che quella che vien senza affanno. La
verità piana, perciò ch'è tosto compresa con
piccole forze, diletta e passa nella memoria. Adunque, acciò
che con fatica acquistata fosse più grata, e perciò
meglio si conservasse, li poeti sotto cose molto ad essa contrarie
apparenti, la nascosero; e perciò favole fecero, più
che altra coperta, perché la bellezza di quelle attraesse
coloro, li quali né le dimostrazion filosofiche, né le
persuasioni avevano potuto a sé tirare. Che dunque direm de
poeti? terremo ch'essi sieno stati uomini insensati, come li presenti
dissensati, parlando e non sappiendo che, gli giudicano? Certo no;
anzi furono nelle loro operazioni di profondissimo sentimento, quanto
è nel frutto nascoso, e d'eccellentissima e d'ornata
eloquenzia nelle cortecce e nelle frondi apparenti. Ma torniamo dove
lasciammo.
Dico che la
teologia e la poesia quasi una cosa si possono dire, dove uno
medesimo sia il suggetto; anzi dico più: che la teologia
niun'altra cosa è che una poesia di Dio. E che altra cosa è
che poetica fizione, nella Scrittura, dire Cristo essere ora leone e
ora agnello e ora vermine, e quando drago e quando pietra, e in altre
maniere molte, le quali voler tutte raccontare sarebbe lunghissimo?
che altro suonano le parole del Salvatore nello evangelio, se non uno
sermone da sensi alieno? il quale parlare noi con più
usato vocabolo chiamiamo "allegoria". Dunque bene appare,
non solamente la poesì essere teologia, ma ancora la teologia
essere poesia. E certo, se le mie parole meritano poca fede in sì
gran cosa, io non me ne turberò; ma credasi ad Aristotile,
degnissimo testimonio ad ogni gran cosa, il quale afferma sé
aver trovato li poeti essere stati li primi teologizzanti. E questo
basti quanto a questa parte; e torniamo a mostrare perché a
poeti solamente, tra gli scienziati, l'onore della corona dell'alloro
conceduto fosse.
XXIII
Dell'alloro
conceduto ai poeti
Tra l'altre nazioni, le quali sopra il circuito della terra son molte, li Greci si crede che sieno quegli alli quali primieramente la filosofia sé e li suoi segreti aprisse; de tesori della quale essi trassero la dottrina militare, la vita politica e altre care cose assai, per le quali essi oltre a ogni altra nazione divennero famosi e reverendi. Ma intra l'altre, tratte del costei tesoro da loro, fu la santissima sentenzia di Solone nel principio posta di questa operetta; e acciò che la loro republica, la quale più che altra allora fioriva, diritta e andasse e stesse sopra due piedi, e le pene a nocenti e i meriti a valorosi magnificamente ordinarono e osservarono. Ma, intra gli altri meriti stabiliti da loro a chi bene adoperasse, fu questo il precipuo: di coronare in publico, e con publico consentimento, di frondi d'alloro li poeti dopo la vittoria delle loro fatiche, e gl'imperadori, li quali vittoriosamente avessero la republica aumentata; giudicando che igual gloria si convenisse a colui per la cui virtù le cose umane erano e servate e aumentate, che a colui da cui le divine eran trattate. E come che di questo onore li Greci fossero inventori, esso poi trapassò a Latini, quando la gloria e l'arme parimente di tutto il mondo diedero luogo al romano nome; e ancora, almeno nelle coronazioni de poeti, come che rarissimamente avvenga, vi dura. Ma, perché a tale coronazione più il lauro che altra fronda eletto sia, non dovrà essere a veder rincrescevole.
XXIV
Origine
di questa usanza
Sono alcuni li quali credono, perciò che sanno Danne amata da Febo e in lauro convertita, essendo Febo e il primo auttore e fautore de poeti stato e similmente triunfatore, per amore a quelle frondi portato, di quelle le sue cetere e i triunfi aver coronati; e quinci essere stato preso esemplo dagli uomini, e per conseguente essere quello, che da Febo fu prima fatto, cagione di tale coronazione e di tai frondi infino a questo giorno a poeti e agl'imperadori. E certo tale oppinione non mi spiace, né nego così poter essere stato; ma tuttavia me muove altra ragione, la quale è questa. Secondo che vogliono coloro, li quali le virtù delle piante ovvero la loro natura investigarono, il lauro tra l'altre più sue proprietà n'ha tre laudevoli e notevoli molto. La prima si è, come noi veggiamo, che mai egli non perde né verdezza, né fronda; la seconda si è che non si truova questo àlbore mai essere stato fulminato, il che di niuno altro leggiamo essere avvenuto; la terza, che egli è odorifero molto, sì come noi sentiamo: le quali tre proprietà estimarono gli antichi inventori di questo onore convenirsi con le virtuose opere de poeti e de vittoriosi imperadori. E primieramente la perpetua viridità di queste frondi dissono dimostrare la fama delle costoro opere, cioè di coloro che d'esse si coronavano o coronerebbono nel futuro, sempre dovere stare in vita. Appresso estimarono l'opere di questi cotali essere di tanta potenzia, che né il fuoco della invidia, né la folgore della lunghezza del tempo, la quale ogni cosa consuma, dovesse mai queste potere fulminare, se non come quello albero fulminava la celeste folgore. E oltre a questo diceano queste opere de già detti per lunghezza di tempo mai dover divenire meno piacevoli e graziose a chi l'udisse o le leggesse, ma sempre dovere essere accettevoli e odorose. Laonde meritamente si confaceva la corona di cotai frondi, più ch'altra, a cotali uomini, gli cui effetti, in tanto quanto vedere possiamo, erano a lei conformi. Per che non senza cagione il nostro Dante era ardentissimo disideratore di tale onore ovvero di cotale testimonia di tanta vertù, quale questa è a coloro li quali degni si fanno di doversene ornare le tempie. Ma tempo è di tornare là onde, intrando in questo ci dipartimmo.
