Dante Alighieri
Convivio
TRATTATO I
Capitolo I
Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia,
tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che
puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di propria
natura impinta, è inclinabile a la sua propria perfezione;
onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la
nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti
naturalmente al suo desiderio semo subietti. Veramente da questa
nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni, che
dentro a l'uomo e di fuori da esso lui rimovono da l'abito di
scienza. Dentro da l'uomo possono essere due difetti e impedimenti:
l'uno da la parte del corpo, l'altro da la parte de l'anima. Da la
parte del corpo è quando le parti sono indebitamente disposte,
sì che nulla ricevere può, sì come sono sordi e
muti e loro simili. Da la parte de l'anima è quando la malizia
vince in essa, sì che si fa seguitatrice di viziose
delettazioni, ne le quali riceve tanto inganno che per quelle ogni
cosa tiene a vile. Di fuori da l'uomo possono essere similemente due
cagioni intese, l'una de le quali è induttrice di necessitade,
l'altra di pigrizia. La prima è la cura familiare e civile, la
quale convenevolemente a sé tiene de li uomini lo maggior
numero, sì che in ozio di speculazione esser non possono.
L'altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e
nutrita, che tal ora sarà da ogni studio non solamente
privato, ma da gente studiosa lontano.
Le due di queste cagioni, cioè la prima da la parte di dentro
e la prima da la parte di fuori, non sono da vituperare, ma da
escusare e di perdono degne; le due altre, avvegna che l'una più,
sono degne di biasimo e d'abominazione. Manifestamente adunque può
vedere chi bene considera, che pochi rimangono quelli che a l'abito
da tutti desiderato possano pervenire, e innumerevoli quasi sono li
'mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati. Oh beati quelli
pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli si
manuca! e miseri quelli che con le pecore hanno comune cibo! Ma però
che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico, e
ciascuno amico si duole del difetto di colui ch'elli ama, coloro che
a così alta mensa sono cibati non sanza misericordia sono
inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande sen
gire mangiando. E acciò che misericordia è madre di
beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono de la loro
buona ricchezza a li veri poveri, e sono quasi fonte vivo, de la cui
acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata. E
io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma, fuggito de la
pastura del vulgo, a' piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello
che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m'ho
lasciati, per la dolcezza ch'io sento in quello che a poco a poco
ricolgo, misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li
miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro, già
è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti
maggiormente vogliosi. Per che ora volendo loro apparecchiare,
intendo fare un generale convivio di ciò ch'i' ho loro
mostrato, e di quello pane ch'è mestiere a così fatta
vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata. E questo
è quello convivio, di quello pane degno, con tale vivanda qual
io intendo indarno non essere ministrata. E però ad esso non
s'assetti alcuno male de' suoi organi disposto, però che né
denti né lingua ha né palato; né alcuno
settatore di vizii, perché lo stomaco suo è pieno
d'omori venenosi contrarii, sì che mai vivanda non terrebbe.
Ma vegna qua qualunque è per cura familiare o civile ne la
umana fame rimaso, e ad una mensa con li altri simili impediti
s'assetti; e a li loro piedi si pongano tutti quelli che per pigrizia
si sono stati, che non sono degni di più alto sedere: e quelli
e questi prendano la mia vivanda col pane, che la farà loro e
gustare e patire. La vivanda di questo convivio sarà di
quattordici maniere ordinata, cioè quattordici canzoni sì
d'amor come di vertù materiate, le quali sanza lo presente
pane aveano d'alcuna oscuritade ombra, sì che a molti loro
bellezza più che loro bontade era in grado. Ma questo pane,
cioè la presente disposizione, sarà la luce la quale
ogni colore di loro sentenza farà parvente.
E se ne la presente opera, la quale è Convivio nominata e vo'
che sia, più virilmente si trattasse che ne la Vita Nuova, non
intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma
maggiormente giovare per questa quella; veggendo sì come
ragionevolmente quella fervida e passionata, questa temperata e
virile esser conviene. Ché altro si conviene e dire e operare
ad una etade che ad altra; perché certi costumi sono idonei e
laudabili ad una etade che sono sconci e biasimevoli ad altra, sì
come di sotto, nel quarto io in quella dinanzi, a l'entrata de la mia
gioventute parlai, e in questa dipoi, quella già trapassata. E
con ciò sia cosa che la vera intenzione mia fosse altra che
quella che di fuori mostrano le canzoni predette, per allegorica
esposizione quelle intendo mostrare, appresso la litterale istoria
ragionata; sì che l'una ragione e l'altra darà sapore a
coloro che a questa cena sono convitati. Li quali priego tutti che se
lo convivio non fosse tanto splendido quanto conviene a la sua grida,
che non al mio volere ma a la mia facultade imputino ogni difetto;
però che la mia voglia di compita e cara liberalitate è
qui seguace.
Capitolo II
Nel cominciamento di ciascuno bene ordinato convivio sogliono li
sergenti prendere lo pane apposito, e quello purgare da ogni macula.
Per che io, che ne la presente scrittura tengo luogo di quelli, da
due macule mondare intendo primieramente questa esposizione, che per
pane si conta nel mio corredo. L'una, è che parlare alcuno di
se medesimo pare non licito; l'altra è, che parlare in
esponendo troppo a fondo pare non ragionevole: e lo illicito e 'l non
ragionevole lo coltello del mio giudicio purga in questa forma. Non
si concede per li retorici alcuno di se medesimo sanza necessaria
cagione parlare, e da ciò è l'uomo rimosso, perché
parlare d'alcuno non si può che il parladore non lodi o non
biasimi quelli di cui elli parla; le quali due cagioni rusticamente
stanno, a far dire di sé, ne la bocca di ciascuno. E per
levare un dubbio che qui surge, dico che peggio sta biasimare che
lodare, avvegna che l'uno e l'altro non sia da fare. La ragione è
che qualunque cosa è per sé da biasimare, è più
laida che quella che è per accidente. Dispregiar se medesimo è
per sé biasimevole, però che a l'amico dee l'uomo lo
suo difetto contare strettamente, e nullo è più amico
che l'uomo a sé; onde ne la camera de' suoi pensieri se
medesimo riprender dee e piangere li suoi difetti, e non palese.
Ancora: del non potere e del non sapere ben sé menare le più
volte non è l'uomo vituperato, ma del non volere è
sempre, perché nel volere e nel non volere nostro si giudica
la malizia e la bontade; e però chi biasima se medesimo
appruova sé conoscere lo suo difetto, appruova sé non
essere buono: per che, per sé, è da lasciare di parlare
sé biasimando. Lodare sé è da fuggire sì
come male per accidente, in quanto lodare non si può, che
quella loda non sia maggiormente vituperio. È loda ne la punta
de le parole, è vituperio chi cerca loro nel ventre: ché
le parole sono fatte per mostrare quello che non si sa, onde chi loda
sé mostra che non creda essere buono tenuto; che non li
incontra sanza maliziata conscienza, la quale, sé lodando,
discuopre e, discoprendo, si biasima.
E ancora la propria loda e lo proprio biasimo è da fuggire per
una ragione igualmente, sì come falsa testimonianza fare; però
che non è uomo che sia di sé vero e giusto misuratore,
tanto la propria caritate ne 'nganna. Onde avviene che ciascuno ha
nel suo giudicio le misure del falso mercatante, che compera con
l'una e vende con l'altra; e ciascuno con ampia misura cerca lo suo
mal fare e con piccola cerca lo bene; sì che 'l numero e la
quantità e 'l peso del bene li pare più che se con
giusta misura fosse saggiato, e quello del male meno. Per che,
parlando di sé con loda o col contrario, o dice falso per
rispetto a la cosa di che parla; o dice falso per rispetto a la sua
sentenza, c'ha l'una e l'altra falsitate. E però, con ciò
sia cosa che lo consentire è uno confessare, villania fa chi
loda o chi biasima dinanzi al viso alcuno, perché né
consentire né negare puote lo così estimato sanza
cadere in colpa di lodarsi o di biasimare: salva qui la via de la
debita correzione, che essere non può sanza improperio del
fallo che correggere s'intende; e salva la via del debito onorare e
magnificare, la quale passar non si può sanza far menzione de
l'opere virtuose, o de le dignitadi virtuosamente
acquistate.
Veramente, al principale intendimento tornando, dico, come è
toccato di sopra, per necessarie cagioni lo parlare di sé è
conceduto: e intra l'altre necessarie cagioni due sono più
manifeste. L'una è quando sanza ragionare di sé grande
infamia o pericolo non si può cessare; e allora si concede,
per la ragione che de li due sentieri prendere lo men reo è
quasi prendere un buono. E questa necessitate mosse Boezio di se
medesimo a parlare, acciò che sotto pretesto di consolazione
escusasse la perpetuale infamia del suo essilio, mostrando quello
essere ingiusto, poi che altro escusatore non si levava. L'altra è
quando, per ragionare di sé, grandissima utilitade ne segue
altrui per via di dottrina; e questa ragione mosse Agustino ne le sue
Confessioni a parlare di sé, ché per lo processo de la
sua vita, lo quale fu di non buono in buono, e di buono in migliore,
e di migliore in ottimo, ne diede essemplo e dottrina, la quale per
sì vero testimonio ricevere non si potea. Per che se l'una e
l'altra di queste ragioni mi scusa, sufficientemente lo pane del mio
formento è purgato de la prima sua macula. Movemi timore
d'infamia, e movemi desiderio di dottrina dare la quale altri
veramente dare non può. Temo la infamia di tanta passione
avere seguita, quanta concepe chi legge le sopra nominate canzoni in
me avere segnoreggiata; la quale infamia si cessa, per lo presente di
me parlare, interamente, lo quale mostra che non passione ma vertù
sia stata la movente cagione. Intendo anche mostrare la vera sentenza
di quelle, che per alcuno vedere non si può s'io non la conto,
perché è nascosa sotto figura d'allegoria: e questo non
solamente darà diletto buono a udire, ma sottile
ammaestramento e a così parlare e a così intendere
l'altrui scritture.
Capitolo III
Degna di molta riprensione è quella cosa che, ordinata a torre alcuno difetto, per se medesima quello induce; sì come quelli che fosse mandato a partire una rissa e, prima che partisse quella, ne iniziasse un'altra. E però che lo mio pane è purgato da una parte, convienlomi purgare da l'altra, per fuggire questa riprensione, che lo mio scritto, che quasi comento dir si può, è ordinato a levar lo difetto de le canzoni sopra dette, ed esso per sé ha forse in parte alcuna un poco duro. La qual durezza, per fuggir maggiore difetto, non per ignoranza, è qui pensata. Ahi, piaciuto fosse al dispensatore de l'universo che la cagione de la mia scusa mai non fosse stata! ché né altri contra me avria fallato, né io sofferto avria pena ingiustamente, pena, dico, d'essilio e di povertate. Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno - nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo de la vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l'animo stancato e terminare lo tempo che m'è dato - , per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito a li occhi a molti che forseché per alcuna fama in altra forma m'aveano imaginato, nel conspetto de' quali non solamente mia persona invilìo, ma di minor pregio si fece ogni opera, si già fatta, come quella che fosse a fare. La ragione per che ciò incontra - non pur in me, ma in tutti - brievemente or qui piace toccare: e prima, perché la stima oltre la veritade si sciampia; e poi, perché la presenzia oltre la veritade stringe. La fama buona principalmente è generata da la buona operazione ne la mente de l'amico, e da quella è prima partorita; ché la mente del nemico, avvegna che riceva lo seme, non concepe. Quella mente che prima la partorisce, sì per far più ornato lo suo presente, sì per la caritade de l'amico che lo riceve, non si tiene a li termini del vero, ma passa quelli. E quando per ornare ciò che dice li passa, contra conscienza parla; quando inganno di caritade li fa passare, non parla contra essa. La seconda mente che ciò riceve, non solamente a la dilatazione de la prima sta contenta, ma 'l suo riportamento, sì come quasi suo effetto, procura d'adornare; e sì, che per questo fare e per lo 'nganno che riceve de la caritade in lei generata, quella più ampia fa che a lei non viene, e con concordia e con discordia di conscienza come la prima. E questo fa la terza ricevitrice e la quarta, e così in infinito si dilata. E così, volgendo le cagioni sopra dette ne le contrarie, si può vedere la ragione de la infamia, che simigliantemente si fa grande. Per che Virgilio dice nel quarto de lo Eneida che la Fama vive per essere mobile, e acquista grandezza per andare. Apertamente adunque veder può chi vuole che la imagine per sola fama generata sempre è più ampia, quale che essa sia, che non è la cosa imaginata nel vero stato.
Capitolo IV
Mostrata ragione innanzi per che la fama dilata lo bene e lo male
oltre la vera quantità, resta in questo capitolo a mostrar
quelle ragioni che fanno vedere perché la presenza ristringe
per opposito; e mostrate quelle, si verrà lievemente al
principale proposito, cioè de la sopra notata scusa.
Dico adunque che per tre cagioni la presenza fa la persona di meno
valore ch'ella non è: l'una de le quali è puerizia, non
dico d'etate ma d'animo; la seconda è invidia, - e queste sono
ne lo giudicatore -; la terza è l'umana impuritade, e questa è
ne lo giudicato. La prima si può brievemente così
ragionare. La maggiore parte de li uomini vivono secondo senso e non
secondo ragione, a guisa di pargoli; e questi cotali non conoscono le
cose se non semplicemente di fuori, e la loro bontade, la quale a
debito fine è ordinata, non veggiono, per ciò che hanno
chiusi li occhi de la ragione, li quali passano a veder quello. Onde
tosto veggiono tutto ciò che ponno, e giudicano secondo la
loro veduta. E però che alcuna oppinione fanno ne l'altrui
fama per udita, da la quale ne la presenza si discorda lo imperfetto
giudicio che non secondo ragione ma secondo senso giudica solamente,
quasi menzogna reputano ciò che prima udito hanno, e
dispregiano la persona prima pregiata. Onde appo costoro, che sono,
ohmè, quasi tutti, la presenza ristringe l'una e l'altra
qualitade. Questi cotali tosto sono vaghi e tosto sono sazii, spesso
sono lieti e spesso tristi di brievi dilettazioni e tristizie, tosto
amici e tosto nemici; ogni cosa fanno come pargoli, sanza uso di
ragione. La seconda si vede per queste ragioni: che paritade ne li
viziosi è cagione d'invidia, e invidia è cagione di mal
giudicio, però che non lascia la ragione argomentare per la
cosa invidiata, e la potenza giudicativa è allora quel giudice
che ode pur l'una parte. Onde quando questi cotali veggiono la
persona famosa, incontanente sono invidi, però che veggiono a
sé pari membra e pari potenza, e temono, per la eccellenza di
quel cotale, meno esser pregiati. E questi non solamente passionati
mal giudicano, ma, diffamando, fanno a li altri mal giudicare; per
che appo costoro la presenza ristringe lo bene e lo male in ciascuno
appresentato: e dico lo male, perché molti, dilettandosi ne le
male operazioni, hanno invidia a' mali operatori. La terza si è
l'umana impuritade, la quale si prende da la parte di colui ch'è
giudicato, e non è sanza familiaritade e conversazione alcuna.
Ad evidenza di questa, è da sapere che l'uomo è da più
parti maculato, e, come dice Agustino, nullo è sanza macula.
Quando è l'uomo maculato d'una passione, a la quale tal volta
non può resistere; quando è maculato d'alcuno disconcio
membro; e quando è maculato d'alcuno colpo di fortuna; e
quando è maculato d'infamia di parenti o d'alcuno suo
prossimo: le quali cose la fama non porta seco ma la presenza, e
discuoprele per sua conversazione. E queste macule alcuna ombra
gittano sopra la chiarezza de la bontade, sì che la fanno
parere men chiara e men valente. E questo è quello per che
ciascuno profeta è meno onorato ne la sua patria; questo è
quello per che l'uomo buono dee la sua presenza dare a pochi e la
familiaritade dare a meno, acciò che 'l nome suo sia ricevuto,
ma non spregiato. E questa terza cagione può essere così
nel male come nel bene, se le cose de la sua ragione si volgano
ciascuna in suo contrario. Per che manifestamente si vede che per
impuritade, sanza la quale non è alcuno, la presenza ristringe
lo bene e lo male in ciascuno più che 'l vero non vuole.
Onde
con ciò sia cosa che, come detto è di sopra, io mi sia
quasi a tutti li Italici appresentato, per che fatto mi sono più
vile forse che 'l vero non vuole non solamente a quelli a li quali
mia fama era già corsa, ma eziandio a li altri, onde le mie
cose sanza dubbio meco sono alleviate; conviemmi che con più
alto stilo dea, ne la presente opera, un poco di gravezza, per la
quale paia di maggiore autoritade. E questa scusa basti a la fortezza
del mio comento.
Capitolo V
Poi che purgato è questo pane da le macule accidentali, rimane
ad escusare lui da una sustanziale, cioè da l'essere vulgare e
non latino; che per similitudine dire si può di biado e non di
frumento. E da ciò brievemente lo scusano tre ragioni, che
mossero me ad eleggere innanzi questo che l'altro: l'una si muove da
cautela di disconvenevole ordinazione; l'altra da prontezza di
liberalitade; la terza da lo naturale amore a propria loquela. E
queste cose per sue ragioni, a sodisfacimento di ciò che
riprendere si potesse per la notata ragione, intendo per ordine
ragionare in questa forma.
Quella cosa che più adorna e
commenda l'umana operazione, e che più dirittamente a buon
fine la mena, si è l'abito di quelle disposizioni che sono
ordinate a lo inteso fine; sì com'è ordinata al fine de
la cavalleria franchezza d'animo e fortezza di corpo. E così
colui che è ordinato a l'altrui servigio dee avere quelle
disposizioni che sono a quello fine ordinate, sì come
subiezione, conoscenza e obedienza, sanza le quali è ciascuno
disordinato a ben servire; perché, s'elli non è
subietto in ciascuna condizione, sempre con fatica e con gravezza
procede nel suo servigio e rade volte quello continua; e se elli non
è conoscente del bisogno del suo signore e a lui non è
obediente, non serve mai se non a suo senno e a suo volere, che è
più servigio d'amico che di servo. Dunque, a fuggire questa
disordinazione, conviene questo comento, che è fatto invece di
servo a le 'nfrascritte canzoni, esser subietto a quelle in ciascuna
sua condizione, ed essere conoscente del bisogno del suo signore e a
lui obediente. Le quali disposizioni tutte li mancavano, se latino e
non volgare fosse stato, poi che le canzoni sono volgari. Ché,
primamente, non era subietto ma sovrano, e per nobilità e per
vertù e per bellezza. Per nobilità, perché lo
latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è
non stabile e corruttibile. Onde vedemo ne le scritture antiche de le
comedie e tragedie latine, che non si possono transmutare, quello
medesimo che oggi avemo; che non avviene del volgare, lo quale a
piacimento artificiato si transmuta. Onde vedemo ne le cittadi
d'Italia, se bene volemo agguardare, da cinquanta anni in qua molti
vocabuli essere spenti e nati e variati; onde se 'l picciol tempo
così transmuta, molto più transmuta lo maggiore. Sì
ch'io dico, che se coloro che partiron d'esta vita già sono
mille anni tornassero a le loro cittadi, crederebbero la loro cittade
essere occupata da gente strana, per la lingua da loro discordante.
Di questo si parlerà altrove più compiutamente in uno
libello ch'io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare
Eloquenza.
Ancora, non era subietto ma sovrano per vertù. Ciascuna cosa è
virtuosa in sua natura che fa quello a che ella è ordinata; e
quanto meglio lo fa tanto è più virtuosa. Onde dicemo
uomo virtuoso che vive in vita contemplativa o attiva, a le quali è
ordinato naturalmente; dicemo del cavallo virtuoso che corre forte e
molto, a la qual cosa è ordinato; dicemo una spada virtuosa
che ben taglia le dure cose, a che essa è ordinata. Così
lo sermone, lo quale è ordinato a manifestare lo concetto
umano, è virtuoso quando quello fa, e più virtuoso
quello che più lo fa; onde, con ciò sia cosa che lo
latino molte cose manifesta concepute ne la mente che lo volgare far
non può, sì come sanno quelli che hanno l'uno e l'altro
sermone, più è la vertù sua che quella del
volgare.
Ancora,
non era subietto ma sovrano per bellezza. Quella cosa dice l'uomo
essere bella cui le parti debitamente si rispondono, per che de la
loro armonia resulta piacimento. Onde pare l'uomo essere bello,
quando le sue membra debitamente si rispondono; e dicemo bello lo
canto, quando le voci di quello, secondo debito de l'arte, sono intra
sé rispondenti. Dunque quello sermone è più
bello ne lo quale più debitamente si rispondono le parole; e
più debitamente si rispondono in latino che in volgare, però
che lo volgare seguita uso, e lo latino arte: onde concedesi esser
più bello, più virtuoso e più nobile. Per che si
conchiude lo principale intendimento, cioè che non sarebbe
stato subietto a le canzoni, ma sovrano.
Capitolo VI
Mostrato come lo presente comento non sarebbe stato subietto a le
canzoni volgari se fosse stato latino, resta a mostrare come non
sarebbe stato conoscente, né obediente a quelle; e poi sarà
conchiuso come per cessare disconvenevoli disordinazioni fu mestiere
volgarmente parlare. Dico che 'l latino non sarebbe stato servo
conoscente al signore volgare per cotal ragione. La conoscenza del
servo si richiede massimamente a due cose perfettamente conoscere.
L'una si è la natura del signore: onde sono signori di sì
asinina natura che comandano lo contrario di quello che vogliono, e
altri che sanza dire vogliono essere intesi, e altri che non vogliono
che 'l servo si muova a fare quello ch'è mestiere se nol
comandano. E perché queste variazioni sono ne li uomini non
intendo al presente mostrare, che troppo multiplicherebbe la
digressione; se non in tanto, che dico in genere che cotali sono
quasi bestie, a li quali la ragione fa poco prode. Onde, se 'l servo
non conosce la natura del suo signore, manifesto è che
perfettamente servire nol può. L'altra cosa è, che si
conviene conoscere al servo, li amici del suo signore, ché
altrimenti non li potrebbe onorare né servire, e così
non servirebbe perfettamente lo suo signore; con ciò sia cosa
che li amici siano quasi parti d'un tutto, però che 'l tutto
loro è uno volere e uno non volere.
Né lo comento latino avrebbe avuta la conoscenza di queste
cose, che l'ha 'l volgare medesimo. Che lo latino non sia conoscente
del volgare e de' suoi amici, così si pruova. Quelli che
conosce alcuna cosa in genere, non conosce quella perfettamente: sì
come, se conosce da lungi uno animale, non conosce quello
perfettamente, perché non sa se s'è cane o lupo o
becco. Lo latino conosce lo volgare in genere, ma non distinto: che
se esso lo conoscesse distinto, tutti li volgari conoscerebbe, perché
non è ragione che l'uno più che l'altro conoscesse; e
così in qualunque uomo fosse tutto l'abito del latino, sarebbe
l'abito di conoscenza distinto de lo volgare. Ma questo non è;
ché uno abituato di latino non distingue, s'elli è
d'Italia, lo volgare inghilese da lo tedesco; né lo tedesco,
lo volgare italico dal provenzale. Onde è manifesto che lo
latino non è conoscente de lo volgare. Ancora, non è
conoscente de' suoi amici, però ch'è impossibile
conoscere li amici, non conoscendo lo principale; onde, se non
conosce lo latino lo volgare, come provato è di sopra,
impossibile è a lui conoscere li suoi amici. Ancora, sanza
conversazione o familiaritade impossibile è a conoscere li
uomini: e lo latino non ha conversazione con tanti in alcuna lingua
con quanti ha lo volgare di quella, al quale tutti sono amici; e per
consequente non può conoscere li amici del volgare. E non è
contradizione ciò che dire si potrebbe, che lo latino pur
conversa con alquanti amici de lo volgare: ché però non
è familiare di tutti, e così non è conoscente de
li amici perfettamente; però che si richiede perfetta
conoscenza, e non difettiva.
Capitolo VII
Provato che lo comento latino non sarebbe stato servo conoscente,
dirò come non sarebbe stato obediente. Obediente è
quelli che ha la buona disposizione che si chiama obedienza. La vera
obedienza conviene avere tre cose, sanza le quali essere non può:
vuole essere dolce, e non amara; e comandata interamente, e non
spontanea; e con misura, e non dismisurata. Le quali tre cose era
impossibile ad avere lo latino comento, e però era impossibile
ad essere obediente. Che a lo latino fosse stato impossibile, come
detto è, si manifesta per cotale ragione. Ciascuna cosa che da
perverso ordine procede è laboriosa, e per consequente è
amara e non dolce, sì come dormire lo die e vegghiare la
notte, e andare indietro e non innanzi. Comandare lo subietto a lo
sovrano procede da ordine perverso - ché ordine diritto è
lo sovrano a lo subietto comandare -, e così è amaro, e
non dolce. E però che a l'amaro comandamento è
impossibile dolcemente obedire, impossibile è, quando lo
subietto comanda, la obedienza del sovrano essere dolce. Dunque se lo
latino è sovrano del volgare, come di sopra per più
ragioni è mostrato, e le canzoni, che sono in persona di
comandatore, sono volgari, impossibile è la sua obedienza
esser dolce.
Ancora: allora è la obedienza interamente comandata e da nulla
parte spontanea, quando quello che fa chi fa obediendo non averebbe
fatto sanza comandamento, per suo volere, né tutto né
in parte. E però se a me fosse comandato di portare due
guarnacche in dosso, e sanza comandamento io mi portasse l'una, dico
che la mia obedienza non è interamente comandata, ma in parte
spontanea. E cotale sarebbe stata quella del comento latino; e per
consequente non sarebbe stata obedienza comandata interamente. Che
fosse stata cotale, appare per questo: che lo latino sanza lo
comandamento di questo signore averebbe esposite molte parti de la
sua sentenza - ed espone, chi cerca bene le scritture latinamente
scritte - che non lo fa lo volgare in parte alcuna.
Ancora: è
l'obedienza con misura, e non dismisurata, quando al termine del
comandamento va, e non più oltre; sì come la natura
particulare è obediente a la universale, quando fa trentadue
denti a l'uomo, e non più né meno, e quando fa cinque
dita ne la mano, e non più né meno; e l'uomo è
obediente a la giustizia quando fa pagar lo debito de la pena, e non
più né meno che la giustizia comanda, al peccatore. Né
questo averebbe fatto lo latino, ma peccato averebbe non pur nel
difetto, e non pur nel soperchio, ma in ciascuno; e così non
sarebbe stata la sua obedienza misurata, ma dismisurata, e per
consequente non sarebbe stato obediente. Che non fosse stato lo
latino empitore del comandamento del suo signore, e che ne fosse
stato soperchiatore, leggermente si può mostrare. Questo
signore, cioè queste canzoni, a le quali questo comento è
per servo ordinato, comandano e vogliono essere esposte a tutti
coloro a li quali puote venire sì lo loro intelletto, che
quando parlano elle siano intese; e nessuno dubita, che s'elle
comandassero a voce, che questo non fosse lo loro comandamento. E lo
latino non l'averebbe esposte se non a' litterati, ché li
altri non l'averebbero inteso. Onde con ciò sia cosa che molti
più siano quelli che desiderano intendere quelle non litterati
che litterati, seguitasi che non averebbe pieno lo suo comandamento
come 'l volgare, che da li litterati e non litterati è inteso.
Anche, lo latino l'averebbe esposte a gente d'altra lingua, sì
come a Tedeschi e Inghilesi e altri, e qui averebbe passato lo loro
comandamento; ché contra loro volere, largo parlando dico,
sarebbe essere esposta la loro sentenza colà dov'elle non la
potessero con la loro bellezza portare. E però sappia ciascuno
che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua
loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e
armonia. E questa è la cagione per che Omero non si mutò
di greco in latino come l'altre scritture che avemo da loro. E questa
è la cagione per che li versi del Salterio sono sanza dolcezza
di musica e d'armonia; ché essi furono transmutati d'ebreo in
greco e di greco in latino, e ne la prima transmutazione tutta quella
dolcezza venne meno. E così è conchiuso ciò che
si promise nel principio del capitolo dinanzi a questo
immediate.
Capitolo VIII
Quando è mostrato per le suficienti ragioni come, per cessare
disconvenevoli disordinamenti, converrebbe, a le nominate canzoni
aprire e mostrare, comento volgare e non latino, mostrare intendo
come ancora pronta liberalitate mi fece questo eleggere e l'altro
lasciare. Puotesi adunque la pronta liberalitate in tre cose notare,
le quali seguitano questo volgare, e lo latino non averebbero
seguitato. La prima è dare a molti; la seconda è dare
utili cose; la terza è, sanza essere domandato lo dono, dare
quello. Ché dare a uno e giovare a uno è bene; ma dare
a molti e giovare a molti è pronto bene, in quanto prende
simiglianza da li benefici di Dio, che è universalissimo
benefattore. E ancora, dare a molti è impossibile sanza dare a
uno, acciò che uno in molti sia inchiuso; ma dare a uno si può
bene, sanza dare a molti. Però chi giova a molti fa l'uno bene
e l'altro; chi giova a uno, fa pur un bene: onde vedemo li ponitori
de le leggi massimamente pur a li più comuni beni tenere
confissi li occhi, quelle componendo. Ancora, dare cose non utili al
prenditore pure è bene, in quanto colui che dà mostra
almeno sé essere amico; ma non è perfetto bene, e così
non è pronto: come quando uno cavaliere donasse ad uno medico
uno scudo, e quando uno medico donasse a uno cavaliere scritti li
Aphorismi d'Ipocràs, ovvero li Tegni di Galieno. Per che li
savi dicono che la faccia del dono dee essere simigliante a quella
del ricevitore, cioè a dire che si convegna con lui, e che sia
utile: e in quello è detta pronta liberalitade di colui che
così dicerne donando. Ma però che li morali
ragionamenti sogliono dare desiderio di vedere l'origine loro,
brievemente in questo capitolo intendo mostrare quattro ragioni per
che di necessitade lo dono, acciò che in quello sia pronta
liberalitade, conviene essere utile a chi riceve.
Primamente, però che la vertù dee essere lieta, e non
trista in alcuna sua operazione; onde se 'l dono non è lieto
nel dare e nel ricevere, non è in esso perfetta vertù,
non è pronta. Questa letizia non può dare altro che
utilitade, che rimane nel datore per lo dare, e che viene nel
ricevitore per ricevere. Nel datore adunque dee essere la providenza
in far sì che de la sua parte rimagna l'utilitade de
l'onestate, ch'è sopra ogni utilitade, e far sì che a
lo ricevitore vada l'utilitade de l'uso de la cosa donata; e così
sarà l'uno e l'altro lieto, e per consequente sarà più
pronta la liberalitade. Secondamente, però che la vertù
dee muovere le cose sempre al migliore. Ché così come
sarebbe biasimevole operazione fare una zappa d'una bella spada o
fare un bel nappo d'una bella chitarra, così è
biasimevole muover la cosa d'un luogo dove sia utile e portarla in
parte dove sia meno utile. E però che biasimevole è
invano adoperare, biasimevole è non solamente a porre la cosa
in parte dove sia meno utile, ma eziandio in parte ove sia igualmente
utile. Onde, acciò che sia laudabile lo mutare de le cose,
conviene sempre essere al migliore, per ciò che dee
massimamente essere laudabile: e questo non si può fare nel
dono se 'l dono per transmutazione non viene più caro; né
più caro può venire, se esso non è più
utile ad usare al ricevitore che al datore. Per che si conchiude che
'l dono conviene essere utile a chi lo riceve, acciò che sia
in esso pronta liberalitade. Terziamente, però che la
operazione de la vertù per sé dee essere acquistatrice
d'amici; con ciò sia cosa che la nostra vita di quello
abbisogni, e lo fine de la vertù sia la nostra vita essere
contenta. Onde acciò che 'l dono faccia lo ricevitore amico,
conviene a lui essere utile, però che l'utilitade sigilla la
memoria de la imagine del dono, la quale è nutrimento de
l'amistade; e tanto più forte, quanto essa è migliore.
Onde suole dire Martino: "Non caderà de la mia mente lo
dono che mi fece Giovanni". Per che, acciò che nel dono
sia la sua vertù, la quale è liberalitade, e che essa
sia pronta, conviene essere utile a chi riceve. Ultimamente, però
che la vertù dee avere atto libero e non sforzato. Atto libero
è quando una persona va volentieri ad alcuna parte, che si
mostra nel tener volto lo viso in quella; atto sforzato è
quando contra voglia si va, che si mostra in non guardare ne la parte
dove si va. E allora sì guarda lo dono a quella parte, quando
si dirizza al bisogno de lo ricevente. E però che dirizzarsi
ad esso non si può se non sia utile, conviene, acciò
che sia con atto libero la vertù, essere utile lo dono a la
parte ov'elli vae, ch'è lo ricevitore; e per consequente
conviene essere ne lo dono l'utilità de lo ricevitore, acciò
che quinci sia pronta liberalitade.
La terza cosa, ne la quale si può notare la pronta
liberalitade, si è dare non domandato: acciò che 'l
domandato è da una parte non vertù ma mercatantia, però
che lo ricevitore compera, tutto che 'l datore non venda. Per che
dice Seneca che "nulla cosa più cara si compera che
quella dove i prieghi si spendono". Onde acciò che nel
dono sia pronta liberalitade e che essa si possa in esso notare,
allora, se conviene esser netto d'ogni atto di mercatantia, conviene
esser lo dono non domandato. Perché sì caro costa
quello che si priega, non intendo qui ragionare, perché
sufficientemente si ragionerà ne l'ultimo trattato di questo
libro.
Capitolo IX
Da tutte le tre sopra notate condizioni, che con vegnono concorrere
acciò che sia nel beneficio la pronta liberalitade, era lo
comento latino lontano, e lo volgare è con quelle, sì
come si può manifestamente così contare. Non avrebbe lo
latino così servito a molti: ché se noi reducemo a
memoria quello che di sovra è ragionato, li litterati fuori di
lingua italica non averebbono potuto avere questo servigio, e quelli
di questa lingua, se noi volemo bene vedere chi sono, troveremo che
de' mille l'uno ragionevolmente non sarebbe stato servito; però
che non l'averebbero ricevuto, tanto sono pronti ad avarizia che da
ogni nobilitade d'animo li rimuove, la quale massimamente desidera
questo cibo. E a vituperio di loro dico che non si deono chiamare
litterati, però che non acquistano la lettera per lo suo uso,
ma in quanto per quella guadagnano denari o dignitate; sì come
non si dee chiamare citarista chi tiene la cetera in casa per
prestarla per prezzo, e non per usarla per sonare. Tornando dunque al
principale proposito, dico che manifestamente si può vedere
come lo latino averebbe a pochi dato lo suo beneficio, ma lo volgare
servirà veramente a molti. Ché la bontà de
l'animo, la quale questo servigio attende, è in coloro che per
malvagia disusanza del mondo hanno lasciata la litteratura a coloro
che l'hanno fatta di donna meretrice; e questi nobili sono principi,
baroni, cavalieri, e molt'altra nobile gente, non solamente maschi ma
femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari e non
litterati.
Ancora, non sarebbe lo latino stato datore d'utile dono, che sarà
lo volgare. Però che nulla cosa è utile, se non in
quanto è usata, né è la sua bontade in potenza,
che non è essere perfettamente; sì come l'oro, le
margarite e li altri tesori che sono sotterrati...; però che
quelli che sono a mano de l'avaro sono in più basso loco che
non è la terra là dove lo tesoro è nascosto. Lo
dono veramente di questo comento è la sentenza de le canzoni a
le quali fatto è, la qual massimamente intende inducere li
uomini a scienza e a vertù, sì come si vedrà per
lo pelago del loro trattato. Questa sentenza non possono non avere in
uso quelli ne li quali vera nobilità è seminata per lo
modo che si dirà nel quarto trattato; e questi sono quasi
tutti volgari, sì come sono quelli nobili che di sopra, in
questo capitolo, sono nominati. E non ha contradizione perché
alcuno litterato sia di quelli; ché, sì come dice il
mio maestro Aristotile nel primo de l'Etica, "una rondine non fa
primavera". È adunque manifesto che lo volgare darà
cosa utile, e lo latino non l'averebbe data.
Ancora, darà lo volgare dono non dimandato, che non l'averebbe
dato lo latino: però che darà se medesimo per comento,
che mai non fu domandato da persona; e questo non si può dire
de lo latino, che per comento e per chiose a molte scritture è
già stato domandato, sì come ne' loro principii si può
vedere apertamente in molte. E così è manifesto che
pronta liberalitade mi mosse al volgare anzi che a lo latino.
Capitolo IX
Da tutte le tre sopra notate condizioni, che con vegnono concorrere
acciò che sia nel beneficio la pronta liberalitade, era lo
comento latino lontano, e lo volgare è con quelle, sì
come si può manifestamente così contare. Non avrebbe lo
latino così servito a molti: ché se noi reducemo a
memoria quello che di sovra è ragionato, li litterati fuori di
lingua italica non averebbono potuto avere questo servigio, e quelli
di questa lingua, se noi volemo bene vedere chi sono, troveremo che
de' mille l'uno ragionevolmente non sarebbe stato servito; però
che non l'averebbero ricevuto, tanto sono pronti ad avarizia che da
ogni nobilitade d'animo li rimuove, la quale massimamente desidera
questo cibo. E a vituperio di loro dico che non si deono chiamare
litterati, però che non acquistano la lettera per lo suo uso,
ma in quanto per quella guadagnano denari o dignitate; sì come
non si dee chiamare citarista chi tiene la cetera in casa per
prestarla per prezzo, e non per usarla per sonare. Tornando dunque al
principale proposito, dico che manifestamente si può vedere
come lo latino averebbe a pochi dato lo suo beneficio, ma lo volgare
servirà veramente a molti. Ché la bontà de
l'animo, la quale questo servigio attende, è in coloro che per
malvagia disusanza del mondo hanno lasciata la litteratura a coloro
che l'hanno fatta di donna meretrice; e questi nobili sono principi,
baroni, cavalieri, e molt'altra nobile gente, non solamente maschi ma
femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari e non
litterati.
Ancora, non sarebbe lo latino stato datore d'utile dono, che sarà
lo volgare. Però che nulla cosa è utile, se non in
quanto è usata, né è la sua bontade in potenza,
che non è essere perfettamente; sì come l'oro, le
margarite e li altri tesori che sono sotterrati...; però che
quelli che sono a mano de l'avaro sono in più basso loco che
non è la terra là dove lo tesoro è nascosto. Lo
dono veramente di questo comento è la sentenza de le canzoni a
le quali fatto è, la qual massimamente intende inducere li
uomini a scienza e a vertù, sì come si vedrà per
lo pelago del loro trattato. Questa sentenza non possono non avere in
uso quelli ne li quali vera nobilità è seminata per lo
modo che si dirà nel quarto trattato; e questi sono quasi
tutti volgari, sì come sono quelli nobili che di sopra, in
questo capitolo, sono nominati. E non ha contradizione perché
alcuno litterato sia di quelli; ché, sì come dice il
mio maestro Aristotile nel primo de l'Etica, "una rondine non fa
primavera". È adunque manifesto che lo volgare darà
cosa utile, e lo latino non l'averebbe data.
Ancora, darà lo volgare dono non dimandato, che non l'averebbe
dato lo latino: però che darà se medesimo per comento,
che mai non fu domandato da persona; e questo non si può dire
de lo latino, che per comento e per chiose a molte scritture è
già stato domandato, sì come ne' loro principii si può
vedere apertamente in molte. E così è manifesto che
pronta liberalitade mi mosse al volgare anzi che a lo latino.
Capitolo X
Grande vuole essere la scusa, quando a così nobile convivio
per le sue vivande, a così onorevole per li suoi convitati,
s'appone pane di biado e non di frumento; e vuole essere evidente
ragione che partire faccia l'uomo da quello che per li altri è
stato servato lungamente, sì come di comentare con latino. E
però vuole essere manifesta la ragione, che de le nuove cose
lo fine non è certo; acciò che la esperienza non è
mai avuta onde le cose usate e servate sono e nel processo e nel fine
commisurate. Però si mosse la Ragione a comandare che l'uomo
avesse diligente riguardo ad entrare nel nuovo cammino, dicendo che
"ne lo statuire le nuove cose evidente ragione dee essere quella
che partire ne faccia da quello che lungamente è usato".
Non si maravigli dunque alcuno se lunga è la digressione de la
mia scusa, ma, sì come necessaria, la sua lunghezza paziente
sostenga. La quale proseguendo, dico che - poi ch'è manifesto
come per cessare disconvenevole disordinazione e come per prontezza
di liberalitade io mi mossi al volgare comento e lasciai lo latino -
l'ordine de la intera scusa vuole ch'io mostri come a ciò mi
mossi per lo naturale amore de la propria loquela; che è la
terza e l'ultima ragione che a ciò mi mosse. Dico che lo
naturale amore principalmente muove l'amatore a tre cose: l'una si è
a magnificare l'amato; l'altra è ad esser geloso di quello;
l'altra è a difendere lui, sì come ciascuno può
vedere continuamente avvenire. E queste tre cose mi fecero prendere
lui, cioè lo nostro volgare, lo qual naturalmente e
accidentalmente amo e ho amato. Mossimi prima per magnificare lui. E
che in ciò io lo magnifico, per questa ragione vedere si può;
avvegna che per molte condizioni di grandezze le cose si possono
magnificare, cioè fare grandi, e nulla fa tanto grande quanto
la grandezza de la propia bontade, la quale è madre e
conservatrice de l'altre grandezze; onde nulla grandezza puote avere
l'uomo maggiore che quella de la virtuosa operazione, che è
sua propia bontade, per la quale le grandezze de le vere dignitadi,
de li veri onori, de le vere potenze, de le vere ricchezze, de li
veri amici, de la vera e chiara fama, e acquistate e conservate sono:
e questa grandezza do io a questo amico, in quanto quello elli di
bontade avea in podere e occulto, io lo fo avere in atto e palese ne
la sua propria operazione, che è manifestare conceputa
sentenza.