XXV
Carattere
di Dante
Fu
il nostro poeta, oltre alle cose predette, d'animo alto e disdegnoso
molto; tanto che, cercandosi per alcun suo amico, il quale ad
istanzia de suoi prieghi il facea, che egli potesse ritornare
in Fiorenza, il che egli oltre ad ogni altra cosa sommamente
disiderava, né trovandosi a ciò alcuno modo con coloro
li quali il governo della republica allora aveano nelle mani, se non
uno, il quale era questo: che egli per certo spazio stesse in
prigione, e dopo quello in alcuna solennità publica fosse
misericordievolmente alla nostra principale ecclesia offerto, e per
conseguente libero e fuori d'ogni condennagione per addietro fatta di
lui; la qual cosa parendogli convenirsi e usarsi in qualunque
Molto simigliantemente
presunse di sé, né gli parve meno valere, secondo che i
suoi contemporanei rapportano, che el valesse; la qual cosa, tra
l'altre volte, apparve una notabilmente, mentre che egli era con la
sua setta nel colmo del reggimento della republica. Ché, con
ciò fosse cosa che per coloro li quali erano depressi fosse
chiamato, mediante Bonifazio papa VIII, a ridirizzare lo stato della
nostra città, uno fratello ovvero congiunto di Filippo allora
re di Francia, il cui nome fu Carlo, si ragunarono ad uno consiglio
per provedere a questo fatto tutti li prencipi della setta con la
quale esso tenea; e quivi tra l'altre cose providero che ambasceria
si dovesse mandare al papa, il quale allora era a Roma, per la quale
s'inducesse il detto papa a dovere ostare alla venuta del detto
Carlo, ovvero lui, con concordia della setta, la quale reggeva, far
venire. E venuto al diliberare chi dovesse esser prencipe di cotale
legazione, fu per tutti detto che Dante fosse desso. Alla quale
richiesta Dante, alquanto sopra sé stato, disse: "Se io
vo, chi rimane? se io rimango, chi va?", quasi esso solo fosse
colui che tra tutti valesse, e per cui tutti gli altri valessero.
Questa parola fu intesa e raccolta, ma quello che di ciò
seguisse non fa al presente proposito, e però, passando
avanti, il lascio stare.
Oltre
a queste cose, fu questo valente uomo in tutte le sue avversità
fortissimo: solo in una cosa non so se io mi dica fu impaziente o
animoso, cioè in opera pertenente a parte, poi che in esilio
fu, troppo più che alla sua sufficienzia non appartenea, e
ch'egli non volea che di lui per altrui si credesse. E acciò
che a qual parte fosse così animoso e pertinace appaia, mi
pare sia da procedere alquanto più oltre scrivendo.
Io
credo che giusta ira di Dio permettesse, già è gran
tempo, quasi tutta Toscana e Lombardia in due parti dividersi; delle
quali, onde cotali nomi s'avessero, non so; ma l'una si chiamò
e chiama "parte guelfa", e l'altra fu "ghibellina"
chiamata. E di tanta efficacia e reverenzia furono negli stolti animi
di molti questi due nomi, che, per difendere quello che alcuno avesse
eletto per suo contra il contrario, non gli era di perdere gli suoi
beni e ultimamente la vita, se bisogno fosse fatto, malagevole. E
sotto questi titoli molte volte le città italiche sostennero
di gravissime pressure e mutamenti; e intra l'altre la nostra città,
quasi capo e dell'uno nome e dell'altro, secondo il mutamento de
cittadini; intanto che gli maggiori di Dante per guelfi da
ghibellini furono due volte cacciati di casa loro, e egli
similemente, sotto il titolo di guelfo, tenne i freni della republica
in Firenze. Della quale cacciato, come mostrato è, non da
ghibellini ma da guelfi, e veggendo sé non potere
ritornare, in tanto mutò l'animo, che niuno più fiero
ghibellino e a guelfi avversario fu come lui; e quello di che
io più mi vergogno in servigio della sua memoria è che
publichissima cosa è in Romagna, lui ogni feminella, ogni
piccol fanciullo ragionante di parte e dannante la ghibellina,
l'avrebbe a tanta insania mosso, che a gittare le pietre l'avrebbe
condotto, non avendo taciuto. E con questa animosità si visse
infino alla morte.
Certo,
io mi vergogno dovere con alcuno difetto maculare la fama di cotanto
uomo; ma il cominciato ordine delle cose in alcuna parte il richiede;
perciò che, se nelle cose meno che laudevoli in lui mi tacerò,
io torrò molta fede alle laudevoli già mostrate. A lui
medesimo adunque mi scuso, il quale per avventura me scrivente con
isdegnoso occhio d'alta parte del cielo ragguarda.
Tra
cotanta virtù, tra cotanta scienzia, quanta dimostrato è
di sopra essere stata in questo mirifico poeta, trovò
ampissimo luogo la lussuria, e non solamente ne giovani anni,
ma ancora ne maturi. Il quale vizio, come che naturale e comune
e quasi necessario sia, nel vero non che commendare, ma scusare non
si può degnamente. Ma chi sarà tra mortali giusto
giudice a condennarlo? Non io. Oh poca fermezza, oh bestiale appetito
degli uomini, che cosa non possono le femmine in noi, s'elle
vogliono, che, eziandio non volendo, posson gran cose? Esse hanno la
vaghezza, la bellezza e il naturale appetito e altre cose assai
continuamente per loro ne cuori degli uomini procuranti; e che
questo sia vero, lasciamo stare quello che Giove per Europa, o Ercule
per Iole, o Paris per Elena facessero, ché, perciò che
poetiche cose sono, molti di poco sentimento le dirien favole; ma
mostrisi per le cose non convenevoli ad alcuno di negare. Era ancora
nel mondo più che una femina quando il nostro primo padre
lasciato il comandamento fattogli dalla propia bocca di Dio,
s'accostò alle persuasioni di lei? Certo no. E David, non
ostante che molte n'avesse, solamente veduta Bersabè per lei
dimenticò Iddio, il suo regno, sé e la sua onestà,
e adultero prima e poi omicida divenne: che si dee credere che egli
avesse fatto, se ella alcuna cosa avesse comandato? E Salomone al cui
senno niuno, dal figliuolo di Dio in fuori, aggiunse mai, non
abbandonò colui che savio l'aveva fatto, e per piacere a una
femmina s'inginocchiò e adorò Baalim? Che fece Erode?
che altri molti, da niuna altra cosa tirati che dal piacer loro?
Adunque tra tanti e tali non iscusato, ma, accusato con assai meno
curva fronte che solo, può passare il nostro poeta. E questo
basti al presente de suoi costumi più notabili avere
contato.
XXVI
Delle
opere composte da Dante
Compose
questo glorioso poeta più opere ne suoi giorni, delle
quali fare ordinata memoria credo che sia convenevole, acciò
che né alcuno delle sue s'intitolasse, né a lui fossero
per avventura intitolate l'altrui. Egli primieramente, duranti ancora
le lagrime della morte della sua Beatrice, quasi nel suo
ventesimosesto anno compose in un volumetto, il quale egli intitolò
Vita nova, certe operette, sì come sonetti e canzoni, in
diversi tempi davanti in rima fatte da lui, maravigliosamente belle;
di sopra da ciascuna partitamente e ordinatamente scrivendo le
cagioni che a quelle fare l'avea[n] mosso, e di dietro ponendo le
divisioni delle precedenti opere. E come che egli d'avere questo
libretto fatto, negli anni più maturi si vergognasse molto,
nondimeno, considerata la sua età, è egli assai bello e
piacevole, e massimamente a volgari.
Appresso
questa compilazione più anni, ragguardando egli della sommità
del governo della republica, sopra la quale stava, e veggendo in
grandissima parte, sì come di così fatti luoghi si
vede, qual fosse la vita degli uomini, e quali fossero gli errori del
vulgo, e come fossero pochi i disvianti da quello, e di quanto onore
degni fossero, e quegli, che a quello s'accostassero, di quanta
confusione, dannando gli studii di questi cotali e molto più
li suoi commendando, gli venne nell'animo uno alto pensiero, per lo
quale ad una ora, cioè in una medesima opera, propose,
mostrando la sua sofficienzia, di mordere con gravissime pene i
viziosi, e con altissimi premii li valorosi onorare, e a sé
perpetua gloria apparecchiare. E, perciò che, come già
è mostrato, egli aveva a ogni studio preposta la poesia,
poetica opera estimò di comporre. E, avendo molto davanti
premeditato quello che fare dovesse, nel suo trentacinquesimo anno si
cominciò a dare al mandare ad effetto ciò che davanti
premeditato avea, cioè a volere secondo i meriti e mordere e
premiare, secondo la sua diversità, la vita degli uomini. La
quale, perciò che conobbe essere di tre maniere, cioè
viziosa, o da vizii partentesi e andante alla vertù, o
virtuosa, quella in tre libri, dal mordere la viziosa cominciando e
finendo nel premiare la virtuosa, mirabilmente distinse in un volume,
il quale tutto intitolò Comedia. De quali tre libri egli
ciascuno distinse per canti e i canti per rittimi, sì come
chiaro si vede; e quello in rima volgare compose con tanta arte, con
sì mirablle ordine e con sì bello, che niuno fu ancora
che giustamente quello potesse in alcuno atto riprendere. Quanto
sottilmente egli in esso poetasse pertutto, coloro, alli quali è
tanto ingegno prestato che 'ntendano, il possono vedere. Ma, sì
come noi veggiamo le gran cose non potersi in brieve tempo
comprendere, e per questo conoscer dobbiamo così alta, così
grande, così escogitata impresa,come fu tutti gli atti degli
uomini e i loro meriti poeticamente volere sotto versi volgari e
rimati racchiudere, non essere stato possibile in picciolo spazio
avere al suo fine recata, e massimamente da uomo, il quale da molti e
varii casi della Fortuna, pieni tutti d'angoscia e d'amaritudine
venenati, sia stato agitato (come di sopra mostrato è che fu
Dante): per che dall'ora che di sopra è detta che egli a cosi
alto lavorio si diede infino allo stremo della sua vita, come che
altre opere, come apparirà, non ostante questa, componesse in
questo mezzo, gli fu fatica continua. Né fia di soperchio in
parte toccare d'alcuni accidenti intorno al principio e alla fine di
quella avvenuti.