Mossimi
secondamente per gelosia di lui. La gelosia de l'amico fa l'uomo
sollicito a lunga provedenza. Onde pensando che lo desiderio
d'intendere queste canzoni, a alcuno illitterato avrebbe fatto lo
comento latino transmutare in volgare, e temendo che 'l volgare non
fosse stato posto per alcuno che l'avesse laido fatto parere, come
fece quelli che transmutò lo latino de l'Etica - ciò fu
Taddeo ipocratista -, providi a ponere lui, fidandomi di me di più
che d'un altro. Mossimi ancora per difendere lui da molti suoi
accusatori, li quali dispregiano esso e commendano li altri,
massimamente quello di lingua d'oco, dicendo che è più
bello e migliore quello che questo; partendose in ciò da la
veritade. Ché per questo comento la gran bontade del volgare
di sì si vedrà; però che si vedrà la sua
vertù, sì com'è per esso altissimi e novissimi
concetti convenevolemente, sufficientemente e acconciamente, quasi
come per esso latino, manifestare; la quale non si potea bene
manifestare ne le cose rimate, per le accidentali adornezze che quivi
sono connesse, cioè la rima e lo ritimo e lo numero regolato:
sì come non si può bene manifestare la bellezza d'una
donna, quando li adornamenti de l'azzimare e de le vestimenta la
fanno più ammirare che essa medesima. Onde chi vuole ben
giudicare d'una donna, guardi quella quando solo sua naturale
bellezza si sta con lei, da tutto accidentale adornamento
discompagnata: sì come sarà questo comento, nel quale
si vedrà l'agevolezza de le sue sillabe, le proprietadi de le
sue costruzioni e le soavi orazioni che di lui si fanno; le quali chi
bene agguarderà, vedrà essere piene di dolcissima e
d'amabilissima bellezza. Ma però che virtuosissimo è ne
la 'ntenzione mostrare lo difetto e la malizia de lo accusatore,
dirò, a confusione di coloro che accusano la italica loquela,
perché a ciò fare si muovono; e di ciò farò
al presente speziale capitolo, perché più notevole sia
la loro infamia.
Capitolo XI
A perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d'Italia che
commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano, dico che
la loro mossa viene da cinque abominevoli cagioni. La prima è
cechitade di discrezione; la seconda, maliziata escusazione; la
terza, cupidità di vanagloria; la quarta, argomento d'invidia;
la quinta e ultima, viltà d'animo, cioè pusillanimità.
E ciascuna di queste retadi ha sì grande setta, che pochi sono
quelli che siano da esse liberi.
De la prima si può così ragionare. Sì come la
parte sensitiva de l'anima ha suoi occhi, con li quali apprende la
differenza de le cose in quanto elle sono di fuori colorate, così
la parte razionale ha suo occhio, con lo quale apprende la differenza
de le cose in quanto sono ad alcuno fine ordinate: e questa è
la discrezione. E sì come colui che è cieco de li occhi
sensibili va sempre secondo che li altri il guidano, o male o bene,
così colui che è cieco del lume de la discrezione
sempre va nel suo giudicio secondo il grido, o diritto o falso; onde
qualunque ora lo guidatore è cieco, conviene che esso e
quello, anche cieco, ch'a lui s'appoggia vegnano a mal fine. Però
è scritto che "'l cieco al cieco farà guida, e
così cadranno ambedue ne la fossa". Questa grida è
stata lungamente contro a nostro volgare, per le ragioni che di sotto
si ragioneranno, appresso di questa. E li ciechi sopra notati, che
sono quasi infiniti, con la mano in su la spalla a questi mentitori,
sono caduti ne la fossa de la falsa oppinione, de la quale uscire non
sanno. De l'abito di questa luce discretiva massimamente le populari
persone sono orbate; però che, occupate dal principio de la
loro vita ad alcuno mestiere, dirizzano sì l'animo loro a
quello per forza de la necessitate, che ad altro non intendono. E
però che l'abito di vertude, sì morale come
intellettuale, subitamente avere non si può, ma conviene che
per usanza s'acquisti, ed ellino la loro usanza pongono in alcuna
arte e a discernere l'altre cose non curano, impossibile è a
loro discrezione avere. Per che incontra che molte volte gridano Viva
la loro morte, e Muoia la loro vita, pur che alcuno cominci; e
quest'è pericolosissimo difetto ne la loro cechitade. Onde
Boezio giudica la populare gloria vana, perché la vede sanza
discrezione. Questi sono da chiamare pecore, e non uomini; ché
se una pecora si gittasse da una ripa di mille passi, tutte l'altre
l'andrebbero dietro; e se una pecora per alcuna cagione al passare
d'una strada salta, tutte l'altre saltano, eziandio nulla veggendo da
saltare. E io ne vidi già molte in uno pozzo saltare per una
che dentro vi saltò, forse credendo saltare uno muro, non
ostante che 'l pastore, piangendo e gridando, con le braccia e col
petto dinanzi a esse si parava.
La seconda setta contra nostro volgare si fa per una maliziata scusa.
Molti sono che amano più d'essere tenuti maestri che d'essere,
e per fuggir lo contrario, cioè di non esser tenuti, sempre
danno colpa a la materia de l'arte apparecchiata, o vero a lo
strumento; sì come lo mal fabbro biasima lo ferro appresentato
a lui, e lo malo citarista biasima la cetera, credendo dare la colpa
del mal coltello e del mal sonare al ferro e a la cetera, e levarla a
sé. Così sono alquanti, e non pochi, che vogliono che
l'uomo li tegna dicitori; e per scusarsi dal non dire o dal dire male
accusano e incolpano la materia, cioè lo volgare proprio, e
commendano l'altro lo quale non è loro richesto di fabbricare.
E chi vuole vedere come questo ferro è da biasimare, guardi
che opere ne fanno li buoni artefici, e conoscerà la malizia
di costoro che, biasimando lui, sé credono scusare. Contra
questi cotali grida Tullio nel principio d'un suo libro che si chiama
Libro di Fine de' Beni, però che al suo tempo biasimavano lo
latino romano e commendavano la gramatica greca per simiglianti
cagioni che questi fanno vile lo parlare italico e prezioso quello di
Provenza.
La
terza setta contro nostro volgare si fa per cupiditate di vanagloria.
Sono molti che per ritrarre cose poste in altrui lingua e commendare
quella, credono più essere ammirati che ritraendo quelle de la
sua. E sanza dubbio non è sanza loda d'ingegno apprendere bene
la lingua strana; ma biasimevole è commendare quella oltre a
la verità, per farsi glorioso di tale acquisto.
La quarta si fa da uno argomento d'invidia. Sì come è
detto di sopra, la invidia è sempre dove è alcuna
paritade. Intra li uomini d'una lingua è la paritade del
volgare; e perché l'uno quella non sa usare come l'altro,
nasce invidia. Lo invidioso poi argomenta, non biasimando colui che
dice di non saper dire, ma biasima quello che è materia de la
sua opera, per torre, dispregiando l'opera da quella parte, a lui che
dice onore e fama; sì come colui che biasimasse lo ferro d'una
spada, non per biasimo dare al ferro, ma a tutta l'opera del
maestro.
La
quinta e ultima setta si muove da viltà d'animo. Sempre lo
magnanimo si magnifica in suo cuore, e così lo pusillanimo,
per contrario, sempre si tiene meno che non è. E perché
magnificare e parvificare sempre hanno rispetto ad alcuna cosa per
comparazione a la quale si fa lo magnanimo grande e lo pusillanimo
piccolo, avviene che 'l magnanimo sempre fa minori li altri che non
sono, e lo pusillanimo sempre maggiori. E però che con quella
misura che l'uomo misura se medesimo, misura le sue cose, che sono
quasi parte di se medesimo, avviene che al magnanimo le sue cose
sempre paiono migliori che non sono, e l'altrui men buone: lo
pusillanimo sempre le sue cose crede valere poco, e l'altrui assai;
onde molti per questa viltade dispregiano lo proprio volgare, e
l'altrui pregiano. E tutti questi cotali sono li abominevoli cattivi
d'Italia che hanno a vile questo prezioso volgare, lo quale, s'è
vile in alcuna cosa, non è se non in quanto elli suona ne la
bocca meretrice di questi adulteri; a lo cui condutto vanno li ciechi
de li quali ne la prima cagione feci menzione.
Capitolo XII
Se manifestamente per le finestre d'una casa uscisse fiamma di fuoco,
e alcuno dimandasse se là dentro fosse il fuoco, e un altro
rispondesse a lui di sì, non saprei bene giudicare qual di
costoro fosse da schernire di più. E non altrimenti sarebbe
fatta la dimanda e la risposta di colui e di me, che mi domandasse se
amore a la mia loquela propria è in me e io li rispondesse di
sì, appresso le su proposte ragioni. Ma tuttavia, e a mostrare
che non solamente amore ma perfettissimo amore di quella è in
me, e a biasimare ancora li suoi avversarii ciò mostrando a
chi bene intenderà, dirò come a lei fui fatto amico, e
poi come l'amistà è confermata. Dico che, sì
come vedere si può che scrive Tullio in quello De Amicitia,
non discordando da la sentenza del Filosofo aperta ne l'ottavo e nel
nono de l'Etica, naturalmente la prossimitade e la bontade sono
cagioni d'amore generative; lo beneficio, lo studio e la consuetudine
sono cagioni d'amore accrescitive. E tutte queste cagioni vi sono
state a generare e a confortare l'amore ch'io porto al mio volgare,
sì come brievemente io mosterrò.
Tanto è la cosa più prossima quanto, di tutte le cose
del suo genere, altrui è più unita: onde di tutti li
uomini lo figlio è più prossimo al padre; di tutte
l'arti la medicina è la più prossima al medico, e la
musica al musico, però che a loro sono più unite che
l'altre; di tutta la terra è più prossima quella dove
l'uomo tiene se medesimo, però che è ad esso più
unita. E così lo volgare è più prossimo quanto è
più unito, che uno e solo è prima ne la mente che
alcuno altro, e che non solamente per sé è unito, ma
per accidente, in quanto è congiunto con le più
prossime persone, sì come con li parenti e con li propri
cittadini e con la propria gente. E questo è lo volgare
proprio; lo quale è non prossimo, ma massimamente prossimo a
ciascuno. Per che, se la prossimitade è seme d'amistà,
come detto è di sopra, manifesto è ch'ella è de
le cagioni stata de l'amore ch'io porto a la mia loquela, che è
a me prossima più che l'altre. La sopra detta cagione, cioè
d'essere più unito quello ch'è solo prima in tutta la
mente, mosse la consuetudine de la gente, che fanno li primogeniti
succedere solamente, sì come più propinqui e perché
più propinqui, più amati.
Ancora, la bontade fece me a lei amico. E qui è da sapere che
ogni bontade propria in alcuna cosa, è amabile in quella: sì
come ne la maschiezza essere ben barbuto, e nella femminezza essere
ben pulita di barba in tutta la faccia; sì come nel bracco
bene odorare, e sì come nel veltro ben correre. E quanto ella
è più propria, tanto ancora è più
amabile; onde, avvegna che ciascuna vertù sia amabile ne
l'uomo, quella è più amabile in esso che è più
umana, e questa è la giustizia, la quale è solamente ne
la parte razionale o vero intellettuale, cioè ne la volontade.
Questa è tanto amabile, che, sì come dice lo Filosofo
nel quinto de l'Etica, li suoi nimici l'amano, sì come sono
ladroni e rubatori; e però vedemo che 'l suo contrario, cioè
la ingiustizia, massimamente è odiata, sì come è
tradimento, ingratitudine, falsitade, furto, rapina, inganno e loro
simili. Li quali sono tanto inumani peccati, che ad iscusare sé
de l'infamia di quelli, si concede da lunga usanza che uomo parli di
sé, sì come detto è di sopra, e possa dire sé
essere fedele e leale. Di questa vertù innanzi dicerò
più pienamente nel quartodecimo trattato; e qui lasciando,
torno al proposito. Provato è adunque la bontà de la
cosa più propria più essere amabile in quella; per che,
a mostrare quale in essa è più propria, è da
vedere quella che più in essa è amata e commendata, e
quella è essa. E noi vedemo che in ciascuna cosa di sermone lo
bene manifestare del concetto sì è più amato e
commendato: dunque è questa la prima sua bontade. E con ciò
sia cosa che questa sia nel nostro volgare, sì come
manifestato è di sopra in altro capitolo, manifesto è
ched ella è de le cagioni stata de l'amore ch'io porto ad
esso; poi che, sì come detto è, la bontade è
cagione d'amore generativa.
Capitolo XIII
Detto come ne la propria loquela sono quelle due cose per le quali io
sono fatto a lei amico, cioè prossimitade a me e bontà
propria, dirò come per beneficio e concordia di studio e per
benivolenza di lunga consuetudine l'amistà è confermata
e fatta grande.
Dico, prima, ch'io per me ho da lei ricevuto dono di grandissimi
benefici. E però è da sapere che intra tutti i benefici
è maggiore quello che più è prezioso a chi
riceve; e nulla cosa è tanto preziosa, quanto quella per la
quale tutte l'altre si vogliono; e tutte l'altre cose si vogliono per
la perfezione di colui che vuole. Onde con ciò sia cosa che
due perfezioni abbia l'uomo, una prima e una seconda - la prima lo fa
essere, la seconda lo fa essere buono -, se la propria loquela m'è
stata cagione e de l'una e de l'altra, grandissimo beneficio da lei
ho ricevuto. E ch'ella sia stata a me d'essere cagione, e ancora di
buono essere se per me non stesse, brievemente si può
mostrare.
Non è
secondo lo Filosofo impossibile, sì come dice ne la Fisica al
libro secondo a una cosa esser più cagioni efficienti, avvegna
che una sia massima de l'altre; onde lo fuoco e lo martello sono
cagioni efficienti de lo coltello, avvegna che massimamente è
il fabbro. Questo mio volgare fu congiugnitore de li miei generanti,
che con esso parlavano, sì come 'l fuoco è disponitore
del ferro al fabbro che fa lo coltello; per che manifesto è
lui essere concorso a la mia generazione, e così essere alcuna
cagione del mio essere. Ancora, questo mio volgare fu introduttore di
me ne la via di scienza, che è ultima perfezione, in quanto
con esso io entrai ne lo latino e con esso mi fu mostrato: lo quale
latino poi mi fu via a più innanzi andare. E così è
palese, e per me conosciuto, esso essere stato a me grandissimo
benefattore.
Anche, è stato meco d'uno medesimo studio, e ciò posso
così mostrare. Ciascuna cosa studia naturalmente a la sua
conservazione: onde, se lo volgare per sé studiare potesse,
studierebbe a quella; e quella sarebbe acconciare sé a più
stabilitade, e più stabilitade non potrebbe avere che in legar
sé con numero e con rime. E questo medesimo studio è
stato mio, sì come tanto è palese che non dimanda
testimonianza. Per che uno medesimo studio è stato lo suo e 'l
mio; per che di questa concordia l'amistà è confermata
e accresciuta. Anche c'è stata la benivolenza de la
consuetudine, ché dal principio de la mia vita ho avuta con
esso benivolenza e conversazione, e usato quello diliberando,
interpetrando e questionando. Per che, se l'amistà s'accresce
per la consuetudine, sì come sensibilmente appare, manifesto è
che essa in me massimamente è cresciuta, che sono con esso
volgare tutto mio tempo usato. E così si vede essere a questa
amistà concorse tutte le cagioni generative e accrescitive de
l'amistade: per che si conchiude che non solamente amore, ma
perfettissimo amore sia quello ch'io a lui debbo avere e ho.
Così rivolgendo li occhi a dietro, e raccogliendo le ragioni
prenotate, puotesi vedere questo pane, col quale si deono mangiare le
infrascritte canzoni, essere sufficientemente purgato da le macule e
da l'essere di biado; per che tempo è d'intendere a ministrare
le vivande. Questo sarà quello pane orzato del quale si
satolleranno migliaia, e a me ne soperchieranno le sporte piene.
Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là
dove l'usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono
in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro non luce.
<big>TRATTATO II</big>
<div align="center">
Canzone Prima |
Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete,
Io vi dirò del cor la novitate,
Or apparisce chi lo fa fuggire
D'un'angela che 'n cielo è coronata.
E non mi valse ch'io ne fossi accorta
Saggia e cortese ne la sua grandezza,
Onde, se per ventura elli addivene |
</div>
Capitolo I
Poi che proemialmente ragionando, me ministro, è lo mio pane
ne lo precedente trattato con sufficienza preparato, lo tempo chiama
e domanda la mia nave uscir di porto; per che, dirizzato l'artimone
de la ragione a l'òra del mio desiderio, entro in pelago con
isperanza di dolce cammino e di salutevole porto e laudabile ne la
fine de la mia cena. Ma però che più profittabile sia
questo mio cibo, prima che vegna la prima vivanda voglio mostrare
come mangiare si dee.
Dico che, sì come nel primo capitolo è narrato, questa
sposizione conviene essere litterale e allegorica. E a ciò
dare a intendere, si vuol sapere che le scritture si possono
intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. L'uno si
chiama litterale, e questo è quello che non si stende più
oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le
favole de li poeti. L'altro si chiama allegorico, e questo è
quello che si nasconde sotto 'l manto di queste favole, ed è
una veritade ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice
Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e
le pietre a sé muovere; che vuol dire che lo savio uomo con lo
strumento de la sua voce faria mansuescere e umiliare li crudeli
cuori, e faria muovere a la sua volontade coloro che non hanno vita
di scienza e d'arte: e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna
sono quasi come pietre. E perché questo nascondimento fosse
trovato per li savi, nel penultimo trattato si mosterrà.
Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti;
ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti
seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è
usato.
Lo terzo
senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono
intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro
e di loro discenti: sì come appostare si può ne lo
Evangelio, quando Cristo salio lo monte per transfigurarsi, che de li
dodici Apostoli menò seco li tre; in che moralmente si può
intendere che a le secretissime cose noi dovemo avere poca
compagnia.
Lo
quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è
quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora sia
vera eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa
de le superne cose de l'etternal gloria, sì come vedere si può
in quello canto del Profeta che dice che, ne l'uscita del popolo
d'Israel d'Egitto, Giudea è fatta santa e libera. Ché
avvegna essere vero secondo la lettera sia manifesto, non meno è
vero quello che spiritualmente s'intende, cioè che ne l'uscita
de l'anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua
potestate. E in dimostrar questo, sempre lo litterale dee andare
innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono
inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale
intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico. È
impossibile, però che in ciascuna cosa che ha dentro e di
fuori, è impossibile venire al dentro se prima non si viene al
di fuori: onde, con ciò sia cosa che ne le scritture la
litterale sentenza sia sempre lo di fuori, impossibile è
venire a l'altre, massimamente a l'allegorica, sanza prima venire a
la litterale. Ancora, è impossibile però che in
ciascuna cosa, naturale ed artificiale, è impossibile
procedere a la forma, sanza prima essere disposto lo subietto sopra
che la forma dee stare: sì come impossibile la forma de l'oro
è venire, se la materia, cioè lo suo subietto, non è
digesta e apparecchiata; e la forma de l'arca venire, se la materia,
cioè lo legno, non è prima disposta e apparecchiata.
Onde con ciò sia cosa che la litterale sentenza sempre sia
subietto e materia de l'altre, massimamente de l'allegorica,
impossibile è prima venire a la conoscenza de l'altre che a la
sua. Ancora, è impossibile però che in ciascuna cosa,
naturale ed artificiale, è impossibile procedere, se prima non
è fatto lo fondamento, sì come ne la casa e sì
come ne lo studiare: onde, con ciò sia cosa che 'l dimostrare
sia edificazione di scienza, e la litterale dimostrazione sia
fondamento de l'altre, massimamente de l'allegorica, impossibile è
a l'altre venire prima che a quella.
Ancora, posto che possibile fosse, sarebbe inrazionale, cioè
fuori d'ordine, e però con molta fatica e con molto errore si
procederebbe. Onde, sì come dice lo Filosofo nel primo de la
Fisica, la natura vuole che ordinatamente si proceda ne la nostra
conoscenza, cioè procedendo da quello che conoscemo meglio in
quello che conoscemo non così bene: dico che la natura vuole,
in quanto questa via di conoscere è in noi naturalmente
innata. E però se li altri sensi dal litterale sono meno
intesi - che sono, sì come manifestamente pare -,
inrazionabile sarebbe procedere ad essi dimostrare, se prima lo
litterale non fosse dimostrato. Io adunque, per queste ragioni,
tuttavia sopra ciascuna canzone ragionerò prima la litterale
sentenza, e appresso di quella ragionerò la sua allegoria,
cioè la nascosa veritade; e talvolta de li altri sensi
toccherò incidentemente, come a luogo e a tempo si converrà.
Capitolo II
Cominciando adunque, dico che la stella di Venere due fiate rivolta
era in quello suo cerchio che la fa parere serotina e matutina,
secondo diversi tempi, appresso lo trapassamento di quella Beatrice
beata che vive in cielo con li angeli e in terra con la mia anima,
quando quella gentile donna, cui feci menzione ne la fine de la Vita
Nuova, parve primamente, accompagnata d'Amore, a li occhi miei e
prese luogo alcuno ne la mia mente. E sì come è
ragionato per me ne lo allegato libello, più da sua gentilezza
che da mia elezione venne ch'io ad essere suo consentisse; ché
passionata di tanta misericordia si dimostrava sopra la mia vedovata
vita, che li spiriti de li occhi miei a lei si fero massimamente
amici. E così fatti, dentro me lei poi fero tale, che lo mio
beneplacito fu contento a disposarsi a quella imagine. Ma però
che non subitamente nasce amore e fassi grande e viene perfetto, ma
vuole tempo alcuno e nutrimento di pensieri, massimamente là
dove sono pensieri contrari che lo 'mpediscano, convenne, prima che
questo nuovo amore fosse perfetto, molta battaglia intra lo pensiero
del suo nutrimento e quello che li era contraro, lo quale per quella
gloriosa Beatrice tenea ancora la rocca de la mia mente. Però
che l'uno era soccorso de la parte de la vista dinanzi continuamente,
e l'altro de la parte de la memoria di dietro. E lo soccorso dinanzi
ciascuno die crescea, che far non potea l'altro, contro quello, ché
impediva in alcuno modo a dare indietro il volto; per che a me parve
sì mirabile, e anche duro a sofferire, che io nol potei
sostenere. E quasi esclamando, e per iscusare me de la varietade ne
la quale parea me avere manco di fortezza, dirizzai la voce mia in
quella parte onde procedeva la vittoria del nuovo pensiero, ch'era
virtuosissimo sì come vertù celestiale; e cominciai a
dire: Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete.
A lo 'ntendimento de la quale canzone bene imprendere, conviene prima
conoscere le sue parti, sì che leggiero sarà poi lo suo
intendimento a vedere. Acciò che più non sia mestiere
di predicere queste parole per le sposizioni de l'altre, dico che
questo ordine, che in questo trattato si prenderà, tenere
intendo per tutti li altri.
Adunque dico che la canzone proposta è contenuta da tre parti
principali. La prima è lo primo verso di quella: ne la quale
s'inducono a udire ciò che dire intendo certe Intelligenze, o
vero per più usato modo volemo dire Angeli, le quali sono a la
revoluzione del cielo di Venere, sì come movitori di quello.
La seconda è li tre versi che appresso del primo sono: ne la
quale si manifesta quel che dentro spiritualmente si sentiva intra'
diversi pensieri. La terza è lo quinto e l'ultimo verso: ne la
quale sì vuole l'uomo parlare a l'opera medesima, quasi a
confortare quella. E queste tutte e tre parti, per ordine sono, come
è detto di sopra, a dimostrare.
Capitolo III
A più latinamente vedere la sentenza litterale, a la quale ora
s'intende, de la prima parte sopra divisa, è da sapere chi e
quanti sono costoro che son chiamati a l'audienza mia, e quale è
questo terzo cielo lo quale dico loro muovere: e prima dirò
del cielo, poi dirò di loro a cu' io parlo. E avvegna che
quelle cose, per rispetto de la veritade, assai poco sapere si
possano, quel cotanto che l'umana ragione ne vede ha più
dilettazione che 'l molto e 'l certo de le cose de le quali si
giudica secondo lo senso, secondo la sentenza del Filosofo in quello
de li Animali.
Dico adunque, che del numero de li cieli e del sito diversamente è
sentito da molti, avvegna che la veritade a l'ultimo sia trovata.
Aristotile credette, seguitando solamente l'antica grossezza de li
astrologi, che fossero pure otto cieli, de li quali lo estremo, e che
contenesse tutto, fosse quello dove le stelle fisse sono, cioè
la spera ottava; e che di fuori da esso non fosse altro alcuno.
Ancora credette che lo cielo del Sole fosse immediato con quello de
la Luna, cioè secondo a noi. E questa sua sentenza così
erronea può vedere chi vuole nel secondo De Celo et Mundo,
ch'è nel secondo de' libri naturali. Veramente elli di ciò
si scusa nel duodecimo de la Metafisica, dove mostra bene sé
avere seguito pur l'altrui sentenza là dove d'astrologia li
convenne parlare.
Tolomeo poi, accorgendosi che l'ottava spera si movea per più
movimenti, veggendo lo cerchio suo partire da lo diritto cerchio, che
volge tutto da oriente in occidente, costretto da li principii di
filosofia, che di necessitade vuole uno primo mobile semplicissimo,
puose un altro cielo essere fuori de lo Stellato, lo quale facesse
questa revoluzione da oriente in occidente: la quale dico che si
compie quasi in ventiquattro ore, cioè in ventitrè ore
e quattordici parti de le quindici d'un'altra, grossamente
assegnando. Sì che secondo lui, secondo quello che si tiene in
astrologia ed in filosofia poi che quelli movimenti furon veduti,
sono nove cieli mobili; lo sito de li quali è manifesto e
diterminato, secondo che per un'arte che si chiama perspettiva, e per
arismetrica e geometria, sensibilmente e ragionevolmente è
veduto, e per altre esperienze sensibili: sì come ne lo
eclipsi del sole appare sensibilmente la luna essere sotto lo sole e
sì come per testimonianza d'Aristotile, che vide con li occhi
(secondo che dice nel secondo De Celo et Mundo) la luna, essendo
nuova, entrare sotto a Marte da la parte non lucente, e Marte stare
celato tanto che rapparve da l'altra parte lucente de la luna, ch'era
verso occidente.
Ed è l'ordine del sito questo, che lo primo che numerano è
quello dove è la Luna; lo secondo è quello dov'è
Mercurio; lo terzo è quello dov'è Venere; lo quarto è
quello dove è lo Sole; lo quinto è quello di Marte; lo
sesto è quello di Giove; lo settimo è quello di
Saturno; l'ottavo è quello de le Stelle; lo nono è
quello che non è sensibile se non per questo movimento che è
detto di sopra; lo quale chiamano molti Cristallino, cioè
diafano, o vero tutto trasparente. Veramente, fuori di tutti questi,
li cattolici pongono lo cielo Empireo, che è a dire cielo di
fiamma o vero luminoso; e pongono esso essere immobile per avere in
sé, secondo ciascuna parte, ciò che la sua materia
vuole. E questo è cagione al Primo Mobile per avere
velocissimo movimento; ché per lo ferventissimo appetito ch'è
'n ciascuna parte di quello nono cielo, che è immediato a
quello, d'essere congiunta con ciascuna parte di quello divinissimo
ciel quieto, in quello si rivolve con tanto desiderio, che la sua
velocitade è quasi incomprensibile. E quieto e pacifico è
lo luogo di quella somma Deitade che sola sé compiutamente
vede. Questo loco è di spiriti beati, secondo che la Santa
Chiesa vuole, che non può dire menzogna; e Aristotile pare ciò
sentire, a chi bene lo 'ntende, nel primo De Celo et Mundo. Questo è
lo soprano edificio del mondo, nel quale tutto lo mondo s'inchiude, e
di fuori dal quale nulla è; ed esso non è in luogo ma
formato fu solo ne la prima Mente, la quale li Greci dicono Protonoè.
Questa è quella magnificenza de la quale parlò il
Salmista quando dice a Dio: "Levata è la magnificenza tua
sopra li cieli". E così ricogliendo ciò che
ragionato è, pare che diece cieli siano, de li quali quello di
Venere sia lo terzo, del quale si fa menzione in quella parte che
mostrare intendo.
Ed è da sapere che ciascuno cielo di sotto al Cristallino ha
due poli fermi, quanto a sé; e lo nono li ha fermi e fissi, e
non mutabili secondo alcuno respetto. E ciascuno, sì lo nono
come li altri, hanno un cerchio, che si può chiamare equatore
del suo cielo proprio; lo quale igualmente in ciascuna parte de la
sua revoluzione è rimoto da l'uno polo e da l'altro, come può
sensibilmente vedere chi volge un pomo, o altra cosa ritonda. E
questo cerchio ha più rattezza nel muovere che alcuna parte
del suo cielo, in ciascuno cielo, come può vedere chi bene
considera. E ciascuna parte, quant'ella più è presso ad
esso, tanto più rattamente si muove; quanto più n'è
remota e più presso al polo, più è tarda, però
che la sua revoluzione è minore, e conviene essere in uno
medesimo tempo, di necessitade, con la maggiore. Dico ancora, che
quanto lo cielo più è presso al cerchio equatore tanto
è più nobile per comparazione a li suoi poli, però
che ha più movimento e più attualitade e più
vita e più forma, e più tocca di quello che è
sopra sé, e per consequente più è virtuoso. Onde
le stelle del Cielo Stellato sono più piene di vertù
tra loro quanto più sono presso a questo cerchio.
E in sul dosso di questo cerchio, nel cielo di Venere, del quale al
presente si tratta, è una speretta che per se medesima in esso
cielo si volge; lo cerchio de la quale li astrologi chiamano
epiciclo. E sì come la grande spera due poli volge, così
questa picciola, e così ha questa picciola lo cerchio
equatore, e così è più nobile quanto è
più presso di quello; e in su l'arco, o vero dosso, di questo
cerchio è fissa la lucentissima stella di Venere. E avvegna
che detto sia essere diece cieli secondo la stretta veritade, questo
numero non li comprende tutti; ché questo di cui è
fatta menzione, cioè l'epiciclo nel quale è fissa la
stella, è uno cielo per sé, o vero spera, e non ha una
essenza con quello che 'l porta, avvegna che più sia
connaturato ad esso che li altri; e con esso è chiamato uno
cielo, e dinominasi l'uno e l'altro da la stella. Come li altri cieli
e l'altre stelle siano, non è al presente da trattare: basti
ciò che detto è de la veritade del terzo cielo, del
quale al presente intendo e del quale compiutamente è mostrato
quello che al presente n'è mestiere.
Capitolo IV
Poi ch'è mostrato nel precedente capitolo quale è
questo terzo cielo e come in se medesimo è disposto, resta di
dimostrare chi sono questi che 'l muovono. È adunque da sapere
primamente che li movitori di quelli sono sustanze separate da
materia, cioè intelligenze, le quali la volgare gente chiamano
Angeli. E di queste creature, sì come de li cieli, diversi
diversamente hanno sentito, avvegna che la veritade sia trovata.
Furono certi filosofi, de' quali pare essere Aristotile ne la sua
Metafisica (avvegna che nel primo di Cielo incidentemente paia
sentire altrimenti), che credettero solamente essere tante queste,
quante circulazioni fossero ne li cieli, e non più, dicendo
che l'altre sarebbero state etternalmente indarno, sanza operazione;
ch'era impossibile, con ciò sia cosa che loro essere sia loro
operazione. Altri furono, sì come Plato, uomo eccellentissimo,
che puosero non solamente tante Intelligenze quanti sono li movimenti
del cielo, ma eziandio quante sono le spezie de le cose (cioè
le maniere de le cose): sì come è una spezie tutti li
uomini, e un'altra tutto l'oro, e un'altra tutte le larghezze, e così
di tutte. E volsero che sì come le Intelligenze de li cieli
sono generatrici di quelli, ciascuna del suo, così queste
fossero generatrici de l'altre cose ed essempli, ciascuna de la sua
spezie; e chiamale Plato a "idee", che tanto è a
dire quanto forme e nature universali. Li gentili le chiamano Dei e
Dee, avvegna che non così filosoficamente intendessero quelle
come Plato, e adoravano le loro imagini, e faceano loro grandissimi
templi: sì come a Giuno, la quale dissero dea di potenza; sì
come a Pallade o vero Minerva, la quale dissero dea di sapienza; sì
come a Vulcano, lo quale dissero dio del fuoco, ed a Cerere, la quale
dissero dea de la biada. Le quali cose e oppinioni manifesta la
testimonianza de' poeti, che ritraggono in parte alcuna lo modo de'
gentili e ne li sacrifici e ne la loro fede; e anco si manifesta in
molti nomi antichi rimasi o per nomi o per sopranomi a lochi e
antichi edifici, come può bene ritrovare chi vuole.
E avvegna che per ragione umana queste oppinioni di sopra fossero
fornite, e per esperienza non lieve, la veritade ancora per loro
veduta non fue e per difetto di ragione e per difetto
d'ammaestramento; ché pur per ragione veder si può in
molto maggiore numero esser le creature sopra dette, che non sono li
effetti che da li uomini si possono intendere. E l'una ragione è
questa. Nessuno dubita, né filosofo né gentile né
giudeo né cristiano né alcuna setta, ch'elle non siano
piene di tutta beatitudine, o tutte o la maggior parte, e che quelle
beate non siano in perfettissimo stato. Onde, con ciò sia cosa
che quella che è qui l'umana natura non pur una beatitudine
abbia, ma due, sì com'è quella de la vita civile, e
quella de la contemplativa, inrazionale sarebbe se noi vedemo quelle
avere la beatitudine de la vita attiva, cioè civile, nel
governare del mondo, e non avessero quella de la contemplativa, la
quale è più eccellente e più divina. E con ciò
sia cosa che quella che ha la beatitudine del governare non possa
l'altra avere, perché lo 'ntelletto loro è uno e
perpetuo, conviene essere altre fuori di questo ministerio che
solamente vivano speculando. E perché questa vita è più
divina, e quanto la cosa è più divina è più
di Dio simigliante, manifesto è che questa vita è da
Dio più amata; e se ella è più amata, più
le è la sua beatanza stata larga; e se più l'è
stata larga, più viventi le ha dato che a l'altrui. Per che si
conchiude che troppo maggior numero sia quello di quelle creature che
li effetti non dimostrano. E non è contra quello che par dire
Aristotile nel decimo de l'Etica, che a le sustanze separate convegna
pure la speculativa vita. Come pure la speculativa convegna loro,
pure a la speculazione di certe segue la circulazione del cielo, che
è del mondo governo; lo quale è quasi una ordinata
civilitade, intesa ne la speculazione de li motori.
L'altra ragione si è che nullo effetto è maggiore de la
cagione, poi che la cagione non può dare quello che non ha;
ond'è, con ciò sia cosa che lo divino intelletto sia
cagione di tutto, massimamente de lo 'ntelletto umano, che lo umano
quello non soperchia, ma da esso è improporzionalmente
soperchiato. Dunque se noi, per le ragioni di sopra e per molt'altre,
intendiamo Iddio aver potuto fare innumerabili quasi creature
spirituali, manifesto è lui questo avere fatto maggiore
numero. Altre ragioni si possono vedere assai, ma queste bastino al
presente.
Né
si meravigli alcuno se queste e altre ragioni che di ciò avere
potemo, non sono del tutto dimostrate; che però medesimamente
dovemo ammirare loro eccellenza - la quale soverchia gli occhi de la
mente umana, sì come dice lo Filosofo nel secondo de la
Metafisica -, e affermar loro essere. Poi che non avendo di loro
alcuno senso (dal quale comincia la nostra conoscenza), pure
risplende nel nostro intelletto alcuno lume de la vivacissima loro
essenza, in quanto vedemo le sopra dette ragioni, e molt'altre; sì
come afferma chi ha li occhi chiusi l'aere essere luminoso, per un
poco di splendore, o vero raggio, come passa per le pupille del
vispistrello: ché non altrimenti sono chiusi li nostri occhi
intellettuali, mentre che l'anima è legata e incarcerata per
li organi del nostro corpo.
Capitolo V
Detto è che per difetto d'ammaestramento li antichi la
veritade non videro de le creature spirituali, avvegna che quello
popolo d'Israel fosse in parte da li suoi profeti ammaestrato, "ne
li quali, per molte maniere di parlare e per molti modi, Dio avea
loro parlato", sì come l'Apostolo dice. Ma noi semo di
ciò ammaestrati da colui che venne da quello, da colui che le
fece, da colui che le conserva, cioè da lo Imperatore de
l'universo, che è Cristo, figliuolo del sovrano Dio e
figliuolo di Maria Vergine, femmina veramente e figlia di Ioacchino e
d'Adamo: uomo vero, lo quale fu morto da noi, per che ci recò
vita. "Lo qual fu luce che allumina noi ne le tenebre", sì
come dice Ioanni Evangelista, e disse a noi la veritade di quelle
cose che noi sapere sanza lui non potavamo, né veder
veramente.
La
prima cosa e lo primo secreto che ne mostrò, fu una de le
creature predette: ciò fu quello suo grande legato che venne a
Maria, giovinetta donzella di tredici anni, da parte del Sanator
celestiale. Questo nostro Salvatore con la sua bocca disse che 'l
Padre li potea dare molte legioni d'angeli; questi non negò,
quando detto li fu che 'l Padre avea comandato a li angeli che li
ministrassero e servissero. Per che manifesto è a noi quelle
creature essere in lunghissimo numero; per che la sua sposa e
secretaria Santa Ecclesia - de la quale dice Salomone: "Chi è
questa che ascende del diserto, piena di quelle cose che dilettano,
appoggiata sopra l'amico suo?" - dice, crede e predica quelle
nobilissime creature quasi innumerabili. E partele per tre gerarchie,
che è a dire tre principati santi o vero divini, e ciascuna
gerarchia ha tre ordini; sì che nove ordini di creature
spirituali la Chiesa tiene e afferma. Lo primo è quello de li
Angeli, lo secondo de li Arcangeli, lo terzo de li Troni; e questi
tre ordini fanno la prima gerarchia: non prima quanto a nobilitade,
non a creazione (ché più sono l'altre nobili e tutte
furono insieme create), ma prima quanto al nostro salire a loro
altezza. Poi sono le Dominazioni; appresso le Virtuti; poi li
Principati: e questi fanno la seconda gerarchia. Sopra questi sono le
Potestati e li Cherubini, e sopra tutti sono li Serafini: e questi
fanno la terza gerarchia. Ed è potissima ragione de la loro
speculazione e lo numero in che sono le gerarchie e quello in che
sono li ordini. Ché con ciò sia cosa che la Maestà
divina sia in tre persone, che hanno una sustanza, di loro si puote
triplicemente contemplare. Ché si può contemplare de la
potenza somma del Padre; la quale mira la prima gerarchia, cioè
quella che è prima per nobilitade e che ultima noi
annoveriamo. E puotesi contemplare la somma sapienza del Figliuolo; e
questa mira la seconda gerarchia. E puotesi contemplare la somma e
ferventissima caritade de lo Spirito Santo; e questa mira l'ultima
gerarchia, la quale, più propinqua, a noi porge de li doni che
essa riceve. E con ciò sia cosa che ciascuna persona ne la
divina Trinitade triplicemente si possa considerare, sono in ciascuna
gerarchia tre ordini che diversamente contemplano. Puotesi
considerare lo Padre, non avendo rispetto se non ad esso; e questa
contemplazione fanno li Serafini, che veggiono più de la Prima
Cagione che nulla angelica natura. Puotesi considerare lo Padre
secondo che ha relazione al Figlio, cioè come da lui si parte
e come con lui sé unisce; e questo contemplano li Cherubini.
Puotesi ancora considerare lo Padre secondo che da lui procede lo
Spirito Santo, e come da lui si parte e come con lui sé
unisce; e questa contemplazione fanno le Potestadi. E per questo modo
si puote speculare del Figlio e de lo Spirito Santo: per che
convengono essere nove maniere di spiriti contemplativi, a mirare ne
la luce che sola se medesima vede compiutamente.
E non è qui da tacere una parola. Dico che di tutti questi
ordini si perderono alquanti tosto che furono creati, forse in numero
de la decima parte; a la quale restaurare fu l'umana natura poi
creata. Li numeri, li ordini, le gerarchie narrano li cieli mobili,
che sono nove, e lo decimo annunzia essa unitade e stabilitade di
Dio. E però dice lo Salmista: "Li cieli narrano la gloria
di Dio, e l'opere de le sue mani annunzia lo fermamento". Per
che ragionevole è credere che li movitori del cielo de la Luna
siano de l'ordine de li Angeli, e quelli di Mercurio siano li
Arcangeli, e quelli di Venere siano li Troni; li quali, naturati de
l'amore del Santo Spirito, fanno la loro operazione, connaturale ad
essi, cioè lo movimento di quello cielo, pieno d'amore, dal
quale prende la forma del detto cielo uno ardore virtuoso per lo
quale le anime di qua giuso s'accendono ad amore, secondo la loro
disposizione. E perché li antichi s'accorsero che quello cielo
era qua giù cagione d'amore, dissero Amore essere figlio di
Venere, sì come testimonia Vergilio nel primo de lo Eneida,
ove dice Venere ad Amore: "Figlio, vertù mia, figlio del
sommo padre, che li dardi di Tifeo non curi"; e Ovidio, nel
quinto di Metamorphoseos, quando dice che Venere disse ad Amore:
"Figlio, armi mie, potenzia mia". E sono questi Troni, che
al governo di questo cielo sono dispensati, in numero non grande, de
lo quale per li filosofi e per li astrologi diversamente è
sentito, secondo che diversamente sentiro de le sue circulazioni;
avvegna che tutti siano accordati in questo, che tanti sono quanti
movimenti esso fae. Li quali, secondo che nel libro de l'Aggregazioni
de le Stelle epilogato si truova da la migliore dimostrazione de li
astrologi, sono tre: uno, secondo che la stella si muove per lo suo
epiciclo; l'altro, secondo che lo epiciclo si muove con tutto il
cielo igualmente con quello del Sole; lo terzo, secondo che tutto
quello cielo si muove seguendo lo movimento de la stellata spera, da
occidente a oriente, in cento anni uno grado. Sì che a questi
tre movimenti sono tre movitori. Ancora si muove tutto questo cielo e
rivolgesi con lo epiciclo da oriente in occidente, ogni dì
naturale una fiata: lo qual movimento, se esso è da intelletto
alcuno, o se esso è da la rapina del Primo Mobile, Dio lo sa;
che a me pare presuntuoso a giudicare. Questi movitori muovono, solo
intendendo, la circulazione in quello subietto propio che ciascuno
muove. La forma nobilissima del cielo, che ha in sé principio
di questa natura passiva, gira, toccata da vertù motrice che
questo intende: e dico toccata, non corporalmente, per tatto di vertù
la quale si dirizza in quello. E questi movitori sono quelli a li
quali s'intende di parlare, ed a cui io fo mia dimanda.
Capitolo VI
Secondo che di sopra, nel terzo capitolo di questo trattato, si
disse, ch'a bene intendere la prima parte de la proposta canzone
convenia ragionare di quelli cieli e de li loro motori, ne li tre
precedenti capitoli è ragionato. Dico adunque a quelli ch'io
mostrai sono movitori del cielo di Venere: O voi che 'ntendendo
- cioè con lo intelletto solo, come detto è di sopra, -
lo terzo cielo movete, Udite il ragionare; e non dico udite
perch'elli odano alcuno suono, ch'elli non hanno senso, ma dico
udite, cioè con quello udire ch'elli hanno, ch'è
intendere per intelletto. Dico: Udite il ragionar lo quale è
nel mio core: cioè dentro da me, ché ancora non è
di fuori apparito. E da sapere è che in tutta questa canzone,
secondo l'uno senso e l'altro, lo "core" si prende per lo
secreto dentro, e non per altra spezial parte de l'anima e del
corpo.
Poi li ho
chiamati ad udire quello ch'io voglio, assegno due ragioni per che io
convenevolemente deggio loro parlare. L'una si è la novitade
de la mia condizione, la quale, per non essere da li altri uomini
esperta, non sarebbe così da loro intesa come da coloro che
'ntendono li loro effetti ne la loro operazione; e questa ragione
tocco quando dico: Ch'io nol so dire altrui, sì mi par
novo. L'altra ragione è: quand'uomo riceve beneficio, o
vero ingiuria, prima de' quello retraere a chi liele fa, se può,
che ad altri; acciò che se ello è beneficio, esso che
lo riceve si mostri conoscente inver lo benefattore; e s'ella è
ingiuria, induca lo fattore a buona misericordia con le dolci parole.
E questa ragione tocco, quando dico: El ciel che segue lo vostro
valore, Gentili creature che voi sete, Mi tragge ne lo stato ov'io mi
trovo. Ciò è a dire: l'operazione vostra, cioè
la vostra circulazione, è quella che m'ha tratto ne la
presente condizione. Però conchiudo e dico che 'l mio parlare
a loro dee essere, sì come detto è; e questo dico qui:
Onde 'l parlar de la vita ch'io provo, Par che si drizzi
degnamente a vui. E dopo queste ragioni assegnate, priego loro de
lo 'ntendere quando dico: Però vi priego che li mi
'ntendiate. Ma però che in ciascuna maniera di sermone lo
dicitore massimamente dee intendere a la persuasione, cioè a
l'abbellire, de l'audienza, sì come a quella ch'è
principio di tutte l'altre persuasioni, come li rettorici sanno; e
potentissima persuasione sia, a rendere l'uditore attento, promettere
di dire nuove e grandissime cose; seguito io, a la preghiera fatta de
l'audienza, questa persuasione, cioè, dico, abbellimento,
annunziando loro la mia intenzione, la quale è di dire nuove
cose, cioè la divisione ch'è ne la mia anima, e grandi
cose, cioè lo valore de la loro stella. E questo dico in
quelle ultime parole di questa prima parte: Io vi dirò del cor
la novitate, Come l'anima trista piange in lui, E come un spirto
contra lei favella, Che vien pe' raggi de la vostra stella.
E a pieno intendimento di queste parole, dico che questo spirito non
è altro che uno frequente pensiero a questa nuova donna
commendare e abbellire; e questa anima non è altro che un
altro pensiero accompagnato di consentimento, che, repugnando a
questo, commenda e abbellisce la memoria di quella gloriosa Beatrice.
Ma però che ancora l'ultima sentenza de la mente, cioè
lo consentimento, si tenea per questo pensiero che la memoria
aiutava, chiamo lui anima e l'altro spirito; sì
come chiamare solemo la cittade quelli che la tengono, e non coloro
che la combattono, avvegna che l'uno e l'altro sia cittadino. Dico
anche che questo spirito viene per li raggi de la stella: per che
sapere si vuole che li raggi di ciascuno cielo sono la via per la
quale discende la loro vertude in queste cose di qua giù. E
però che li raggi non sono altro che uno lume che viene dal
principio de la luce per l'aere infino a la cosa illuminata, e luce
non sia se non ne la parte de la stella, però che l'altro
cielo è diafano, cioè transparente, non dico che vegna
questo spirito, cioè questo pensiero, dal loro cielo in tutto,
ma da la loro stella. La quale per la nobilità de li suoi
movitori è di tanta vertute, che ne le nostre anime e ne le
altre nostre cose ha grandissima podestade, non ostante che essa ci
sia lontana, qual volta più c'è presso, cento sessanta
sette volte tanto quanto è, e più, al mezzo de la
terra, che ci ha di spazio tremilia dugento cinquanta miglia. E
questa è la litterale esposizione de la prima parte de la
canzone.
Capitolo VII
Inteso può essere sofficientemente, per le prenarrate parole,
de la litterale sentenza de la prima parte; per che a la seconda è
da intendere, ne la quale si manifesta quello che dentro io sentia de
la battaglia. E questa parte ha due divisioni: che in prima, cioè
nel primo verso, narro la qualitade di queste diversitadi secondo la
loro radice, ch'erano dentro a me; poi narro quello che dicea l'una e
l'altra diversitade, e però, prima, quello che dicea la parte
che perdea, cioè nel verso ch'è lo secondo di questa
parte e lo terzo de la canzone.
Ad evidenza dunque de la sentenza de la prima divisione, è da
sapere che le cose deono essere denominate da l'ultima nobilitade de
la loro forma; sì come l'uomo da la ragione, e non dal senso
né d'altro che sia meno nobile. Onde, quando si dice l'uomo
vivere, si dee intendere l'uomo usare la ragione, che è sua
speziale vita e atto de la sua più nobile parte. E però
chi da la ragione si parte, e usa pur la parte sensitiva, non vive
uomo, ma vive bestia; sì come dice quello eccellentissimo
Boezio: "Asino vive". Dirittamente dico, però che lo
pensiero è propio atto de la ragione, perché le bestie
non pensano, che non l'hanno: e non dico pur de le minori bestie, ma
di quelle che hanno apparenza umana e spirito di pecora o d'altra
bestia abominevole. Dico adunque che vita del mio core, cioè
del mio dentro, suole essere un pensiero soave ("soave" è
tanto quanto "suaso", cioè abbellito, dolce,
piacente e dilettoso), questo pensiero, che se ne gia spesse volte a'
piedi del sire di costoro a cu' io parlo, ch'è Iddio: ciò
è a dire, che io pensando contemplava lo regno de' beati. E
dico la final cagione incontanente per che là su io saliva
pensando, quando dico: Ove una donna gloriar vedia; a dare a
intendere ch'è perché io era certo, e sono, per sua
graziosa revelazione, che ella era in cielo. Onde io pensando spesse
volte come possibile m'era, me n'andava quasi rapito.
Poi sussequentemente dico l'effetto di questo pensiero, a dare a
intendere la sua dolcezza, la quale era tanta che mi facea disioso de
la morte, per andare là dov'elli gia; e ciò dico quivi:
Di cui parlava me sì dolcemente, Che l'anima dicea: Io men
vo' gire. E questa è la radice de l'una de le diversitadi
ch'era in me. Ed è da sapere, che qui si dice "pensiero"
e non "anima", di quello che salia a vedere quella beata,
perché era spezial pensiero a quello atto. L'anima s'intende,
come detto è nel precedente capitolo, per lo generale pensiero
col consentimento.
Poi quando dico: Or apparisce chi lo fa fuggire, narro la
radice de l'altra diversitade, dicendo, sì come questo
pensiero di sopra suol esser vita di me, così un altro
apparisce che fa quello cessare. E dico "fuggire", per
mostrare quello essere contrario, ché naturalmente l'uno
contrario fugge l'altro, e quello che fugge mostra per difetto di
vertù di fuggire. E dico che questo pensiero, che di nuovo
apparisce, è poderoso in prender me e in vincere l'anima
tutta, dicendo che esso segnoreggia sì che 'l cuore, cioè
lo mio dentro, triema, e lo mio di fuori lo dimostra in alcuna nuova
sembianza.
Sussequentemente mostro la potenza di questo pensiero
nuovo per suo effetto, dicendo che esso mi fa mirare una donna, e
dicemi parole di lusinghe, cioè ragiona dinanzi a li occhi del
mio intelligibile affetto per meglio inducermi, promettendomi che la
vista de li occhi suoi è sua salute. E a meglio fare ciò
credere a l'anima esperta, dice che non è da guardare ne li
occhi di questa donna per persona che tema angoscia di sospiri. Ed è
bel modo rettorico, quando di fuori pare la cosa disabbellirsi, e
dentro veramente s'abbellisce. Più non potea questo novo
pensero d'amore inducere la mia mente a consentire, che 'n ragionare
de la vertù de li occhi di costei profondamente.
Capitolo VIII
Ora ch'è mostrato come e perché nasce amore, e la
diversitade che mi combattea, procedere si conviene ad aprire la
sentenza di quella parte ne la quale contendono in me diversi
pensamenti. Dico che prima si conviene dire de la parte de l'anima,
cioè de l'antico pensiero, e poi de l'altro, per questa
ragione, che sempre quello che massimamente dire intende lo dicitore
sì dee riservare di dietro; però che quello che
ultimamente si dice, più rimane ne l'animo de lo uditore. Onde
con ciò sia cosa che io intenda più a dire e a
ragionare quello che l'opera di costoro a cu' io parlo fa, che quello
che essa disfà, ragionevole fu prima dire e ragionare la
condizione de la parte che si corrompea, e poi quella de l'altra che
si generava.
Veramente qui nasce un dubbio, lo qual non è da trapassare
sanza dichiarare. Potrebbe dire alcuno: "Con ciò sia cosa
che amore sia effetto di queste intelligenze a cu' io parlo, e quello
di prima fosse amore così come questo di poi, perché la
loro vertù corrompe l'uno e l'altro genera? con ciò sia
cosa che innanzi dovrebbe quello salvare, per la ragione che ciascuna
cagione ama lo suo effetto e, amando quello, salva quell'altro".
A questa questione si può leggermente rispondere che lo
effetto di costoro è amore, com'è detto; e però
che salvare nol possono se non in quelli subietti che sono sottoposti
a la loro circulazione, esso transmutano di quella parte che è
fuori di loro podestade in quella che v'è dentro, cioè
de l'anima partita d'esta vita in quella ch'è in essa. Sì
come la natura umana transmuta, ne la forma umana, la sua
conservazione di padre in figlio, perché non può in
esso padre perpetualmente tal suo effetto conservare. Dico "effetto",
in quanto l'anima col corpo, congiunti, sono effetto di quella; ché
l'anima, poi che è partita, perpetualmente dura in natura più
che umana. E così è soluta la questione.
Ma però che de la immortalità de l'anima è qui
toccato, farò una digressione, ragionando di quella; perché,
di quella ragionando, sarà bello terminare lo parlare di
quella viva Beatrice beata, de la quale più parlare in questo
libro non intendo per proponimento. Dico che intra tutte le
bestialitadi quella è stoltissima, vilissima e dannosissima,
chi crede dopo questa vita non essere altra vita; però che, se
noi rivolgiamo tutte le scritture, sì de' filosofi come de li
altri savi scrittori, tutti concordano in questo, che in noi sia
parte alcuna perpetuale. E questo massimamente par volere Aristotile
in quello de l'Anima; questo par volere massimamente ciascuno Stoico;
questo par volere Tullio, spezialmente in quello libello de la
Vegliezza; questo par volere ciascuno poeta che secondo la fede de'
Gentili hanno parlato; questo vuole ciascuna legge, Giudei, Saracini,
Tartari, e qualunque altri vivono secondo alcuna ragione. Che se
tutti fossero ingannati, seguiterebbe una impossibilitade, che pure a
ritraere sarebbe orribile. Ciascuno è certo che la natura
umana è perfettissima di tutte l'altre nature di qua giù;
e questo nullo niega, e Aristotile l'afferma quando dice nel
duodecimo de li Animali che l'uomo è perfettissimo di tutti li
animali. Onde con ciò sia cosa che molti che vivono
interamente siano mortali, sì come animali bruti, e siano
sanza questa speranza tutti mentre che vivono, cioè d'altra
vita; se la nostra speranza fosse vana, maggiore sarebbe lo nostro
difetto che di nullo altro animale, con ciò sia cosa che molti
già sono stati che hanno data questa vita per quella; e così
seguiterebbe che lo perfettissimo animale, cioè l'uomo, fosse
imperfettissimo - ch'è impossibile -, e che quella parte, cioè
la ragione, che è sua perfezione maggiore, fosse a lui cagione
di maggiore difetto - che del tutto diverso pare a dire -. Ancora,
seguiterebbe che la natura contra se medesima questa speranza ne la
mente umana posta avesse, poi che detto è che molti a la morte
del corpo sono corsi, per vivere ne l'altra vita; e questo è
anche impossibile.
Ancora, vedemo continua esperienza de la nostra immortalitade ne le
divinazioni de' nostri sogni, le quali essere non potrebbono se in
noi alcuna parte immortale non fosse; con ciò sia cosa che
immortale convegna essere lo rivelante, o corporeo o incorporeo che
sia, se bene si pensa sottilmente - e dico "corporeo o
incorporeo" per le diverse oppinioni ch'io truovo di ciò
-, e quello ch'è mosso o vero informato da informatore
immediato debba proporzione avere a lo informatore, e da lo mortale a
lo immortale nulla sia proporzione. Ancora, n'accerta la dottrina
veracissima di Cristo, la quale è via, verità e luce:
via, perché per essa sanza impedimento andiamo a la felicitade
di quella immortalitade; verità, perché non soffera
alcuno errore; luce, perché allumina noi ne la tenebra de la
ignoranza mondana. Questa dottrina dico che ne fa certi sopra tutte
altre ragioni, però che quello la n'hae data che la nostra
immortalitade vede e misura. La quale noi non potemo perfettamente
vedere mentre che 'l nostro immortale col mortale è mischiato;
ma vedemolo per fede perfettamente, e per ragione lo vedemo con ombra
d'oscuritade, la quale incontra per mistura del mortale con
l'immortale. E ciò dee essere potentissimo argomento che in
noi l'uno e l'altro sia; e io così credo, così affermo
e così certo sono ad altra vita migliore dopo questa passare,
là dove quella gloriosa donna vive de la quale fu l'anima mia
innamorata quando contendea, come nel seguente capitolo si ragionerà.
Capitolo IX
Tornando al proposito, dico che in questo verso che comincia: Trova
contraro tal che lo distrugge, intendo manifestare quello che
dentro a me l'anima mia ragionava, cioè l'antico pensiero
contra lo nuovo. E prima brievemente manifesto la cagione del suo
lamentevole parlare, quando dico: Trova contraro tal che lo
distrugge L'umil pensero, che parlar mi sole D'un'angela che 'n cielo
è coronata. Questo è quello speziale pensiero, del
quale detto è di sopra che solea esser vita de lo cor
dolente. Poi quando dico: L'anima piange, sì ancor len
dole, manifesto l'anima mia essere ancora da la sua parte, e con
tristizia parlare: e dico che dice parole lamentandosi, quasi come si
maravigliasse de la subita transmutazione, dicendo: Oh lassa a me,
come si fugge Questo piatoso che m'ha consolata! Ben può
dire "consolata", ché ne la sua grande perdita
questo pensiero, che in cielo salia, le avea data molta consolazione.
Poi appresso, ad iscusa di sé dico che si volge tutto lo mio
pensiero, cioè l'anima, de la quale dico questa affannata,
e parla contra gli occhi; e questo si manifesta quivi: De li occhi
miei dice questa affannata. E dico ch'ella dice di loro e contra
loro tre cose. La prima è che bestemmia l'ora che questa donna
li vide. E qui si vuol sapere che avvegna che più cose ne
l'occhio a un'ora possano venire, veramente quella che viene per
retta linea ne la punta de la pupilla, quella veramente si vede, e ne
la imaginativa si suggella solamente. E questo è però
che 'l nervo per lo quale corre lo spirito visivo, è diritto a
quella parte; e però veramente l'occhio l'altro occhio non può
guardare, sì che esso non sia veduto da lui; ché, sì
come quello che mira riceve la forma ne la pupilla per retta linea,
così per quella medesima linea la sua forma se ne va in quello
ch'ello mira: e molte volte, nel dirizzare di questa linea, discocca
l'arco di colui al quale ogni arme è leggiere. Però
quando dico che tal donna li vide, è tanto a dire
quanto che li occhi suoi e li miei si guardaro.
La seconda cosa che dice, si è che riprende la sua
disobedienza, quando dice: E perché non credeano a me di
lei? Poi procede a la terza cosa, e dice che non dee sé
riprendere di provvedimento, ma loro di non ubbidire; però che
dice che alcuna volta, di questa donna ragionando, dicesse: Ne li
occhi di costei doverebbe esser virtù sopra me, se ella avesse
aperta la via di venire; e questo dice quivi: Io dicea: Ben ne li
occhi di costei. E ben si dee credere che l'anima mia conoscea la
sua disposizione atta a ricevere l'atto di questa donna, e però
ne temea; ché l'atto de l'agente si prende nel disposto
paziente, sì come dice lo Filosofo nel secondo de l'Anima. E
però se la cera avesse spirito da temere, più temerebbe
di venire a lo raggio del sole che non farebbe la pietra, però
che la sua disposizione riceve quello per più forte
operazione.
Ultimamente manifesta l'anima nel suo parlare la presunzione loro
pericolosa essere stata, quando dice: E non mi valse ch'io ne
fossi accorta Che non mirasser tal, ch'io ne son morta. Non là
mirasser, dice, colui di cui prima detto avea: Colui che le
mie pari ancide. E così termina le sue parole, a le quali
risponde lo novo pensiero, sì come nel seguente capitolo si
dichiarerà.
Capitolo X
Dimostrata è la sentenza di quella parte ne la qual parla
l'anima, cioè l'antico pensiero che si corruppe. Ora
seguentemente si dee mostrare la sentenza de la parte ne la qual
parla lo pensiero nuovo avverso; e questa parte si contiene tutta nel
verso che comincia: Tu non se' morta. La qual parte, a bene
intendere, si vuole in due partire: che ne la prima lo pensiero
avverso riprende l'anima di viltade; e appresso comanda quello che
far dee quest'anima ripresa, cioè ne la seconda parte, che
comincia: Mira quant'ell'è pietosa.
Dice adunque, continuandosi a l'ultime sue parole: Non è vero
che tu sie morta; ma la cagione per che morta ti pare essere, si è
uno smarrimento nel quale se' caduta vilmente per questa donna che è
apparita: - e qui è da notare che, sì come dice Boezio
ne la sua Consolazione, "ogni subito movimento di cose non
avviene sanza alcuno discorrimento d'animo" -; e questo vuol
dire lo riprendere di questo pensiero. Lo quale si chiama "spiritello
d'amore" a dare a intendere che lo consentimento mio piegava
inver di lui; e così si può questo intendere
maggiormente, e conoscere la sua vittoria, quando dice già
"anima nostra", facendosi familiare di quella. Poi, com'è
detto, comanda quello che far dee quest'anima ripresa per venir lei a
sé, e lei dice: Mira quant'ell'è pietosa e umile;
ché sono proprio rimedio a la temenza, de la qual parea
l'anima passionata, due cose, e sono queste che, massimamente
congiunte, fanno de la persona bene sperare, e massimamente la
pietade, la quale fa risplendere ogni altra bontade col lume suo. Per
che Virgilio, d'Enea parlando, in sua maggiore loda pietoso lo
chiama. E non è pietade quella che crede la volgar gente, cioè
dolersi de l'altrui male, anzi è questo uno suo speziale
effetto, che si chiama misericordia ed è passione; ma pietade
non è passione, anzi è una nobile disposizione d'animo,
apparecchiata di ricevere amore, misericordia e altre caritative
passioni.
Poi
dice: Mira anco quanto è saggia e cortese ne la sua
grandezza. Or dice tre cose, le quali, secondo quelle che per noi
acquistar si possono, massimamente fanno la persona piacente. Dice
"saggia": or che è più bello in donna che
savere? Dice "cortese": nulla cosa sta più bene in
donna che cortesia. E non siano li miseri volgari anche di questo
vocabulo ingannati, che credono che cortesia non sia altro che
larghezza; e larghezza è una speziale, e non generale,
cortesia! Cortesia e onestade è tutt'uno: e però che ne
le corti anticamente le vertudi e li belli costumi s'usavano, sì
come oggi s'usa lo contrario, si tolse quello vocabulo da le corti, e
fu tanto a dire cortesia quanto uso di corte. Lo qual vocabulo se
oggi si togliesse da le corti, massimamente d'Italia, non sarebbe
altro a dire che turpezza. Dice ne la sua grandezza. La
grandezza temporale, de la quale qui s'intende, massimamente sta bene
accompagnata con le due predette bontadi, però ch'ell'apre
lume che mostra lo bene e l'altro de la persona chiaramente. E quanto
savere e quanto abito virtuoso non si pare per questo lume non avere!
e quanta matteria e quanti vizii si discernono per aver questo lume!
Meglio sarebbe a li miseri grandi, matti, stolti e viziosi, essere in
basso stato, ché né in mondo né dopo la vita
sarebbero tanto infamati. Veramente per costoro dice Salomone ne lo
Ecclesiaste: "E un'altra infermitade pessima vidi sotto lo sole,
cioè ricchezze conservate in male del loro signore". Poi
sussequentemente impone a lei, cioè a l'anima mia, che chiami
omai costei sua donna, promettendo a lei che di ciò assai si
contenterà, quando ella sarà de le sue adornezze
accorta; e questo dice quivi: Ché se tu non t'inganni, tu
vedrai. Né altro dice infino a la fine di questo verso. E
qui termina la sentenza litterale di tutto quello che in questa
canzone dico, parlando a quelle intelligenze celestiali.
Capitolo XI
Ultimamente, secondo che di sopra disse la littera di questo commento
quando partio le parti principali di questa canzone, io mi rivolgo
con la faccia del mio sermone a la canzone medesima, e a quella
parlo. E acciò che questa parte più pienamente sia
intesa, dico che generalmente si chiama in ciascuna canzone
"tornata", però che li dicitori che prima usaro di
farla, fenno quella perché, cantata la canzone, con certa
parte del canto ad essa si ritornasse. Ma io rade volte a quella
intenzione la feci, e, acciò che altri se n'accorgesse, rade
volte la puosi con l'ordine de la canzone, quanto è a lo
numero che a la nota è necessario; ma fecila quando alcuna
cosa in adornamento de la canzone era mestiero a dire, fuori de la
sua sentenza, sì come in questa e ne l'altre veder si potrà.
E però dico al presente che la bontade e la bellezza di
ciascuno sermone sono intra loro partite e diverse; ché la
bontade è ne la sentenza, e la bellezza è ne
l'ornamento de le parole; e l'una e l'altra è con diletto,
avvegna che la bontade sia massimamente dilettosa. Onde con ciò
sia cosa che la bontade di questa canzone fosse malagevole a sentire
per le diverse persone che in essa s'inducono a parlare, dove si
richeggiono molte distinzioni, e la bellezza fosse agevole a vedere,
parvemi mestiero a la canzone che per li altri si ponesse più
mente a la bellezza che a la bontade. E questo è quello che
dico in questa parte.
Ma però che molte fiate avviene che l'ammonire pare
presuntuoso, per certe condizioni suole lo rettorico indirettamente
parlare altrui, dirizzando le sue parole non a quello per cui dice,
ma verso un altro. E questo modo si tiene qui veramente; ché a
la canzone vanno le parole, e a li uomini la 'ntenzione. Dico
adunque: Io credo, canzone, che radi sono, cioè pochi, quelli
che intendano te bene. E dico la cagione, la quale è doppia.
Prima: però che faticosa parli - "faticosa" dico per
la cagione che detta è -; poi: però che forte parli -
"forte" dico quanto a la novitade de la sentenza -. Ora
appresso ammonisco lei e dico: Se per avventura incontra che tu vadi
là dove persone siano che dubitare ti paiano ne la tua
ragione, non ti smarrire, ma dì loro: Poi che non vedete la
mia bontade, ponete mente almeno la mia bellezza. Che non voglio in
ciò altro dire, secondo ch'è detto di sopra, se non: O
uomini, che vedere non potete la sentenza di questa canzone, non la
rifiutate però; ma ponete mente la sua bellezza, ch'è
grande sì per construzione, la quale si pertiene a li
gramatici, sì per l'ordine del sermone, che si pertiene a li
rettorici, sì per lo numero de le sue parti, che si pertiene a
li musici. Le quali cose in essa si possono belle vedere, per chi ben
guarda. E questa è tutta la litterale sentenza de la prima
canzone, che è per prima vivanda intesa innanzi.
Capitolo XII
Poi che la litterale sentenza è sufficientemente dimostrata, è da procedere a la esposizione allegorica e vera. E però, principiando ancora da capo, dico che, come per me fu perduto lo primo diletto de la mia anima, de la quale fatta è menzione di sopra, io rimasi di tanta tristizia punto, che conforto non mi valeva alcuno. Tuttavia, dopo alquanto tempo, la mia mente, che si argomentava di sanare, provide, poi che né 'l mio né l'altrui consolare valea, ritornare al modo che alcuno sconsolato avea tenuto a consolarsi; e misimi a leggere quello non conosciuto da molti libro di Boezio, nel quale, cattivo e discacciato, consolato s'avea. E udendo ancora che Tullio scritto avea un altro libro, nel quale, trattando de l'Amistade, avea toccate parole de la consolazione di Lelio, uomo eccellentissimo, ne la morte di Scipione amico suo, misimi a leggere quello. E avvegna che duro mi fosse ne la prima entrare ne la loro sentenza, finalmente v'entrai tanto entro, quanto l'arte di gramatica ch'io avea e un poco di mio ingegno potea fare; per lo quale ingegno molte cose, quasi come sognando, già vedea, sì come ne la Vita Nuova si può vedere. E sì come essere suole che l'uomo va cercando argento e fuori de la 'ntenzione truova oro, lo quale occulta cagione presenta, non forse sanza divino imperio; io, che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocabuli d'autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. E imaginava lei fatta come una donna gentile, e non la poteva imaginare in atto alcuno se non misericordioso; per che sì volontieri lo senso di vero la mirava, che appena lo potea volgere da quella. E da questo imaginare cominciai ad andare là dov'ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti. Sì che in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero. Per che io, sentendomi levare dal pensiero del primo amore a la virtù di questo, quasi maravigliandomi apersi la bocca nel parlare de la proposta canzone, mostrando la mia condizione sotto figura d'altre cose: però che de la donna di cu' io m'innamorava non era degna rima di volgare alcuna palesemente poetare; né li uditori erano tanto bene disposti, che avessero sì leggiere le non fittizie parole apprese; né sarebbe data loro fede a la sentenza vera, come a la fittizia, però che di vero si credea del tutto che disposto fosse a quello amore, che non si credeva di questo. Cominciai dunque a dire: Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete. E perché, sì come detto è, questa donna figlia di Dio, regina di tutto, nobilissima e bellissima Filosofia, è da vedere chi furono questi movitori, e questo terzo cielo. E prima del cielo, secondo l'ordine trapassato. E non è qui mestiere di procedere dividendo, e a littera esponendo; ché, volta la parola fittizia di quello ch'ella suona in quello ch'ella 'ntende, per la passata sposizione questa sentenza ha sufficientemente palese.
Capitolo XIII
A vedere quello che per lo terzo cielo s'intende, prima si vuol
vedere che per questo solo vocabulo "cielo" io voglio dire;
e poi si vedrà come e perché questo terzo cielo ci fu
mestiere. Dico che per cielo io intendo la scienza e per cieli le
scienze, per tre similitudini che li cieli hanno con le scienze
massimamente; e per l'ordine e numero in che paiono convenire, sì
come trattando quello vocabulo, cioè "terzo", si
vedrà.
La
prima similitudine si è la revoluzione de l'uno e de l'altro
intorno a uno suo immobile. Ché ciascuno cielo mobile si volge
intorno al suo centro, lo quale, quanto per lo suo movimento, non si
muove; e così ciascuna scienza si muove intorno al suo
subietto, lo quale essa non muove, però che nulla scienza
dimostra lo proprio subietto, ma suppone quello. La seconda
similitudine si è lo illuminare de l'uno e de l'altro; ché
ciascuno cielo illumina le cose visibili, e così ciascuna
scienza illumina le intelligibili. E la terza similitudine si è
lo inducere perfezione ne le disposte cose. De la quale induzione,
quanto a la prima perfezione, cioè de la generazione
sustanziale, tutti li filosofi concordano che li cieli siano cagione,
avvegna che diversamente questo pongano: quali da li motori, sì
come Plato, Avicenna e Algazel; quali da esse stelle, spezialmente
l'anime umane, sì come Socrate, e anche Plato e Dionisio
Academico; e quali da vertude celestiale che è nel calore
naturale del seme, sì come Aristotile e li altri Peripatetici.
Così de la induzione de la perfezione seconda le scienze sono
cagione in noi; per l'abito de le quali potemo la veritade speculare,
che è ultima perfezione nostra, sì come dice lo
Filosofo nel sesto de l'Etica, quando dice che 'l vero è lo
bene de lo intelletto. Per queste, con altre similitudini molte, si
può la scienza "cielo" chiamare. Ora perché
"terzo" cielo si dica è da vedere. A che è
mestiere fare considerazione sovra una comparazione che è ne
l'ordine de li cieli a quello de le scienze. Sì come adunque
di sopra è narrato, li sette cieli primi a noi sono quelli de
li pianeti; poi sono due cieli sopra questi, mobili, e uno sopra
tutti, quieto. A li sette primi rispondono le sette scienze del
Trivio e del Quadruvio, cioè Gramatica, Dialettica, Rettorica,
Arismetrica, Musica, Geometria e Astrologia. A l'ottava spera, cioè
a la stellata, risponde la scienza naturale, che Fisica si chiama, e
la prima scienza, che si chiama Metafisica; a la nona spera risponde
la scienza morale; ed al cielo quieto risponde la scienza divina, che
è Teologia appellata. E ragione per che ciò sia,
brievemente è da vedere.
Dico che 'l cielo de la Luna con la Gramatica si somiglia per due
proprietadi, per che ad esso si può comparare. Che se la Luna
si guarda bene, due cose si veggiono in essa proprie, che non si
veggiono ne l'altre stelle: l'una sì è l'ombra che è
in essa, la quale non è altro che raritade del suo corpo, a la
quale non possono terminare li raggi del sole e ripercuotersi così
come ne l'altre parti; l'altra si è la variazione de la sua
luminositade, che ora luce da uno lato, e ora luce da un altro,
secondo che lo sole la vede. E queste due proprietadi hae la
Gramatica: ché, per la sua infinitade, li raggi de la ragione
in essa non si terminano, in parte spezialmente de li vocabuli; e
luce or di qua or di là in tanto quanto certi vocabuli, certe
declinazioni, certe construzioni sono in uso che già non
furono, e molte già furono che ancor saranno: sì come
dice Orazio nel principio de la Poetria quando dice: "Molti
vocabuli rinasceranno che già caddero".
E lo cielo di Mercurio si può comparare a la Dialettica per
due proprietadi: che Mercurio è la più picciola stella
del cielo, ché la quantitade del suo diametro non è più
che di dugento trentadue miglia, secondo che pone Alfagrano, che dice
quello essere de le ventotto parti una del diametro de la terra, lo
quale è sei milia cinquecento miglia: l'altra proprietade si è
che più va velata de li raggi del Sole che null'altra stella.
E queste due proprietadi sono ne la Dialettica: ché la
Dialettica è minore in suo corpo che null'altra scienza, ché
perfettamente è compilata e terminata in quello tanto testo
che ne l'Arte vecchia e ne la Nuova si truova; e va più velata
che nulla scienza, in quanto procede con più sofistici e
probabili argomenti più che altra.
E lo cielo di Venere si può comparare a la Rettorica per due
proprietadi: l'una sì è la chiarezza del suo aspetto,
che è soavissima a vedere più che altra stella; l'altra
sì è la sua apparenza, or da mane or da sera. E queste
due proprietadi sono ne la Rettorica: ché la Rettorica è
soavissima di tutte le altre scienze, però che a ciò
principalmente intende; e appare da mane, quando dinanzi al viso de
l'uditore lo rettorico parla, appare da sera, cioè retro,
quando da lettera, per la parte remota, si parla per lo
rettorico.
E lo
cielo del Sole si può comparare a l'Arismetrica per due
proprietadi: l'una si è che del suo lume tutte l'altre stelle
s'informano; l'altra si è che l'occhio nol può mirare.
E queste due proprietadi sono ne l'Arismetrica: ché del suo
lume tutte s'illuminano le scienze, però che li loro subietti
sono tutti sotto alcuno numero considerati, e ne le considerazioni di
quelli sempre con numero si procede. Sì come ne la scienza
naturale è subietto lo corpo mobile, lo quale corpo mobile ha
in sé ragione di continuitade, e questa ha in sé
ragione di numero infinito; e la sua considerazione principalissima è
considerare li principii de le cose naturali, li quali sono tre, cioè
materia, privazione e forma, ne li quali si vede questo numero. Non
solamente in tutti insieme, ma ancora in ciascuno è numero,
chi ben considera sottilmente; per che Pittagora, secondo che dice
Aristotile nel primo de la Fisica, poneva li principii de le cose
naturali lo pari e lo dispari, considerando tutte le cose esser
numero. L'altra proprietade del Sole ancor si vede nel numero, del
quale è l'Arismetrica: che l'occhio de lo 'ntelletto nol può
mirare; però che 'l numero, quant'è in sé
considerato, è infinito, e questo non potemo noi
intendere.
E lo
cielo di Marte si può comparare a la Musica per due
proprietadi: l'una si è la sua più bella relazione,
ché, annumerando li cieli mobili, da qualunque si comincia o
da l'infimo o dal sommo, esso cielo di Marte è lo quinto, esso
è lo mezzo di tutti, cioè de li primi, de li secondi,
de li terzi e de li quarti. L'altra si è che esso Marte, sì
come dice Tolomeo nel Quadripartito, dissecca e arde le cose, perché
lo suo calore è simile a quello del fuoco; e questo è
quello per che esso pare affocato di colore, quando più e
quando meno, secondo la spessezza e raritade de li vapori che 'l
seguono: li quali per lor medesimi molte volte s'accendono, sì
come nel primo de la Metaura è diterminato. E però dice
Albumasar che l'accendimento di questi vapori significa morte di regi
e transmutamento di regni; però che sono effetti de la
segnoria di Marte. E Seneca dice però, che ne la morte
d'Augusto imperadore vide in alto una palla di fuoco; e in Fiorenza,
nel principio de la sua destruzione, veduta fu ne l'aere, in figura
d'una croce, grande quantità di questi vapori seguaci de la
stella di Marte. E queste due proprietadi sono ne la Musica, la quale
è tutta relativa, sì come si vede ne le parole
armonizzate e ne li canti, de' quali tanto più dolce armonia
resulta, quanto più la relazione è bella: la quale in
essa scienza massimamente è bella, perché massimamente
in essa s'intende. Ancora, la Musica trae a sé li spiriti
umani, che quasi sono principalmente vapori del cuore, sì che
quasi cessano da ogni operazione: sì è l'anima intera,
quando l'ode, e la virtù di tutti quasi corre a lo spirito
sensibile che riceve lo suono.
E lo cielo di Giove si può comparare a la Geometria per due
proprietadi: l'una sì è che muove tra due cieli
repugnanti a la sua buona temperanza, sì come quello di Marte
e quello di Saturno; onde Tolomeo dice, ne lo allegato libro, che
Giove è stella di temperata complessione, in mezzo de la
freddura di Saturno e de lo calore di Marte; l'altra sì è
che intra tutte le stelle bianca si mostra, quasi argentata. E queste
cose sono ne la scienza de la Geometria. La Geometria si muove intra
due repugnanti a essa, sì come 'l punto e lo cerchio - e dico
"cerchio" largamente ogni ritondo, o corpo o superficie -;
ché, sì come dice Euclide, lo punto è principio
di quella, e, secondo che dice, lo cerchio è perfettissima
figura in quella, che conviene però avere ragione di fine. Sì
che tra 'l punto e lo cerchio sì come tra principio e fine si
muove la Geometria, e questi due a la sua certezza repugnano; ché
lo punto per la sua indivisibilitade è immensurabile, e lo
cerchio per lo suo arco è impossibile a quadrare
perfettamente, e però è impossibile a misurare a punto.
E ancora la Geometria è bianchissima, in quanto è sanza
macula d'errore e certissima per sé e per la sua ancella, che
si chiama Perspettiva.
E lo cielo di Saturno hae due proprietadi per le quali si può
comparare a l'Astrologia: l'una sì è la tardezza del
suo movimento per li dodici segni, ché ventinove anni e più,
secondo le scritture de li astrologi, vuole di tempo lo suo cerchio;
l'altra sì è che sopra tutti li altri pianeti esso è
alto. E queste due proprietadi sono ne l'Astrologia: ché nel
suo cerchio compiere, cioè ne lo apprendimento di quella,
volge grandissimo spazio di tempo, sì per le sue
dimostrazioni, che sono più che d'alcuna de le sopra dette
scienze, sì per la esperienza che a ben giudicare in essa si
conviene. E ancora è altissima di tutte le altre, però
che, sì come dice Aristotile nel cominciamento de l'Anima, la
scienza è alta di nobilitade per la nobilitade del suo
subietto e per la sua certezza; e questa più che alcuna de le
sopra dette è nobile e alta per nobile e alto subietto, ch'è
de lo movimento del cielo; e alta e nobile per la sua certezza, la
quale è sanza ogni difetto, sì come quella che da
perfettissimo e regolatissimo principio viene. E se difetto in lei si
crede per alcuno, non è da la sua parte, ma, sì come
dice Tolomeo, è per la negligenza nostra, e a quella si dee
imputare.
Capitolo XIV
Appresso le comparazioni fatte de li sette primi cieli, è da
procedere a li altri, che sono tre, come più volte s'è
narrato. Dico che lo Cielo stellato si puote comparare a la Fisica
per tre proprietadi, e a la Metafisica per altre tre: ch'ello ci
mostra di sé due visibili cose, sì come le molte
stelle, e sì come la Galassia, cioè quello bianco
cerchio che lo vulgo chiama la Via di Sa'Iacopo; e mostraci l'uno de
li poli, e l'altro tiene ascoso; e mostraci uno suo movimento, da
oriente ad occidente, e un altro, che fa da occidente ad oriente,
quasi ci tiene ascoso. Per che per ordine è da vedere prima la
comparazione de la Fisica, e poi quella de la Metafisica.
Dico che lo Cielo stellato ci mostra molte stelle: ché,
secondo che li savi d'Egitto hanno veduto, infino a l'ultima stella
che appare loro in meridie, mille ventidue corpora di stelle pongono,
di cui io parlo. Ed in questo ha esso grandissima similitudine con la
Fisica, se bene si guardano sottilmente questi tre numeri, cioè
due e venti e mille. Ché per lo due s'intende lo movimento
locale, lo quale è da uno punto ad un altro di necessitade. E
per lo venti significa lo movimento de l'alterazione; ché, con
ciò sia cosa che, dal diece in su, non si vada se non esso
diece alterando con gli altri nove e con se stesso, e la più
bella alterazione che esso riceva sia la sua di se medesimo, e la
prima che riceve sia venti, ragionevolemente per questo numero lo
detto movimento significa. E per lo mille significa lo movimento del
crescere; ché in nome, cioè questo "mille", è
lo maggiore numero, e più crescere non si può se non
questo multiplicando. E questi tre movimenti soli mostra la Fisica,
sì come nel quinto del primo suo libro è
provato.
E per la
Galassia ha questo cielo similitudine grande con la Metafisica. Per
che è da sapere che di quella Galassia li filosofi hanno avute
diverse oppinioni. Ché li Pittagorici dissero che 'l Sole
alcuna fiata errò ne la sua via e, passando per altre parti
non convenienti al suo fervore, arse lo luogo per lo quale passò,
e rimasevi quella apparenza de l'arsura: e credo che si mossero da la
favola di Fetonte, la quale narra Ovidio nel principio del secondo di
Metamorfoseos. Altri dissero, sì come fu Anassagora e
Democrito, che ciò era lume di sole ripercusso in quella
parte, e queste oppinioni con ragioni dimostrative riprovaro. Quello
che Aristotile si dicesse non si può bene sapere di ciò,
però che la sua sentenza non si truova cotale ne l'una
translazione come ne l'altra. E credo che fosse lo errore de li
translatori; ché ne la Nuova pare dicere che ciò sia
uno ragunamento di vapori sotto le stelle di quella parte, che sempre
traggono quelli: e questo non pare avere ragione vera. Ne la Vecchia
dice che la Galassia non è altro che moltitudine di stelle
fisse in quella parte, tanto picciole che distinguere di qua giù
non le potemo, ma di loro apparisce quello albore, lo quale noi
chiamiamo Galassia: e puote essere, ché lo cielo in quella
parte è più spesso, e però ritiene e ripresenta
quello lume. E questa oppinione pare avere, con Aristotile, Avicenna
e Tolomeo. Onde, con ciò sia cosa che la Galassia sia uno
effetto di quelle stelle le quali non potemo vedere, se non per lo
effetto loro intendiamo quelle cose, e la Metafisica tratti de le
prime sustanzie, le quali noi non potemo simigliantemente intendere
se non per li loro effetti, manifesto è che 'l Cielo stellato
ha grande similitudine con la Metafisica.
Ancora: per lo polo che vedemo significa le cose sensibili, de le
quali, universalmente pigliandole, tratta la Fisica; e per lo polo
che non vedemo significa le cose che sono sanza materia, che non sono
sensibili, de le quali tratta la Metafisica: e però ha lo
detto cielo grande similitudine con l'una scienza e con l'altra.
Ancora: per li due movimenti significa queste due scienze. Ché
per lo movimento ne lo quale ogni die si rivolve, e fa nova
circulazione di punto a punto, significa le cose naturali
corruttibili, che cotidianamente compiono loro via, e la loro materia
si muta di forma in forma; e di queste tratta la Fisica. E per lo
movimento quasi insensibile che fa da occidente in oriente per uno
grado in cento anni, significa le cose incorruttibili, le quali
ebbero da Dio cominciamento di creazione e non averanno fine: e di
queste tratta la Metafisica. Però dice che questo movimento
significa quelle, che essa circulazione cominciò e non
averebbe fine; ché fine de la circulazione è redire ad
uno medesimo punto, al quale non tornerà questo cielo, secondo
questo movimento. Ché dal cominciamento del mondo poco più
de la sesta parte è volto; e noi siamo già ne l'ultima
etade del secolo, e attendemo veracemente la consummazione del
celestiale movimento. E così è manifesto che lo Cielo
stellato, per molte proprietadi, si può comparare a la Fisica
e a la Metafisica.