Dico
che, mentre che egli era più attento al glorioso lavoro, e già
della prima parte di quello, la quale intitola Inferno, aveva
composti sette canti, mirabilmente fingendo, e non miga come gentile,
ma come cristianissimo poetando, cosa sotto questo titolo mai avanti
non fatta, sopravvenne il gravoso accidente della sua cacciata, o
fuga che chiamar si convegna, per lo quale egli e quella e ogni altra
cosa abbandonata, incerto di se medesimo, più anni con diversi
amici e signori andò vagando. Ma, come noi dovemo
certissimamente credere a quello che Iddio dispone niuna cosa
contraria la Fortuna potere operare, per la quale, se forse vi può
porre indugio, istôrla possa dal debito fine, avvenne che
alcuno per alcuna sua scrittura forse a lui opportuna, cercando fra
cose di Dante in certi forzieri state fuggite subitamente in luoghi
sacri, nel tempo che tumultuosamente la ingrata e disordinata plebe
gli era, più vaga di preda che di giusta vendetta, corsa alla
casa, trovò li detti sette canti stati da Dante composti, gli
quali con ammirazione, non sappiendo che si fossero, lesse, e
piacendogli sommamente, e con ingegno sottrattigli del luogo dove
erano, gli portò ad un nostro cittadino, il cui nome fu Dino
di messer Lambertuccio, in quegli tempi famosissimo dicitore per rima
in Firenze, e mostrogliele. Li quali veggendo Dino, uomo d'alto
intelletto, non meno che colui che portati gliele avea, si maravigliò
sì per lo bello e pulito e ornato stile del dire, sì
per la profondità del senso, il quale sotto la bella corteccia
delle parole gli pareva sentire nascoso: per le quali cose
agevolmente insieme col portatore di quegli, e sì ancora per
lo luogo onde tratti gli avea, estimò quegli essere, come
erano, opera stata di Dante. E, dolendosi quella essere imperfetta
rimasa, come che essi non potessero seco presummere a qual fine fosse
il termine suo, fra loro diliberarono di sentire dove Dante fosse, e
quello, che trovato avevan mandargli, acciò che, se possibile
fosse, a tanto principio desse lo 'mmaginato fine. E, sentendo dopo
alcuna investigazione lui essere appresso il marchese Morruello, non
a lui, ma al marchese scrissono il loro disiderio, e mandarono li
sette canti; gli quali poi che il marchese, uomo assai intendente,
ebbe veduti e molto seco lodatigli, gli mostrò a Dante,
domandandolo se esso sapea cui opera stati fossero; li quali Dante
riconosciuti subito, rispose che sua. Allora il pregò il
marchese che gli piacesse di non lasciare senza debito fine sì
alto principio. "Certo" disse Dante "io mi credea
nella ruina delle mie cose questi con molti altri miei libri avere
perduti, e perciò, sì per questa credenza e sì
per la moltitudine dell'altre fatiche per lo mio esilio sopravvenute,
del tutto avea l'alta fantasia, sopra quest'opera presa, abbandonata;
ma, poi che la Fortuna inopinatamente me gli ha ripinti dinanzi, e a
voi aggrada, io cercherò di ritornarmi a memoria il primo
proposito, e procederò secondo che data mi fia la grazia".
E reassunta non sanza fatica, dopo alquanto tempo la fantasia
lasciata, seguì: "Io dico, seguitando, ch'assai prima"
etc.; dove assai manifestamente, chi ben riguarda, può la
ricongiunzione dell'opera intermessa conoscere.
Ricominciata
adunque da Dante la magnifica opera, non, forse secondo che molti
estimerebbono, senza più interromperla la perdusse alla fine;
anzi più volte, secondo che la gravità de casi
sopravvegnenti richiedea, quando mesi e quando anni, senza potervi
operare alcuna cosa, mise in mezzo; né tanto si poté
avacciare, che prima nol sopraggiugnesse la morte, che egli tutta
publicare la potesse. Egli era suo costume, quale ora sei o otto o
più o meno canti fatti n'avea, quegli, prima che alcuna altro
gli vedesse, donde che egli fosse, mandare a messer Cane della Scala,
il quale egli oltre a ogni altro uomo avea in reverenza; e, poi che
da lui eran veduti, ne facea copia a chi la ne volea. E in così
fatta maniera avendogliele tutti fuori che gli ultimi tredici canti,
mandati, e quegii avendo fatti, né ancora mandatigli; avvenne
che egli, senza avere alcuna memoria di lasciargli, si morì.
E, cercato da que che rimasero, e figliuoli e discepoli, più
volte e in più mesi, fra ogni sua scrittura, se alla sua opera
avesse fatta alcuna fine, né trovandosi per alcun modo li
canti residui, essendone generalmente ogni suo amico cruccioso, che
Iddio non l'aveva almeno tanto prestato al mondo ch'egli il picciolo
rimanente della sua opera avesse potuto compiere, dal più
cercare, non trovandogli, s'erano, disperati, rimasi.
Eransi
Iacopo e Piero, figliuoli di Dante, de quali ciascuno era
dicitore in rima, per persuasioni d'alcuni loro amici, messi a
volere, in quanto per loro si potesse, supplire la paterna opera,
acciò che imperfetta non procedesse; quando a Iacopo, il quale
in ciò era molto più che l'altro fervente, apparve una
mirabile visione, la quale non solamente dalla stolta presunzione il
tolse, ma gli mostrò dove fossero li tredici canti, li quali
alla divina Comedia mancavano, e da loro non saputi
trovare.