Lo Cielo cristallino, che per Primo Mobile dinanzi è contato,
ha comparazione assai manifesta a la Morale Filosofia; ché
Morale Filosofia, secondo che dice Tommaso sopra lo secondo de
l'Etica, ordina noi a l'altre scienze. Ché, sì come
dice lo Filosofo nel quinto de l'Etica, "la giustizia legale
ordina le scienze ad apprendere, e comanda, perché non siano
abbandonate, quelle essere apprese e ammaestrate"; e così
lo detto cielo ordina col suo movimento la cotidiana revoluzione di
tutti li altri, per la quale ogni die tutti quelli ricevono e mandano
qua giù la vertude di tutte le loro parti. Che se la
revoluzione di questo non ordinasse ciò, poco di loro vertude
qua giù verrebbe o di loro vista. Onde ponemo che possibile
fosse questo nono cielo non muovere, la terza parte del cielo
stellato sarebbe ancora non veduta in ciascuno luogo de la terra; e
Saturno sarebbe quattordici anni e mezzo a ciascuno luogo de la terra
celato, e Giove sei anni quasi si celerebbe, e Marte uno anno quasi,
e lo Sole centottantadue dì e quattordici ore (dico dì,
cioè tanto tempo quanto misurano cotanti dì), e Venere
e Mercurio quasi come lo Sole si celerebbe e mosterrebbe, e la Luna
per tempo di quattordici dì e mezzo starebbe ascosa ad ogni
gente. E da vero non sarebbe qua giù generazione né
vita d'animale o di piante: notte non sarebbe né die, né
settimana né mese né anno, ma tutto l'universo sarebbe
disordinato, e lo movimento de li altri sarebbe indarno. E non
altrimenti, cessando la Morale Filosofia, l'altre scienze sarebbero
celate alcuno tempo, e non sarebbe generazione né vita di
felicitade, e indarno sarebbero scritte e per antico trovate. Per che
assai è manifesto, questo cielo per sé avere a la
Morale Filosofia comparazione.
Ancora: lo Cielo empireo per la sua pace simiglia la Divina Scienza,
che piena è di tutta pace; la quale non soffera lite alcuna
d'oppinioni o di sofistici argomenti, per la eccellentissima certezza
del suo subietto, lo quale è Dio. E di questa dice esso a li
suoi discepoli: "La pace mia do a voi, la pace mia lascio a
voi", dando e lasciando a loro la sua dottrina, che è
questa scienza di cu' io parlo. Di costei dice Salomone: "Sessanta
sono le regine, e ottanta l'amiche concubine; e de le ancille
adolescenti non è numero: una è la colomba mia e la
perfetta mia". Tutte scienze chiama regine e drude e ancille; e
questa chiama colomba perché è sanza macula di lite, e
questa chiama perfetta perché perfettamente ne fa il vero
vedere nel quale si cheta l'anima nostra. E però, ragionata
così la comparazione de li cieli a le scienze, vedere si può
che per lo terzo cielo io intendo la Rettorica, la quale al terzo
cielo è simigliata, come di sopra pare.
Capitolo XV
Per le ragionate similitudini si può vedere chi sono questi
movitori a cu' io parlo, che sono di quello movitori, sì come
Boezio e Tullio, li quali con la dolcezza di loro sermone inviarono
me, come è detto di sopra, ne lo amore, cioè ne lo
studio, di questa donna gentilissima Filosofia, con li raggi de la
stella loro, la quale è la scrittura di quella: onde in
ciascuna scienza la scrittura è stella piena di luce, la quale
quella scienza dimostra. E, manifesto questo, vedere si può la
vera sentenza del primo verso de la canzone proposta, per la
esposizione fittizia e litterale. E per questa medesima esposizione
si può lo secondo verso intendere sufficientemente, infino a
quella parte dove dice: Questi mi face una donna guardare. Ove
si vuole sapere che questa donna è la Filosofia; la quale
veramente è donna piena di dolcezza, ornata d'onestade,
mirabile di savere, gloriosa di libertade, sì come nel terzo
trattato, dove la sua nobilitade si tratterà, ha manifesto. E
là dove dice: Chi veder vuol la salute, Faccia che li occhi
d'esta donna miri, li occhi di questa donna sono le sue
demonstrazioni, le quali, dritte ne li occhi de lo 'ntelletto,
innamorano l'anima, liberata da le contradizioni. O dolcissimi e
ineffabili sembianti, e rubatori subitani de la mente umana, che ne
le mostrazioni de li occhi de la Filosofia apparite, quando essa con
li suoi drudi ragiona! Veramente in voi è la salute, per la
quale si fa beato chi vi guarda, e salvo da la morte de la ignoranza
e da li vizii. Ove si dice: Sed e' non teme angoscia di sospiri,
qui si vuole intendere "se elli non teme labore di studio e lite
di dubitazioni", le quali dal principio de li sguardi di questa
donna multiplicatamente surgono, e poi, continuando la sua luce,
caggiono, quasi come nebulette matutine a la faccia del sole; e
rimane libero e pieno di certezza lo familiare intelletto, sì
come l'aere da li raggi meridiani purgato e illustrato.
Lo terzo verso ancora s'intende per la sposizione litterale infino là
dove dice: L'anima piange. Qui si vuole bene attendere ad
alcuna moralitade, la quale in queste parole si può notare:
che non dee l'uomo, per maggiore amico, dimenticare li servigi
ricevuti dal minore; ma se pur seguire si conviene l'uno e lasciar
l'altro, lo migliore è da seguire, con alcuna onesta
lamentanza l'altro abbandonando, ne la quale dà cagione, a
quello che segue, di più amore. Poi dove dice: De li occhi
miei, non vuole altro dire, se non che forte fu l'ora che la
prima demonstrazione di questa donna entrò ne li occhi de lo
'ntelletto mio, la quale fu cagione di questo innamoramento
propinquissima. E là dove dice: le mie pari, s'intende
l'anime libere de le misere e vili delettazioni e de li vulgari
costumi, d'ingegno e di memoria dotate. E dice poi: ancide; e
dice poi: son morta; che pare contro a quello che detto è
di sopra de la salute di questa donna. E però è da
sapere che qui parla l'una de le parti, e là parla l'altra; le
quali diversamente litigano, secondo che di sopra è manifesto.
Onde non è maraviglia se là dice "sì",
e qui dice "no", se bene si guarda chi discende e chi
sale.
Poi nel
quarto verso, dove dice: uno spiritel d'amore, s'intende uno
pensiero che nasce del mio studio. Onde è da sapere che per
amore, in questa allegoria, sempre s'intende esso studio, lo quale è
applicazione de l'animo innamorato de la cosa a quella cosa. Poi
quando dice: tu vedrai Di sì alti miracoli adornezza,
annunzia che per lei si vedranno li adornamenti de li miracoli: e
vero dice, ché li adornamenti de le maraviglie è vedere
le cagioni di quelle; le quali ella dimostra, sì come nel
principio de la Metafisica pare sentire lo Filosofo, dicendo che, per
questi adornamenti vedere, cominciaro li uomini ad innamorare di
questa donna. E di questo vocabulo, cioè "maraviglia",
nel seguente trattato più pienamente si parlerà. Tutto
l'altro che segue poi di questa canzone, sofficientemente è
per l'altra esposizione manifesto. E così, in fine di questo
secondo trattato, dico e affermo che la donna di cu' io innamorai
appresso lo primo amore fu la bellissima e onestissima figlia de lo
Imperadore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome Filosofia.
E qui si termina lo secondo trattato, che è ordinato a sponere
la canzone che per prima vivanda è messa innanzi.
adornamenti vedere, cominciaro li uomini ad innamorare di questa donna. E di questo vocabulo, cioè "maraviglia", nel seguente trattato più pienamente si parlerà. Tutto l'altro che segue poi di questa canzone, sofficientemente è per l'altra esposizione manifesto. E così, in fine di questo secondo trattato, dico e affermo che la donna di cu' io innamorai appresso lo primo amore fu la bellissima e onestissima figlia de lo Imperadore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome Filosofia. E qui si termina lo secondo trattato, che è ordinato a sponere la canzone che per prima vivanda è messa innanzi.
TRATTATO III
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Canzone |
Amor che ne la mente mi ragiona
S'io vo' trattar di quel ch'odo di lei,
Non vede il sol, che tutto 'l mondo gira,
Che 'nfonde sempre in lei la sua vertute
Sì come face in angelo che 'l vede;
In quella voce che lo fa sentire.
Dico ne li occhi e nel suo dolce riso,
E rompon come trono
Che questa donna che tanto umil fai
Ché l'anima temea, |
</div>
Capitolo I
Così come nel precedente trattato si ragiona, lo mio secondo
amore prese cominciamento da la misericordiosa sembianza d'una donna.
Lo quale amore poi, trovando la mia disposta vita al suo ardore, a
guisa di fuoco, di picciolo in grande fiamma s'accese; sì che
non solamente vegghiando, ma dormendo, lume di costei ne la mia testa
era guidato. E quanto fosse grande lo desiderio che Amore di vedere
costei mi dava, né dire né intendere si potrebbe. E non
solamente di lei era così disidiroso, ma di tutte quelle
persone che alcuna prossimitade avessero a lei, o per familiaritade o
per parentela alcuna. Oh quante notti furono, che li occhi de l'altre
persone chiusi dormendo si posavano, che li miei ne lo abitaculo del
mio amore fisamente miravano! E sì come lo multiplicato
incendio pur vuole di fuori mostrarsi, che stare ascoso è
impossibile, volontade mi giunse di parlare d'amore, la quale del
tutto tenere non potea. E avvegna che poca podestade io potesse avere
di mio consiglio, pure in tanto, o per volere d'Amore o per mia
prontezza, ad esso m'accostai per più fiate, che io deliberai
e vidi che, d'amor parlando, più bello né più
profittabile sermone non era che quello nel quale si commendava la
persona che s'amava.
E a questo deliberamento tre ragioni m'informaro: de le quali l'una
fu lo proprio amore di me medesimo, lo quale è principio di
tutti li altri, sì come vede ciascuno. Ché più
licito né più cortese modo di fare a se medesimo altri
onore non è, che onorare l'amico. Ché con ciò
sia cosa che intra dissimili amistà essere non possa, dovunque
amistà si vede similitudine s'intende; e dovunque similitudine
s'intende corre comune la loda e lo vituperio. E di questa ragione
due grandi ammaestramenti si possono intendere: l'uno si è di
non volere che alcuno vizioso si mostri amico, perché in ciò
si prende oppinione non buona di colui cui amico si fa; l'altro sì
è, che nessuno dee l'amico suo biasimare palesemente, però
che a se medesimo dà del dito ne l'occhio, se ben si mira la
predetta ragione. La seconda ragione fu lo desiderio de la durazione
di questa amistade. Onde è da sapere che, sì come dice
lo Filosofo nel nono de l'Etica, ne l'amistade de le persone
dissimili di stato conviene, a conservazione di quella, una
proporzione essere intra loro che la dissimilitudine a similitudine
quasi reduca. Sì com'è intra lo signore e lo servo:
ché, avvegna che lo servo non possa simile beneficio rendere a
lo signore quando da lui è beneficiato, dee però
rendere quello che migliore può con tanta sollicitudine di
prontezza, che quello che è dissimile per sé si faccia
simile per lo mostramento de la buona volontade; la quale manifesta,
l'amistade si ferma e si conserva. Per che io, considerando me minore
che questa donna, e veggendo me beneficiato da lei, proposi di lei
commendare secondo la mia facultade, la quale, se non simile è
per sé, almeno la pronta volontade mostra; ché, se più
potesse, più farei: e così si fa simile a quella di
questa gentil donna. La terza ragione fu uno argomento di provedenza;
ché, sì come dice Boezio, "non basta di guardare
pur quello che è dinanzi a li occhi", cioè lo
presente, e però n'è data la provedenza che riguarda
oltre, a quello che può avvenire. Dico che pensai che da
molti, di retro da me, forse sarei stato ripreso di levezza d'animo,
udendo me essere dal primo amore mutato; per che, a torre via questa
riprensione, nullo migliore argomento era che dire quale era quella
donna che m'avea mutato. Ché, per la sua eccellenza manifesta,
avere si può considerazione de la sua virtude; e per lo
'ntendimento de la sua grandissima virtù si può pensare
ogni stabilitade d'animo essere a quella mutabile e però me
non giudicare lieve e non stabile. Impresi dunque a lodare questa
donna, e se non come si convenisse, almeno innanzi quanto io potesse;
e cominciai a dire: Amor che ne la mente mi ragiona.
Questa canzone principalmente ha tre parti. La prima è tutto
lo primo verso, nel quale proemialmente si parla. La seconda sono
tutti e tre li versi seguenti, ne li quali si tratta quello che dire
s'intende, cioè la loda di questa gentile; lo primo de li
quali comincia: Non vede il sol, che tutto 'l mondo gira. La
terza parte è lo quinto e l'ultimo verso, nel quale,
dirizzando le parole a la canzone, purgo lei d'alcuna dubitanza. E di
queste tre parti per ordine è da ragionare.
Capitolo II
Faccendomi dunque da la prima parte, che proemio di questa canzone fu
ordinata, dico che dividere in tre parti si conviene. Che prima si
tocca la ineffabile condizione di questo tema; secondamente si narra
la mia insufficienza a questo perfettamente trattare: e comincia
questa seconda parte: E certo e' mi convien lasciare in pria;
ultimamente mi scuso da insufficienza, ne la quale non si dee porre a
me colpa: e questo comincio quando dico: Però, se le mie
rime avran difetto.
Dice adunque: Amor che ne la mente mi ragiona; dove
principalmente è da vedere chi è questo ragionatore, e
che è questo loco nel quale dico esso ragionare. Amore,
veramente pigliando e sottilmente considerando, non è altro
che unimento spirituale de l'anima e de la cosa amata; nel quale
unimento di propia sua natura l'anima corre tosto e tardi, secondo
che è libera o impedita. E la ragione di questa naturalitade
può essere questa. Ciascuna forma sustanziale procede da la
sua prima cagione, la quale è Iddio, sì come nel libro
Di Cagioni è scritto, e non ricevono diversitade per quella,
che è semplicissima, ma per le secondarie cagioni e per la
materia in che discende. Onde nel medesimo libro si scrive, trattando
de la infusione de la bontà divina: "E fannosi diverse le
bontadi e li doni per lo concorrimento de la cosa che riceve".
Onde, con ciò sia cosa che ciascuno effetto ritegna de la
natura de la sua cagione - sì come dice Alpetragio quando
afferma che quello che è causato da corpo circulare ne ha in
alcuno modo circulare essere -, ciascuna forma ha essere de la divina
natura in alcun modo: non che la divina natura sia divisa e
comunicata in quelle, ma da quelle è participata per lo modo
quasi che la natura del sole è participata ne l'altre stelle.
E quanto la forma è più nobile, tanto più di
questa natura tiene; onde l'anima umana, che è forma
nobilissima di queste che sotto lo cielo sono generate, più
riceve de la natura divina che alcun'altra. E però che
naturalissimo è in Dio volere essere - però che, sì
come ne lo allegato libro si legge, "prima cosa è
l'essere, e anzi a quello nulla è" -, l'anima umana
essere vuole naturalmente con tutto desiderio; e però che 'l
suo essere dipende da Dio e per quello si conserva, naturalmente
disia e vuole essere a Dio unita per lo suo essere fortificare. E
però che ne le bontadi de la natura e de la ragione si mostra
la divina, viene che naturalmente l'anima umana con quelle per via
spirituale si unisce, tanto più tosto e più forte
quanto quelle più appaiono perfette: lo quale apparimento è
fatto secondo che la conoscenza de l'anima è chiara o
impedita. E questo unire è quello che noi dicemo amore, per lo
quale si può conoscere quale è dentro l'anima, veggendo
di fuori quelli che ama. Questo amore, cioè l'unimento de la
mia anima con questa gentil donna, ne la quale de la divina luce
assai mi si mostrava, è quello ragionatore del quale io dico;
poi che da lui continui pensieri nasceano, miranti e esaminanti lo
valore di questa donna che spiritualmente fatta era con la mia anima
una cosa.
Lo loco
nel quale dico esso ragionare sì è la mente; ma per
dire che sia la mente, non si prende di ciò più
intendimento che di prima, e però è da vedere che
questa mente propriamente significa. Dico adunque che lo Filosofo nel
secondo de l'Anima, partendo le potenze di quella, dice che l'anima
principalmente hae tre potenze, cioè vivere, sentire e
ragionare: e dice anche muovere; ma questa si può col sentire
fare una, però che ogni anima che sente, o con tutti i sensi o
con alcuno solo, si muove; sì che muovere è una potenza
congiunta col sentire. E secondo che esso dice, è
manifestissimo che queste potenze sono intra sé per modo che
l'una è fondamento de l'altra; e quella che è
fondamento puote per sé essere partita, ma l'altra, che si
fonda sopra essa, non può da quella essere partita. Onde la
potenza vegetativa, per la quale si vive, è fondamento sopra
'l quale si sente, cioè vede, ode, gusta, odora e tocca; e
questa vegetativa potenza per sé puote essere anima, sì
come vedemo ne le piante tutte. La sensitiva sanza quella essere non
puote, e non si truova in alcuna cosa che non viva; e questa
sensitiva potenza è fondamento de la intellettiva, cioè
de la ragione: e però ne le cose animate mortali la
ragionativa potenza sanza la sensitiva non si truova, ma la sensitiva
si truova sanza questa, sì come ne le bestie, ne li uccelli,
ne' pesci e in ogni animale bruto vedemo. E quella anima che tutte
queste potenze comprende, e è perfettissima di tutte l'altre,
è l'anima umana, la quale con la nobilitade de la potenza
ultima, cioè ragione, participa de la divina natura a guisa di
sempiterna intelligenzia; però che l'anima è tanto in
quella sovrana potenza nobilitata e dinudata da materia, che la
divina luce, come in angelo, raggia in quella: e però è
l'uomo divino animale da li filosofi chiamato. In questa nobilissima
parte de l'anima sono più vertudi, sì come dice lo
Filosofo massimamente nel sesto de l'Etica; dove dice che in essa è
una vertù che si chiama scientifica, e una che si chiama
ragionativa, o vero consigliativa: e con queste sono certe vertudi -
sì come in quello medesimo luogo Aristotile dice - sì
come la vertù inventiva e giudicativa. E tutte queste
nobilissime vertudi, e l'altre che sono in quella eccellentissima
potenza, sì chiama insieme con questo vocabulo del quale si
volea sapere che fosse, cioè mente. Per che è manifesto
che per mente s'intende questa ultima e nobilissima parte de
l'anima.
E che
ciò fosse lo 'ntendimento, si vede: ché solamente de
l'uomo e de le divine sustanze questa mente si predica, sì
come per Boezio si puote apertamente vedere, che prima la predica de
li uomini, ove dice a la Filosofia: "Tu e Dio, che ne la mente
te de li uomini mise"; poi la predica di Dio, quando dice a Dio:
"Tutte le cose produci da lo superno essemplo, tu, bellissimo,
bello mondo ne la mente portante". Né mai d'animale bruto
predicata fue, anzi di molti uomini, che de la parte perfettissima
paiono defettivi, non pare potersi né doversi predicare; e
però quelli cotali sono chiamati ne la gramatica "amenti"
e "dementi", cioè sanza mente. Onde si puote omai
vedere che è mente: che è quella fine e preziosissima
parte de l'anima che è deitade. E questo è il luogo
dove dico che Amore mi ragiona de la mia donna.
Capitolo III
Non sanza cagione dico che questo amore ne la mente mia fa la sua
operazione; ma ragionevolemente ciò si dice, a dare a
intendere quale amore è questo, per lo loco nel quale adopera.
Onde è da sapere che ciascuna cosa, come detto è di
sopra, per la ragione di sopra mostrata ha 'l suo speziale amore.
Come le corpora simplici hanno amore naturato in sé a lo luogo
proprio, e però la terra sempre discende al centro; lo fuoco
ha amore a la circunferenza di sopra, lungo lo cielo de la luna, e
però sempre sale a quello. Le corpora composte prima, sì
come sono le minere, hanno amore a lo luogo dove la loro generazione
è ordinata, e in quello crescono e acquistano vigore e
potenza; onde vedemo la calamita sempre da la parte de la sua
generazione ricevere vertù. Le piante, che sono prima animate,
hanno amore a certo luogo più manifestamente, secondo che la
complessione richiede; e però vedemo certe piante lungo
l'acque quasi cansarsi, e certe sopra li gioghi de le montagne, e
certe ne le piagge e dappiè monti: le quali se si transmutano,
o muoiono del tutto o vivono quasi triste, sì come cose
disgiunte dal loro amico. Li animali bruti hanno più manifesto
amore non solamente a li luoghi, ma l'uno l'altro vedemo amare. Li
uomini hanno loro proprio amore a le perfette e oneste cose. E però
che l'uomo, avvegna che una sola sustanza sia tutta sua forma, per la
sua nobilitade ha in sé natura di tutte queste cose, tutti
questi amori puote avere e tutti li ha.
Ché per la natura del simplice corpo, che ne lo subietto
signoreggia, naturalmente ama l'andare in giuso; e però quando
in su muove lo suo corpo, più s'affatica. Per la natura
seconda, del corpo misto, ama lo luogo de la sua generazione, e
ancora lo tempo; e però ciascuno naturalmente è di più
virtuoso corpo ne lo luogo dove è generato e nel tempo de la
sua generazione che in altro. Onde si legge ne le storie d'Ercule, e
ne l'Ovidio Maggiore e in Lucano e in altri poeti, che combattendo
con lo gigante che si chiamava Anteo, tutte volte che lo gigante era
stanco, e elli ponea lo suo corpo sopra la terra disteso o per sua
volontà o per forza d'Ercule, forza e vigore interamente de la
terra in lui resurgea, ne la quale e de la quale era esso generato.
Di che accorgendosi Ercule, a la fine prese lui; e stringendo quello
e levatolo da la terra, tanto lo tenne sanza lasciarlo a la terra
ricongiugnere, che lo vinse per soperchio e uccise. E questa
battaglia fu in Africa, secondo le testimonianze de le
scritture.
E per
la natura terza, cioè de le piante, ha l'uomo amore a certo
cibo, non in quanto è sensibile, ma in quanto è
notribile, e quello cotale cibo fa l'opera di questa natura
perfettissima, e l'altro non così, ma falla imperfetta. E però
vedemo certo cibo fare li uomini formosi e membruti e bene
vivacemente colorati, e certi fare lo contrario di questo. E per la
natura quarta, de li animali, cioè sensitiva, hae l'uomo altro
amore, per lo quale ama secondo la sensibile apparenza, sì
come bestia; e questo amore ne l'uomo massimamente ha mestiere di
rettore per la sua soperchievole operazione, ne lo diletto
massimamente del gusto e del tatto. E per la quinta e ultima natura,
cioè vera umana o, meglio dicendo, angelica, cioè
razionale, ha l'uomo amore a la veritade e a la vertude; e da questo
amore nasce la vera e perfetta amistade, de l'onesto tratta, de la
quale parla lo Filosofo ne l'ottavo de l'Etica, quando tratta de
l'amistade.
Onde,
acciò che questa natura si chiama mente, come di sopra è
mostrato, dissi "Amore ragionare ne la mente", per dare ad
intendere che questo amore era quello che in quella nobilissima
natura nasce, cioè di veritade e di vertude, e per ischiudere
ogni falsa oppinione da me, per la quale fosse sospicato lo mio amore
essere per sensibile dilettazione. Dico poi disiosamente, a
dare ad intendere la sua continuanza e lo suo fervore. E dico "move
sovente cose che fanno disviare lo 'ntelletto". E veramente
dico; però che li miei pensieri, di costei ragionando, molte
fiate voleano cose conchiudere di lei che io non le potea intendere,
e smarrivami, sì che quasi parea di fuori alienato: come chi
guarda col viso contra una retta linea, prima vede le cose prossime
chiaramente; poi, procedendo, meno le vede chiare; poi, più
oltre, dubita; poi, massimamente oltre procedendo, lo viso disgiunto
nulla vede.
E
quest'è l'una ineffabilitade di quello che io per tema ho
preso; e consequentemente narro l'altra, quando dico: Lo suo
parlare. E dico che li miei pensieri - che sono parlare d'Amore -
"sonan sì dolci", che la mia anima, cioè lo
mio affetto, arde di potere ciò con la lingua narrare; e
perché dire nol posso, dico che l'anima se ne lamenta dicendo:
lassa! ch'io non son possente. E questa è l'altra
ineffabilitade; cioè che la lingua non è di quello che
lo 'ntelletto vede compiutamente seguace. E dico l'anima
ch'ascolta e che lo sente: "ascoltare", quanto a le
parole, e "sentire", quanto a la dolcezza del suono.
Capitolo IV
Quando ragionate sono le due ineffabilitadi di questa matera,
conviensi procedere a ragionare le parole che narrano la mia
insufficienza. Dico adunque che la mia insufficienza procede
doppiamente, sì come doppiamente trascende l'altezza di
costei, per lo modo che detto è. Ché a me conviene
lasciare per povertà d'intelletto molto di quello che è
vero di lei, e che quasi ne la mia mente raggia, la quale come corpo
diafano riceve quello, non terminando: e questo dico in quella
seguente particula: E certo e' mi conven lasciare in pria. Poi
quando dico: E di quel che s'intende, dico che non pur a
quello che lo mio intelletto non sostiene, ma eziandio a quello che
io intendo sufficiente non sono, però che la lingua mia non è
di tanta facundia che dire potesse ciò che nel pensiero mio se
ne ragiona; per che è da vedere che, a rispetto de la
veritade, poco fia quello che dirà. E ciò risulta in
grande loda di costei, se bene si guarda, ne la quale principalmente
s'intende; e quella orazione si può dir bene che vegna da la
fabrica del rettorico, ne la quale ciascuna parte pone mano a lo
principale intento. Poi quando dice: Però, se le mie rime
avran difetto, escusomi da una colpa de la quale non deggio
essere colpato, veggendo altri le mie parole essere minori che la
dignitade di questa; e dico che se difetto fia ne le mie rime, cioè
ne le mie parole che a trattare di costei sono ordinate, di ciò
è da biasimare la debilitade de lo 'ntelletto e la cortezza
del nostro parlare, lo quale per lo pensiero è vinto, sì
che seguire lui non puote a pieno, massimamente là dove lo
pensiero nasce da amore, perché quivi l'anima profondamente
più che altrove s'ingegna.
Potrebbe dire alcuno: "tu scusi e accusi te insiememente".
Ché argomento di colpa è, non purgamento, in quanto la
colpa si dà a lo 'ntelletto e al parlare che è mio;
ché, sì come, s'elli è buono, io deggio di ciò
essere lodato in quanto così è, così, s'elli è
defettivo, deggio essere biasimato. A ciò si può
brievemente rispondere che non m'accuso, ma iscuso veramente. E però
è da sapere, secondo la sentenza del Filosofo nel terzo de
l'Etica, che l'uomo è degno di loda e di vituperio solo in
quelle cose che sono in sua podestà di fare o di non fare; ma
in quelle ne le quali non ha podestà non merita né
vituperio né loda, però che l'uno e l'altro è da
rendere ad altrui, avvegna che le cose siano parte de l'uomo
medesimo. Onde noi non dovemo vituperare l'uomo perché sia del
corpo da sua nativitade laido, però che non fu in sua podestà
farsi bello; ma dovemo vituperare la mala disposizione de la materia
onde esso è fatto, che fu principio del peccato de la natura.
E così non dovemo lodare l'uomo per biltade che abbia da sua
nativitade ne lo suo corpo, ché non fu ello di ciò
fattore, ma dovemo lodare l'artefice, cioè la natura umana,
che tanta bellezza produce ne la sua materia quando impedita da essa
non è. E però disse bene lo prete a lo 'mperadore, che
ridea e schernia la laidezza del suo corpo: "Dio è
segnore: esso fece noi e non essi noi"; e sono queste parole del
Profeta, in uno verso del Saltero scritte né più né
meno come ne la risposta del prete. E però veggiano li cattivi
malnati che pongono lo studio loro in azzimare la loro persona, e non
in adornare la loro operazione, che dee essere tutta con onestade,
che non è altro a fare che ornare l'opera d'altrui e
abbandonare la propria.
Tornando adunque al proposito, dico che nostro intelletto, per
difetto de la vertù da la quale trae quello ch'el vede, che è
virtù organica, cioè la fantasia, non puote a certe
cose salire (però che la fantasia nol puote aiutare, ché
non ha lo di che), sì come sono le sustanze partite da
materia; de le quali se alcuna considerazione di quella avere potemo,
intendere non le potemo né comprendere perfettamente. E di ciò
non è l'uomo da biasimare, ché non esso, dico, fue di
questo difetto fattore, anzi fece ciò la natura universale,
cioè Iddio, che volse in questa vita privare noi da questa
luce; che, perché elli lo si facesse, presuntuoso sarebbe a
ragionare. Sì che, se la mia considerazione mi transportava in
parte dove la fantasia venia meno a lo 'ntelletto, se io non potea
intendere non sono da biasimare. Ancora, è posto fine al
nostro ingegno, a ciascuna sua operazione, non da noi ma da
l'universale natura; e però è da sapere che più
ampi sono li termini de lo 'ngegno a pensare che a parlare, e più
ampi a parlare che ad accennare. Dunque se 'l pensiero nostro, non
solamente quello che a perfetto intelletto non viene ma eziandio
quello che a perfetto intelletto si termina, è vincente del
parlare, non semo noi da biasimare, però che non semo di ciò
fattori. E però manifesto me veramente scusare quando dico: Di
ciò si biasimi il debole intelletto E 'l parlar nostro, che
non ha valore Di ritrar tutto ciò che dice Amore; ché
assai si dee chiaramente vedere la buona volontade, a la quale aver
si dee rispetto ne li meriti umani. E così omai s'intenda la
prima parte principale di questa canzone, che corre mo per mano.
Capitolo V
Quando, ragionando per la prima parte, aperta è la sentenza di
quella, procedere si conviene a la seconda; de la quale per meglio
vedere, tre parti se ne vogliono fare, secondo che in tre versi si
comprende: che ne la prima parte io commendo questa donna interamente
e comunemente, sì ne l'anima come nel corpo; ne la seconda
discendo a laude speziale de l'anima; ne la terza a laude speziale
del corpo. La prima parte comincia: Non vede il sol, che tutto 'l
mondo gira; la seconda comincia: In lei discende la virtù
divina; la terza comincia: Cose appariscon ne lo suo aspetto;
e queste parti secondo ordine sono da ragionare.
Dice adunque: Non vede il sol, che tutto il mondo gira; dove è
da sapere, a perfetta intelligenza avere, come lo mondo dal sole è
girato. Prima dico che per lo mondo io non intendo qui tutto 'l corpo
de l'universo, ma solamente questa parte del mare e de la terra,
seguendo la volgare voce, ché così s'usa chiamare: onde
dice alcuno, "quelli hae tutto lo mondo veduto", dicendo
parte del mare e della terra. Questo mondo volse Pittagora - e li
suoi seguaci - dicere che fosse una de le stelle e che un'altra a lei
fosse opposita, così fatta, e chiamava quella Anticthona; e
dicea ch'erano ambe in una spera che si volvea da occidente in
oriente, e per questa revoluzione si girava lo sole intorno a noi, e
ora si vedea e ora non si vedea. E dicea che 'l fuoco era nel mezzo
di queste, ponendo quello essere più nobile corpo che l'acqua
e che la terra, e ponendo lo mezzo nobilissimo intra li luoghi de li
quattro corpi simplici: e però dicea che 'l fuoco, quando
parea salire, secondo lo vero al mezzo discendea. Platone fu poi
d'altra oppinione, e scrisse in uno suo libro che si chiama Timeo,
che la terra col mare era bene lo mezzo di tutto, ma che 'l suo tondo
tutto si girava a torno al suo centro, seguendo lo primo movimento
del cielo; ma tarda molto per la sua grossa matera e per la massima
distanza da quello. Queste oppinioni sono riprovate per false nel
secondo De Celo et Mundo da quello glorioso filosofo al quale la
natura più aperse li suoi segreti; e per lui quivi è
provato, questo mondo, cioè la terra, stare in sé
stabile e fissa in sempiterno. E le sue ragioni, che Aristotile dice
a rompere costoro e affermare la veritade, non è mia
intenzione qui narrare, perché assai basta a la gente a cu' io
parlo, per la sua grande autoritade sapere che questa terra è
fissa e non si gira, e che essa col mare è centro del
cielo.
Questo
cielo si gira intorno a questo centro continuamente, sì come
noi vedemo; ne la cui girazione conviene di necessitade essere due
poli fermi, e uno cerchio equalmente distante da quelli, che
massimamente giri. Di questi due poli, l'uno è manifesto quasi
a tutta la terra discoperta, cioè questo settentrionale;
l'altro è quasi a tutta la discoperta terra celato, cioè
lo meridionale. Lo cerchio che nel mezzo di questi s'intende, si è
quella parte del cielo sotto la quale si gira lo sole quando va con
l'Ariete e con la Libra. Onde è da sapere, che se una pietra
potesse cadere da questo nostro polo, ella cadrebbe là oltre
nel mare Oceano, a punto in su quel dosso del mare dove, se fosse uno
uomo, la stella li sarebbe sempre in sul mezzo del capo; - e credo
che da Roma a questo luogo, andando diritto per tramontana, sia
spazio quasi di dumila secento miglia, o poco dal più al meno
-. Imaginando adunque, per meglio vedere, in questo luogo ch'io dissi
sia una cittade e abbia nome Maria, dico ancora che se da l'altro
polo, cioè meridionale, cadesse una pietra, ch'ella caderebbe
in su quel dosso del mare Oceano ch'è a punto in questa palla
opposito a Maria; - e credo che da Roma là dove caderebbe
questa seconda pietra, diritto andando per lo mezzogiorno, sia spazio
di settemila cinquecento miglia, o poco dal più al meno -. E
qui imaginiamo un'altra cittade, che abbia nome Lucia - ed è
spazio, da qualunque lato si tira la corda, di diecimila dugento
miglia -: èli, tra l'una e l'altra, mezzo lo cerchio di tutta
questa palla, sì che li cittadini di Maria tengono le piante
contra le piante di quelli di Lucia. Imaginisi anco uno cerchio in su
questa palla, che sia in ciascuna parte sua tanto lungi da Maria
quanto da Lucia. Credo che questo cerchio - secondo ch'io comprendo
per le sentenze de li astrologi, e per quella d'Alberto de la Magna
nel libro de la Natura de' luoghi e de le proprietadi de li elementi,
e anco per la testimonianza di Lucano nel nono suo libro -
dividerebbe questa terra discoperta dal mare Oceano, là nel
mezzodie, quasi per tutta l'estremità del primo climate, dove
sono intra l'altre genti li Garamanti, che stanno quasi sempre nudi;
a li quali venne Catone col popolo di Roma, la segnoria di Cesare
fuggendo.
Segnati
questi tre luoghi sopra questa palla, leggiermente si può
vedere come lo sole la gira. Dico adunque che 'l cielo del sole si
rivolge da occidente in oriente, non dirittamente contra lo movimento
diurno, cioè del die e de la notte, ma tortamente contra
quello; sì che 'l suo mezzo cerchio, che equalmente è
'ntra li suoi poli, nel quale è lo corpo del sole, sega in due
parti opposite lo mezzo cerchio de li due primi poli, cioè nel
principio de l'Ariete e nel principio de la Libra, e partesi per due
archi da esso, uno ver settentrione e un altro ver mezzogiorno. Li
punti di mezzo de li quali archi si dilungano equalmente dal primo
cerchio, da ogni parte, per ventitrè gradi e uno punto più;
e l'uno punto è lo principio del Cancro, e l'altro è lo
principio del Capricorno. Però conviene che Maria veggia nel
principio de l'Ariete, quando lo sole va sotto lo mezzo cerchio de li
primi poli, esso sole girar lo mondo intorno giù a la terra, o
vero al mare, come una mola de la quale non paia più che mezzo
lo corpo suo; e questa veggia venire montando a guisa d'una vite
dintorno, tanto che compia novanta e una rota e poco più. E
quando queste rote sono compiute, lo suo montare è a Maria
quasi tanto quanto esso monta a noi ne la mezza terra, quando 'l
giorno è de la mezza notte iguale; e se uno uomo fosse dritto
in Maria e sempre al sole volgesse lo viso, vederebbesi quello andare
ver lo braccio destro. Poi per la medesima via par discendere altre
novanta e una rota e poco più, tanto ch'elli gira intorno giù
a la terra, o vero al mare, sé non tutto mostrando; e poi si
cela, e comincialo a vedere Lucia, lo quale montare e discendere
intorno a sé allor vede con altrettante rote quante vede
Maria. E se uno uomo fosse in Lucia dritto, sempre che volgesse la
faccia in ver lo sole, vedrebbe quello andarsi nel braccio sinistro.
Per che si può vedere che questi luoghi hanno un dì
l'anno di sei mesi; e una notte d'altrettanto tempo; e quando l'uno
ha lo giorno e l'altro ha la notte. Conviene anche che lo cerchio
dove sono li Garamanti, come detto è, in su questa palla,
veggia lo sole a punto sopra sé girare, non a modo di mola, ma
di rota; la quale non può in alcuna parte vedere se non mezza,
quando va sotto l'Ariete. E poi lo vede partire da sé e venire
verso Maria novanta e uno die e poco più, e per altrettanti a
sé tornare; e poi, quando è tornato, va sotto la Libra,
e anche si parte e va ver Lucia novanta e uno dì e poco più,
e in altrettanti ritorna. E questo luogo, lo quale tutta la palla
cerchia, sempre ha lo die iguale con la notte, o di qua o di là
che 'l sole li vada; e due volte l'anno ha la state grandissima di
calore, e due piccioli verni.
Conviene anche che li due spazii, che sono in mezzo de le due cittadi
imaginate e lo cerchio del mezzo, veggiano lo sole disvariatamente,
secondo che sono remoti e propinqui questi luoghi; sì come
omai, per quello che detto è, puote vedere chi ha nobile
ingegno, al quale è bello un poco di fatica lasciare. Per che
vedere omai si puote, che per lo divino provedimento lo mondo è
si ordinato che, volta la spera del sole e tornata a uno punto,
questa palla dove noi siamo in ciascuna parte di sé riceve
tanto tempo di luce quanto di tenebre. O ineffabile sapienza che così
ordinasti, quanto è povera la nostra mente a te comprendere! E
voi a cui utilitade e diletto io scrivo, in quanta cechitade vivete,
non levando li occhi suso a queste cose, tenendoli fissi nel fango de
la vostra stoltezza!
Capitolo VI
Nel precedente capitolo è mostrato per che modo lo sole gira;
sì che omai si puote procedere a dimostrare la sentenza de la
parte a la quale s'intende. Dico adunque che in questa parte prima
comincio a commendare questa donna per comparazione a l'altre cose; e
dico che 'l sole, girando lo mondo, non vede alcuna cosa così
gentile come costei: per che segue che questa sia, secondo le parole,
gentilissima di tutte le cose che 'l sole allumina. E dice: in
quell'ora; onde è da sapere che "ora" per due
modi si prende da li astrologi. L'uno si è, che del die e de
la notte fanno ventiquattr'ore, cioè dodici del die e dodici
de la notte, quanto che 'l die sia grande o picciolo; e queste ore si
fanno picciole e grandi nel dì e ne la notte, secondo che il
dì e la notte cresce e menoma. E queste ore usa la Chiesa,
quando dice Prima, Terza, Sesta e Nona, e chiamansi ore temporali.
L'altro modo si è, che faccendo del dì e de la notte
ventiquattr'ore, tal volta ha lo die le quindici ore, e la notte le
nove; tal volta ha la notte le sedici e lo die le otto, secondo che
cresce e menoma lo die e la notte: e chiamansi ore equali. E ne lo
equinozio sempre queste e quelle che temporali si chiamano sono una
cosa; però che, essendo lo dì equale de la notte,
conviene così avvenire.
Poi quando dico: Ogni Intelletto di là su la mira,
commendo lei, non avendo rispetto ad altra cosa. E dico che le
Intelligenze del cielo la mirano, e che la gente di qua giù
gentile pensano di costei, quando più hanno di quello che loro
diletta. E qui è da sapere che ciascuno Intelletto di sopra,
secondo ch'è scritto nel libro de le Cagioni, conosce quello
che è sopra sé e quello che è sotto sé.
Conosce adunque Iddio sì come sua cagione, conosce quello che
è sotto sé sì come suo effetto; e però
che Dio è universalissima cagione di tutte le cose, conoscendo
lui, tutte le cose conosce in sé, secondo lo modo de la
Intelligenza. Per che tutte le Intelligenze conoscono la forma umana
in quanto ella è per intenzione regolata ne la divina mente; e
massimamente conoscono quella le Intelligenze motrici, però
che sono spezialissime cagioni di quella e d'ogni forma generata, e
conoscono quella perfettissima, tanto quanto essere puote, sì
come loro regola ed essemplo. E se essa umana forma, essemplata e
individuata, non è perfetta, non è manco de lo detto
essemplo, ma de la materia la quale individua. Però quando
dico: Ogni Intelletto di là su la mira, non voglio
altro dire se non ch'ella è così fatta come l'essemplo
intenzionale che de la umana essenzia è ne la divina mente e,
per quella, in tutte l'altre, massimamente in quelle menti angeliche
che fabbricano col cielo queste cose di qua giuso.
E a questo affermare, soggiungo quando dico: E quella gente che
qui s'innamora. Dove è da sapere che ciascuna cosa
massimamente desidera la sua perfezione, e in quella si queta ogni
suo desiderio, e per quella ogni cosa è desiderata: e questo è
quello desiderio che sempre ne fa parere ogni dilettazione manca; ché
nulla dilettazione è si grande in questa vita che a l'anima
nostra possa torre la sete, che sempre lo desiderio che detto è
non rimagna nel pensiero. E però che questa è veramente
quella perfezione, dico che quella gente che qua giù maggiore
diletto riceve quando più hanno di pace, allora rimane questa
ne' loro pensieri, per questa, dico, tanto essere perfetta quanto
sommamente essere puote l'umana essenzia. Poi quando dico: Suo
esser tanto a Quei che lel dà piace, mostro che non
solamente questa donna è perfettissima ne la umana
generazione, ma più che perfettissima in quanto riceve de la
divina bontade oltre lo debito umano. Onde ragionevolmente si puote
credere che, sì come ciascuno maestro ama più la sua
opera ottima che l'altre, così Dio ama più la persona
umana ottima che tutte l'altre; e però che la sua larghezza
non si stringe da necessitade d'alcuno termine, non ha riguardo lo
suo amore al debito di colui che riceve, ma soperchia quello in dono
e in beneficio di vertù e di grazia. Onde dico qui che esso
Dio, che dà l'essere a costei, per caritade de la sua
perfezione infonde in essa de la sua bontade oltre li termini del
debito de la nostra natura.
Poi quando dico: La sua anima pura, pruovo ciò che
detto è per sensibile testimonianza. Ove è da sapere
che, sì come dice lo Filosofo nel secondo de l'Anima, l'anima
è atto del corpo: e se ella è suo atto, è sua
cagione; e però che, sì come è scritto nel libro
allegato de le Cagioni, ogni cagione infonde nel suo effetto de la
bontade che riceve da la cagione sua, infonde e rende al corpo suo de
la bontade de la cagione sua, ch'è Dio. Onde, con ciò
sia cosa che in costei si veggiano, quanto è da la parte del
corpo, maravigliose cose, tanto che fanno ogni guardatore disioso di
quelle vedere, manifesto è che la sua forma, cioè la
sua anima, che lo conduce sì come cagione propria, riceva
miracolosamente la graziosa bontade di Dio. E così si pruova,
per questa apparenza, che è oltre lo debito de la natura
nostra (la quale in lei è perfettissima come detto è di
sopra) questa donna da Dio beneficiata e fatta nobile cosa. E questa
è tutta la sentenza litterale de la prima parte de la seconda
parte principale.
Capitolo VII
Commendata questa donna comunemente, sì secondo l'anima come
secondo lo corpo, io procedo a commendare lei spezialmente secondo
l'anima; e prima la commendo secondo che 'l suo bene è grande
in sé, poi la commendo secondo che 'l suo bene è grande
in altrui e utile al mondo. E comincia questa parte seconda quando
dico: Di costei si può dire. Dunque dico prima: In
lei discende la virtù divina. Ove è da sapere che
la divina bontade in tutte le cose discende, e altrimenti essere non
potrebbero; ma avvegna che questa bontade si muova da simplicissimo
principio, diversamente si riceve, secondo più e meno, da le
cose riceventi. Onde scritto è nel libro de le Cagioni: "La
prima bontade manda le sue bontadi sopra le cose con uno
discorrimento". Veramente ciascuna cosa riceve da quello
discorrimento secondo lo modo de la sua vertù e de lo suo
essere; e di ciò sensibile essemplo avere potemo dal sole.
Vedemo la luce del sole, la quale è una, da uno fonte
derivata, diversamente da le corpora essere ricevuta; sì come
dice Alberto in quello libro che fa de lo Intelletto. Ché
certi corpi, per molta chiaritade di diafano avere in sé
mista, tosto che 'l sole li vede diventano tanto luminosi, che per
multiplicamento di luce in quelle e ne lo loro aspetto, rendono a li
altri di sé grande splendore, sì come è l'oro e
alcuna pietra. Certi sono che, per esser del tutto diafani, non
solamente ricevono la luce, ma quella non impediscono, anzi rendono
lei del loro colore colorata ne l'altre cose. E certi sono tanto
vincenti ne la purità del diafano, che divengono sì
raggianti, che vincono l'armonia de l'occhio, e non si lasciano
vedere sanza fatica del viso, sì come sono li specchi. Certi
altri sono tanto sanza diafano, che quasi poco de la luce ricevono,
si com'è la terra. Così la bontà di Dio è
ricevuta altrimenti da le sustanze separate, cioè da li
Angeli, che sono sanza grossezza di materia, quasi diafani per la
purità de la loro forma, e altrimenti da l'anima umana, che,
avvegna che da una parte sia da materia libera, da un'altra è
impedita, sì come l'uomo ch'è tutto ne l'acqua fuor del
capo, del quale non si può dire che tutto sia ne l'acqua né
tutto fuor da quella; e altrimenti da li animali, la cui anima tutta
in materia è compresa, ma alquanto è nobilitata; e
altrimenti da le piante, e altrimenti da le minere; e altrimenti da
la terra che da li altri elementi, però che è
materialissima, e però remotissima e improporzionalissima a la
prima simplicissima e nobilissima vertude, che sola è
intellettuale, cioè Dio.
E avvegna che posti siano qui gradi generali, nondimeno si possono
porre gradi singulari; cioè che quella riceve, de l'anime
umane, altrimenti una che un'altra. E però che ne l'ordine
intellettuale de l'universo si sale e discende per gradi quasi
continui da la infima forma a l'altissima e da l'altissima a la
infima, sì come vedemo ne l'ordine sensibile; e tra l'angelica
natura, che è cosa intellettuale, e l'anima umana non sia
grado alcuno, ma sia quasi l'uno a l'altro continuo per li ordini de
li gradi, e tra l'anima umana e l'anima più perfetta de li
bruti animali ancor mezzo alcuno non sia; e noi veggiamo molti uomini
tanto vili e di sì bassa condizione, che quasi non pare essere
altro che bestia; e così è da porre e da credere
fermamente, che sia alcuno tanto nobile e di sì alta
condizione che quasi non sia altro che angelo: altrimenti non si
continuerebbe l'umana spezie da ogni parte, che esser non può.
E questi cotali chiama Aristotile, nel settimo de l'Etica, divini; e
cotale dico io che è questa donna, sì che la divina
virtude, a guisa che discende ne l'angelo, discende in lei.
Poi quando dico: E qual donna gentil questo non crede, pruovo
questo per la esperienza che aver di lei si può in quelle
operazioni che sono proprie de l'anima razionale, dove la divina luce
più espeditamente raggia; cioè nel parlare e ne li atti
che reggimenti e portamenti sogliono essere chiamati. Onde è
da sapere che solamente l'uomo intra li animali parla, e ha
reggimenti e atti che si dicono razionali però che solo elli
ha in sé ragione. E se alcuno volesse dire contra, dicendo che
alcuno uccello parli, sì come pare di certi, massimamente de
la gazza e del pappagallo, e che alcuna bestia fa atti o vero
reggimenti, sì come pare de la scimia e d'alcuno altro,
rispondo che non è vero che parlino né che abbiano
reggimenti, però che non hanno ragione, da la quale queste
cose convegnono procedere; né è in loro lo principio di
queste operazioni, né conoscono che sia ciò, né
intendono per quello alcuna cosa significare, ma solo quello che
veggiono e odono ripresentare. Onde, secondo la imagine de le corpora
in alcuno corpo lucido si ripresenta, sì come ne lo specchio,
e si la imagine corporale che lo specchio dimostra non è vera;
così la imagine de la ragione, cioè li atti e lo
parlare che l'anima bruta ripresenta, o vero dimostra, non è
vera.
Dico che
"qual donna gentile non crede quello ch'io dico, che vada con
lei, e miri li suoi atti" - non dico "qual uomo", però
che più onestamente di donna per le donne si prende esperienza
che per l'uomo -; e dico quello che di lei colei sentirà,
dicendo quello che fa lo suo parlare, e che fanno li suoi reggimenti.
Ché il suo parlare, per l'altezza e per la dolcezza sua,
genera ne la mente di chi l'ode uno pensiero d'amore, lo quale io
chiamo spirito celestiale, però che là su è lo
principio e di là su viene la sua sentenza, sì come di
sopra è narrato; del qual pensiero si procede in ferma
oppinione che questa sia miraculosa donna di vertude. E suoi atti,
per la loro soavitade e per la loro misura, fanno amore disvegliare e
risentire là dovunque è de la sua potenza seminata per
buona natura. La quale natural semenza si fa come nel sequente
trattato si mostra.
Poi quando dico: Di costei si può dire, intendo narrare
come la bontà e la vertù de la sua anima è a li
altri buona e utile. E prima, com'ella è utile a l'altre
donne, dicendo: Gentile è in donna ciò che in lei si
trova, dove manifesto essemplo rendo a le donne, nel quale
mirando possano sé far parere gentili, quello seguitando.
Secondamente narro come ella è utile a tutte le genti, dicendo
che l'aspetto suo aiuta la nostra fede, la quale più che tutte
l'altre cose è utile a tutta l'umana generazione, sì
come quella per la quale campiamo da etternale morte e acquistiamo
etternale vita. E la nostra fede aiuta; però che, con ciò
sia cosa che principalissimo fondamento de la fede nostra siano
miracoli fatti per colui che fu crucifisso - lo quale creò la
nostra ragione, e volle che fosse minore del suo potere -, e fatti
poi nel nome suo per li santi suoi; e molti siano sì ostinati
che di quelli miracoli per alcuna nebbia siano dubbiosi, e non
possano credere miracolo alcuno sanza visibilmente avere di ciò
esperienza; e questa donna sia una cosa visibilmente miraculosa, de
la quale li occhi de li uomini cotidianamente possono esperienza
avere, ed a noi faccia possibili li altri; manifesto è che
questa donna, col suo mirabile aspetto, la nostra fede aiuta. E però
ultimamente dico che da etterno, cioè etternamente, fu
ordinata ne la mente di Dio in testimonio de la fede a coloro che
in questo tempo vivono. E così termina la seconda parte de la
seconda parte, secondo la litterale sentenza.
Capitolo VIII
Intra li effetti de la divina sapienza l'uomo è mirabilissimo,
considerato come in una forma la divina virtute tre nature congiunse,
e come sottilmente armoniato conviene esser lo corpo suo, a cotal
forma essendo organizzato per tutte quasi sue vertudi. Per che, per
la molta concordia che 'ntra tanti organi conviene a bene
rispondersi, pochi perfetti uomini in tanto numero sono. E se così
è mirabile questa creatura, certo non pur con le parole è
da temere di trattare di sue condizioni, ma eziandio col pensiero,
secondo quelle parole de lo Ecclesiastico: "La sapienza di Dio,
precedente tutte le cose, chi cercava?", e quelle altre dove
dice: "Più alte cose di te non dimanderai e più
forti cose di te non cercherai; ma quelle cose che Dio ti comandò,
pensa, e in più sue opere non sie curioso", cioè
sollicito. Io adunque, che in questa terza particola d'alcuna
condizione di cotal creatura parlare intendo, in quanto nel suo
corpo, per bontade de l'anima, sensibile bellezza appare,
temorosamente non sicuro comincio, intendendo, e se non a pieno,
almeno alcuna cosa di tanto nodo disnodare. Dico adunque che, poi che
aperta è la sentenza di quella particola ne la quale questa
donna è commendata da la parte de l'anima, da procedere e da
vedere è come, quando dico Cose appariscon ne lo suo
aspetto, io commendo lei da la parte del corpo. E dico che ne lo
suo aspetto appariscono cose le quali dimostrano de' piaceri di
Paradiso. E intra li altri di quelli lo più nobile e quello
che è inizio e fine di tutti li altri, sì è
contentarsi, e questo si è essere beato; e questo piacere è
veramente, avvegna che per altro modo, ne l'aspetto di costei. Ché,
guardando costei, la gente si contenta, tanto dolcemente ciba la sua
bellezza li occhi de' riguardatori; ma per altro modo che per lo
contentare in Paradiso che è perpetuo, ché non può
ad alcuno essere questo.
E però che potrebbe alcuno aver domandato dove questo mirabile
piacere appare in costei, distinguo ne la sua persona due parti, ne
le quali l'umana piacenza e dispiacenza più appare. Onde è
da sapere che in qualunque parte l'anima più adopera del suo
officio, che a quella più fissamente intende ad adornare, e
più sottilmente quivi adopera. Onde vedemo che ne la faccia de
l'uomo, là dove fa più del suo officio che in alcuna
parte di fuori, tanto sottilmente intende, che, per sottigliarsi
quivi tanto quanto ne la sua materia puote, nullo viso ad altro viso
è simile; perché l'ultima potenza de la materia, la
qual è in tutti quasi dissimile, quivi si riduce in atto. E
però che ne la faccia massimamente in due luoghi opera l'anima
- però che in quelli due luoghi quasi tutte e tre le nature de
l'anima hanno giurisdizione - cioè ne li occhi e ne la bocca,
quelli massimamente adorna e quivi pone lo 'ntento tutto a fare
bello, se puote. E in questi due luoghi dico io che appariscono
questi piaceri dicendo: ne li occhi e nel suo dolce riso. Li
quali due luoghi, per bella similitudine, si possono appellare
balconi de la donna che nel dificio del corpo abita, cioè
l'anima; però che quivi, avvegna che quasi velata, spesse
volte si dimostra. Dimostrasi ne li occhi tanto manifesta, che
conoscer si può la sua presente passione, chi bene là
mira. Onde, con ciò sia cosa che sei passioni siano propie de
l'anima umana, de le quali fa menzione lo Filosofo ne la sua
Rettorica, cioè grazia, zelo, misericordia, invidia, amore e
vergogna, di nulla di queste puote l'anima essere passionata che a la
finestra de li occhi non vegna la sembianza, se per grande vertù
dentro non si chiude. Onde alcuno già si trasse li occhi,
perché la vergogna d'entro non paresse di fuori; sì
come dice Stazio poeta del tebano Edipo, quando dice che "con
etterna notte solvette lo suo dannato pudore". Dimostrasi ne la
bocca, quasi come colore dopo vetro. E che è ridere se non una
corruscazione de la dilettazione de l'anima, cioè uno lume
apparente di fuori secondo sta dentro? E però si conviene a
l'uomo, a dimostrare la sua anima ne l'allegrezza moderata,
moderatamente ridere, con onesta severitade e con poco movimento de
la sua faccia; sì che donna, che allora si dimostra come detto
è, paia modesta e non dissoluta. Onde ciò fare ne
comanda lo Libro de le quattro vertù cardinali: "Lo tuo
riso sia sanza cachinno", cioè sanza schiamazzare come
gallina. Ahi mirabile riso de la mia donna, di cui io parlo, che mai
non si sentia se non de l'occhio!
E dico che Amore le reca queste cose quivi, sì come a luogo
suo; dove si può amore doppiamente considerare. Prima l'amore
de l'anima, speziale a questi luoghi; secondamente l'amore universale
che le cose dispone ad amare e ad essere amate, che ordina l'anima ad
adornare queste parti. Poi quando dico: Elle soverchian lo nostro
intelletto, escuso me di ciò, che di tanta eccellenza di
biltade poco pare che io tratti sovrastando a quella; e dico che poco
ne dico per due ragioni. L'una si è che queste cose che paiono
nel suo aspetto soverchiano lo 'ntelletto nostro, cioè umano:
e dico come questo soverchiare è fatto, che è fatto per
lo modo che soverchia lo sole lo fragile viso, non pur lo sano e
forte; l'altra si è che fissamente in esse guardare non può,
perché quivi s'inebria l'anima, sì che incontanente,
dopo di sguardare, disvia in ciascuna sua operazione.
Poi quando dico: Sua bieltà piove fiammelle di foco,
ricorro a ritrattare del suo effetto, poi che di lei trattare
interamente non si può. Onde è da sapere che di tutte
quelle cose che lo 'ntelletto nostro vincono, sì che non può
vedere quello che sono, convenevolissimo trattare è per li
loro effetti: onde di Dio, e de le sustanze separate, e de la prima
materia, così trattando, potemo avere alcuna conoscenza. E
però dico che la biltade di quella piove fiammelle di foco,
cioè ardore d'amore e di caritade; animate d'un spirito
gentile, cioè informato ardore d'un gentile spirito, cioè
diritto appetito, per lo quale e del quale nasce origine di buono
pensiero. E non solamente fa questo, ma disfà e distrugge lo
suo contrario - de li buoni pensieri -, cioè li vizii innati,
li quali massimamente sono di buoni pensieri nemici. E qui è
da sapere che certi vizii sono ne l'uomo a li quali naturalmente elli
è disposto - sì come certi per complessione collerica
sono ad ira disposti -, e questi cotali vizii sono innati, cioè
connaturali. Altri sono vizii consuetudinarii, a li quali non ha
colpa la complessione ma la consuetudine, sì come la
intemperanza, e massimamente del vino: e questi vizii si fuggono e si
vincono per buona consuetudine, e fassi l'uomo per essa virtuoso,
sanza fatica avere ne la sua moderazione, sì come dice lo
Filosofo nel secondo de l'Etica. Veramente questa differenza è
intra le passioni connaturali e le consuetudinarie, che le
consuetudinarie per buona consuetudine del tutto vanno via; però
che lo principio loro, cioè la mala consuetudine, per lo suo
contrario si corrompe; ma le connaturali, lo principio de le quali è
la natura del passionato, tutto che molto per buona consuetudine si
facciano lievi, del tutto non se ne vanno quanto al primo movimento,
ma vannosene bene del tutto quanto a durazione; però che la
consuetudine non è equabile a la natura, ne la quale è
lo principio di quelle. E però è più laudabile
l'uomo che dirizza sé e regge sé mal naturato contra
l'impeto de la natura, che colui che ben naturato si sostiene in
buono reggimento o disviato si rinvia; sì come è più
laudabile uno mal cavallo reggere che un altro non reo. Dico adunque
che queste fiammelle che piovono da la sua biltade, come detto è,
rompono li vizii innati, cioè connaturali, a dare a intendere
che la sua bellezza ha podestade in rinnovare natura in coloro che la
mirano; ch'è miracolosa cosa. E questo conferma quello che
detto è di sopra ne l'altro capitolo, quando dico ch'ella è
aiutatrice de la fede nostra.
Ultimamente quando dico: Però qual donna sente sua
bieltate, conchiudo, sotto colore d'ammonire altrui, lo fine a
che fatta fue tanta biltade; e dico che qual donna sente per manco la
sua biltade biasimare, guardi in questo perfettissimo essemplo. Dove
s'intende che non pur a migliorare lo bene è fatta, ma
eziandio a fare de la mala cosa buona cosa. E soggiugne in fine:
Costei pensò chi mosse l'universo, cioè Dio, per
dare a intendere che per divino proponimento la natura cotale effetto
produsse. E così termina tutta la seconda parte principale di
questa canzone.
Capitolo IX
L'ordine del presente trattato richiede - poi che le due parti di
questa canzone per me sono, secondo che fu la mia intenzione,
ragionate - che a la terza si proceda, ne la quale io intendo purgare
la canzone da una riprensione, la quale a lei potrebbe essere istata
contraria, e a questo che io parlo. Ché io, prima che a la sua
composizione venisse, parendo a me questa donna fatta contra me fiera
e superba alquanto, feci una ballatetta ne la quale chiamai questa
donna orgogliosa e dispietata: che pare esser contra quello che qui
si ragiona di sopra. E però mi volgo a la canzone, e sotto
colore d'insegnare a lei come scusare la conviene, scuso quella: ed è
una figura questa, quando a le cose inanimate si parla, che si chiama
da li rettorici prosopopeia; e usanla molto spesso li poeti. E
comincia questa parte terza: Canzone, e' par che tu parli
contraro. Lo 'ntelletto de la quale a più agevolmente dare
a intendere, mi conviene in tre particole dividere: che prima si
propone a che la scusa fa mestiere; poi si produce con la scusa,
quando dico: Tu sai che 'l cielo; ultimamente parlo a la
canzone sì come a persona ammaestrata di quello che dee fare,
quando dico: Così ti scusa, se ti fa mestero.
Dico dunque in prima: "O canzone, che parli di questa donna
cotanta loda, e' par che tu sii contraria ad una tua sorella".
Per similitudine dico "sorella"; ché sì come
sorella è detta quella femmina che da uno medesimo generante è
generata, così puote l'uomo dire "sorella" de
l'opera che da uno medesimo operante è operata; ché la
nostra operazione in alcuno modo è generazione. E dico che par
che parli contrara a quella, dicendo: tu fai costei umile, e quella
la fa superba, cioè fera e disdegnosa, che tanto vale.
Proposta questa accusa, procedo a la scusa per essemplo, ne lo quale,
alcuna volta, la veritade si discorda da l'apparenza, e, altra, per
diverso rispetto si puote transmutare. Dico: Tu sai che 'l ciel
sempr'è lucente e chiaro, cioè sempr'è con
chiaritade; ma per alcuna cagione alcuna volta è licito di
dire quello essere tenebroso. Dove è da sapere che,
propriamente, è visibile lo colore e la luce, sì come
Aristotile vuole nel secondo de l'Anima, e nel libro del Senso e
Sensato. Ben è altra cosa visibile, ma non propriamente, però
che anche altro senso sente quello, si che non si può dire che
sia propriamente visibile, né propriamente tangibile; sì
come è la figura, la grandezza, lo numero, lo movimento e lo
stare fermo, che sensibili comuni si chiamano: le quali cose con più
sensi comprendiamo. Ma lo colore e la luce sono propriamente; perché
solo col viso comprendiamo ciò, e non con altro senso. Queste
cose visibili, sì le proprie come le comuni in quanto sono
visibili, vengono dentro a l'occhio - non dico le cose, ma le forme
loro - per lo mezzo diafano, non realmente ma intenzionalmente, sì
quasi come in vetro transparente. E ne l'acqua ch'è ne la
pupilla de l'occhio, questo discorso, che fa la forma visibile per lo
mezzo, sì si compie, perché quell'acqua è
terminata - quasi come specchio, che è vetro terminato con
piombo -, sì che passar più non può, ma quivi, a
modo d'una palla, percossa si ferma; sì che la forma, che nel
mezzo transparente non pare, ne l'acqua pare lucida e terminata. E
questo è quello per che nel vetro piombato la imagine appare,
e non in altro. Di questa pupilla lo spirito visivo, che si continua
da essa, a la parte del cerebro dinanzi, dov'è la sensibile
virtude sì come in principio fontale, subitamente sanza tempo
la ripresenta, e cosa vedemo. Per che, acciò che la visione
sia verace, cioè cotale qual è la cosa visibile in sé,
conviene che lo mezzo per lo quale a l'occhio viene la forma sia
sanza ogni colore, e l'acqua de la pupilla similemente: altrimenti si
macolerebbe la forma visibile del color del mezzo e di quello de la
pupilla. E però coloro che vogliono far parere le cose ne lo
specchio d'alcuno colore, interpongono di quello colore tra 'l vetro
e 'l piombo, sì che 'l vetro ne rimane compreso. Veramente
Plato e altri filosofi dissero che 'l nostro vedere non era perché
lo visibile venisse a l'occhio, ma perché la virtù
visiva andava fuori al visibile: e questa oppinione è
riprovata per falsa dal Filosofo in quello del Senso e
Sensato.
Veduto
questo modo de la vista, vedere si può leggermente che,
avvegna che la stella sempre sia d'un modo chiara e lucente, e non
riceva mutazione alcuna se non di movimento locale, sì come in
quello De Celo et Mundo è provato, per più cagioni
puote parere non chiara e non lucente. Però puote parere così
per lo mezzo che continuamente si transmuta. Transmutasi questo mezzo
di molta luce in poca luce, sì come a la presenza del sole e a
la sua assenza; e a la presenza lo mezzo, che è diafano, è
tanto pieno di lume che è vincente de la stella, e però
non pare più lucente. Transmutasi anche questo mezzo di
sottile in grosso, di secco in umido, per li vapori de la terra che
continuamente salgono: lo quale mezzo, così transmutato,
transmuta la immagine de la stella che viene per esso, per la
grossezza in oscuritade, e per l'umido e per lo secco in colore. Però
puote anche parere così per l'organo visivo, cioè
l'occhio, lo quale per infertade e per fatica si transmuta in alcuno
coloramento e in alcuna debilitade; sì come avviene molte
volte che per essere la tunica de la pupilla sanguinosa molto, per
alcuna corruzione d'infertade, le cose paiono quasi tutte rubicunde,
e però la stella ne pare colorata. E per essere lo viso
debilitato, incontra in esso alcuna disgregazione di spirito, sì
che le cose non paiono unite ma disgregate, quasi a guisa che fa la
nostra lettera in su la carta umida: e questo è quello per che
molti, quando vogliono leggere, si dilungano le scritture da li
occhi, perché la imagine loro vegna dentro più
lievemente e più sottile; e in ciò più rimane la
lettera discreta ne la vista. E però puote anche la stella
parere turbata: e io fui esperto di questo l'anno medesimo che nacque
questa canzone, che per affaticare lo viso molto, a studio di
leggere, in tanto debilitai li spiriti visivi che le stelle mi
pareano tutte d'alcuno albore ombrate. E per lunga riposanza in
luoghi oscuri e freddi, e con affreddare lo corpo de l'occhio con
l'acqua chiara, riuni' sì la vertù disgregata che
tornai nel primo buono stato de la vista. E così appaiono
molte cagioni, per le ragioni notate, per che la stella puote parere
non com'ella è.
Capitolo X
Partendomi da questa disgressione, che mestiere è stata a
vedere la veritade, ritorno al proposito e dico che sì come li
nostri occhi "chiamano", cioè giudicano, la stella
talora altrimenti che sia la vera sua condizione, così quella
ballatetta considerò questa donna secondo l'apparenza,
discordante dal vero per infertade de l'anima, che di troppo disio
era passionata. E ciò manifesto quando dico: Ché
l'anima temea, sì che fiero mi parea ciò che vedea
ne la sua presenza. Dov'è da sapere che quanto l'agente più
al paziente sé unisce, tanto più forte è però
la passione, sì come per la sentenza del Filosofo in quello De
Generatione si può comprendere; onde, quanto la cosa
desiderata più appropinqua al desiderante, tanto lo desiderio
è maggiore, e l'anima, più passionata, più si
unisce a la parte concupiscibile e più abbandona la ragione.
Sì che allora non giudica come uomo la persona, ma quasi come
altro animale pur secondo l'apparenza, non discernendo la veritade. E
questo è quello per che lo sembiante, onesto secondo lo vero,
ne pare disdegnoso e fero; e secondo questo cotale sensuale giudicio
parlò quella ballatetta. E in ciò s'intende assai che
questa canzone considera questa donna secondo la veritade, per la
discordanza che ha con quella. E non sanza cagione dico: là
'v'ella mi senta, e non là dov'io la senta; ma in
ciò voglio dare a intendere la grande virtù che li suoi
occhi aveano sopra me: ché, come s'io fosse stato diafano,
così per ogni lato mi passava lo raggio loro. E quivi si
potrebbero ragioni naturali e sovranaturali assegnare; ma basti qui
tanto avere detto: altrove ragionerò più
convenevolemente.
Poi quando dico: Così ti scusa, se ti fa mestero,
impongo a la canzone come per le ragioni assegnate "sé
iscusi là dov'è mestiero", cioè là
dove alcuno dubitasse di questa contrarietade; che non è altro
a dire se non che qualunque dubitasse in ciò, che questa
canzone da quella ballatetta si discorda, miri in questa ragione che
detta è. E questa cotale figura in rettorica è molto
laudabile, e anco necessaria, cioè quando le parole sono a una
persona e la 'ntenzione è a un'altra; però che
l'ammonire è sempre laudabile e necessario, e non sempre sta
convenevolemente ne la bocca di ciascuno. Onde, quando lo figlio è
conoscente del vizio del padre, e quando lo suddito è
conoscente del vizio del segnore, e quando l'amico conosce che
vergogna crescerebbe al suo amico quello ammonendo o menomerebbe suo
onore, o conosce l'amico suo non paziente ma iracundo a
l'ammonizione, questa figura è bellissima e utilissima, e
puotesi chiamare "dissimulazione". Ed è simigliante
a l'opera di quello savio guerrero che combatte lo castello da uno
lato per levare la difesa da l'altro, che non vanno ad una parte la
'ntenzione de l'aiutorio e la battaglia.
E impongo anche a costei che domandi parola di parlare a questa donna
di lei. Dove si puote intendere che l'uomo non dee essere presuntuoso
a lodare altrui, non ponendo bene prima mente s'elli è piacere
de la persona laudata; perché molte volte credendosi a alcuno
dar loda, si dà biasimo, o per difetto de lo dicitore o per
difetto di quello che ode. Onde molta discrezione in ciò avere
si conviene; la qual discrezione è quasi uno domandare
licenzia, per lo modo ch'io dico che domandi questa canzone. E così
termina tutta la litterale sentenza di questo trattato; per che
l'ordine de l'opera domanda a l'allegorica esposizione omai, seguendo
la veritade, procedere.
Capitolo XI
Sì come l'ordine vuole ancora dal principio ritornando, dico
che questa donna è quella donna de lo 'ntelletto che Filosofia
si chiama. Ma però che naturalmente le lode danno desiderio di
conoscere la persona laudata; e conoscere la cosa sia sapere quello
che ella è, in sé considerata e per tutte le sue cause,
sì come dice lo Filosofo nel principio de la Fisica; e ciò
non dimostri lo nome, avvegna che ciò significhi, sì
come dice nel quarto de la Metafisica (dove si dice che la
diffinizione è quella ragione che 'l nome significa),
conviensi qui, prima che più oltre si proceda per le sue laude
mostrare, dire che è questo che si chiama Filosofia, cioè
quello che questo nome significa. E poi dimostrata essa, più
efficacemente si tratterà la presente allegoria. E prima dirò
chi questo nome prima diede; poi procederò a la sua
significanza.
Dico adunque che anticamente in Italia, quasi dal principio de la
costituzione di Roma, che fu settecento cinquanta anni innanzi, poco
dal più al meno, che 'l Salvatore venisse, secondo che scrive
Paulo Orosio, nel tempo quasi che Numa Pompilio, secondo re de li
Romani, vivea uno filosofo nobilissimo, che si chiamò
Pittagora. E che ello fosse in quel tempo, pare che ne tocchi alcuna
cosa Tito Livio ne la prima parte del suo volume incidentemente. E
dinanzi da costui erano chiamati li seguitatori di scienza non
filosofi ma sapienti, sì come furono quelli sette savi
antichissimi, che la gente ancora nomina per fama: lo primo de li
quali ebbe nome Solon, lo secondo Chilon, lo terzo Periandro, lo
quarto Cleobulo, lo quinto Lindio, lo sesto Biante, e lo settimo
Prieneo. Questo Pittagora, domandato se egli si riputava sapiente,
negò a sé questo vocabulo, e disse sé essere non
sapiente, ma amatore di sapienza. E quinci nacque poi, ciascuno
studioso in sapienza che fosse "amatore di sapienza"
chiamato, cioè "filosofo"; ché tanto vale in
greco "philos" com'è a dire "amore" in
latino, e quindi dicemo noi: "philos" quasi amore, e
"sophos" quasi sapiente. Per che vedere si può che
questi due vocabuli fanno questo nome di "filosofo", che
tanto vale a dire quanto "amatore di sapienza": per che
notare si puote che non d'arroganza, ma d'umilitade è
vocabulo. Da questo nasce lo vocabulo del suo proprio atto,
Filosofia, sì come de lo amico nasce lo vocabulo del suo
proprio atto, cioè Amicizia. Onde si può vedere,
considerando la significanza del primo e del secondo vocabulo, che
Filosofia non è altro che amistanza a sapienza, o vero a
sapere; onde in alcuno modo si può dicere catuno filosofo
secondo lo naturale amore che in ciascuno genera lo desiderio di
sapere.
Ma però
che l'essenziali passioni sono comuni a tutti, non si ragiona di
quelle per vocabulo distinguente alcuno participante quella essenza;
onde non diciamo Gianni amico di Martino, intendendo solamente la
naturale amistade significare per la quale tutti a tutti semo amici,
ma l'amistà sopra la naturale generata, che è propria e
distinta in singulari persone. Così non si dice filosofo
alcuno per lo comune amore al sapere. Ne la 'ntenzione d'Aristotile,
ne l'ottavo de l'Etica, quelli si dice amico la cui amistà non
è celata a la persona amata e a cui la persona amata è
anche amica, sì che la benivolenza sia da ogni parte: e questo
conviene essere o per utilitade, o per diletto, o per onestade. E
così, acciò che sia filosofo, conviene essere l'amore a
la sapienza, che fa l'una de le parti benivolente; conviene essere lo
studio e la sollicitudine, che fa l'altra parte anche benivolente: sì
che familiaritade e manifestamento di benivolenza nasce tra loro. Per
che sanza amore e sanza studio non si può dire filosofo, ma
conviene che l'uno e l'altro sia. E sì come l'amistà
per diletto fatta, o per utilitade, non è vera amistà
ma per accidente, sì come l'Etica ne dimostra, così la
filosofia per diletto o per utilitade non è vera filosofia ma
per accidente. Onde non si dee dicere vero filosofo alcuno che, per
alcuno diletto, con la sapienza in alcuna sua parte sia amico; sì
come sono molti che si dilettano in intendere canzoni ed istudiare in
quelle, e che si dilettano studiare in Rettorica o in Musica, e
l'altre scienze fuggono e abbandonano, che sono tutte membra di
sapienza. Né si dee chiamare vero filosofo colui che è
amico di sapienza per utilitade, sì come sono li legisti, li
medici e quasi tutti li religiosi, che non per sapere studiano ma per
acquistare moneta o dignitade; e chi desse loro quello che acquistare
intendono, non sovrastarebbero a lo studio. E sì come intra le
spezie de l'amistà quella che per utilitade è, meno
amistà si può dicere, così questi cotali meno
participano del nome del filosofo che alcuna altra gente; per che, sì
come l'amistà per onestade fatta è vera e perfetta e
perpetua, così la filosofia è vera e perfetta che è
generata per onestade solamente, sanza altro rispetto, e per bontade
de l'anima amica, che è per diritto appetito e per diritta
ragione. Sì ch'omai qui si può dire, come la vera
amistà de li uomini intra sé è che ciascuno ami
tutto ciascuno, che 'l vero filosofo ciascuna parte de la sua
sapienza ama, e la sapienza ciascuna parte del filosofo, in quanto
tutto a sé lo riduce, e nullo suo pensiero ad altre cose
lascia distendere. Onde essa Sapienza dice ne li Proverbi di
Salomone: "Io amo coloro che amano me". E sì come la
vera amistade, astratta de l'animo, solo in sé considerata, ha
per subietto la conoscenza de l'operazione buona, e per forma
l'appetito di quella; così la filosofia, fuori d'anima, in sé
considerata, ha per subietto lo 'ntendere, e per forma uno quasi
divino amore a lo 'ntelletto. E sì come de la vera amistade è
cagione efficiente la vertude, così de la filosofia è
cagione efficiente la veritade. E sì come fine de l'amistade
vera è la buona dilezione, che procede dal convivere secondo
l'umanitade propriamente, cioè secondo ragione, sì come
pare sentire Aristotile nel nono de l'Etica; così fine de la
Filosofia è quella eccellentissima dilezione che non pate
alcuna intermissione o vero difetto, cioè vera felicitade che
per contemplazione de la veritade s'acquista. E così si può
vedere chi è omai questa mia donna, per tutte le sue cagioni e
per la sua ragione, e perché Filosofia si chiama, e chi è
vero filosofo, e chi è per accidente.
Ma però che, per alcuno fervore d'animo, talvolta l'uno e
l'altro termine de li atti e de le passioni si chiamano e per lo
vocabulo de l'atto medesimo e de la passione (sì come fa
Virgilio nel secondo de lo Eneidos, che chiama Enea a Ettore: "O
luce", ch'è atto, e "speranza de' Troiani", che
è passione, ché non era esso luce né speranza,
ma era termine onde venia loro la luce del consiglio, ed era termine
in che si posava tutta la speranza de la loro salute; e sì
come dice Stazio nel quinto del Thebaidos, quando Isifile dice ad
Archimoro: "O consolazione de le cose e de la patria perduta, o
onore del mio servigio"; sì come cotidianamente dicemo,
mostrando l'amico, "vedi l'amistade mia", e 'l padre dice
al figlio "amor mio"), per lunga consuetudine le scienze ne
le quali più ferventemente la Filosofia termina la sua vista,
sono chiamate per lo suo nome; sì come la Scienza Naturale, la
Morale, e la Metafisica, la quale, perché più
necessariamente in quella termina lo suo viso e con più
fervore, Prima Filosofia è chiamata. Onde vedere si può
come secondamente le scienze sono Filosofia appellate.
Poi che è veduto come la primaia e vera filosofia è in
suo essere - la quale è quella donna di cu' io dico - e come
lo suo nobile nome per consuetudine è comunicato a le scienze,
procederò oltre con le sue lode.
Capitolo XII
Nel primo capitolo di questo trattato è sì
compiutamente ragionata la cagione che mosse me a questa canzone, che
non è più mestiere di ragionare; ché assai
leggermente a questa esposizione ch'è detta ella si può
riducere. E però secondo le divisioni fatte la litterale
sentenza transcorrerò, per questa volgendo lo senso de la
lettera là dove sarà mestiere.
Dico: Amor che ne la mente mi ragiona. Per Amore intendo lo
studio lo quale io mettea per acquistare l'amore di questa donna: ove
si vuole sapere che studio si può qui doppiamente considerare.
E uno studio lo quale mena l'uomo a l'abito de l'arte e de la
scienza; e un altro studio lo quale ne l'abito acquistato adopera,
usando quello. E questo primo è quello ch'io chiamo qui Amore,
lo quale ne la mia mente informava continue, nuove e altissime
considerazioni di questa donna che di sopra è dimostrata: sì
come suole fare lo studio che si mette in acquistare un'amistade, che
di quella amistade grandi cose prima considera, desiderando quella.
Questo è quello studio e quella affezione che suole procedere
ne li uomini la generazione de l'amistade, quando già da una
parte è nato amore, e desiderasi e procurasi che sia da
l'altra; ché, sì come di sopra si dice, Filosofia è
quando l'anima e la sapienza sono fatte amiche, sì che l'una
sia tutta amata da l'altra, per lo modo che detto è di sopra.
Né più è mestiere di ragionare per la presente
esposizione questo primo verso, che per proemio fu ne la litterale
ragionato, però che per la prima sua ragione assai di leggiero
a questa seconda si può volgere lo 'ntendimento.
Onde al secondo verso, lo quale è cominciatore del trattato, è
da procedere, là ove io dico: Non vede il sol, che tutto 'l
mondo gira. Qui è da sapere che sì come trattando
di sensibile cosa per cosa insensibile, si tratta convenevolemente,
così di cosa intelligibile per cosa inintelligibile trattare
si conviene. E però sì come ne la litterale si parlava
cominciando dal sole corporale e sensibile, così ora è
da ragionare per lo sole spirituale e intelligibile, che è
Iddio. Nullo sensibile in tutto lo mondo è più degno di
farsi essemplo di Dio che 'l sole. Lo quale di sensibile luce sé
prima e poi tutte le corpora celestiali e le elementali allumina:
così Dio prima sé con luce intellettuale allumina, e
poi le creature celestiali e l'altre intelligibili. Lo sole tutte le
cose col suo calore vivifica, e se alcuna ne corrompe, non è
de la 'ntenzione de la cagione, ma è accidentale effetto: così
Iddio tutte le cose vivifica in bontade, e se alcuna n'è rea,
non è de la divina intenzione, ma conviene quello per
accidente essere ne lo processo de lo inteso effetto. Che se Iddio
fece li angeli buoni e li rei, non fece l'uno e l'altro per
intenzione, ma solamente li buoni. Seguitò poi fuori
d'intenzione la malizia de' rei, ma non sì fuori d'intenzione,
che Dio non sapesse dinanzi in sé predire la loro malizia; ma
tanta fu l'affezione a producere la creatura spirituale, che la
prescienza d'alquanti che a malo fine doveano venire non dovea né
potea Iddio da quella produzione rimuovere. Ché non sarebbe da
laudare la Natura se, sappiendo prima che li fiori d'un'arbore in
certa parte perdere si dovessero, non producesse in quella fiori, e
per li vani abbandonasse la produzione de li fruttiferi. Dico adunque
che Iddio, che tutto intende (ché suo "girare" è
suo "intendere"), non vede tanto gentil cosa quanto elli
vede quando mira là dove è questa Filosofia. Ché
avvegna che Dio, esso medesimo mirando, veggia insiememente tutto; in
quanto la distinzione de le cose è in lui per lo modo che lo
effetto è ne la cagione, vede quelle distinte. Vede adunque
questa nobilissima di tutte assolutamente, in quanto
perfettissimamente in sé la vede e in sua essenzia. Ché
se a memoria si reduce ciò che detto è di sopra,
filosofia è uno amoroso uso di sapienza, lo quale massimamente
è in Dio, però che in lui è somma sapienza e
sommo amore e sommo atto; che non può essere altrove, se non
in quanto da esso procede. E` adunque la divina filosofia de la
divina essenza, però che in esso non può essere cosa a
la sua essenzia aggiunta; ed è nobilissima, però che
nobilissima è la essenzia divina; ed è in lui per modo
perfetto e vero, quasi per etterno matrimonio. Ne l'altre
intelligenze è per modo minore, quasi come druda de la quale
nullo amadore prende compiuta gioia, ma nel suo aspetto contentan la
loro vaghezza. Per che dire si può che Dio non vede, cioè
non intende, cosa alcuna tanto gentile quanto questa: dico cosa
alcuna, in quanto l'altre cose vede e distingue, come detto è,
veggendosi essere cagione di tutto. Oh nobilissimo ed eccellentissimo
cuore che ne la sposa de lo Imperadore del cielo s'intende, e non
solamente sposa, ma suora e figlia dilettissima!
Capitolo XIII
Veduto come, nel principio de le laude di costei, sottilmente si dice
essa essere de la divina sustanza, in quanto primieramente si
considera, da procedere e da vedere è come secondamente dico
essa essere ne le causate intelligenze. Dico adunque: Ogni
Intelletto di là su la mira: dove è da sapere che
"di là su" dico, facendo relazione a Dio che dinanzi
è menzionato; e per questo escludo le Intelligenze che sono in
essilio de la superna patria, le quali filosofare non possono, però
che amore in loro è del tutto spento, e a filosofare, come già
detto è, è necessario amore. Per che si vede che le
infernali Intelligenze da lo aspetto di questa bellissima sono
private. E però che essa è beatitudine de lo
'ntelletto, la sua privazione è amarissima e piena d'ogni
tristizia.
Poi
quando dico: E quella gente che qui s'innamora, discendo a
mostrare come ne l'umana intelligenza essa secondariamente ancora
vegna; de la quale filosofia umana seguito poi per lo trattato, essa
commendando. Dico adunque che la gente che s'innamora "qui",
cioè in questa vita, la sente nel suo pensiero, non sempre, ma
quando Amore fa de la sua pace sentire. Dove sono da vedere tre cose
che in questo testo sono toccate. La prima si è quando si
dice: la gente che qui s'innamora, per che pare farsi
distinzione ne l'umana generazione. E di necessitate far si conviene,
ché, secondo che manifestamente appare, e nel seguente
trattato per intenzione si ragionerà, grandissima parte de li
uomini vivono più secondo lo senso che secondo ragione; e
quelli che secondo lo senso vivono di questa innamorare è
impossibile, però che di lei avere non possono alcuna
apprensione. La seconda si è quando dice: Quando Amor fa
sentire, dove si par fare distinzione di tempo. La qual cosa anco
far si conviene, ché, avvegna che le intelligenze separate
questa donna mirino continuamente, la umana intelligenza ciò
fare non può; però che l'umana natura - fuori de la
speculazione, de la quale s'appaga lo 'ntelletto e la ragione -
abbisogna di molte cose a suo sustentamento: per che la nostra
sapienza è talvolta abituale solamente, e non attuale, che non
incontra ciò ne l'altre intelligenze, che solo di natura
intellettiva sono perfette. Onde quando l'anima nostra non hae atto
di speculazione, non si può dire veramente che sia in
filosofia, se non in quanto ha l'abito di quella e la potenza di
poter lei svegliare; e però tal volta è con quella
gente che qui s'innamora, e tal volta no. La terza è quando
dice l'ora che quella gente è con essa, cioè quando
Amore de la sua pace fa sentire; che non vuole altro dire se non
quando l'uomo è in ispeculazione attuale, però che de
la pace di questa donna non fa lo studio sentire se non ne l'atto de
la speculazione. E così si vede come questa è donna
primamente di Dio e secondariamente de l'altre intelligenze separate,
per continuo sguardare; e appresso de l'umana intelligenza per
riguardare discontinuato. Veramente, sempre è l'uomo che ha
costei per donna da chiamare filosofo, non ostante che tuttavia non
sia ne l'ultimo atto di filosofia, però che da l'abito
maggiormente è altri da denominare. Onde dicemo alcuno
virtuoso, non solamente virtute operando, ma l'abito de la virtù
avendo; e dicemo l'uomo facundo eziandio non parlando, per l'abito de
la facundia, cioè del bene parlare. E di questa filosofia in
quanto da l'umana intelligenza è participata, saranno omai le
seguenti commendazioni, a mostrare come grande parte del suo bene a
l'umana natura è conceduto.