Raccontava uno
valente uomo ravignano, il cui nome fu Piero Giardino, lungamente
discepolo stato di Dante, che, dopo l'ottavo mese della morte del suo
maestro, era una notte, vicino all'ora che noi chiamiamo "matutino",
venuto a casa sua il predetto Iacopo, e dettogli sé quella
notte, poco avanti a quell'ora, avere nel sonno veduto Dante suo
padre, vestito di candidissimi vestimenti e d'una luce non usata
risplendente nel viso, venire a lui; il quale gli parea domandare
s'egli vivea, e udire da lui per risposta di sì, ma della vera
vita, non della nostra; per che, oltre a questo, gli pareva ancora
domandare, se egli avea compiuta la sua opera anzi il suo passare
alla vera vita, e, se compiuta l'avea, dove fosse quello che vi
mancava, da loro giammai non potuto trovare. A questo gli parea la
seconda volta udire per risposta: "Sì, io la compie'";
e quinci gli parea che 'l prendesse per mano e menasselo in quella
camera dove era uso di dormire quando in questa vita vivea; e,
toccando una parte di quella, dicea: "Egli è qui quello
che voi tanto avete cercato". E questa parola detta, ad una ora
il sonno e Dante gli parve che si partissono. Per la qual cosa
affermava sé non avesse potuto stare senza venirgli a
significare ciò che veduto avea, acciò che insieme
andassero a cercare nel luogo mostrato a lui, il quale egli
ottimamente nella memoria aveva segnato, a vedere se vero spirito o
falsa delusione questo gli avesse disegnato. Per la quale cosa,
restando ancora gran pezzo di notte, mossisi insieme, vennero al
mostrato luogo, e quivi trovarono una stuoia, al muro confitta, la
quale leggiermente levatane, videro nel muro una finestretta, da
niuno di loro mai più veduta, né saputo ch'ella vi
fosse, e in quella trovarono alquante scritte, tutte per l'umidità
del muro muffate e vicine al corrompersi se guari più state vi
fossero; e quelle pianamente dalla muffa purgate, leggendole, videro
contenere li tredici canti tanto da loro cercati. Per la qual cosa
lietissimi, quegli riscritti, secondo l'usanza dell'autore prima gli
mandarono a messer Cane, e poi alla imperfetta opera ricongiunsono
come si convenia. In cotale maniera l'opera, in molti anni compilata,
si vide finita.
Muovono
molti, e intra essi alcuni savi uomini, generalmente una quistione
così fatta: che con ciò fosse cosa Dante fosse in
iscienzia solennissimo uomo, perché a comporre così
grande, di sì alta materia e sì notabile libro, come è
questa sua Comedia, nel fiorentino idioma si disponesse; perché
non più tosto in versi latini, come gli altri poeti precedenti
hanno fatto. A così fatta domanda rispondere, tra molte
ragioni, due a l'altre principali me ne occorrono. Delle quali la
prima è per fare utilità più comune a suoi
cittadini e agli altri Italiani: conoscendo che, se metricamente in
latino, come gli altri poeti passati, avesse scritto, solamente a
letterati avrebbe fatto utile; scrivendo in volgare fece opera mai
più non fatta, e non tolse il non potere esser inteso da
letterati, e mostrando la bellezza del nostro idioma e la sua
eccellente arte in quello, e diletto e intendimento di sé
diede agl'idioti, abbandonati per addietro da ciascheduno. La seconda
ragione, che a questo il mosse, fu questa. Vedendo egli li liberali
studii del tutto abbandonati, e massimamente da prencipi e
dagli altri grandi uomini, a quali si soleano le poetiche
fatiche intitolare, e per questo e le divine opere di Virgilio e
degli altri solenni poeti non solamente essere in poco pregio
divenute, ma quasi da più disprezzate; avendo egli
incominciato, secondo che l'altezza della materia richiedea, in
questa guisa:
Ultima
regna canam, fluido contermina mundu
spiritibus quae lata patent,
quae premia solvunt
pro meritis cuicumque suis, etc.
i
lasciò istare; e, immaginando invano le croste del pane porsi
alla bocca di coloro che ancora il latte suggano, in istile atto a
moderni sensi ricominciò la sua opera e perseguilla in
volgare.
Questo libro
della Comedia, secondo il ragionare d'alcuno, intitolò egli a
tre solennissimi uomini italiani, secondo la sua triplice divisione,
a ciascuno la sua, in questa guisa: la prima parte, cioè lo
'Nferno, intitolò a Uguiccione della Faggiuola, il quale
allora in Toscana signore di Pisa era mirabilmente glorioso; la
seconda parte, cioè il Purgatoro, intitolò al marchese
Moruello Malespina; la terza parte, cioè il Paradiso, a
Federigo III re di Cicilia. Alcuni vogliono dire lui averlo
intitolato tutto a messer Cane della Scala; ma, quale si sia di
queste due la verità, niuna cosa altra n'abbiamo che solamente
il volontario ragionare di diversi; né egli è sì
gran fatto che solenne investigazione ne bisogni.
Similemente
questo egregio autore nella venuta d'Arrigo VII imperadore fece un
libro in latina prosa, il cui titolo è Monarchia, il quale,
secondo tre quistioni le quali in esso ditermina, in tre libri
divise. Nel primo loicalmente disputando, pruova che a ben essere del
mondo sia di necessità essere imperio: la quale è la
prima quistione. Nel secondo, per argomenti istoriografi procedendo,
mostra Roma di ragione ottenere il titolo dello imperio: ch'è
la seconda quistione. Nel terzo, per argomenti teologi pruova
l'autorità dello 'mperio immediatamente procedere da Dio, e
non mediante alcuno suo vicario, come li chierici pare che vogliano;
ch'è la terza quistione.
Questo
libro più anni dopo la morte dell'auttore fu dannato da messer
Beltrando cardinale del Poggetto e legato di papa nelle parti di
Lombardia, sedente Giovanni papa XXII. E la cagione fu perciò
che Lodovico, duca di Baviera, dagli elettori della Magna eletto in
re de Romani, e venendo per la sua coronazione a Roma, contra
il piacere del detto Giovanni papa essendo in Roma, fece, contra gli
ordinamenti ecclesiastici, uno frate minore, chiamato frate Pietro
della Corvara, papa, e molti cardinali e vescovi; e quivi a questo
papa si fece coronare. E, nata poi in molti casi della sua auttorità
quistione, egli e suoi seguaci, trovato questo libro, a
difensione di quella e di sé molti degli argomenti in esso
posti cominciarono a usare; per la qual cosa il libro, il quale
infino allora appena era saputo, divenne molto famoso. Ma poi,
tornatosi il detto Lodovico nella Magna, e li suoi seguaci, e
massimamente i cherici, venuti al dichino e dispersi, il detto
cardinale, non essendo chi a ciò s'opponesse, avuto il
soprascritto libro, quello in publico, sì come cose eretiche
contenente, dannò al fuoco. E il simigliante si sforzava di
fare dell'ossa dell'auttore a etterna infamia e confusione della sua
memoria, se a ciò non si fosse opposto un valoroso e nobile
cavaliere fiorentino, il cui nome fu Pino della Tosa, il quale allora
a Bologna, dove ciò si trattava, si trovò, e con lui
messer Ostagio da Polenta, potente ciascuno assai nel cospetto del
cardinale di sopra detto.