Dico dunque appresso: "Suo essere piace tanto a chi liele dà"
(dal quale, sì come da fonte primo, si diriva), "che in
lei la sua virtute infonde sempre, oltra la capacitade de la nostra
natura", la quale fa bella e virtuosa. Onde, avvegna che a
l'abito di quella per alquanti si vegna, non vi si viene sì
per alcuno, che propriamente abito dire si possa; però che 'l
primo studio, cioè quello per lo quale l'abito si genera, non
puote quella perfettamente acquistare. E qui si vede s'umil è
sua loda; che, perfetta e imperfetta, nome di perfezione non perde. E
per questa sua dismisuranza si dice che l'anima de la filosofia lo
manifesta in quel ch'ella conduce, cioè che Iddio mette
sempre in lei del suo lume. Dove si vuole a memoria reducere che di
sopra è detto che amore è forma di Filosofia, e però
qui si chiama anima di lei. Lo quale amore manifesto è nel
viso de la Sapienza, ne lo quale esso conduce mirabili bellezze, cioè
contentamento in ciascuna condizione di tempo e dispregiamento di
quelle cose che li altri fanno loro signori. Per che avviene che li
altri miseri che ciò mirano, ripensando lo loro difetto, dopo
lo desiderio de la perfezione caggiono in fatica di sospiri; e questo
è quello che dice: Che li occhi di color dov'ella luce Ne
mandan messi al cor pien di desiri, Che prendon aire e diventan
sospiri.
Capitolo XIV
Sì come ne la litterale esposizione dopo le generali laude a
le speziali si discende, prima da la parte de l'anima, poi da la
parte del corpo, così ora intende lo testo, dopo le generali
commendazioni, a speziali discendere. Sì come detto è
di sopra, Filosofia per subietto materiale qui ha la sapienza, e per
forma ha amore, e per composto de l'uno e de l'altro l'uso di
speculazione. Onde in questo verso che seguentemente comincia: In
lei discende la virtù divina, io intendo commendare
l'amore, che è parte de la filosofia. Ove è da sapere
che discender la virtude d'una cosa in altra non è altro che
ridurre quella in sua similitudine; sì come ne li agenti
naturali vedemo manifestamente che, discendendo la loro virtù
ne le pazienti cose, recano quelle a loro similitudine tanto quanto
possibili sono a venire. Onde vedemo lo sole che, discendendo lo
raggio suo qua giù, reduce le cose a sua similitudine di lume,
quanto esse per loro disposizione possono da la sua virtude lume
ricevere. Così dico che Dio questo amore a sua similitudine
reduce, quanto esso è possibile a lui assimigliarsi. E ponsi
la qualitade de la reduzione, dicendo: Sì come face in
angelo che 'l vede. Ove ancora è da sapere che lo primo
agente, cioè Dio, pinge la sua virtù in cose per modo
di diritto raggio, e in cose per modo di splendore reverberato; onde
ne le Intelligenze raggia la divina luce sanza mezzo, ne l'altre si
ripercuote da queste Intelligenze prima illuminate. Ma però
che qui è fatta menzione di luce e di splendore, a perfetto
intendimento mostrerò differenza di questi vocabuli, secondo
che Avicenna sente. Dico che l'usanza de' filosofi è di
chiamare "luce" lo lume, in quanto esso è nel suo
fontale principio; di chiamare "raggio", in quanto esso è
per lo mezzo, dal principio al primo corpo dove si termina; di
chiamare "splendore", in quanto esso è in altra
parte alluminata ripercosso. Dico adunque che la divina virtù
sanza mezzo questo amore tragge a sua similitudine. E ciò si
può fare manifesto massimamente in ciò, che sì
come lo divino amore è tutto etterno, così conviene che
sia etterno lo suo obietto di necessitate, sì che etterne cose
siano quelle che esso ama; e così face a questo amore amare;
ché la sapienza, ne la quale questo amore fere, etterna è.
Ond'è scritto di lei: "Dal principio dinanzi da li secoli
creata sono, e nel secolo che dee venire non verrò meno";
e ne li Proverbi di Salomone essa Sapienza dice: "Etternalmente
ordinata sono"; e nel principio di Giovanni, ne l'Evangelio, si
può la sua etternitade apertamente notare. E quinci nasce che
là dovunque questo amore splende, tutti li altri amori si
fanno oscuri e quasi spenti, imperò che lo suo obietto etterno
improporzionalmente li altri obietti vince e soperchia. Per che li
filosofi eccellentissimi ne li loro atti apertamente lo ne
dimostraro, per li quali sapemo essi tutte l'altre cose, fuori che la
sapienza, avere messe a non calere. Onde Democrito, de la propria
persona non curando, né barba né capelli né
unghie si togliea; Platone, de li beni temporali non curando, la
reale dignitade mise a non calere, che figlio di re fue; Aristotile,
d'altro amico non curando, contra lo suo migliore amico, fuori di
quella, combatteo, sì come contra lo nomato Platone. E perché
di questi parliamo, quando troviamo li altri che per questi pensieri
la loro vita disprezzaro, sì come Zeno, Socrate, Seneca, e
molti altri? E però è manifesto che la divina virtù,
a guisa che in angelo, in questo amore ne li uomini discende. E per
dare esperienza di ciò, grida sussequentemente lo testo: E
qual donna gentil questo non crede, Vada con lei e miri. Per
donna gentile s'intende la nobile anima d'ingegno e libera ne la sua
propia potestate, che è la ragione. Onde l'altre anime dire
non si possono donne, ma ancille, però che non per loro sono
ma per altrui; e lo Filosofo dice, nel secondo de la Metafisica, che
quella cosa è libera che per sua cagione è, non per
altrui.
Dice:
Vada con lei e miri li atti sui, cioè accompagnisi di
questo amore, e guardi a quello che dentro da lui troverà. E
in parte ne tocca, dicendo: Quivi dov'ella parla, si dichina,
cioè, dove la filosofia è in atto, si dichina un
celestial pensiero, nel quale si ragiona questa essere più che
umana operazione: e dice "del cielo" a dare a intendere che
non solamente essa, ma li pensieri amici di quella sono astratti da
le basse e terrene cose. Poi sussequentemente dice com'ell'avvalora e
accende amore dovunque ella si mostra, con la suavitade de li atti,
ché sono tutti li suoi sembianti onesti, dolci e sanza
soverchio alcuno. E sussequentemente, a maggiore persuasione de la
sua compagnia fare, dice: Gentile è in donna ciò che
in lei si trova, E bello è tanto quanto lei simiglia.
Ancora soggiugne: E puossi dir che 'l suo aspetto giova: dove
è da sapere che lo sguardo di questa donna fu a noi così
largamente ordinato, non pur per la faccia che ella ne dimostra
vedere, ma per le cose che ne tiene celate desiderare ed acquistare.
Onde, sì come per lei molto di quello si vede per ragione, e
per consequente essere per ragione, che sanza lei pare maraviglia,
così per lei si crede ch'ogni miracolo in più alto
intelletto puote avere ragione, e per consequente può essere.
Onde la nostra buona fede ha sua origine; da la quale viene la
speranza, de lo proveduto desiderare; e per quella nasce l'operazione
de la caritade. Per le quali tre virtudi si sale a filosofare a
quelle Atene celestiali, dove gli Stoici e Peripatetici e Epicurii,
per la luce de la veritade etterna, in uno volere concordevolemente
concorrono.
Capitolo XV
Ne lo precedente capitolo questa gloriosa donna è commendata
secondo l'una de le sue parti componenti, cioè amore. Ora in
questo, ne lo quale io intendo esponere quel verso che comincia: Cose
appariscon ne lo suo aspetto, si conviene trattare commendando
l'altra parte sua, cioè sapienza. Dice adunque lo testo "che
ne la faccia di costei appariscono cose che mostrano de' piaceri di
Paradiso"; e distingue lo loco dove ciò appare, cioè
ne li occhi e ne lo riso. E qui si conviene sapere che li occhi de la
Sapienza sono le sue demonstrazioni, con le quali si vede la veritade
certissimamente; e lo suo riso sono le sue persuasioni, ne le quali
si dimostra la luce interiore de la Sapienza sotto alcuno velamento:
e in queste due cose si sente quel piacere altissimo di beatitudine,
lo quale è massimo bene in Paradiso. Questo piacere in altra
cosa di qua giù essere non può, se non nel guardare in
questi occhi e in questo riso. E la ragione è questa: che, con
ciò sia cosa che ciascuna cosa naturalmente disia la sua
perfezione, sanza quella essere non può l'uomo contento, che è
essere beato; ché quantunque l'altre cose avesse, sanza questa
rimarrebbe in lui desiderio; lo quale essere non può con la
beatitudine, acciò che la beatitudine sia perfetta cosa e lo
desiderio sia cosa defettiva; ché nullo desidera quello che
ha, ma quello che non ha, che è manifesto difetto. E in questo
sguardo solamente l'umana perfezione s'acquista, cioè la
perfezione de la ragione, de la quale, sì come di
principalissima parte, tutta la nostra essenza depende; e tutte
l'altre nostre operazioni - sentire, nutrire, e tutto - sono per
quella sola, e questa è per sé, e non per altri; sì
che, perfetta sia questa, perfetta è quella, tanto cioè
che l'uomo, in quanto ello è uomo, vede terminato ogni
desiderio, e così è beato. E però si dice nel
libro di Sapienza: "Chi gitta via la sapienza e la dottrina, è
infelice": che è privazione de l'essere felice. Per
l'abito de la sapienza seguita che s'acquista essere felice - che è
essere contento - secondo la sentenza del Filosofo. Dunque si vede
come ne l'aspetto di costei de le cose di Paradiso appaiono. E però
si legge nel libro allegato di Sapienza, di lei parlando: "Essa
è candore de la etterna luce e specchio sanza macula de la
maestà di Dio".
Poi, quando si dice: Elle soverchian lo nostro intelletto,
escuso me di ciò, che poco parlar posso di quelle, per la loro
soperchianza. Dov'è da sapere che in alcuno modo queste cose
nostro intelletto abbagliano, in quanto certe cose si affermano
essere che lo intelletto nostro guardare non può, cioè
Dio e la etternitate e la prima materia; che certissimamente si
veggiono, e con tutta fede si credono essere, e per quello che sono
intendere noi non potemo; e nullo se non cose negando si può
appressare a la sua conoscenza, e non altrimenti. Veramente può
qui alcuno forte dubitare come ciò sia, che la sapienza possa
fare l'uomo beato, non potendo a lui perfettamente certe cose
mostrare; con ciò sia cosa che 'l naturale desiderio sia a
l'uomo di sapere, e sanza compiere lo desiderio beato essere non
possa. A ciò si può chiaramente rispondere che lo
desiderio naturale in ciascuna cosa è misurato secondo la
possibilitade de la cosa desiderante: altrimenti andrebbe in
contrario di se medesimo, che impossibile è; e la Natura
l'avrebbe fatto indarno, che è anche impossibile. In contrario
andrebbe: ché, desiderando la sua perfezione, desiderrebbe la
sua imperfezione; imperò che desiderrebbe sé sempre
desiderare e non compiere mai suo desiderio (e in questo errore cade
l'avaro maladetto, e non s'accorge che desidera sé sempre
desiderare, andando dietro al numero impossibile a giugnere).
Avrebbelo anco la Natura fatto indarno, però che non sarebbe
ad alcuno fine ordinato. E però l'umano desiderio è
misurato in questa vita a quella scienza che qui avere si può,
e quello punto non passa se non per errore, lo quale è di
fuori di naturale intenzione. E così è misurato ne la
natura angelica, e terminato in quanto a quella sapienza che la
natura di ciascuno può apprendere. E questa è la
ragione per che li Santi non hanno tra loro invidia, però che
ciascuno aggiugne lo fine del suo desiderio, lo quale desiderio è
con la bontà de la natura misurato. Onde, con ciò sia
cosa che conoscere di Dio e di certe altre cose quello esse sono non
sia possibile a la nostra natura, quello da noi naturalmente non è
desiderato di sapere. E per questo è la dubitazione
soluta.
Poi
quando dice: Sua bieltà piove fiammelle di foco,
discende ad un altro piacere di Paradiso, cioè de la
felicitade secondaria a questa prima, la quale de la sua biltade
procede. Dove è da sapere che la moralitade è bellezza
de la filosofia; ché così come la bellezza del corpo
resulta da le membra in quanto sono debitamente ordinate, così
la bellezza de la sapienza, che è corpo di Filosofia come
detto è, resulta da l'ordine de le virtudi morali, che fanno
quella piacere sensibilmente. E però dico che sua biltà,
cioè moralitade, piove fiammelle di foco, cioè appetito
diritto, che s'ingenera nel piacere de la morale dottrina: lo quale
appetito ne diparte eziandio da li vizii naturali, non che da li
altri. E quinci nasce quella felicitade, la quale diffinisce
Aristotile nel primo de l'Etica, dicendo che è operazione
secondo vertù in vita perfetta. E quando dice: Però
qual donna sente sua bieltate, procede in loda di costei,
gridando a la gente che la seguiti dicendo loro lo suo beneficio,
cioè che per seguitare lei diviene ciascuno buono. Però
dice: qual donna, cioè quale anima, sente sua biltate
biasimare per non parere quale parere si conviene, miri in questo
essemplo.
Ove è
da sapere che li costumi sono beltà de l'anima, cioè le
vertudi massimamente, le quali tal volta per vanitadi o per superbia
si fanno men belle e men gradite, sì come ne l'ultimo trattato
vedere si potrà. E però dico che, a fuggire questo, si
guardi in costei, cioè colà dov'ella è essemplo
d'umiltà; cioè in quella parte di sé che morale
filosofia si chiama. E soggiungo che, mirando costei - dico la
sapienza - in questa parte, ogni viziato tornerà diritto e
buono; e però dico: Questa è colei ch'umilia ogni
perverso, cioè volge dolcemente chi fuori di debito ordine
è piegato. Ultimamente, in massima laude di sapienza, dico lei
essere di tutto madre e di moto qualunque principio, dicendo che con
lei Iddio cominciò lo mondo e spezialmente lo movimento del
cielo, lo quale tutte le cose genera e dal quale ogni movimento è
principiato e mosso, dicendo: Costei pensò chi mosse
l'universo. Ciò è a dire che nel divino pensiero,
ch'è esso intelletto, essa era quando lo mondo fece; onde
seguita che ella lo facesse. E però disse Salomone in quello
de' Proverbi in persona de la Sapienza: "Quando Iddio
apparecchiava li cieli, io era presente; quando con certa legge e con
certo giro vallava li abissi, quando suso fermava l'etera e
suspendeva le fonti de l'acque, quando circuiva lo suo termine al
mare e poneva legge a l'acque che non passassero li suoi confini,
quando elli appendeva li fondamenti de la terra, con lui e io era,
disponente tutte le cose, e dilettavami per ciascuno die".
O peggio che morti che l'amistà di costei fuggite, aprite li
occhi vostri e mirate: che, innanzi che voi foste, ella fu amatrice
di voi, acconciando e ordinando lo vostro processo; e, poi che fatti
foste, per voi dirizzare, in vostra similitudine venne a voi. E se
tutti al suo conspetto venire non potete, onorate lei ne' suoi amici
e seguite li comandamenti loro, sì come quelli che nunziano la
volontà di questa etternale imperadrice - non chiudete li
orecchi a Salomone che ciò vi dice, dicendo che "la via
de' giusti è quasi luce splendiente, che procede e cresce
infino al die de la beatitudine" -; andando loro dietro, mirando
le loro operazioni, che essere debbono a voi luce nel cammino di
questa brevissima vita.
E qui si può terminare la vera sentenza de la presente
canzone. Veramente l'ultimo verso, che per tornata è posto,
per la litterale esposizione assai leggermente qua si può
ridurre, salvo in tanto quanto dice che io sì chiamai questa
donna fera e disdegnosa. Dove è da sapere che dal
principio essa filosofia pareva a me, quanto da la parte del suo
corpo, cioè sapienza, fiera, ché non mi ridea, in
quanto le sue persuasioni ancora non intendea; e disdegnosa, ché
non mi volgea l'occhio, cioè ch'io non potea vedere le sue
dimostrazioni: e di tutto questo lo difetto era dal mio lato. E per
questo, e per quello che ne la sentenza litterale è dato, è
manifesta l'allegoria de la tornata; sì che tempo è,
per più oltre procedere, di porre fine a questo trattato.
TRATTATO IV
<div align="center">
Canzone |
Le dolci rime d'amor ch'i' solia
Tale imperò che gentilezza volse,
Chi diffinisce: "Omo è legno animato",
Né voglion che vil uom gentil divegna,
Dico ch'ogni vertù principalmente
È gentilezza dovunqu'è vertute,
L'anima cui adorna esta bontate
Contra-li-erranti mia, tu te n'andrai; |
</div>
Capitolo I
Amore, secondo la concordevole sentenza de li savi di lui ragionanti,
e secondo quello che per esperienza continuamente vedemo, è
che congiunge e unisce l'amante con la persona amata; onde Pittagora
dice: "Ne l'amistà si fa uno di più". E però
che le cose congiunte comunicano naturalmente intra sé le loro
qualitadi, in tanto che talvolta è che l'una torna del tutto
ne la natura de l'altra, incontra che le passioni de la persona amata
entrano ne la persona amante, sì che l'amore de l'una si
comunica ne l'altra, e così l'odio e lo desiderio e ogni altra
passione. Per che li amici de l'uno sono da l'altro amati, e li
nemici odiati; per che in greco proverbio è detto: "De li
amici essere deono tutte le cose comuni". Onde io, fatto amico
di questa donna, di sopra ne la verace esposizione nominata,
cominciai ad amare e odiare secondo l'amore e l'odio suo. Cominciai
adunque ad amare li seguitatori de la veritade e odiare li
seguitatori de lo errore e de la falsitade, com'ella face. Ma però
che ciascuna cosa per sé è da amare, e nulla è
da odiare se non per sopravenimento di malizia, ragionevole e onesto
è, non le cose, ma le malizie de le cose odiare e procurare da
esse di partire. E a ciò s'alcuna persona intende, la mia
eccellentissima donna intende massimamente: a partire, dico, la
malizia de le cose, la qual cagione è d'odio; però che
in lei è tutta ragione e in lei è fontalemente
l'onestade. Io, lei seguitando ne l'opera sì come ne la
passione quanto potea, li errori de la gente abominava e dispregiava,
non per infamia o vituperio de li erranti, ma de li errori; li quali
biasimando credea far dispiacere, e, dispiaciuti, partire da coloro
che per essi eran da me odiati. Intra li quali errori uno io
massimamente riprendea, lo quale non solamente è dannoso e
pericoloso a coloro che in esso stanno, ma eziandio a li altri, che
lui riprendano, porta dolore e danno. Questo è l'errore de
l'umana bontade in quanto in noi è da la natura seminata e che
"nobilitade" chiamare si dee; che per mala consuetudine e
per poco intelletto era tanto fortificato, che l'oppinione, quasi di
tutti, n'era falsificata; e de la falsa oppinione nascevano li falsi
giudicii, e de' falsi giudicii nascevano le non giuste reverenze e
vilipensioni; per che li buoni erano in villano dispetto tenuti, e li
malvagi onorati ed essaltati. La qual cosa era pessima confusione del
mondo; sì come veder puote chi mira quello che di ciò
può seguitare, sottilmente. Per che, con ciò fosse cosa
che questa mia donna un poco li suoi dolci sembianti transmutasse a
me, massimamente in quelle parti dove io mirava e cercava se la prima
materia de li elementi era da Dio intesa, - per la qual cosa un poco
dal frequentare lo suo aspetto mi sostenni -, quasi ne la sua
assenzia dimorando, entrai a riguardare col pensiero lo difetto umano
intorno al detto errore. E per fuggire oziositade, che massimamente
di questa donna è nemica, e per istinguere questo errore, che
tanti amici le toglie, proposi di gridare a la gente che per mal
cammino andavano, acciò che per diritto calle si dirizzassero;
e cominciai una canzone nel cui principio dissi: Le dolci rime
d'amor ch'i' solia. Ne la quale io intendo riducer la gente in
diritta via sopra la propia conoscenza de la verace nobilitade; sì
come per la conoscenza del suo testo, a la esposizione del quale ora
s'intende, vedere si potrà. E però che in questa
canzone s'intese a rimedio così necessario, non era buono
sotto alcuna figura parlare, ma conveniesi per via tostana questa
medicina, acciò che fosse tostana la sanitade; la quale
corrotta, a così laida morte si correa.
Non sarà dunque mestiere ne la esposizione di costei alcuna
allegoria aprire, ma solamente la sentenza secondo la lettera
ragionare. Per mia donna intendo sempre quella che ne la precedente
ragione è ragionata, cioè quella luce virtuosissima,
Filosofia, li cui raggi fanno ne li fiori rifronzire e fruttificare
la verace de li uomini nobilitade, de la quale trattare la proposta
canzone pienamente intende.
Capitolo II
Nel principio de la impresa esposizione, per meglio dare a intendere
la sentenza de la proposta canzone, conviensi quella partire prima in
due parti, che ne la prima parte proemialmente si parla, ne la
seconda si seguita lo trattato; e comincia la seconda parte nel
cominciamento del secondo verso, dove dice: Tale imperò che
gentilezza volse. La prima parte ancora in tre membra si può
comprendere: nel primo si dice perché da lo parlare usato mi
parto; nel secondo dico quello che è di mia intenzione a
trattare; nel terzo domando aiutorio a quella cosa che più
aiutare mi può, cioè a la veritade. Lo secondo membro
comincia: E poi che tempo mi par d'aspettare. Lo terzo
comincia: E, cominciando, chiamo quel signore.
Dico adunque che "a me conviene lasciare le dolci rime d'amore
le quali solieno cercare li miei pensieri"; e la cagione
assegno, perché dico che ciò non è per
intendimento di più non rimare d'amore, ma però che ne
la donna mia nuovi sembianti sono appariti li quali m'hanno tolto
materia di dire al presente d'amore. Ov'è da sapere che non si
dice qui li atti di questa donna essere "disdegnosi e fieri"
se non secondo l'apparenza; sì come nel decimo capitolo del
precedente trattato si può vedere come altra volta dico che
l'apparenza de la veritade si discordava. E come ciò può
essere, che una medesima cosa sia dolce e paia amara, o vero sia
chiara e paia oscura, quivi sufficientemente vedere si può.
Appresso, quando dico: E poi che tempo mi par d'aspettare,
dico, sì come detto è, questo che trattare intendo. E
qui non è da trapassare con piede secco ciò che si dice
in "tempo aspettare", imperò che potentissima
cagione è de la mia mossa; ma da vedere è come
ragionevolemente quel tempo in tutte le nostre operazioni si dee
attendere, e massimamente nel parlare. Lo tempo, secondo che dice
Aristotile nel quarto de la Fisica, è "numero di
movimento, secondo prima e poi"; e "numero di movimento
celestiale", lo quale dispone le cose di qua giù
diversamente a ricevere alcuna informazione. Ché altrimenti è
disposta la terra nel principio de la primavera a ricevere in sé
la informazione de l'erbe e de li fiori, e altrimenti lo verno; e
altrimenti è disposta una stagione a ricevere lo seme che
un'altra; e così la nostra mente in quanto ella è
fondata sopra la complessione del corpo, che a seguitare la
circulazione del cielo altrimenti è disposto un tempo e
altrimenti un altro. Per che le parole, che sono quasi seme
d'operazione, si deono molto discretamente sostenere e lasciare, sì
perché bene siano ricevute e fruttifere vegnano, sì
perché da la loro parte non sia difetto di sterilitade. E però
lo tempo è da provedere, sì per colui che parla come
per colui che dee udire: ché se 'l parladore è mal
disposto, più volte sono le sue parole dannose; e se l'uditore
è mal disposto, mal sono quelle ricevute che buone siano. E
però Salomone dice ne lo Ecclesiaste: "Tempo è da
parlare, e tempo è da tacere". Per che io sentendo in me
turbata disposizione, per la cagione che detta è nel
precedente capitolo, a parlare d'Amore, parve a me che fosse
d'aspettare tempo, lo quale seco porta lo fine d'ogni desiderio, e
appresenta, quasi come donatore, a coloro a cui non incresce
d'aspettare. Onde dice santo Iacopo apostolo ne la sua Pistola: "Ecco
lo agricola aspetta lo prezioso frutto de la terra, pazientemente
sostenendo infino che riceva lo temporaneo e lo serotino". E
tutte le nostre brighe, se bene veniamo a cercare li loro principii,
procedono quasi dal non conoscere l'uso del tempo.
Dico: "poi che da aspettare mi pare, diporroe", cioè
lascierò stare, "lo mio stilo", cioè modo,
"soave" che d'Amore parlando hoe tenuto; e dico di dicere
di quello "valore" per lo quale uomo è gentile
veracemente. E avvegna che "valore" intendere si possa per
più modi, qui si prende "valore" quasi potenza di
natura, o vero bontade da quella data, sì come di sotto si
vedrà. E prometto di trattare di questa materia con rima
aspr'e sottile. Per che sapere si conviene che "rima"
si può doppiamente considerare, cioè largamente e
strettamente: strettamente, s'intende pur per quella concordanza che
ne l'ultima e penultima sillaba far si suole; quando largamente,
s'intende per tutto quel parlare che 'n numeri e tempo regolato in
rimate consonanze cade, e così qui in questo proemio prendere
e intendere si vuole. E però dice aspra quanto al suono
de lo dittato, che a tanta materia non conviene essere leno; e dice
sottile quanto a la sentenza de le parole, che sottilmente
argomentando e disputando procedono. E soggiungo: Riprovando 'l
giudicio falso e vile, ove si promette ancora di riprovare lo
giudicio de la gente piena d'errore; falso, cioè
rimosso da la veritade, e vile, cioè da viltà
d'animo affermato e fortificato. Ed è da guardare a ciò,
che in questo proemio prima si promette di trattare lo vero, e poi di
riprovare lo falso, e nel trattato si fa l'opposito; ché prima
si ripruova lo falso, e poi si tratta lo vero: che pare non convenire
a la promessione. Però è da sapere che tutto che a
l'uno e a l'altro s'intenda, al trattare lo vero s'intende
principalmente; a riprovare lo falso s'intende in tanto in quanto la
veritade meglio si fa apparire. E qui prima si promette lo trattare
del vero, sì come principale intento, lo quale a l'anima de li
auditori porta desiderio d'udire: nel trattato prima si ripruova lo
falso, acciò che, fugate le male oppinioni, la veritade poi
più liberamente sia ricevuta. E questo modo tenne lo maestro
de l'umana ragione, Aristotile, che sempre prima combatteo con li
avversari de la veritade e poi, quelli convinti, la veritade
mostroe.
Ultimamente, quando dico: E, cominciando, chiamo quel signore,
chiamo la veritade che sia meco, la quale è quello signore che
ne li occhi, cioè ne le dimostrazioni de la filosofia dimora,
e bene è signore, ché a lei disposata l'anima è
donna, e altrimenti è serva fuori d'ogni libertade. E dice:
Per ch'ella di se stessa s'innamora, però che essa
filosofia, che è, sì come detto è nel precedente
trattato, amoroso uso di sapienza, se medesima riguarda, quando
apparisce la bellezza de li occhi suoi a lei; che altro non è
a dire, se non che l'anima filosofante non solamente contempla essa
veritade, ma ancora contempla lo suo contemplare medesimo e la
bellezza di quello, rivolgendosi sovra se stessa e di se stessa
innamorando per la bellezza del suo primo guardare. E così
termina ciò che proemialmente per tre membri porta lo testo
del presente trattato.
Capitolo III
Veduta la sentenza del proemio, è da seguire lo trattato; e
per meglio quello mostrare, partire si conviene per le sue parti
principali, che sono tre: che ne la prima si tratta de la nobilitade
secondo oppinioni d'altri; ne la seconda si tratta di quella secondo
la propria oppinione; ne la terza si volge lo parlare a la canzone,
ad alcuno adornamento di ciò che detto è. La seconda
parte comincia: Dico ch'ogni vertù principalmente. La
terza comincia: Contra-li-erranti mia, tu te n'andrai. E
appresso queste tre parti generali, e altre divisioni fare si
convegnono, a bene prender lo 'ntelletto che mostrare s'intende. Però
nullo si maravigli se per molte divisioni si procede, con ciò
sia cosa che grande e alta opera sia per le mani al presente e da li
autori poco cercata, e che lungo convegna essere lo trattato e
sottile, nel quale per me ora s'entra, a distrigare lo testo
perfettamente secondo la sentenza che esso porta.
Dunque dico che ora questa prima parte si divide in due: che ne la
prima si pongono le oppinioni altrui, ne la seconda si ripruovano
quelle; e comincia questa seconda parte: Chi diffinisce: "Omo
è legno animato". Ancora la prima parte che rimane sì
ha due membri: lo primo è la narrazione de l'oppinione de lo
imperadore; lo secondo è la narrazione de l'oppinione de la
gente volgare, che è d'ogni ragione ignuda. E comincia questo
secondo membro: E altri fu di più lieve savere. Dico
dunque: Tale imperò, cioè tale usò
l'officio imperiale: dov'è da sapere che Federigo di Soave,
ultimo imperadore de li Romani - ultimo dico per rispetto al tempo
presente, non ostante che Ridolfo e Andolfo e Alberto poi eletti
siano, appresso la sua morte e de li suoi discendenti -, domandato
che fosse gentilezza, rispuose ch'era antica ricchezza e belli
costumi. E dico che altri fu di più lieve savere: che,
pensando e rivolgendo questa diffinizione in ogni parte, levò
via l'ultima particula, cioè li belli costumi, e tennesi a la
prima, cioè a l'antica ricchezza; e, secondo che lo testo pare
dubitare, forse per non avere li belli costumi non volendo perdere lo
nome di gentilezza, diffinio quella secondo che per lui facea, cioè
possessione d'antica ricchezza. E dico che questa oppinione è
quasi di tutti, dicendo che dietro da costui vanno tutti coloro che
fanno altrui gentile per essere di progenie lungamente stata ricca,
con ciò sia cosa che quasi tutti così latrano. Queste
due oppinioni - avvegna che l'una, come detto è, del tutto sia
da non curare - due gravissime ragioni pare che abbiano in aiuto: la
prima è che dice lo Filosofo che quello che pare a li più,
impossibile è del tutto essere falso; la seconda ragione è
l'autoritade de la diffinizione de lo imperadore. E perché
meglio si veggia poi la vertude de la veritade, che ogni autoritade
convince, ragionare intendo quanto l'una e l'altra di queste ragioni
aiutatrice e possente è. E, prima, poi che de la imperiale
autoritade sapere non si può se non si ritruovano le sue
radici, di quelle per intenzione in capitolo speziale è da
trattare.
Capitolo IV
Lo fondamento radicale de la imperiale maiestade, secondo lo vero, è
la necessità de la umana civilitade, che a uno fine è
ordinata, cioè a vita felice; a la quale nullo per sé è
sufficiente a venire sanza l'aiutorio d'alcuno, con ciò sia
cosa che l'uomo abbisogna di molte cose, a le quali uno solo
satisfare non può. E però dice lo Filosofo che l'uomo
naturalmente è compagnevole animale. E sì come un uomo
a sua sufficienza richiede compagnia dimestica di famiglia, così
una casa a sua sufficienza richiede una vicinanza: altrimenti molti
difetti sosterrebbe che sarebbero impedimento di felicitade. E però
che una vicinanza a sé non può in tutto satisfare,
conviene a satisfacimento di quella essere la cittade. Ancora la
cittade richiede a le sue arti e a le sue difensioni vicenda avere e
fratellanza con le circavicine cittadi; e però fu fatto lo
regno. Onde, con ciò sia cosa che l'animo umano in terminata
possessione di terra non si queti, ma sempre desideri gloria
d'acquistare, sì come per esperienza vedemo, discordie e
guerre conviene surgere intra regno e regno, le quali sono
tribulazioni de le cittadi, e per le cittadi de le vicinanze, e per
le vicinanze de le case, e per le case de l'uomo; e così
s'impedisce la felicitade. Il perché, a queste guerre e le
loro cagioni torre via, conviene di necessitade tutta la terra, e
quanto a l'umana generazione a possedere è dato, essendo
Monarchia, cioè uno solo principato, e uno prencipe avere; lo
quale, tutto possedendo e più desiderare non possendo, li regi
tegna contenti ne li termini de li regni, sì che pace intra
loro sia, ne la quale si posino le cittadi, e in questa posa le
vicinanze s'amino, in questo amore le case prendano ogni loro
bisogno, lo qual preso, l'uomo viva felicemente; che è quello
per che esso è nato. E a queste ragioni si possono reducere
parole del Filosofo ch'egli ne la Politica dice, che quando più
cose ad uno fine sono ordinate, una di quelle conviene essere
regolante, o vero reggente, e tutte l'altre rette e regolate. Sì
come vedemo in una nave, che diversi offici e diversi fini di quella
a uno solo fine sono ordinati, cioè a prendere loro desiderato
porto per salutevole via: dove, sì come ciascuno officiale
ordina la propria operazione nel proprio fine, così è
uno che tutti questi fini considera, e ordina quelli ne l'ultimo di
tutti; e questo è lo nocchiero, a la cui voce tutti obedire
deono. Questo vedemo ne le religioni, ne li esserciti, in tutte
quelle cose che sono, come detto è, a fine ordinate. Per che
manifestamente vedere si può che a perfezione de la universale
religione de la umana spezie conviene essere uno, quasi nocchiero,
che, considerando le diverse condizioni del mondo, a li diversi e
necessari offici ordinare abbia del tutto universale e inrepugnabile
officio di comandare. E questo officio per eccellenza Imperio è
chiamato, sanza nulla addizione, però che esso è di
tutti li altri comandamenti comandamento. E così chi a questo
officio è posto è chiamato Imperadore, però che
di tutti li comandamenti elli è comandatore, e quello che esso
dice a tutti è legge, e per tutti dee essere obedito e ogni
altro comandamento da quello di costui prendere vigore e autoritade.
E così si manifesta la imperiale maiestade e autoritade essere
altissima ne l'umana compagnia.
Veramente potrebbe alcuno gavillare dicendo che, tutto che al mondo
officio d'imperio si richeggia, non fa ciò l'autoritade de lo
romano principe ragionevolemente somma, la quale s'intende
dimostrare; però che la romana potenzia non per ragione né
per decreto di convento universale fu acquistata, ma per forza, che a
la ragione pare esser contraria. A ciò si può
lievemente rispondere, che la elezione di questo sommo officiale
convenia primieramente procedere da quello consiglio che per tutti
provede, cioè Dio; altrimenti sarebbe stata la elezione per
tutti non iguale; con ciò sia cosa che, anzi l'officiale
predetto, nullo a bene di tutti intendea. E però che più
dolce natura in segnoreggiando, e più forte in sostenendo, e
più sottile in acquistando né fu né fia che
quella de la gente latina - sì come per esperienza si può
vedere - e massimamente di quello popolo santo nel quale l'alto
sangue troiano era mischiato, cioè Roma, Dio quello elesse a
quello officio. Però che, con ciò sia cosa che a quello
ottenere non sanza grandissima vertude venire si potesse, e a quello
usare grandissima e umanissima benignitade si richiedesse, questo era
quello popolo che a ciò più era disposto. Onde non da
forza fu principalmente preso per la romana gente, ma da divina
provedenza, che è sopra ogni ragione. E in ciò
s'accorda Virgilio nel primo de lo Eneida, quando dice, in persona di
Dio parlando: "A costoro - cioè a li Romani - né
termine di cose né di tempo pongo; a loro ho dato imperio
sanza fine". La forza dunque non fu cagione movente, sì
come credeva chi gavillava, ma fu cagione instrumentale, sì
come sono li colpi del martello cagione del coltello, e l'anima del
fabbro è cagione efficiente e movente; e così non
forza, ma ragione, e ancora divina, conviene essere stata principio
del romano imperio. E che ciò sia, per due apertissime ragioni
vedere si può, le quali mostrano quella civitade imperatrice,
e da Dio avere spezial nascimento, e da Dio avere spezial processo.
Ma però che in questo capitolo sanza troppa lunghezza ciò
trattare non si potrebbe, e li lunghi capitoli sono inimici de la
memoria, farò ancora digressione d'altro capitolo per le
toccate ragioni mostrare; che non ha sanza utilitade e diletto
grande.
Capitolo V
Non è maraviglia se la divina provedenza, che del tutto
l'angelico e lo umano accorgimento soperchia, occultamente a noi
molte volte procede, con ciò sia cosa che spesse volte l'umane
operazioni a li uomini medesimi ascondono la loro intenzione; ma da
maravigliare è forte, quando la essecuzione de lo etterno
consiglio tanto manifesto procede con la nostra ragione. E però
io nel cominciamento di questo capitolo posso parlare con la bocca di
Salomone, che in persona de la Sapienza dice ne li suoi Proverbi:
"Udite: però che di grandi cose io debbo
parlare".
Volendo la 'nmensurabile bontà divina l'umana creatura a sé
riconformare, che per lo peccato de la prevaricazione del primo uomo
da Dio era partita e disformata, eletto fu in quello altissimo e
congiuntissimo consistorio de la Trinitade, che 'l Figliuolo di Dio
in terra discendesse a fare questa concordia. E però che ne la
sua venuta nel mondo, non solamente lo cielo, ma la terra convenia
essere in ottima disposizione; e la ottima disposizione de la terra
sia quando ella è monarchia, cioè tutta ad uno
principe, come detto è di sopra; ordinato fu per lo divino
provedimento quello popolo e quella cittade che ciò dovea
compiere, cioè la gloriosa Roma. E però che anche
l'albergo dove il celestiale rege intrare dovea convenia essere
mondissimo e purissimo, ordinata fu una progenie santissima, de la
quale dopo molti meriti nascesse una femmina ottima di tutte l'altre,
la quale fosse camera del Figliuolo di Dio: e questa progenie fu
quella di David, del qual nascette la baldezza e l'onore de l'umana
generazione, cioè Maria. E però è scritto in
Isaia: "Nascerà virga de la radice di Iesse, e fiore de
la sua radice salirà"; e Iesse fu padre del sopra detto
David. E tutto questo fu in uno temporale, che David nacque e nacque
Roma, cioè che Enea venne di Troia in Italia, che fu origine
de la cittade romana, sì come testimoniano le scritture. Per
che assai è manifesto la divina elezione del romano imperio
per lo nascimento de la santa cittade che fu contemporaneo a la
radice de la progenie di Maria. E incidentemente è da toccare
che, poi che esso cielo cominciò a girare, in migliore
disposizione non fu che allora quando di là su discese Colui
che l'ha fatto e che 'l governa; sì come ancora per virtù
di loro arti li matematici possono ritrovare. Né 'l mondo mai
non fu né sarà sì perfettamente disposto come
allora che a la voce d'un solo, principe del roman popolo e
comandatore, fu ordinato, sì come testimonia Luca evangelista.
E però che pace universale era per tutto, che mai, più,
non fu né fia, la nave de l'umana compagnia dirittamente per
dolce cammino a debito porto correa. Oh ineffabile e incomprensibile
sapienza di Dio che a una ora, per la tua venuta, in Siria suso e qua
in Italia tanto dinanzi ti preparasti! E oh stoltissime e
vilissime bestiuole che a guisa d'uomo voi pascete, che presummete
contra nostra fede parlare e volete sapere, filando e zappando, ciò
che Iddio, che con tanta prudenza hae ordinato! Maladetti siate voi,
e la vostra presunzione, e chi a voi crede!
E, come detto è di sopra nel fine del precedente capitolo del
presente trattato, non solamente speziale nascimento, ma speziale
processo ebbe da Dio; ché brievemente, da Romolo
incominciando, che fu di quella primo padre, infino a la sua
perfettissima etade, cioè al tempo del predetto suo
imperadore, non pur per umane ma per divine operazioni andò lo
suo processo. Che se consideriamo li sette regi che prima la
governaro, cioè Romolo, Numa, Tullo, Anco e li re Tarquini,
che furono quasi baiuli e tutori de la sua puerizia, noi trovare
potremo per le scritture de le romane istorie, massimamente per Tito
Livio, coloro essere stati di diverse nature, secondo l'opportunitade
del procedente tempo. Se noi consideriamo poi quella per la maggiore
adolescenza sua, poi che da la reale tutoria fu emancipata, da Bruto
primo consolo infino a Cesare primo prencipe sommo, noi troveremo lei
essaltata non con umani cittadini, ma con divini, ne li quali non
amore umano, ma divino era inspirato in amare lei. E ciò non
potea né dovea essere se non per ispeziale fine, da Dio inteso
in tanta celestiale infusione. E chi dirà che fosse sanza
divina inspirazione, Fabrizio infinita quasi moltitudine d'oro
rifiutare, per non volere abbandonare sua patria? Curio, da li
Sanniti tentato di corrompere, grandissima quantità d'oro per
carità de la patria rifiutare, dicendo che li romani cittadini
non l'oro, ma li possessori de l'oro possedere voleano? e Muzio la
sua mano propria incendere, perché fallato avea lo colpo che
per liberare Roma pensato avea? Chi dirà di Torquato,
giudicatore del suo figliuolo a morte per amore del publico bene,
sanza divino aiutorio ciò avere sofferto? e Bruto predetto
similemente? Chi dirà de li Deci e de li Drusi, che puosero la
loro vita per la patria? Chi dirà del cattivato Regolo, da
Cartagine mandato a Roma per commutare li presi cartaginesi a sé
e a li altri presi romani, avere contra sé per amore di Roma,
dopo la legazione ritratta, consigliato, solo da umana, e non da
divina natura mosso? Chi dirà di Quinzio Cincinnato, fatto
dittatore e tolto da lo aratro, e dopo lo tempo de l'officio,
spontaneamente quello rifiutando a lo arare essere ritornato? Chi
dirà di Cammillo, bandeggiato e cacciato in essilio, essere
venuto a liberare Roma contra li suoi nimici, e dopo la sua
liberazione, spontaneamente essere ritornato in essilio per non
offendere la senatoria autoritade, sanza divina istigazione? O
sacratissimo petto di Catone, chi presummerà di te parlare?
Certo maggiormente di te parlare non si può che tacere, e
seguire Ieronimo quando nel proemio de la Bibbia, là dove di
Paolo tocca, dice che meglio è tacere che poco dire. Certo e
manifesto esser dee, rimembrando la vita di costoro e de li altri
divini cittadini, non sanza alcuna luce de la divina bontade,
aggiunta sopra la loro buona natura, essere tante mirabili operazioni
state; e manifesto esser dee, questi eccellentissimi essere stati
strumenti con li quali procedette la divina provedenza ne lo romano
imperio, dove più volte parve esse braccia di Dio essere
presenti. E non puose Iddio le mani proprie a la battaglia dove li
Albani con li Romani, dal principio, per lo capo del regno
combattero, quando uno solo Romano ne le mani ebbe la franchigia di
Roma? Non puose Iddio le mani proprie, quando li Franceschi, tutta
Roma presa, prendeano di furto Campidoglio di notte, e solamente la
voce d'una oca fé ciò sentire? E non puose Iddio le
mani, quando, per la guerra d'Annibale avendo perduti tanti cittadini
che tre moggia d'anella in Africa erano portati, li Romani volsero
abbandonare la terra, se quel benedetto Scipione giovane non avesse
impresa l'andata in Africa per la sua franchezza? E non puose Iddio
le mani quando uno nuovo cittadino di picciola condizione, cioè
Tullio, contra tanto cittadino quanto era Catellina la romana libertà
difese? Certo sì. Per che più chiedere non si dee, a
vedere che spezial nascimento e spezial processo, da Dio pensato e
ordinato, fosse quello de la santa cittade. Certo di ferma sono
oppinione che le pietre che ne le mura sue stanno siano degne di
reverenzia, e lo suolo dov'ella siede sia degno oltre quello che per
li uomini è predicato e approvato.
Capitolo VI
Di sopra, nel terzo capitolo di questo trattato, promesso fue di
ragionare de l'altezza de la imperiale autoritade e de la filosofica;
e però, ragionato de la imperiale, procedere oltre si conviene
la mia digressione, a vedere di quella del Filosofo, secondo la
promessione fatta. E qui è prima da vedere che questo vocabulo
vuole dire, però che qui è maggiore mestiere di saperlo
che sopra lo ragionamento de la imperiale, la quale per la sua
maiestade non pare esser dubitata. E` dunque da sapere che
"autoritade" non è altro che "atto d'autore".
Questo vocabulo, cioè "autore", sanza quella terza
lettera C, può discendere da due principii: l'uno si è
d'uno verbo molto lasciato da l'uso in gramatica, che significa tanto
quanto "legare parole", cioè "auieo". E
chi ben guarda lui, ne la sua prima voce apertamente vedrà che
elli stesso lo dimostra, che solo di legame di parole è fatto,
cioè di sole cinque vocali, che sono anima e legame d'ogni
parole, e composto d'esse per modo volubile, a figurare imagine di
legame. Ché, cominciando da l'A, ne l'U quindi si rivolve, e
viene diritto per I ne l'E, quindi si rivolve e torna ne l'O; sì
che veramente imagina questa figura: A, E, I, O, U, la quale è
figura di legame. E in quanto "autore" viene e discende da
questo verbo, si prende solo per li poeti, che con l'arte musaica le
loro parole hanno legate: e di questa significazione al presente non
s'intende. L'altro principio, onde "autore" discende, sì
come testimonia Uguiccione nel principio de le sue Derivazioni, è
uno vocabulo greco che dice "autentin", che tanto vale in
latino quanto "degno di fede e d'obedienza". E così
"autore", quinci derivato, si prende per ogni persona degna
d'essere creduta e obedita. E da questo viene questo vocabulo del
quale al presente si tratta, cioè "autoritade"; per
che si può vedere che "autoritade" vale tanto quanto
"atto degno di fede e d'obedienza". Onde, quand'io provi
che Aristotile è dignissimo di fede e d'obedienza, manifesto è
che le sue parole sono somma e altissima autoritade.
Che Aristotile sia dignissimo di fede e d'obedienza così
provare si può. Intra operarii e artefici di diverse arti e
operazioni, ordinate a una operazione od arte finale, l'artefice o
vero operatore di quella massimamente dee essere da tutti obedito e
creduto, sì come colui che solo considera l'ultimo fine di
tutti li altri fini. Onde al cavaliere dee credere lo spadaio, lo
frenaio, lo sellaio, lo scudaio, e tutti quelli mestieri che a l'arte
di cavalleria sono ordinati. E però che tutte l'umane
operazioni domandano uno fine, cioè quello de l'umana vita al
quale l'uomo è ordinato in quanto elli è uomo, lo
maestro e l'artefice che quello ne dimostra e considera, massimamente
obedire e credere si dee. Questi è Aristotile: dunque esso è
dignissimo di fede e d'obedienza. E a vedere come Aristotile è
maestro e duca de la ragione umana, in quanto intende a la sua finale
operazione, si conviene sapere che questo nostro fine, che ciascuno
disia naturalmente, antichissimamente fu per li savi cercato. E però
che li disideratori di quello sono in tanto numero e li appetiti sono
quasi tutti singularmente diversi, avvegna che universalmente siano
pur uno, malagevole fu molto a scernere quello dove dirittamente ogni
umano appetito si riposasse. Furono dunque filosofi molto antichi, de
li quali primo e prencipe fu Zenone, che videro e credettero questo
fine de la vita umana essere solamente la rigida onestade; cioè
rigidamente, sanza respetto alcuno, la verità e la giustizia
seguire, di nulla mostrare dolore, di nulla mostrare allegrezza, di
nulla passione avere sentore. E diffiniro così questo onesto:
"quello che, sanza utilitade e sanza frutto, per sé di
ragione è da laudare". E costoro e la loro setta chiamati
furono Stoici, e fu di loro quello glorioso Catone di cui non fui di
sopra oso di parlare. Altri filosofi furono, che videro e credettero
altro che costoro; e di questi fu primo e prencipe uno filosofo che
fu chiamato Epicuro; ché, veggendo che ciascuno animale, tosto
che nato è, quasi da natura dirizzato nel debito fine, che
fugge dolore e domanda allegrezza, quelli disse questo nostro fine
essere voluptade (non dico "voluntade", ma scrivola per P),
cioè diletto sanza dolore. E però che tra 'l diletto e
lo dolore non ponea mezzo alcuno, dicea che "voluptade" non
era altro che "non dolore", sì come pare Tullio
recitare nel primo di Fine di Beni. E di questi, che da Epicuro sono
Epicurei nominati, fu Torquato, nobile romano, disceso del sangue del
glorioso Torquato del quale feci menzione di sopra. Altri furono, e
cominciamento ebbero da Socrate e poi dal suo successore Platone,
che, agguardando più sottilmente, e veggendo che ne le nostre
operazioni si potea peccare e peccavasi nel troppo e nel poco,
dissero che la nostra operazione sanza soperchio e sanza difetto,
misurata col mezzo per nostra elezione preso, ch'è virtù,
era quel fine di che al presente si ragiona; e chiamaronlo
"operazione con virtù". E questi furono Academici
chiamati, sì come fue Platone e Speusippo suo nepote: chiamati
per luogo così dove Plato studiava, cioè Academia; né
da Socrate presero vocabulo, però che ne la sua filosofia
nulla fu affermato. Veramente Aristotile, che Stagirite ebbe
sopranome, e Zenocrate Calcedonio, suo compagnone, e per lo studio
loro, e per lo 'ngegno singulare e quasi divino che la natura in
Aristotile messo avea, questo fine conoscendo per lo modo socratico
quasi e academico, limaro e a perfezione la filosofia morale
redussero, e massimamente Aristotile. E però che Aristotile
cominciò a disputare andando in qua e in lae, chiamati furono
- lui, dico, e li suoi compagni - Peripatetici, che tanto vale quanto
"deambulatori". E però che la perfezione di questa
moralitade per Aristotile terminata fue, lo nome de li Academici si
spense, e tutti quelli che a questa setta si presero Peripatetici
sono chiamati; e tiene questa gente oggi lo reggimento del mondo in
dottrina per tutte parti, e puotesi appellare quasi cattolica
oppinione. Per che vedere si può, Aristotile essere additatore
e conduttore de la gente a questo segno. E questo mostrare si
volea.
Per che,
tutto ricogliendo, è manifesto lo principale intento, cioè
che l'autoritade del filosofo sommo di cui s'intende sia piena di
tutto vigore. E non repugna a la imperiale autoritade; ma quella
sanza questa è pericolosa, e questa sanza quella è
quasi debile, non per sé, ma per la disordinanza de la gente;
sì che l'una con l'altra congiunta utilissime e pienissime
sono d'ogni vigore. E però si scrive in quello di Sapienza:
"Amate lo lume de la sapienza, voi tutti che siete dinanzi a'
populi". Ciò è a dire: Congiungasi la filosofica
autoritade con la imperiale, a bene e perfettamente reggere. Oh
miseri che al presente reggete! e oh miserissimi che retti siete! ché
nulla filosofica autoritade si congiunge con li vostri reggimenti né
per proprio studio né per consiglio, sì che a tutti si
può dire quella parola de lo Ecclesiaste: "Guai a te,
terra, lo cui re è fanciullo, e li cui principi la domane
mangiano!"; e a nulla terra si può dire quella che
seguita: "Beata la terra lo cui re è nobile e li cui
principi cibo usano in suo tempo, a bisogno e non a lussuria!".
Ponetevi mente, nemici di Dio, a' fianchi, voi che le verghe de'
reggimenti d'Italia prese avete - e dico a voi, Carlo e Federigo
regi, e a voi altri principi e tiranni -; e guardate chi a lato vi
siede per consiglio, e annumerate quante volte lo die questo fine de
l'umana vita per li vostri consiglieri v'è additato! Meglio
sarebbe a voi come rondine volare basso, che come nibbio altissime
rote fare sopra le cose vilissime.
Capitolo VII
Poi che veduto è quanto è da reverire l'autoritade
imperiale e la filosofica, che paiono aiutare le proposte oppinioni,
è da ritornare al diritto calle de lo inteso processo. Dico
dunque che questa ultima oppinione del vulgo è tanto durata,
che sanza altro respetto, sanza inquisizione d'alcuna ragione,
gentile è chiamato ciascuno che figlio sia o nepote d'alcuno
valente uomo, tutto che esso sia da niente. E questo è quello
che dice: Ed è tanto durata La così falsa oppinion
tra nui, Che l'uom chiama colui Omo gentil che può dicere: "Io
fui nepote, o figlio, di cotal valente", Benché sia da
niente. Per che è da notare che pericolosissima negligenza
è lasciare la mala oppinione prendere piede; che così
come l'erba multiplica nel campo non cultato, e sormonta, e cuopre la
spiga del frumento sì che, disparte agguardando, lo frumento
non pare, e perdesi lo frutto finalmente; così la mala
oppinione ne la mente, non gastigata e corretta, sì cresce e
multiplica sì che le spighe de la ragione, cioè la vera
oppinione si nasconde e quasi sepulta si perde. Oh com'è
grande la mia impresa in questa canzone, a volere omai così
trifoglioso campo sarchiare come quello de la comune sentenza, sì
lungamente da questa cultura abbandonato! Certo non del tutto questo
mondare intendo, ma solo in quelle parti dove le spighe de la ragione
non sono del tutto sorprese: cioè coloro dirizzare intendo ne'
quali alcuno lumetto di ragione per buona loro natura vive ancora,
ché de li altri tanto è da curare quanto di bruti
animali; però che non minore maraviglia mi sembra reducere a
ragione colui in cui è la luce di ragione del tutto spenta,
che reducere in vita colui che quattro dì è stato, nel
sepulcro.
Poi che
la mala condizione di questa populare oppinione è narrata,
subitamente, quasi come cosa orribile, quella percuoto fuori di tutto
l'ordine de la riprovagione, dicendo: Ma vilissimo sembra, a chi
'l ver guata, a dare a intendere la sua intollerabile malizia,
dicendo costoro mentire massimamente; però che non solamente
colui è vile, cioè non gentile, che disceso di buoni è
malvagio, ma eziandio è vilissimo: e pongo essemplo del
cammino mostrato e poscia errato. Dove, a ciò mostrare, far mi
conviene una questione, e rispondere a quella, in questo modo. Una
pianura è con certi sentieri: campo con siepi, con fossati,
con pietre, con legname, con tutti quasi impedimenti, fuori de li
suoi stretti sentieri. Nevato è sì, che tutto cuopre la
neve e rende una figura in ogni parte, sì che d'alcuno
sentiero vestigio non si vede. Viene alcuno da l'una parte de la
campagna e vuole andare a una magione che è da l'altra parte;
e per sua industria, cioè per accorgimento e per bontade
d'ingegno, solo da sé guidato, per lo diritto cammino si va là
dove intende, lasciando le vestigie de li suoi passi diretro da sé.
Viene un altro appresso costui, e vuole a questa magione andare, e
non li è mestiere se non seguire li vestigi lasciati; e, per
suo difetto, lo cammino che altri sanza scorta ha saputo tenere,
questo scorto erra, e tortisce per li pruni e per le ruine, e a la
parte dove dee non va. Quale di costoro si dee dicere valente?
Rispondo: quegli che andò dinanzi. Questo altro come si
chiamerà? Rispondo: vilissimo. Perché non si chiama non
valente, cioè vile? Rispondo: perché non valente, cioè
vile, sarebbe da chiamare colui che, non avendo alcuna scorta, non
fosse ben camminato; ma però che questi l'ebbe, lo suo errore
e lo suo difetto non può salire, e però è da
dire non vile, ma vilissimo. E così quelli che dal padre o
d'alcuno suo maggiore buono è disceso ed è malvagio,
non solamente è vile, ma vilissimo, e degno d'ogni dispetto e
vituperio più che altro villano. E perché l'uomo da
questa infima viltade si guardi, comanda Salomone a colui che 'l
valente antecessore hae avuto, nel vigesimo secondo capitolo de li
Proverbi: "Non trapasserai li termini antichi che puosero li
padri tuoi"; e dinanzi dice, nel quarto capitolo del detto
libro: "La via de' giusti", cioè de' valenti, "quasi
luce splendiente procede, e quella de li malvagi è oscura.
Elli non sanno dove rovinano". Ultimamente, quando si dice: E
tocca a tal, ch'è morto e va per terra, a maggiore
detrimento dico questo cotale vilissimo essere morto, parendo vivo.
Onde è da sapere che veramente morto lo malvagio uomo dire si
puote, e massimamente quelli che da la via del buono suo antecessore
si parte. E ciò si può così mostrare. Sì
come dice Aristotile nel secondo de l'Anima, "vivere è
l'essere de li viventi"; e per ciò che vivere è
per molti modi (sì come ne le piante vegetare, ne li animali
vegetare e sentire e muovere, ne li uomini vegetare, sentire, muovere
e ragionare, o vero intelligere), e le cose si deono denominare da la
più nobile parte, manifesto è che vivere ne li animali
è sentire - animali, dico, bruti -, vivere ne l'uomo è
ragione usare. Dunque, se 'l vivere è l'essere dei viventi e
vivere ne l'uomo è ragione usare, ragione usare è
l'essere de l'uomo, e così da quello uso partire è
partire da essere, e così è essere morto. E non si
parte da l'uso del ragionare chi non ragiona lo fine de la sua vita?
e non si parte da l'uso de la ragione chi non ragiona il cammino che
fare dee? Certo si parte; e ciò si manifesta massimamente con
colui che ha le vestigie innanzi, e non le mira. E però dice
Salomone nel quinto capitolo de li Proverbi: "Quelli muore che
non ebbe disciplina, e ne la moltitudine de la sua stoltezza sarà
ingannato". Ciò è a dire: Colui è morto che
non si fé discepolo, che non segue lo maestro; e questo
vilissimo è quello. Potrebbe alcuno dicere: Come è
morto e va? Rispondo che è morto uomo e rimaso bestia. Ché,
sì come dice lo Filosofo nel secondo de l'Anima, le potenze de
l'anima stanno sopra sé come la figura de lo quadrangulo sta
sopra lo triangulo, e lo pentangulo, cioè la figura che ha
cinque canti, sta sopra lo quadrangulo: e così la sensitiva
sta sopra la vegetativa, e la intellettiva sta sopra la sensitiva.
Dunque, come levando l'ultimo canto del pentangulo rimane quadrangulo
e non più pentangulo, così levando l'ultima potenza de
l'anima, cioè la ragione, non rimane più uomo, ma cosa
con anima sensitiva solamente, cioè animale bruto. E questa è
la sentenza del secondo verso de la canzone impresa, nel quale si
pongono l'altrui oppinioni.
Capitolo VIII
Lo più bello ramo che de la radice razionale consurga si è
la discrezione. Ché, sì come dice Tommaso sopra lo
prologo de l'Etica, "conoscere l'ordine d'una cosa ad altra è
proprio atto di ragione", e è questa discrezione. Uno de'
più belli e dolci frutti di questo ramo è la reverenza
che dee lo minore a lo maggiore. Onde Tullio, nel primo de li Offici,
parlando de la bellezza che in su l'onestade risplende, dice la
reverenza essere di quella; e così come questa è
bellezza d'onestade, così lo suo contrario è turpezza e
menomanza de l'onesto, lo quale contrario inreverenza, o vero
tracotanza dicere in nostro volgare si può. E però esso
Tullio nel medesimo luogo dice: "Mettere a negghienza di sapere
quello che li altri sentono di lui, non solamente è di persona
arrogante, ma di dissoluta"; che non vuole altro dire, se non
che arroganza e dissoluzione è se medesimo non conoscere, ch'è
principio ed è la misura d'ogni reverenza. Per che io volendo,
con tutta reverenza e a lo Principe e al Filosofo portando, la
malizia d'alquanti de la mente levare, per fondarvi poi suso la luce
de la veritade, prima che a riprovare le proposte oppinioni proceda,
mostrerò come, quelle riprovando, né contra l'imperiale
maiestade né contra lo Filosofo si ragiona inreverentemente.
Che se in alcuna parte di tutto questo libro inreverente mi
mostrasse, non sarebbe tanto laido quanto in questo trattato; nel
quale, di nobilitade trattando, me nobile e non villano deggio
mostrare. E prima mostrerò me non presummere contra l'autorità
del Filosofo; poi mostrerò me non presummere contra la
maiestade imperiale.
Dico adunque che quando lo Filosofo dice: "Quello che pare a li
più, impossibile è del tutto essere falso", non
intende dicere del parere di fuori, cioè sensuale, ma di
quello dentro, cioè razionale; con ciò sia cosa che 'l
sensuale parere secondo la più gente, sia molte volte
falsissimo, massimamente ne li sensibili comuni, là dove lo
senso spesse volte è ingannato. Onde sapemo che a la più
gente lo sole pare di larghezza, nel diametro, d'un piede, e sì
è ciò falsissimo. Ché, secondo lo cercamento e
la invenzione che ha fatto l'umana ragione con l'altre sue arti, lo
diametro del corpo del sole è cinque volte quanto quello de la
terra, e anche una mezza volta; onde, con ciò sia cosa che la
terra per lo diametro suo sia semilia cinquecento miglia, lo diametro
del sole, che a la sensuale apparenza appare di quantità d'un
piede, è trentacinque milia settecento cinquanta miglia. Per
che manifesto è Aristotile non avere inteso de la sensuale
apparenza; e però, se io intendo solo a la sensuale apparenza
riprovare, non faccio contra la intenzione del Filosofo, e però
né la reverenza che a lui si dee non offendo. E che io
sensuale apparenza intenda riprovare è manifesto. Ché
costoro, che così giudicano, non giudicano se non per quello
che sentono di queste cose che la fortuna può dare e torre;
che perché veggiono fare le parentele e li alti matrimonii, li
edifici mirabili, le possessioni larghe, le signorie grandi, credono
quelle essere cagioni di nobilitade, anzi essa nobilitade credono
quelle essere. Che s'elli giudicassero con l'apparenza razionale,
dicerebbero lo contrario, cioè la nobilitade essere cagione di
questo, sì come di sotto in questo trattato si vedrà.
E come io, secondo che vedere si può, contra la reverenza del
Filosofo non parlo ciò riprovando, così non parlo
contra la reverenza de lo Imperio: e la ragione mostrare intendo. Ma
però che, dinanzi da l'avversario se ragiona, lo rettorico dee
molta cautela usare nel suo sermone, acciò che l'avversario
quindi non prenda materia di turbare la veritade, io, che al volto di
tanti avversarii parlo in questo trattato, non posso brievemente
parlare; onde, se le mie digressioni sono lunghe, nullo si maravigli.
Dico adunque che, a mostrare me non essere inreverente a la maiestade
de lo Imperio, prima è da vedere che è "reverenza".
Dico che reverenza non è altro che confessione di debita
subiezione per manifesto segno. E veduto questo, da distinguere è
intra loro "inreverente" e "non reverente". Lo
inreverente dice privazione, lo non reverente dice negazione. E però
la inreverenza è disconfessare la debita subiezione, per
manifesto segno, dico, e la non reverenza è negare la debita
subiezione. Puote l'uomo disdicere la cosa doppiamente: per uno modo
puote l'uomo disdicere offendendo a la veritade, quando de la debita
confessione si priva, e questo propriamente è "disconfessare";
per un altro modo puote l'uomo disdicere non offendendo a la
veritade, quando quello che non è non si confessa, e questo è
proprio "negare": sì come disdicere l'uomo sé
essere del tutto mortale, è negare, propriamente parlando. Per
che se io niego la reverenza de lo Imperio, non sono inreverente, ma
sono non reverente: che non è contro a la reverenza, con ciò
sia cosa che quella non offenda; sì come lo non vivere non
offende la vita, ma offende quella la morte, che è di quella
privazione. Onde altro è morte e altro è non vivere;
che non vivere è ne le pietre. E però che morte dice
privazione, che non può essere se non nel subietto de l'abito,
e le pietre non sono subietto di vita, per che non "morte",
ma "non vivere" dicere si deono; similemente io, che in
questo caso a lo Imperio reverenza avere non debbo, se la disdico,
inreverente non sono, ma sono non reverente, che non è
tracotanza né cosa da biasimare. Ma tracotanza sarebbe
l'essere reverente (se reverenza si potesse dicere), però che
in maggiore e in vera inreverenza si cadrebbe, cioè de la
natura e de la veritade, sì come di sotto si vedrà. E
da questo fallo si guardò quello maestro de li filosofi,
Aristotile, nel principio de l'Etica quando dice: "Se due sono
li amici, e l'uno è la verità, a la verità è
da consentire". Veramente, perché detto ho ch'i' sono non
reverente, che è la reverenza negare, cioè negare la
debita subiezione per manifesto segno, da vedere è come questo
è negare e non disconfessare, cioè da vedere come, in
questo caso, io non sia debitamente a la imperiale maiestà
subietto. E perché lunga conviene essere la ragione, per
proprio capitolo immediatamente intendo ciò mostrare.
Capitolo IX
A vedere come in questo caso, cioè in riprovando o in
approvando l'oppinione de lo Imperadore, a lui non sono tenuto a
subiezione, reducere a la mente si conviene quello che de lo
imperiale officio di sopra, nel quarto capitolo di questo trattato, è
ragionato, cioè che a perfezione de l'umana vita la imperiale
autoritade fu trovata, e che ella è regolatrice e rettrice di
tutte le nostre operazioni, giustamente; che, pertanto, oltre quanto
le nostre operazioni si stendono tanto la maiestade imperiale ha
giurisdizione, e fuori di quelli termini non si sciampia. Ma sì
come ciascuna arte e officio umano da lo imperiale è a certi
termini limitato, così questo da Dio a certo termine è
finito: e non è da maravigliare, ché l'officio e l'arte
de la natura finito in tutte sue operazioni vedemo. Che se prendere
volemo la natura universale di tutto, tanto ha giurisdizione quanto
tutto lo mondo, dico lo cielo e la terra, si stende; e questo è
a certo termine, sì come per lo terzo de la Fisica e per lo
primo De Celo et Mundo è provato. Dunque la giurisdizione de
la natura universale è a certo termine finita - e per
consequente la particulare -; e anche di costei è limitatore
colui che da nulla è limitato, cioè la prima bontade,
che è Dio, che solo con la infinita capacitade infinito
comprende.
E a
vedere li termini de le nostre operazioni, è da sapere che
solo quelle sono nostre operazioni che subiacciono a la ragione e a
la volontade; che se in noi è l'operazione digestiva, questa
non è umana, ma naturale. Ed è da sapere che la nostra
ragione a quattro maniere d'operazioni, diversamente da considerare,
è ordinata: ché operazioni sono che ella solamente
considera, e non fa né può fare alcuna di quelle, sì
come sono le cose naturali e le sopranaturali e le matematice; e
operazioni che essa considera e fa nel proprio atto suo, le quali si
chiamano razionali, sì come sono arti di parlare; e operazioni
sono che ella considera e fa in materia di fuori di sé, sì
come sono arti meccanice. E queste tutte operazioni, avvegna che 'l
considerare loro subiaccia a la nostra volontade, elle per loro a
nostra volontade non subiacciono: ché, perché noi
volessimo che le cose gravi salissero per natura suso, e perché
noi volessimo che 'l silogismo con falsi principii conchiudesse
veritade dimostrando, e perché noi volessimo che la casa
sedesse così forte pendente come diritta, non sarebbe; però
che di queste operazioni non fattori propriamente, ma li trovatori
semo. Altri l'ordinò e fece maggior fattore. Sono anche
operazioni che la nostra ragione considera ne l'atto de la volontade,
sì come offendere e giovare, sì come star fermo e
fuggire a la battaglia, sì come stare casto e lussuriare, e
queste del tutto soggiacciono a la nostra volontade; e però
semo detti da loro buoni e rei perch'elle sono proprie nostre del
tutto, perché, quanto la nostra volontade ottenere puote,
tanto le nostre operazioni si stendono. E con ciò sia cosa che
in tutte queste volontarie operazioni sia equitade alcuna da
conservare e iniquitade da fuggire (la quale equitade per due cagioni
si può perdere, o per non sapere quale essa si sia o per non
volere quella seguitare) trovata fu la Ragione scritta, e per
mostrarla e per comandarla. Onde dice Augustino: "Se questa -
cioè equitade - li uomini la conoscessero, e conosciuta
servassero, la Ragione scritta non sarebbe mestiere"; e però
è scritto nel principio del Vecchio Digesto: "La ragione
scritta è arte di bene e d'equitade". A questa scrivere,
mostrare e comandare, è questo officiale posto di cui si
parla, cioè lo Imperadore, al quale tanto quanto le nostre
operazioni proprie, che dette sono, si stendono, siamo subietti; e
più oltre no. Per questa ragione, in ciascuna arte e in
ciascuno mestiere li artefici e li discenti sono, ed esser deono,
subietti al prencipe e al maestro di quelle, in quelli mestieri ed in
quella arte; e fuori di quello la subiezione pere, però che
pere lo principato. Sì che quasi dire si può de lo
Imperadore, volendo lo suo officio figurare con una imagine, che elli
sia lo cavalcatore de la umana volontade. Lo quale cavallo come vada
sanza lo cavalcatore per lo campo assai è manifesto, e
spezialmente ne la misera Italia, che sanza mezzo alcuno a la sua
governazione è rimasa!
E da considerare è che quanto la cosa è più
propia de l'arte o del maestro, tanto è maggiore in quella la
subiezione; ché, multiplicata la cagione, multiplica
l'effetto. Onde è da sapere che cose sono che sono sì
pure arti, che la natura è instrumento de l'arte: sì
come vogare con remo, dove l'arte fa suo instrumento de la
impulsione, che è naturale moto; sì come nel trebbiare
lo frumento, che l'arte fa suo instrumento del caldo, che è
natural qualitade; e in queste massimamente a lo prencipe e maestro
de l'arte esser si dee subietto. E cose sono dove l'arte è
instrumento de la natura, e queste sono meno arti; e in esse sono
meno subietti li artefici a loro prencipe; sì com'è
dare lo seme a la terra (qui si vuole attendere la volontà de
la natura), sì come è uscire di porto (qui si vuole
attendere la naturale disposizione del tempo). E però vedemo
in queste cose spesse volte contenzione tra li artefici, e domandare
consiglio lo maggiore al minore. Altre cose sono che non sono de
l'arte, e paiono avere con quella alcuna parentela, e quinci sono li
uomini molte volte ingannati; e in queste li discenti a lo artefice,
o vero maestro, subietti non sono, né credere a lui sono
tenuti quanto è per l'arte: sì come pescare pare aver
parentela col navicare, e conoscere la vertù de l'erbe pare
aver parentela con l'agricoltura; che non hanno insieme alcuna
regola, con ciò sia cosa che 'l pescare sia sotto l'arte de la
venagione e sotto suo comandare, e lo conoscere la vertù de
l'erbe sia sotto la medicina o vero sotto più nobile
dottrina.
Queste
cose simigliantemente, che de l'altre arti sono ragionate, vedere si
possono ne l'arte imperiale; ché regole sono in quella che
sono pure arti, sì come sono le leggi de' matrimonii, de li
servi, de le milizie, de li successori in dignitade, e di queste in
tutto siamo a lo Imperadore subietti, sanza dubbio e sospetto alcuno.
Altre leggi sono che sono quasi seguitatrici di natura, sì
come constituire l'uomo d'etade sofficiente a ministrare, e di queste
non semo in tutto subietti. Altre molte sono che paiono avere alcuna
parentela con l'arte imperiale - e qui fu ingannato ed è chi
crede che la sentenza imperiale sia in questa parte autentica -: sì
come diffinire giovinezza e gentilezza, sovra le quali nullo
imperiale giudicio è da consentire, in quanto elli è
imperadore: però, quello che è di Cesare sia renduto a
Cesare, e quello che è di Dio sia renduto a Dio. Onde non è
da credere né da consentire a Nerone imperadore, che disse che
giovinezza era bellezza e fortezza del corpo, ma a colui che dicesse
che giovinezza è colmo de la naturale vita, che sarebbe
filosofo. E però è manifesto che diffinire di
gentilezza non è de l'arte imperiale; e se non è de
l'arte, trattando di quella, a lui non siamo subietti; e se non siamo
subietti, reverire lui in ciò non siamo tenuti: e questo è
quello che cercando s'andava. Per che omai con tutta licenza e con
tutta franchezza d'animo è da ferire nel petto a le usate
oppinioni, quelle per terra versando, acciò che la verace, per
questa mia vittoria, tegna lo campo de la mente di coloro per cui fa
questa luce avere vigore.
Capitolo X
Poi che poste sono l'altrui oppinioni di nobilitade, e mostrato è
quelle riprovare a me esser licito, verrò a quella parte
ragionare che ciò ripruova; che comincia, sì come detto
è di sopra: Chi diffinisce: "Omo è legno
animato". E però è da sapere che l'oppinione
de lo Imperadore - avvegna che con difetto quella ponga - ne
l'una particula, cioè là dove disse belli costumi,
toccò de li costumi di nobilitade, e però in quella
parte riprovare non s'intende. L'altra particula, che di natura di
nobilitade è del tutto diversa, s'intende riprovare; la quale
due cose pare dicere quando dice antica ricchezza, cioè
tempo e divizie, le quali a nobilitade sono del tutto diverse, come
detto è e come di sotto si mostrerà. E però
riprovando si fanno due parti: prima si ripruovano le divizie, e poi
si ripruova lo tempo essere cagione di nobilitade. La seconda parte
comincia: Né voglion che vil uom gentil divegna. E da
sapere è che, riprovate le divizie, è riprovata non
solamente l'oppinione de lo Imperadore in quella parte che le divizie
tocca, ma eziandio quella del vulgo interamente che solo ne le
divizie si fondava. La prima parte in due si divide: che ne la prima
generalmente si dice lo 'mperadore essere stato erroneo ne la
diffinizione di nobilitade; secondamente si mostra ragione perché.
E comincia questa seconda parte: Ché le divizie, sì
come si crede.
Dico adunque, Chi diffinisce: "Omo è legno animato",
che prima dice non vero, cioè falso, in quanto dice
"legno"; e poi parla non intero, cioè con
difetto, in quanto dice "animato", non dicendo "razionale",
che è differenza per la quale uomo da la bestia si parte. Poi
dico che per questo modo fu erroneo in diffinire quelli che tenne
impero: non dicendo "imperadore", ma "quelli che
tenne imperio", a mostrare (come detto è di sopra) questa
cosa determinare essere fuori d'imperiale officio. Poi dico
similemente lui errare, che puose de la nobilitade falso subietto,
cioè "antica ricchezza", e poi procedette a
"defettiva forma", o vero differenza, cioè "belli
costumi", che non comprendono ogni formalitade di nobilitade, ma
molto picciola parte, sì come di sotto si mostrerà. E
non è da lasciare, tutto che 'l testo si taccia, che messere
lo Imperadore in questa parte non errò pur ne le parti de la
diffinizione, ma eziandio nel modo di diffinire, avvegna che, secondo
la fama che di lui grida, elli fosse loico e clerico grande: ché
la diffinizione de la nobilitade più degnamente si farebbe da
li effetti che da' principii, con ciò sia cosa che essa paia
avere ragione di principio, che non si può notificare per cose
prime, ma per posteriori. Poi quando dico: Ché le divizie,
sì come si crede, mostro come elle non possono causare
nobilitade, perché sono vili; e mostro quelle non poterla
torre, perché son disgiunte molto da nobilitade. E pruovo
quelle essere vili per uno loro massimo e manifestissimo difetto; e
questo fo quando dico: Che siano vili appare. Ultimamente
conchiudo, per virtù di quello che detto è di sopra,
l'animo diritto non mutarsi per loro transmutazione; che è
pruova di quello che detto è di sopra, quelle essere da
nobilitade disgiunte, per non seguire l'effetto de la congiunzione.
Ove è da sapere che, sì come vuole lo Filosofo, tutte
le cose che fanno alcuna cosa, conviene essere prima quelle
perfettamente in quello essere; onde dice nel settimo de la
Metafisica: "Quando una cosa si genera da un'altra, generasi di
quella, essendo in quello essere". Ancora è da sapere che
ogni cosa che si corrompe, sì si corrompe, precedente alcuna
alterazione, e ogni cosa che è alterata conviene essere
congiunta con l'alterante cagione, sì come vuole lo Filosofo
nel settimo de la Fisica e nel primo De Generatione. Queste cose
proposte, così procedo, e dico che le divizie, come altri
credea, non possono dare nobilitade; e a mostrare maggiore
diversitade avere con quella, dico che non la possono torre a chi
l'ha. Dare non la possono, con ciò sia cosa che naturalmente
siano vili, e per la viltade siano contrarie a la nobilitade. E qui
s'intende viltade per degenerazione, la quale a la nobilitade
s'oppone; con ciò sia cosa che l'uno contrario non sia fattore
de l'altro né possa essere, per la prenarrata cagione la quale
brevemente s'aggiugne al testo, dicendo: Poi chi pinge figura.
Onde nullo dipintore potrebbe porre alcuna figura, se
intenzionalmente non si facesse prima tale, quale la figura essere
dee. Ancora torre non la possono, però che da lungi sono di
nobilitade, e per la ragione prenarrata che ciò che altera o
corrompe alcuna cosa convegna essere congiunto con quella. E però
soggiugne: Né la diritta torre Fa piegar rivo che da lungi
corre; che non vuole altro dire, se non rispondere a ciò
che detto è dinanzi, che le divizie non possono torre
nobilitade, dicendo quasi quella nobilitade essere torre diritta, e
le divizie fiume da lungi corrente.
Capitolo XI
Resta omai solamente a provare come le divizie sono vili, e come
disgiunte sono e lontane da nobilitade; e ciò si pruova in due
particulette del testo, a le quali si conviene al presente intendere.
E poi quelle esposte, sarà manifesto ciò che detto ho,
cioè le divizie essere vili e lontane da nobilitade; e per
questo saranno le ragioni di sopra contra le divizie perfettamente
provate. Dico adunque: Che siano vili appare ed imperfette. E
a manifestare ciò che dire s'intende, è da sapere che
la viltade di ciascuna cosa da la imperfezione di quella si prende, e
così la nobilitade da la perfezione: onde tanto quanto la cosa
è perfetta, tanto è in sua natura nobile; quanto
imperfetta, tanto vile. E però se le divizie sono imperfette,
manifesto è che siano vili. E che elle siano imperfette,
brievemente pruova lo testo quando dice: Ché, quantunque
collette, Non posson quietar, ma dan più cura; in che non
solamente la loro imperfezione è manifesta, ma la loro
condizione essere imperfettissima, e però essere quelle
vilissime. E ciò testimonia Lucano, quando dice, a quelle
parlando: "Sanza contenzione periro le leggi; e voi ricchezze,
vilissima parte de le cose, moveste battaglia". Puotesi
brevemente la loro imperfezione in tre cose vedere apertamente: e
prima, ne lo indiscreto loro avvenimento; secondamente, nel
pericoloso loro accrescimento; terziamente, ne la dannosa loro
possessione. E prima ch'io ciò dimostri, è da
dichiarare un dubbio che pare consurgere: che, con ciò sia
cosa che l'oro, le margherite e li campi perfettamente forma e atto
abbiano in loro essere, non pare vero dicere che siano imperfette. E
però si vuole sapere che, quanto è per esse in loro
considerate, cose perfette sono, e non sono ricchezze, ma oro e
margherite; ma in quanto sono ordinate a la possessione de l'uomo,
sono ricchezze, e per questo modo sono piene d'imperfezione. Ché
non è inconveniente una cosa, secondo diversi rispetti, essere
perfetta e imperfetta.
Dico che la loro imperfezione primamente si può notare ne la
indiscrezione del loro avvenimento, nel quale nulla distributiva
giustizia risplende, ma tutta iniquitade quasi sempre, la quale
iniquitade è proprio effetto d'imperfezione. Che se si
considerano li modi per li quali esse vegnono, tutti si possono in
tre maniere ricogliere: ché o vegnono da pura fortuna, sì
come quando sanza intenzione o speranza vegnono per invenzione alcuna
non pensata; o vegnono da fortuna che è da ragione aiutata, sì
come per testamenti o per mutua successione; o vegnono da fortuna
aiutatrice di ragione, sì come quando per licito o per
illicito procaccio: licito dico, quando è per arte o per
mercatantia o per servigio meritante; illicito dico, quando è
per furto o per rapina. E in ciascuno di questi tre modi si vede
quella iniquitade che io dico, ché più volte a li
malvagi che a li buoni le celate ricchezze che si truovano o che si
ritruovano si rappresentano; e questo è sì manifesto,
che non ha mestiere di pruova. Veramente io vidi lo luogo, ne le
coste d'un monte che si chiama Falterona, in Toscana, dove lo più
vile villano di tutta la contrada, zappando, più d'uno staio
di santalene d'argento finissimo vi trovò, che forse più
di dumilia anni l'aveano aspettato. E per vedere questa iniquitade,
disse Aristotile che "quanto l'uomo più subiace a lo
'ntelletto, tanto meno subiace a la fortuna". E dico che più
volte a li malvagi che a li buoni pervegnono li retaggi, legati e
caduti; e di ciò non voglio recare innanzi alcuna
testimonianza, ma ciascuno volga li occhi per la sua vicinanza, e
vedrà quello che io mi taccio per non abominare alcuno. Così
fosse piaciuto a Dio che quello che addomandò lo Provenzale
fosse stato, che chi non è reda de la bontade perdesse lo
retaggio de l'avere! E dico che più volte a li malvagi che a
li buoni pervegnono a punto li procacci; ché li non liciti a
li buoni mai non pervegnono, però che li rifiutano. E quale
buono uomo mai per forza o per fraude procaccerà? Impossibile
sarebbe ciò, ché solo per la elezione de la illicita
impresa più buono non sarebbe. E li liciti rade volte
pervegnono a li buoni, perché, con ciò sia cosa che
molta sollicitudine quivi si richeggia, e la sollicitudine del buono
sia diritta a maggiori cose, rade volte sofficientemente quivi lo
buono è sollicito. Per che è manifesto in ciascuno modo
quelle ricchezze iniquamente avvenire; e però Nostro Segnore
inique le chiamò, quando disse: "Fatevi amici de la
pecunia de la iniquitade", invitando e confortando li uomini a
liberalitade di benefici, che sono generatori d'amici. E quanto fa
bello cambio chi di queste imperfettissime cose dà per avere e
per acquistare cose perfette, sì come li cuori de' valenti
uomini! Lo cambio ogni die si può fare. Certo nuova
mercatantia è questa de l'altre, che, credendo comperare uno
uomo per lo beneficio, mille e mille ne sono comperati. E cui non è
ancora nel cuore Alessandro per li suoi reali benefici? Cui non è
ancora lo buono re di Castella, o il Saladino, o il buono Marchese di
Monferrato, o il buono Conte di Tolosa, o Beltramo dal Bornio, o
Galasso di Montefeltro? Quando de le loro messioni si fa menzione,
certo non solamente quelli che ciò farebbero volentieri, ma
quelli prima morire vorrebbero che ciò fare, amore hanno a la
memoria di costoro.
Capitolo XII
Come detto è, la imperfezione de le ricchezze non solamente
nel loro avvenimento si può comprendere, ma eziandio nel
pericoloso loro accrescimento; e però che in ciò più
si può vedere di loro difetto, solo di questo fa menzione lo
testo, dicendo quelle, quantunque collette, non solamente non
quietare, ma dare più sete e rendere altri più
defettivo e insufficiente. E qui si vuole sapere che le cose
defettive possono aver li loro difetti per modo, che ne la prima
faccia non paiono, ma sotto pretesto di perfezione la imperfezione si
nasconde; e possono avere quelli sì, che del tutto sono
discoperti, sì che apertamente ne la prima faccia si conosce
la imperfezione. E quelle cose che prima non mostrano li loro difetti
sono più pericolose, però che di loro molte fiate
prendere guardia non si può; sì come vedemo nel
traditore, che ne la faccia dinanzi si mostra amico, sì che fa
di sé fede avere, e sotto pretesto d'amistade chiude lo
difetto de la inimistade. E per questo modo le ricchezze
pericolosamente nel loro accrescimento sono imperfette, che,
sommettendo ciò che promettono, apportano lo contrario.