Oltre
a questi compose il detto Dante due egloge assai belle, le quali
furono intitolate e mandate da lui, per risposta di certi versi
mandatigli, a maestro Giovanni del Virgilio, del quale di sopra altra
volta è fatta menzione.
Compuose
ancora uno comento in prosa in fiorentino volgare sopra tre delle sue
canzoni distese, come che egli appaia lui avere avuto intendimento,
quando il cominciò, di commentarle tutte, bene che poi, o per
mutamento di proposito o per mancarnento di tempo che avvenisse, più
commentate non se ne truovano da lui; e questo intitolò
Convivio, assai bella e laudevole operetta.
Appresso,
già vicino alla sua morte, compuose uno libretto in prosa
latina, il quale egli intitolò De vulgari eloquentia, dove
intendea di dare dottrina, a chi imprendere la volesse, del dire in
rima; e come che per lo detto libretto apparisca lui avere in animo
di dovere in ciò comporre quattro libri, o che più non
ne facesse dalla morte soprapreso, o che perduti sieno gli altri, più
non appariscono che due solamente.
Fece
ancora questo valoroso poeta molte pístole prosaice in latino,
delle quali ancora appariscono assai. Compuose molte canzoni distese,
sonetti e ballate assai e d'amore e morali, oltre a quelle che nella
sua Vita nova appariscono: delle quali cose non curo di fare speziale
menzione al presente.
In
così fatte cose, quali di sopra sono dimostrate, consumò
il chiarissimo uomo quella parte del suo tempo, la quale egli agli
amorosi sospiri, alle pietose lacrime, alle sollecitudini private e
pubblice e a varii fluttuamenti della iniqua Fortuna poté
imbolare: opere troppo più a Dio e agli uomini accettevoli che
gl'inganni, le fraudi, le menzogne, le rapine e tradimenti, li
quali la maggior parte degli uomini usano oggi, cercando per diverse
vie uno medesimo termine, cioè il divenire ricco, quasi in
quelle ogni bene, ogni onore, ogni beatitudine stea. O menti
sciocche, una brieve particella d'una ora separarà dal caduco
corpo lo spirito, e tutte queste vituperevoli fatiche annullerà,
e il tempo, nel quale ogni cosa suol consumarsi, o annullerà
prestamente la memoria del ricco, o quella per alcuno spazio con gran
vergogna di lui serverà! Che del nostro poeta certo non
avverrà; anzi, sì come noi veggiamo degli strumenti
bellici addivenire, che per l'usargli diventan più chiari,
così avverrà del suo nome: egli, per essere
stropicciato dal tempo, sempre diventerà più lucente. E
perciò fatichi chi vuole nelle sue vanità, e bastigli
l'esser lasciato fare, senza volere, con riprensione da se medesimo
non intesa, l'altrui virtuoso operare andar mordendo.
XXVII
Ricapitolazione
Mostrato è sommariamente qual fosse l'origine, gli studi e la vita e costumi, e quali sieno l'opere state dello splendido uomo Dante Alighieri, poeta chiarissimo, e con esse alcuna altra cosa, facendo transgressione, secondo che conceduto m'ha Colui che d'ogni grazia è donatore. Ben so: per molti altri molto meglio e più discretamente si saria potuto mostrare; ma chi fa quel che sa, più non gli è richiesto. Il mio avere scritto come io ho saputo, non toglie il poter dire ad uno altro, che meglio ciò creda di scrivere che io non ho fatto; anzi forse, se io in parte alcuna ho errato, darò materia altrui di scrivere, per dire il vero, del nostro Dante, ove infino a qui niuno truovo averlo fatto. Ma la mia fatica non è ancora alla sua fine. Una particella, nel processo promessa di questa operetta, mi resta a dichiarare, cioè il sogno della madre del nostro poeta, quando in lui era gravida, veduto da lei; del quale io, quanto più brievemente saprò e potrò, intendo di dilivrarmi, e porre fine al ragionare.
XXVIII
Ancora
il sogno della madre di Dante
Vide la gentil donna nella sua gravidezza sé a piè d'uno altissimo alloro, allato a una chiara fontana, partorire uno figliuolo, il quale di sopra altra volta narrai, in brieve tempo, pascendosi delle bache di quello alloro cadenti e dell'onde della fontana, divenire un gran pastore e vago molto delle frondi di quello alloro sotto il quale era; a le quali avere mentre che egli si sforzava, le parea che egli cadesse; e subitamente non lui, ma di lui uno bellissimo paone le parea vedere. Dalla quale maraviglia la gentil donna commossa, ruppe, senza vedere di lui più avanti, il dolce sonno.
XXIX
Spiegazione
del sogno
La
divina bontà, la quale ab ecterno, sì come presente,
ogni cosa futura previde, suole, da sua propia benignità
mossa, quale ora la natura, sua generale ministra, è per
producere alcuno inusitato effetto infra mortali, di quello con
alcuna dimostrazione o in segno o in sogno o in altra maniera farci
avveduti, acciò che dalla predimostrazione argomento prendiamo
ogni conoscenza consistere nel Signore della natura producente ogni
cosa; la quale predimostrazione, se bene si riguarda, ne fece nella
venuta del poeta, del quale tanto di sopra è parlato, nel
mondo. E a quale persona la poteva egli fare che con tanta affezione
e veduta e servata l'avesse, quanto colei che della cosa mostrata
doveva essere madre, anzi già era? Certo a niuna. Mostrollo
dunque a lei, e quello che egli a lei mostrasse ci è già
manifesto per la scrittura di sopra; ma quello che egli intendesse
con più aguto occhio è da vedere. Parve adunque alla
donna partorire un figliuolo, e certo così fece ella infra
picciolo termine dalla veduta visione. Ma che vuole significare
l'alto alloro sotto il quale il partorisce, è da vedere.
Oppinione è
degli astrologi e di molti naturali filosofi, per la vertù e
influenzia de corpi superiori gl'inferiori e producersi e
nutricarsi, e, se potentissima ragione da divina grazia illuminata
non resiste, guidarsi. Per la qual cosa, veduto quale corpo superiore
sia più possente nel grado che sopra l'orizzonte sale in
quella ora che alcun nasce, secondo quello cotale corpo più
possente, anzi secondo le sue qualità, dicono del tutto il
nato disporsi . Per che per lo alloro, sotto il quale alla donna
pareva il nostro Dante dare al mondo, mi pare che sia da intendere la
disposizione del cielo la quale fu nella sua natività,
mostrante sé essere tale che magnanimità e eloquenzia
poetica dimostrava; le quali due cose significa l'alloro, àlbore
di Febo, e delle cui frondi li poeti sono usi di coronarsi, come di
sopra è già mostrato assai.
Le
bache, delle quali nutrimento prendeva il fanciullo nato, gli effetti
da così fatta disposizione di cielo, quale è
dimostrata, già proceduti, intendo; li quali sono i libri
poetici e le loro dottrine, da quali libri e dottrine fu
altissimamente nutricato, cioè ammaestrato il nostro
Dante.
Il fonte
chiarissimo, de la cui acqua le parea che questi bevesse, niuna altra
cosa giudico che sia da intendere se non l'ubertà della
filosofica dottrina morale e naturale; la quale si come dalla ubertà
nascosa nel ventre della terra procede, così e queste dottrine
dalle copiose ragioni dimostrative, che terrena ubertà si
possono dire, prendono essenza e cagione; senza le quali, così
come il cibo non può bene disporsi, senza bere, negli stomaci
di chi 'l prende, non si può alcuna scienzia bene
negl'intelletti adattare di nessuno, se dalli filosofici
dimostramenti non v'è ordinata e disposta. Per che ottimamente
possiamo dire, lui con le chiare onde, cioè con la filosofia,
disporre nel suo stomaco, cioè nel suo intelletto, le bache
delle quali si pasce, cioè la poesia, la quale, come già
è detto, con tutta la sua sollecitudine studiava.
Il
divenire subitamente pastore ne mostra la eccellenzia del suo
ingegno, in quanto subitamente; il quale fu tanto e tale, che in
brieve spazio di tempo comprese per istudio quello che opportuno era
a divenire pastore, cioè datore di pastura agli altri ingegni
di ciò bisognosi. E sì come assai leggermente ciascuno
può comprendere, due maniere sono di pastori: l'una sono
pastori corporali, l'altra spirituali. Li corporali pastori sono di
due maniere, delle quali la prima è quella di coloro che
volgarmente da tutti sono appellati "pastori", cioè
i guardatori delle pecore o de buoi o di qualunque altro
animale; la seconda maniera sono i padri delle famiglie, dalla
sollecitudine de quali convegnono essere e pasciuti e guardati
e governati la gregge de figliuoli e de servidori e degli
altri suggetti di quegli. Li spirituali pastori similmente si possono
dire di due maniere, delle quali l'una è quella di coloro li
quali pascono l'anime de viventi della parola di Dlo; e questi
sono li prelati, i predicatori e sacerdoti, nella cui custodia
sono commesse l'anime labili di qualunque sotto il governo a ciascuno
ordinato dimora; l'altra è quella di coloro li quali, d'ottima
dottrina, o leggendo quello che gli passati hanno scritto, o
scrivendo di nuovo ciò che loro pare o non tanto chiaro
mostrato o omesso, informano e l'anime e gl'intelletti degli
ascoltanti o de leggenti, li quali generalmente dottori, in
qual che facultà si sia, sono appellati. Di questa maniera di
pastori subitamente, cioè in poco tempo, divenne il nostro
poeta. E che ciò sia vero, lasciando stare l'altre opere
compilate da lui, riguardisi la sua Commedia, la quale con la
dolcezza e bellezza del testo pasce non solamente gli uomini, ma i
fanciulli e le femine; e con mirabile soavità de
profondissimi sensi sotto quella nascosi, poi che alquanto gli ha
tenuti sospesi, ricrea e pasce gli solenni intelletti.
Lo
sforzarsi ad avere di quelle frondi, il frutto delle quali l'ha
nutricato, niuna altra cosa ne mostra che l'ardente disiderio avuto
da lui, come di sopra si dice, della corona laurea; la quale per
nulla altro si disidera, se non per dare testimonianza del frutto. Le
quali frondi mentre che egli più ardentemente disiderava, lui
dice che vide cadere; il quale cadere niuna altra cosa fu se non
quello cadimento che tutti facciamo senza levarci, cioè il
morire; il quale, se bene si ricorda di ciò che di sopra è
detto, gli avvenne quando più la sua laureazione disiava.
Seguentemente dice che
di pastore subitamente il vide divenuto un paone: per lo qual
mutamento assai bene la sua posterità comprendere possiamo, la
quale, come che nell'altre sue opere stea, sommamente vive nella sua
Commedia, la quale, secondo il mio giudicio, ottimamente è
conforme al paone, se le propietà de l'uno e de l'altra si
guarderanno. Il paone tra l'altre sue propietà per quello che
appaia, n'ha quattro notabili. La prima si è ch'egli si ha
penna angelica, e in quella ha cento occhi; la seconda si è
che egli ha sozzi piedi e tacita andatura; la terza si è
ch'egli ha voce molto orribile a udire; la quarta e ultima si è
che la sua carne è odorifera e incorruttibile. Queste quattro
cose pienamente ha in sé la Comedia del nostro poeta; ma,
perciò che acconciamente l'ordine posto di quelle non si può
seguire, come verranno più in concio or l'una ora l'altra le
verrò adattando, e comincerommi da l'ultima.
Dico
che il senso della nostra Comedia è simigliante alla carne del
paone, perciò che esso, o morale o teologo che tu il dèi
a quale parte più del libro ti piace, è semplice e
immutabile verità, la quale non solamente corruzione non può
ricevere, ma quanto più si ricerca, maggiore odore della sua
incorruttibile soavità porge a riguardanti. E di ciò
leggiermente molti esempli si mostrerebbero, se la presente materia
il sostenesse; e però, senza porne alcuno, lascio il cercarne
agl'intendenti.
Angelica
penna dissi che copria questa carne; e dico "angelica", non
perché io sappia se così fatte o altramenti gli angeli
n'abbiano alcuna, ma, congetturando a guisa de mortali, udendo
che gli angeli volino, avviso loro dovere avere penne; e, non
sappiendone alcuna fra questi nostri uccelli più bella, né
più peregrina, né così come quella del paone,
imagino loro così doverle avere fatte; e però non
quelle da queste, ma queste da quelle dinomino perché più
nobile uccello è l'angelo che 'l paone. Per le quali penne,
onde questo corpo si cuopre, intendo la bellezza della peregrina
istoria, che nella superficie della lettera della Comedia suona: sì
come l'essere disceso in inferno e veduto l'abito del luogo e le
varie condizioni degli abitanti; essere ito su per la montagna del
purgatorio, udite le lagrime e i lamenti di coloro che sperano
d'essere santi; e quindi salito in paradiso e la ineffabile gloria
de beati veduta. Istoria tanto bella e tanto peregrina, quanto
mai da alcuno più non fu pensata non che udita, distinta in
cento canti, sì come alcuni vogliono il paone avere nella coda
cento occhi. Li quali canti così provvedutamente distinguono
le varietà del trattato opportune, come gli occhi distinguono
i colori o la diversità delle cose obiette. Dunque bene è
d'angelica penna coperta la carne del nostro paone.
Sono
similmente a questo paone li piè sozzi e l'andatura queta: le
quali cose ottimumente alla Comedia del nostro auttore si confanno,
perciò che, sì come sopra i piedi pare che tutto il
corpo si sostenga, così prima facie pare che sopra il modo del
parlare ogni opera in iscrittura composta si sostenga; e il parlare
volgare, nel quale e sopra il quale ogni giuntura della Comedia si
sostiene, a rispetto dell'alto e maestrevole stilo letterale che usa
ciascun altro poeta, è sozzo, come che egli sia più che
gli altri belli agli odierni ingegni conforme. L'andar queto
significa l'umiltà dello stilo, il quale nelle commedie di
necessità si richiede, come color sanno che intendono che
vuole dire "comedia".
Ultimamente
dico che la voce del paone è orribile: la quale, come che la
soavità delle parole del nostro poeta sia molta quanto alla
prima apparenza, sanza niuno fallo a chi bene le medolle dentro
ragguarderà, ottimamente a lui si confà. Chi più
orribilmente grida di lui, quando con invenzione acerbissima morde le
colpe di molti viventi, e quelle de preteriti gastiga? Qual
voce è più orrida che quella del gastigante a colui
ch'è disposto a peccare? Certo niuna. Egli ad una ora colle
sue dimostrazioni spaventa i buoni e contrista i malvagi; per la qual
cosa quanto in questo adopera, tanto veramente orrida voce si può
dire avere. Per la qual cosa, e per l'altre di sopra toccate, assai
appare, colui, che fu vivendo pastore, dopo la morte essere divenuto
paone, sì come credere si puote essere stato per divina
spirazione nel sonno mostrato alla cara madre.
Questa
esposizione del sogno della madre del nostro poeta conosco essere
assai superficialmente per me fatta; e questo per più cagioni.
Primieramente, perché forse la sufficienzia, che a tanta cosa
si richiederebbe, non c'era; appresso, posto che stata ci fosse, la
principale intenzione nol patia; ultimamente, quando e la
sufficienzia ci fosse stata e la materia l'avesse patito, era ben
fatto da me non essere più detto che detto sia, acciò
che ad altrui più di me sofficiente e più vago alcuno
luogo si lasciasse di dire. E perciò quello, che per me detto
n'è, quanto a me dee convenevolmente bastare; e quel, che
manca, rimanga nella sollecitudine di chi segue.
XXX
Conclusione
La mia piccioletta barca è pervenuta al porto, al quale ella dirizzò la proda partendosi dallo opposito lito: e come che il peleggio sia stato picciolo, e il mare, il quale ella ha solcato, basso e tranquillo, nondimeno, di ciò che senza impedimento è venuta, ne sono da rendere grazie a Colui che felice vento ha prestato alle sue vele. Al quale con quella umiltà, con quella divozione, con quella affezione che io posso maggiore, non quelle, né così grandi come si converrieno, ma quelle che io posso, rendo, benedicendo in etterno il suo nome e 'l suo valore.
DE
ORIGINE, VITA, STUDIIS ET MORIBUS
CLARISSIMI VIRI DANTIS ALIGERII
FIORENTINI,
POETE ILLUSTRIS,
ET DE OPERIBUS COMPOSITIS AB
EODEM,
EXPLICIT