Promettono le false traditrici sempre, in certo numero adunate,
rendere lo raunatore pieno d'ogni appagamento; e con questa
promissione conducono l'umana volontade in vizio d'avarizia. E per
questo le chiama Boezio, in quello De Consolatione, pericolose,
dicendo: "Ohmè! chi fu quel primo che li pesi de l'oro
coperto e le pietre che si voleano ascondere, preziosi pericoli,
cavoe?". Promettono le false traditrici, se bene si guarda, di
torre ogni sete e ogni mancanza, e apportare ogni saziamento e
bastanza; e questo fanno nel principio a ciascuno uomo, questa
promissione in certa quantità di loro accrescimento
affermando: e poi che quivi sono adunate, in loco di saziamento e di
refrigerio danno e recano sete di casso febricante intollerabile; e
in loco di bastanza recano nuovo termine, cioè maggiore
quantitade a desiderio, e, con questa, paura grande e sollicitudine
sopra l'acquisto. Sì che veramente non quietano, ma più
danno cura, la qual prima sanza loro non si avea. E però dice
Tullio in quello De Paradoxo, abominando le ricchezze: "Io in
nullo tempo per fermo né le pecunie di costoro, né le
magioni magnifiche, né le ricchezze, né le signorie, né
l'allegrezze de le quali massimamente sono astretti, tra cose buone o
desiderabili esser dissi; con ciò sia cosa che certo io
vedesse li uomini ne l'abondanza di queste cose massimamente
desiderare quelle di che abondano. Però che in nullo tempo si
compie né si sazia la sete de la cupiditate; né
solamente per desiderio d'accrescere quelle cose che hanno si
tormentano, ma eziandio tormento hanno ne la paura di perdere
quelle". E queste tutte parole sono di Tullio, e così
giacciono in quello libro che detto è. E a maggiore
testimonianza di questa imperfezione, ecco Boezio in quello De
Consolatione dicente: "Se quanta rena volve lo mare turbato dal
vento, se quante stelle rilucono, la dea de la ricchezza largisca,
l'umana generazione non cesserà di piangere". E perché
più testimonianza, a ciò ridurre per pruova, si
conviene, lascisi stare quanto contra esse Salomone e suo padre
grida; quanto contra esse Seneca, massimamente a Lucillo scrivendo;
quanto Orazio, quanto Iuvenale e, brievemente, quanto ogni scrittore,
ogni poeta; e quanto la verace Scrittura divina chiama contra queste
false meretrici, piene di tutti defetti; e pongasi mente, per avere
oculata fede, pur a la vita di coloro che dietro a esse vanno, come
vivono sicuri quando di quelle hanno raunate, come s'appagano, come
si riposano. E che altro cotidianamente pericola e uccide le cittadi,
le contrade, le singulari persone, tanto quanto lo nuovo raunamento
d'avere appo alcuno? Lo quale raunamento nuovi desiderii discuopre, a
lo fine de li quali sanza ingiuria d'alcuno venire non si può.
E che altro intende di meditare l'una e l'altra Ragione, Canonica
dico e Civile, tanto quanto a riparare a la cupiditade che, raunando
ricchezze, cresce? Certo assai lo manifesta e l'una e l'altra
Ragione, se li loro cominciamenti, dico de la loro scrittura, si
leggono. Oh com'è manifesto, anzi manifestissimo, quelle in
accrescendo essere del tutto imperfette, quando di loro altro che
imperfezione nascere non può, quanto che accolte siano! E
questo è quello che lo testo dice.
Veramente qui surge in dubbio una questione, da non trapassare sanza
farla e rispondere a quella. Potrebbe dire alcuno calunniatore de la
veritade che se, per crescere desiderio acquistando, le ricchezze
sono imperfette e però vili, che per questa ragione sia
imperfetta e vile la scienza, ne l'acquisto de la quale sempre cresce
lo desiderio di quella; onde Seneca dice: "Se l'uno de li piedi
avesse nel sepulcro, apprendere vorrei". Ma non è vero
che la scienza sia vile per imperfezione: dunque, per la distruzione
del consequente, lo crescere desiderio non è cagione di
viltade a le ricchezze. Che sia perfetta, è manifesto per lo
Filosofo nel sesto de l'Etica, che dice la scienza essere perfetta
ragione di certe cose.
A questa questione brievemente è da rispondere; ma prima è
da vedere se ne l'acquisto de la scienza lo desiderio si sciampia
come ne la questione si pone, e se sia per ragione. Per che io dico
che non solamente ne l'acquisto de la scienza e de le ricchezze, ma
in ciascuno acquisto l'umano desiderio si sciampia, avvegna che per
altro e altro modo. E la ragione è questa: che lo sommo
desiderio di ciascuna cosa, e prima da la natura dato, è lo
ritornare a lo suo principio. E però che Dio è
principio de le nostre anime e fattore di quelle simili a sé
(sì come è scritto: "Facciamo l'uomo ad imagine e
similitudine nostra"), essa anima massimamente desidera di
tornare a quello. E sì come peregrino che va per una via per
la quale mai non fue, che ogni casa che da lungi vede crede che sia
l'albergo, e non trovando ciò essere, dirizza la credenza a
l'altra, e così di casa in casa, tanto che a l'albergo viene;
così l'anima nostra, incontanente che nel nuovo e mai non
fatto cammino di questa vita entra, dirizza li occhi al termine del
suo sommo bene, e però, qualunque cosa vede che paia in sé
avere alcuno bene, crede che sia esso. E perché la sua
conoscenza prima è imperfetta, per non essere esperta né
dottrinata, piccioli beni le paiono grandi, e però da quelli
comincia prima a desiderare. Onde vedemo li parvuli desiderare
massimamente un pomo; e poi, più procedendo, desiderare uno
augellino; e poi, più oltre, desiderare bel vestimento; e poi
lo cavallo; e poi una donna; e poi ricchezza non grande, e poi
grande, e poi più. E questo incontra perché in nulla di
queste cose truova quella che va cercando, e credela trovare più
oltre. Per che vedere si può che l'uno desiderabile sta
dinanzi a l'altro a li occhi de la nostra anima per modo quasi
piramidale, che 'l minimo li cuopre prima tutti, ed è quasi
punta de l'ultimo desiderabile, che è Dio, quasi base di
tutti. Sì che, quanto da la punta ver la base più si
procede, maggiori appariscono li desiderabili; e questa è la
ragione per che, acquistando, li desiderii umani si fanno più
ampii, l'uno appresso de l'altro. Veramente così questo
cammino si perde per errore come le strade de la terra. Che sì
come d'una cittade a un'altra di necessitade è una ottima e
dirittissima via, e un'altra che sempre se ne dilunga (cioè
quella che va ne l'altra parte), e molte altre quale meno
allungandosi e quale meno appressandosi, così ne la vita umana
sono diversi cammini, de li quali uno è veracissimo e un altro
è fallacissimo, e certi meno fallaci e certi meno veraci. E sì
come vedemo che quello che dirittissimo vae a la cittade, e compie lo
desiderio e dà posa dopo la fatica, e quello che va in
contrario mai nol compie e mai posa dare non può, così
ne la nostra vita avviene: lo buono camminatore giugne a termine e a
posa; lo erroneo mai non l'aggiugne, ma con molta fatica del suo
animo sempre con li occhi gulosi si mira innanzi. Onde avvegna che
questa ragione del tutto non risponda a la questione mossa di sopra,
almeno apre la via a la risposta, ché fa vedere non andare
ogni nostro desiderio dilatandosi per uno modo. Ma perché
questo capitolo è alquanto produtto, in capitolo nuovo a la
questione è da rispondere, nel quale sia terminata tutta la
disputazione che fare s'intende al presente contra le ricchezze.
Capitolo XIII
A la questione rispondendo, dico che propriamente crescere lo
desiderio de la scienza dire non si può, avvegna che, come
detto è, per alcuno modo si dilati. Ché quello che
propriamente cresce, sempre è uno: lo desiderio de la scienza
non è sempre uno, ma è molti, e finito l'uno, viene
l'altro; sì che, propriamente parlando, non è crescere
lo suo dilatare, ma successione di picciola cosa in grande cosa. Che
se io desidero di sapere li principii de le cose naturali,
incontanente che io so questi, è compiuto e terminato questo
desiderio. E se poi io desidero di sapere che cosa e com'è
ciascuno di questi principii, questo è un altro desiderio
nuovo, né per l'avvenimento di questo non mi si toglie la
perfezione a la quale mi condusse l'altro; e questo cotale dilatare
non è cagione d'imperfezione, ma di perfezione maggiore.
Quello veramente de la ricchezza è propriamente crescere, ché
è sempre pur uno, sì che nulla successione quivi si
vede, e per nullo termine e per nulla perfezione. E se l'avversario
vuol dire che, sì come è altro desiderio quello di
sapere li principii de le cose naturali e altro di sapere che elli
sono, così altro desiderio è quello de le cento marche
e altro è quello de le mille, rispondo che non è vero;
che 'l cento sì è parte del mille, e ha ordine ad esso
come parte d'una linea a tutta linea, su per la quale si procede per
uno moto solo, e nulla successione quivi è né
perfezione di moto in parte alcuna. Ma conoscere che siano li
principii de le cose naturali, e conoscere quello che sia
ciascheduno, non è parte l'uno de l'altro, e hanno ordine
insieme come diverse linee, per le quali non si procede per uno moto,
ma, perfetto lo moto de l'una, succede lo moto de l'altra. E così
appare che, dal desiderio de la scienza, la scienza non è da
dire imperfetta, sì come le ricchezze sono da dire per lo
loro, come la questione ponea; ché nel desiderare de la
scienza successivamente finiscono li desiderii e viensi a perfezione,
e in quello de la ricchezza no. Sì che la questione è
soluta, e non ha luogo.
Ben puote ancora calunniare l'avversario dicendo che, avvegna che
molti desiderii si compiano ne lo acquisto de la scienza, mai non si
viene a l'ultimo: che è quasi simile a la 'mperfezione di
quello che non si termina e che è pur uno. Ancora qui si
risponde, che non è vero ciò che si oppone, cioè
che mai non si viene a l'ultimo: ché li nostri desiderii
naturali, sì come di sopra nel terzo trattato è
mostrato, sono a certo termine discendenti; e quello de la scienza è
naturale, sì che certo termine quello compie, avvegna che
pochi, per male camminare, compiano la giornata. E chi intende lo
Commentatore nel terzo de l'Anima, questo intende da lui. E però
dice Aristotile nel decimo de l'Etica, contra Simonide poeta
parlando, che "l'uomo si dee traere a le divine cose quanto
può"; in che mostra che a certo fine bada la nostra
potenza. E nel primo de l'Etica dice che "'l disciplinato chiede
di sapere certezza ne le cose, secondo che ne la loro natura di
certezza si riceva"; in che mostra che non solamente da la parte
de l'uomo desiderante, ma deesi fine attendere da la parte de lo
scibile desiderato. E però Paulo dice: "Non più
sapere che sapere si convegna, ma sapere a misura". Sì
che, per qualunque modo lo desiderare de la scienza si prende, o
generalmente o particularmente, a perfezione viene. E però la
scienza ha perfetta e nobile perfezione, e per suo desiderio sua
perfezione non perde, come le maladette ricchezze.
Le quali come ne la loro possessione siano dannose, brievemente è
da mostrare, che è la terza nota de la loro imperfezione.
Puotesi vedere la loro possessione essere dannosa per due ragioni:
l'una, che è cagione di male; l'altra, che è privazione
di bene. Cagione è di male, ché fa, pur vegliando, lo
possessore timido e odioso. Quanta paura è quella di colui che
appo sé sente ricchezza, in camminando, in soggiornando, non
pur vegliando ma dormendo, non pur di perdere l'avere ma la persona
per l'avere! Ben lo sanno li miseri mercatanti che per lo mondo
vanno, che le foglie che 'l vento fa menare, li fa tremare, quando
seco ricchezze portano; e quando sanza esse sono, pieni di sicurtade
cantando e sollazzando fanno loro cammino più brieve. E però
dice lo Savio: "Se voto camminatore entrasse ne lo cammino,
dinanzi a li ladroni canterebbe". E ciò vuol dire Lucano
nel quinto libro, quando commenda la povertà di sicuranza,
dicendo: "Oh sicura facultà de la povera vita! oh stretti
abitaculi e masserizie! oh non ancora intese ricchezze de li Iddei! A
quali tempii o a quali muri poteo questo avvenire, cioè non
temere con alcuno tumulto, bussando la mano di Cesare?" E quello
dice Lucano quando ritrae come Cesare di notte a la casetta del
pescatore Amiclas venne, per passare lo mare Adriano. E quanto odio è
quello che ciascuno al possessore de la ricchezza porta, o per
invidia o per desiderio di prendere quella possessione! Certo tanto
è, che molte volte contra la debita pietade lo figlio a la
morte del padre intende: e di questo grandissime e manifestissime
esperienze possono avere li Latini, e da la parte di Po e da la parte
di Tevero! E però Boezio nel secondo de la sua Consolazione
dice: "Per certo l'avarizia fa li uomini odiosi".
Anche è privazione di bene la loro possessione. Ché,
possedendo quelle, larghezza non si fa, che è vertude ne la
quale è perfetto bene e la quale fa li uomini splendienti e
amati; che non può essere possedendo quelle, ma quelle
lasciando di possedere. Onde Boezio nel medesimo libro dice: "Allora
è buona la pecunia, quando, transmutata ne li altri per uso di
larghezza, più non si possiede". Per che assai è
manifesto la loro viltade per tutte le sue note. E però l'uomo
di diritto appetito e di vera conoscenza quelle mai non ama, e, non
amandole, non si unisce ad esse, ma quelle sempre di lungi da sé
essere vuole, se non in quanto ad alcuno necessario servigio sono
ordinate. Ed è cosa ragionevole, però che lo perfetto
con lo imperfetto non si può congiugnere; onde vedemo che la
torta linea con la diritta non si congiunge mai, e se alcuno
congiungimento v'è, non è da linea a linea, ma da punto
a punto. E però seguita che l'animo che è diritto,
cioè d'appetito, e verace, cioè di conoscenza,
per loro perdita non si disface; sì come lo testo pone nel
fine di questa parte. E per questo effetto intende di provare lo
testo che elle siano fiume corrente di lungi da la diritta torre de
la ragione, o vero di nobilitade; e per questo, che esse divizie non
possono torre la nobilitade a chi l'ha. E per questo modo disputasi e
ripruovasi contra le ricchezze per la presente canzone.
Capitolo XIV
Riprovato l'altrui errore quanto è in quella parte che a le
ricchezze s'appoggiava, seguita che si riprovi quanto è in
quella parte, che tempo diceva essere cagione di nobilitade, dicendo
antica ricchezza. E questa riprovagione si fa in quella parte
che comincia: Né voglion che vil uom gentil divegna. E
in prima si ripruova ciò per una ragione di costoro medesimi
che così errano; poi, a maggiore loro confusione, questa loro
ragione anche si distrugge: e ciò si fa quando dice: Ancor,
segue di ciò che innanzi ho messo. Ultimamente conchiude
manifesto essere lo loro errore, e però essere tempo
d'intendere a la veritade: e ciò si fa quando dice: Perché
a 'ntelletti sani.
Dico adunque: Né voglion che vil uom gentil divegna.
Dove è da sapere che oppinione di questi erranti è che
uomo prima villano mai gentile uomo dicer non si possa; né
uomo che figlio sia di villano similemente dicere mai non si possa
gentile. E ciò rompe la loro sentenza medesima, quando dicono
che tempo si richiede a nobilitade, ponendo questo vocabulo "antico";
però ch'è impossibile per processo di tempo venire a la
generazione di nobilitade per questa loro ragione che detta è,
la quale toglie via che villano uomo mai possa esser gentile per
opera che faccia, o per alcuno accidente, e toglie via la mutazione
di villano padre in gentile figlio. Che se lo figlio del villano è
pur villano, e lo figlio fia pur figlio di villano e così fia
anche villano, e anche suo figlio, e così sempre, e mai non
s'avrà a trovare là dove nobilitade per processo di
tempo si cominci. E se l'avversario, volendosi difendere, dicesse che
la nobilitade si comincerà in quel tempo che si dimenticherà
lo basso stato de li antecessori, rispondo che ciò ha contra
loro medesimi, che pur di necessitade quivi sarà
transmutazione di viltade in gentilezza, d'un uomo in altro o di
padre a figlio, ch'è contra ciò che essi
pongono.
E se
l'avversario pertinacemente si difendesse, dicendo che bene vogliono
questa transmutazione potersi fare quando lo basso stato de li
antecessori corre in oblivione, avvegna che 'l testo ciò non
curi, degno è che la chiosa a ciò risponda. E però
rispondo così: che di ciò che dicono seguitano quattro
grandissimi inconvenienti, sì che buona ragione essere non
può. L'uno si è che quanto la natura umana fosse
migliore tanto sarebbe più malagevole e più tarda
generazione di gentilezza; che è massimo inconveniente, con
ciò sia cosa, com'ho notato, che la cosa quanto è
migliore tanto è più cagione di bene; e nobilitade
intra li beni sia commemorata. E che ciò fosse così si
pruova. Se la gentilezza o ver nobilitade, che per una cosa intendo,
si generasse per oblivione, più tosto sarebbe generata la
nobilitade quanto li uomini fossero più smemorati, ché
tanto più tosto ogni oblivione verrebbe. Dunque, quanto li
uomini smemorati più fossero, più tosto sarebbero
nobili; e per contrario, quanto con più buona memoria, tanto
più tardi nobili si farebbero.
Lo secondo si è, che 'n nulla cosa, fuori de li uomini, questa
distinzione si potrebbe fare, cioè nobile o vile; che è
molto inconveniente, con ciò sia cosa che in ciascuna spezie
di cose veggiamo l'imagine di nobilitade e di viltade: onde spesse
volte diciamo uno nobile cavallo e uno vile, e uno nobile falcone e
uno vile, e una nobile margherita e una vile. E che non si potesse
fare questa distinzione, così si pruova. Se l'oblivione de li
bassi antecessori è cagione di nobilitade, e là ovunque
bassezza d'antecessori mai non fu, non può essere l'oblivione
di quelli - con ciò sia cosa che l'oblivione sia corruzione di
memoria, e in questi altri animali e piante e minere bassezza e
altezza non si noti, però che in uno sono naturati solamente
ed iguale stato -, in loro generazione di nobilitade essere non può;
e così né viltade, con ciò sia cosa che l'una e
l'altra si guardi come abito e privazione, che sono ad uno medesimo
subietto possibili; e però in loro de l'una e de l'altra non
potrebbe essere distinzione. E se l'avversario volesse dicere che ne
l'altre cose nobilità s'intende per la bontà de la
cosa, ma ne li uomini s'intende perché di sua bassa condizione
non è memoria, rispondere si vorrebbe non con le parole ma col
coltello a tanta bestialitade, quanta è dare a la nobilitade
de l'altre cose bontade per cagione, e a quella de li uomini
principio di dimenticanza.
Lo terzo si è che molte volte verrebbe prima lo generato che
lo generante; che è del tutto impossibile; e ciò si può
così mostrare. Pognamo che Gherardo da Cammino fosse stato
nepote del più vile villano che mai bevesse del Sile o del
Cagnano, e la oblivione ancora non fosse del suo avolo venuta: chi
sarà oso di dire che Gherardo da Cammino fosse vile uomo? e
chi non parlerà meco, dicendo quello essere stato nobile?
Certo nullo, quanto vuole sia presuntuoso, però che egli fu, e
fia sempre la sua memoria. E se la oblivione del suo basso
antecessore non fosse venuta, sì come si suppone, ed ello
fosse grande di nobilitade e la nobilitade in lui si vedesse così
apertamente come aperta si vede, prima sarebbe stata in lui che 'l
generante suo fosse stato: e questo è massimamente
impossibile.
Lo
quarto si è che tale uomo sarebbe tenuto nobile morto che non
fu nobile vivo; che più inconveniente essere non potrebbe; e
ciò così si mostra. Pognamo che ne la etade di Dardano
de' suoi antecessori bassi fosse memoria, e pognamo che ne la etade
di Laomedonte questa memoria fosse disfatta, e venuta l'oblivione.
Secondo l'oppinione avversa, Laomedonte fu gentile e Dardano fu
villano in loro vita. Noi, a li quali la memoria de li loro
anticessori, dico di là da Dardano, anche non è rimasa,
dir dovremmo che Dardano vivendo fosse villano e morto sia nobile. E
non è contro a ciò, che si dice Dardano esser stato
figlio di Giove, ché ciò è favola, de la quale,
filosoficamente disputando, curare non si dee; e pur se volesse a la
favola fermare l'avversario, di certo quello che la favola cuopre
disfà tutte le sue ragioni. E così è manifesto,
la ragione che ponea la oblivione causa di nobilitade essere falsa ed
erronea.
Capitolo XV
Da poi che, per la loro medesima sentenza, la canzone ha riprovato
tempo non richiedersi a nobilitade, incontanente seguita a confondere
la premessa loro oppinione, acciò che di loro false ragioni
nulla ruggine rimagna ne la mente che a la verità sia
disposta; e questo fa quando dice: Ancor, segue di ciò che
innanzi ho messo. Ove è da sapere che, se uomo non si può
fare di villano gentile o di vile padre non può nascere
gentile figlio, sì come messo è dinanzi per loro
oppinione, che de li due inconvenienti l'uno seguire conviene: l'uno
sì è che nulla nobilitade sia; l'altro sì è
che 'l mondo sempre sia stato con più uomini, sì che da
uno solo la umana generazione discesa non sia. E ciò si può
mostrare. Se nobilitade non si genera di nuovo, sì come più
volte è detto che la loro oppinione vuole (non generandosi di
vile uomo in lui medesimo, né di vile padre in figlio), sempre
è l'uomo tale quale nasce, e tale nasce quale è lo
padre; e così questo processo d'una condizione è venuto
infino dal primo parente: per che tale quale fu lo primo generante,
cioè Adamo, conviene essere tutta l'umana generazione, ché
da lui a li moderni non si puote trovare per quella ragione alcuna
transmutanza. Dunque, se esso Adamo fu nobile, tutti siamo nobili, e
se esso fu vile, tutti siamo vili; che non è altro che torre
via la distinzione di queste condizioni, e così è torre
via quelle. E questo dice, che di quello ch'è messo dinanzi
seguita che siam tutti gentili o ver villani. E se questo non è,
e pur alcuna gente è da dire nobile e alcuna è da dir
vile, di necessitade, da poi che la transmutazione di viltade in
nobilitade è tolta via, conviene l'umana generazione da
diversi principii essere discesa cioè da uno nobile e da uno
vile. E ciò dice la canzone, quando dice: O che non fosse
ad uom cominciamento, cioè uno solo: non dice
"cominciamenti". E questo è falsissimo appo lo
Filosofo, appo la nostra Fede che mentire non puote, appo la legge e
credenza antica de li Gentili. Ché, avvegna che 'l Filosofo
non pogna lo processo da uno primo uomo, pur vuole una sola essenza
essere in tutti li uomini, la quale diversi principii avere non
puote; e Plato vuole che tutti li uomini da una sola Idea dependano,
e non da più, che è dare loro uno solo principio. E
sanza dubbio forte riderebbe Aristotile udendo fare spezie due de
l'umana generazione, sì come de li cavalli e de li asini; che,
perdonimi Aristotile, asini ben si possono dire coloro che così
pensano. Che appo la nostra fede, la quale del tutto è da
conservare, sia falsissimo, per Salomone si manifesta, che là
dove distinzione fa di tutti li uomini a li animali bruti, chiama
quelli tutti figli d'Adamo; e ciò fa quando dice: "Chi sa
se li spiriti de li figliuoli d'Adamo vadano suso, e quelli de le
bestie vadano giuso?". E che appo li Gentili falso fosse, ecco
la testimonianza d'Ovidio nel primo del suo Metamorfoseos, dove
tratta la mondiale constituzione secondo la credenza pagana, o vero
de li Gentili, dicendo: "Nato è l'uomo" - non disse
"li uomini"; disse "nato" e "l'uomo" -,
"o vero che questo l'artefice de le cose di seme divino fece, o
vero che la recente terra, di poco dipartita dal nobile corpo sottile
e diafano, li semi del cognato cielo ritenea. La quale, mista con
l'acqua del fiume, lo figlio di Iapeto, cioè Prometeus,
compuose in imagine de li Dei, che tutto governano". Dove
manifestamente pone lo primo uomo uno solo essere stato. E però
dice la canzone: Ma ciò io non consento, cioè
che cominciamento ad uomo non fosse. E soggiugne la canzone: Ned
ellino altressì, se son cristiani: e dice "cristiani"
e non "filosofi" o vero "Gentili", de li quali le
sentenze anco non sono in contro, però che la cristiana
sentenza è di maggiore vigore, ed è rompitrice d'ogni
calunnia mercé de la somma luce del cielo che quella
allumina.
Poi
quando dico: Per che a 'ntelletti sani È manifesto i lor
diri esser vani, conchiudo lo loro errore essere confuso, e dico
che tempo è d'aprire li occhi a la veritade; questo dice
quando dico: E dicer voglio omai, sì com'io sento. Dico
adunque che, per quello che detto è, è manifesto a li
sani intelletti che i detti di costoro sono vani, cioè sanza
midolla di veritade. E dico sani non sanza cagione. Onde è da
sapere che lo nostro intelletto si può dir sano e infermo: e
dico intelletto per la nobile parte de l'anima nostra, che con uno
vocabulo "mente" si può chiamare. Sano dire si può,
quando per malizia d'animo o di corpo impedito non è ne la sua
operazione; che è conoscere quello che le cose sono, sì
come vuole Aristotile nel terzo de l'Anima. Ché, secondo la
malizia de l'anima, tre orribili infermitadi ne la mente de li uomini
ho vedute. L'una è di naturale jattanza causata: ché
sono molti tanto presuntuosi, che si credono tutto sapere, e per
questo le non certe cose affermano per certe; lo qual vizio Tullio
massimamente abomina nel primo de li Offici e Tommaso nel suo
ContraliGentili dicendo: "Sono molti tanto di suo ingegno
presuntuosi, che credono col suo intelletto poter misurare tutte le
cose, estimando tutto vero quello che a loro pare, falso quello che a
loro non pare". E quinci nasce che mai a dottrina non vegnono;
credendo da sé sufficientemente essere dottrinati, mai non
domandano, mai non ascoltano, disiano essere domandati e, anzi la
domandagione compiuta, male rispondono. E per costoro dice Salomone
ne li Proverbii: "Vedesti l'uomo ratto a rispondere? di lui
stoltezza, più che correzione, è da sperare".
L'altra è di naturale pusillanimitade causata: ché sono
molti tanto vilmente ostinati, che non possono credere che né
per loro né per altrui si possano le cose sapere; e questi
cotali mai per loro non cercano né ragionano, mai quello che
altri dice non curano. E contra costoro Aristotile parla nel primo de
l'Etica, dicendo quelli essere insufficienti uditori de la morale
filosofia. Costoro sempre come bestie in grossezza vivono, d'ogni
dottrina disperati. La terza è da levitade di natura causata:
ché sono molti di sì lieve fantasia che in tutte le
loro ragioni transvanno, e anzi che silogizzino hanno conchiuso, e di
quella conclusione vanno transvolando ne l'altra, e pare loro
sottilissimamente argomentare, e non si muovono da neuno principio, e
nulla cosa veramente veggiono vera nel loro imaginare. E di costoro
dice lo Filosofo che non è da curare né da avere con
essi faccenda, dicendo nel primo de la Fisica, che "contra
quelli che niega li principii disputare non si conviene". E di
questi cotali sono molti idioti che non saprebbero l'a.b.c., e
vorrebbero disputare in geometria, in astrologia e in
fisica.
E secondo
malizia, o vero difetto di corpo, può essere la mente non
sana: quando per difetto d'alcuno principio da la nativitade, sì
come ne' mentecatti; quando per l'alterazione del cerebro, sì
come sono frenetici. E di questa infertade de la mente intende la
legge, quando lo Inforzato dice: "In colui che fa testamento, di
quel tempo nel quale lo testamento fa, sanitade di mente, non di
corpo, è a domandare". Per che a quelli intelletti che
per malizia d'animo o di corpo infermi non sono, liberi, espediti e
sani a la luce de la veritade, dico essere manifesto l'oppinione de
la gente, che detto è, essere vana, cioè sanza
valore.
Appresso
soggiugne, che io così li giudico falsi e vani, e così
li ripruovo; e ciò si fa quando si dice: E io così
per falsi li riprovo. E appresso dico che da venire è a la
veritade mostrare; e dico che mostrare è quello, cioè
che cosa è gentilezza, e come si può conoscere l'uomo
in cui essa è. E ciò dico quivi: E dicer voglio
omai, sì com'io sento.
Capitolo XVI
"Lo rege si letificherà in Dio, e saranno lodati tutti
quelli che giurano in lui, però che serrata è la bocca
di coloro che parlano le inique cose". Queste parole posso io
qui veramente proponere; però che ciascuno vero rege dee
massimamente amare la veritade. Ond'è scritto nel libro di
Sapienza: "Amate lo lume di sapienza, voi che siete dinanzi a li
populi"; e lume di sapienza è essa veritade. Dico adunque
che però si rallegrerà ogni rege che riprovata è
la falsissima e dannosissima oppinione de li malvagi e ingannati
uomini che di nobilitade hanno infino a ora iniquamente
parlato.
Convienesi procedere al trattato de la veritade, secondo la divisione
fatta nel terzo capitolo di questo trattato. Questa seconda parte
adunque, che comincia: Dico ch'ogni vertù principalmente,
intende diterminare d'essa nobilitade secondo la veritade; e partesi
questa parte in due: che ne la prima s'intende mostrare che è
questa nobilitade; ne la seconda s'intende mostrare come conoscere si
puote colui dov'ella è: e comincia questa parte seconda:
L'anima cui adorna esta bontate. La prima parte ha due parti
ancora: che ne la prima si cercano certe cose che sono mestiere a
veder la diffinizione di nobilitade; ne la seconda si cerca de la sua
diffinizione: e comincia questa seconda parte: È gentilezza
dovunqu'è vertute.
A perfettamente entrare per lo trattato è prima da vedere due
cose: l'una, che per questo vocabulo "nobilitade"
s'intende, solo semplicemente considerato; l'altra è per che
via sia da camminare a cercare la prenominata diffinizione. Dico
adunque che, se volemo riguardo avere de la comune consuetudine di
parlare, per questo vocabulo "nobilitade" s'intende
perfezione di propria natura in ciascuna cosa. Onde non pur de l'uomo
è predicata, ma eziandio di tutte cose - ché l'uomo
chiama nobile pietra, nobile pianta, nobile cavallo, nobile falcone -
qualunque in sua natura si vede essere perfetta. E però dice
Salomone ne lo Ecclesiastes: "Beata la terra lo cui re è
nobile", che non è altro a dire, se non lo cui rege è
perfetto, secondo la perfezione de l'animo e del corpo; e così
manifesta per quello che dice dinanzi quando dice: "Guai a te,
terra, lo cui rege è pargolo", cioè non perfetto
uomo: e non è pargolo uomo pur per etade, ma per costumi
disordinati e per difetto di vita, sì come n'ammaestra lo
Filosofo nel primo de l'Etica. Bene sono alquanti folli che credono
che per questo vocabulo "nobile" s'intenda "essere da
molti nominato e conosciuto", e dicono che viene da uno verbo
che sta per conoscere, cioè "nosco". E questo è
falsissimo; ché, se ciò fosse, quali cose più
fossero nomate e conosciute in loro genere, più sarebbero in
loro genere nobili: e così la guglia di San Piero sarebbe la
più nobile pietra del mondo; e Asdente, lo calzolaio da Parma,
sarebbe più nobile che alcuno suo cittadino; e Albuino de la
Scala sarebbe più nobile che Guido da Castello di Reggio: che
ciascuna di queste cose è falsissima. E però è
falsissimo che "nobile" vegna da "conoscere", ma
viene da "non vile"; onde "nobile" è quasi
"non vile". Questa perfezione intende lo Filosofo nel
settimo de la Fisica quando dice: "Ciascuna cosa è
massimamente perfetta quando tocca e aggiugne la sua virtude propria,
e allora è massimamente secondo sua natura; onde allora lo
circulo si può dicere perfetto quando veramente è
circulo", cioè quando aggiugne la sua propria virtude; e
allora è in tutta sua natura, e allora si può dire
nobile circulo. E questo è quando in esso è uno punto
lo quale equalmente distante sia da la circunferenza, sua virtute
particulare; però lo circulo che ha figura d'uovo non è
nobile, né quello che ha figura di presso che piena luna, però
che non è in quello sua natura perfetta. E così
manifestamente vedere si può che generalmente questo vocabulo,
cioè nobilitade, dice in tutte cose perfezione di loro natura:
e questo è quello che primamente si cerca, per meglio entrare
nel trattato de la parte che esponere s'intende.
Secondamente è da vedere come da camminare è a trovare
la diffinizione de l'umana nobilitade, a la quale intende lo presente
processo. Dico adunque che, con ciò sia cosa che in quelle
cose che sono d'una spezie, sì come sono tutti li uomini, non
si può per li principii essenziali la loro ottima perfezione
diffinire, conviensi quella e diffinire e conoscere per li loro
effetti. E però si legge nel Vangelio di santo Matteo - quando
dice Cristo: "Guardatevi da li falsi profeti" -: "A li
frutti loro conoscerete quelli". E per lo cammino diritto è
da vedere, questa diffinizione che cercando si vae, per li frutti:
che sono morali vertù e intellettuali, de le quali essa nostra
nobilitade è seme, sì come ne la sua diffinizione sarà
pienamente manifesto. E queste sono quelle due cose che vedere si
convenia prima che ad altre si procedesse, sì come in questo
capitolo di sopra si dice.
Capitolo XVII
Appresso che vedute sono quelle due cose che parevano utili a vedere
prima che sopra lo testo si procedesse, ad esso esponere è da
procedere. E dice e comincia adunque: Dico ch'ogni vertù
principalmente Vien da una radice: Vertute, dico, che fa l'uom felice
In sua operazione. E soggiungo: Questo è, secondo che
l'Etica dice, Un abito eligente, ponendo tutta la diffinizione de
la morale virtù, secondo che nel secondo de l'Etica è
per lo Filosofo diffinito. In che due cose principalmente s'intende:
l'una è che ogni vertù vegna d'uno principio; l'altra
sì è che queste ogni vertù siano le vertù
morali, di cui si parla; e ciò si manifesta quando dice:
Questo è, secondo che l'Etica dice. Dove è da
sapere che propiissimi nostri frutti sono le morali vertudi, però
che da ogni canto sono in nostra podestade. E queste diversamente da
diversi filosofi sono distinte e numerate; ma però che in
quella parte dove aperse la bocca la divina sentenza d'Aristotile da
lasciare mi pare ogni altrui sentenza, volendo dire quali queste
sono, brevemente secondo la sua sentenza trapasserò di quelle
ragionando.
Queste sono undici vertudi dal detto Filosofo nomate. La prima si
chiama Fortezza, la quale è arme e freno a moderare l'audacia
e la timiditate nostra, ne le cose che sono corruzione de la nostra
vita. La seconda è Temperanza, che è regola e freno de
la nostra gulositade e de la nostra soperchievole astinenza ne le
cose che conservano la nostra vita. La terza si è
Liberalitade, la quale è moderatrice del nostro dare e del
nostro ricevere le cose temporali. La quarta si è
Magnificenza, la quale è moderatrice de le grandi spese,
quelle facendo e sostenendo a certo termine. La quinta si è
Magnanimitade, la quale è moderatrice e acquistatrice de'
grandi onori e fama. La sesta si è Amativa d'onore, la quale è
moderatrice e ordina noi a li onori di questo mondo. La settima si è
Mansuetudine, la quale modera la nostra ira e la nostra troppa
pazienza contra li nostri mali esteriori. L'ottava si è
Affabilitade, la quale fa noi ben convenire con li altri. La nona si
è chiamata Veritade, la quale modera noi dal vantare noi oltre
che siamo e da lo diminuire noi oltre che siamo, in nostro sermone.
La decima si è chiamata Eutrapelia, la quale modera noi ne li
sollazzi facendo, quelli usando debitamente. L'undecima si è
Giustizia, la quale ordina noi ad amare e operare dirittura in tutte
cose. E ciascuna di queste vertudi ha due inimici collaterali, cioè
vizii, uno in troppo e un altro in poco; e queste tutte sono li mezzi
intra quelli, e nascono tutte da uno principio, cioè da
l'abito de la nostra buona elezione: onde generalmente si può
dicere di tutte che siano abito elettivo consistente nel mezzo. E
queste sono quelle che fanno l'uomo beato, o vero felice, ne la loro
operazione, sì come dice lo Filosofo nel primo de l'Etica
quando diffinisce la Felicitade, dicendo che "Felicitade è
operazione secondo virtude in vita perfetta". Bene si pone
Prudenza, cioè senno, per molti, essere morale virtude, ma
Aristotile dinumera quella intra le intellettuali; avvegna che essa
sia conduttrice de le morali virtù e mostri la via per ch'elle
si compongono e sanza quella essere non possono.
Veramente è da sapere che noi potemo avere in questa vita due
felicitadi, secondo due diversi cammini, buono e ottimo, che a ciò
ne menano: l'una è la vita attiva, e l'altra la contemplativa;
la quale, avvegna che per l'attiva si pervegna, come detto è,
a buona felicitade, ne mena ad ottima felicitade e beatitudine,
secondo che pruova lo Filosofo nel decimo de l'Etica. E Cristo
l'afferma con la sua bocca, nel Vangelio di Luca, parlando a Marta, e
rispondendo a quella: "Marta, Marta, sollicita se' e turbiti
intorno a molte cose: certamente una cosa è necessaria",
cioè "quello che fai". E soggiugne: "Maria
ottima parte ha eletta, la quale non le sarà tolta". E
Maria, secondo che dinanzi è scritto a queste parole del
Vangelio, a' piedi di Cristo sedendo, nulla cura del ministerio de la
casa mostrava; ma solamente le parole del Salvatore ascoltava. Che se
moralemente ciò volemo esponere, volse lo nostro Segnore in
ciò mostrare che la contemplativa vita fosse ottima, tutto che
buona fosse l'attiva: ciò è manifesto a chi ben vuole
porre mente a le evangeliche parole. Potrebbe alcuno però
dire, contra me argomentando: "Poiché la felicitade de la
vita contemplativa è più eccellente che quella de
l'attiva, e l'una e l'altra possa essere e sia frutto e fine di
nobilitade, perché non anzi si procedette per la via de le
virtù intellettuali che de le morali?" A ciò si
può brievemente rispondere che in ciascuna dottrina si dee
avere rispetto a la facultà del discente, e per quella via
menarlo che più a lui sia lieve. Onde, perciò che le
virtù morali paiano essere e siano più comuni e più
sapute e più richieste che l'altre e imitate ne lo aspetto di
fuori, utile e convenevole fu più per quello cammino procedere
che per l'altro; ché così bene non si verrebbe a la
conoscenza de le api per lo frutto de la cera ragionando come per lo
frutto del mele, tutto che l'uno e l'altro da loro procede.
Capitolo XVIII
Nel precedente capitolo è diterminato come ogni vertù
morale viene da uno principio, cioè buona e abituale elezione;
e ciò importa lo testo presente infino a quella parte che
comincia: Dico che nobiltate in sua ragione. In questa parte
adunque si procede per via probabile a sapere che ogni sopra detta
virtude, singularmente o ver generalmente presa, proceda da
nobilitade sì come effetto da sua cagione. E fondasi sopra una
proposizione filosofica, che dice che quando due cose si truovano
convenire in una, che ambo queste si deono riducere ad alcuno terzo,
o vero l'una a l'altra, sì come effetto a cagione; però
che una cosa avuta prima e per sé non può essere se non
da uno: e se quelle non fossero ambedue effetto d'un terzo, o vero
l'una de l'altra, ambedue avrebbero quella cosa prima e per sé,
ch'è impossibile. Dice adunque che nobilitade e vertute
cotale, cioè morale, convegnono in questo, che l'una e
l'altra importa loda di colui di cui si dice; e dico ciò
quando dice: Per che in medesmo detto Convegnono ambedue, ch'en
d'uno effetto, cioè lodare e rendere pregiato colui cui
esser si dicono. E poi conchiude prendendo la vertude de la sopra
notata proposizione, e dice che però conviene l'una procedere
da l'altra, o vero ambe da un terzo; e soggiunge che più tosto
è da presummere l'una venire da l'altra, che ambe da terzo,
s'elli appare che l'una vaglia quanto l'altra, e più ancora; e
ciò dice: Ma se l'una val ciò che l'altra vale.
Ove è da sapere che qui non si procede per necessaria
dimostrazione, sì come sarebbe a dire, se lo freddo è
generativo de l'acqua, e noi vedemo li nuvoli generare acqua, che lo
freddo è generativo de li nuvoli; sì di bella e
convenevole induzione, che se in noi sono più cose laudabili,
e in noi è lo principio de le nostre lodi, ragionevole è
queste a questo principio riducere; e quello che comprende più
cose, più ragionevolemente si dee dire principio di quelle,
che quelle principio di lui. Ché lo piè de l'albero,
che tutti li altri rami comprende, si dee principio dire e cagione di
quelli, e non quelli di lui; e così nobilitade, che comprende
ogni vertude, sì come cagione effetto comprende, e molte altre
nostre operazioni laudabili, si dee avere per tale, che la vertude
sia da ridurre ad essa prima che ad altro terzo che in noi
sia.
Ultimamente
dice, che quello ch'è detto (cioè, che ogni vertù
morale vegna da una radice, e che vertù cotale e nobilitade
convegnano in una cosa, come detto è di sopra; e che però
si convegna l'una reducere a l'altra, o vero ambe ad uno terzo; e che
se l'una vale quello che l'altra e più, di quella questa
proceda maggiormente che d'altro terzo), tutto sia per sopposto,
cioè ordito e apparecchiato a quello che per innanzi
s'intende. E così termina questo verso e questa presente
parte.
Capitolo XIX
Poi che ne la precedente parte sono pertrattate certe cose e
diterminate, ch'erano necessarie a vedere come diffinire si possa
questa buona cosa di che si parla, procedere si conviene a la
seguente parte, che comincia: È gentilezza dovunqu'è
vertute. E questa si vuole in due parti reducere: ne la prima si
pruova certa cosa che dinanzi è toccata e lasciata non
provata; ne la seconda, conchiudendo, si truova questa diffinizione
che cercando si va. E comincia questa seconda parte: Dunque verrà,
come dal nero il perso.
Ad evidenza de la prima parte, da reducere a memoria è che di
sopra si dice che se nobilitade vale e si stende più che
vertute, vertute più tosto procederà da essa. La qual
cosa ora in questa parte pruova, cioè che nobilitade più
si stenda; e rende essemplo del cielo, dicendo che dovunque è
vertude, quivi è nobilitade. E quivi si vuole sapere che, sì
come scritto è in Ragione e per regola di Ragione si tiene, in
quelle cose che per sé sono manifeste non è mestiere di
pruova; e nulla n'è più manifesta che nobilitade essere
dove è vertude, e ciascuna cosa volgarmente vedemo, in sua
natura virtuosa, nobile esser chiamata. Dice dunque: Sì
com'è 'l cielo dovunqu'è la stella, e non è
questo vero e converso, cioè rivolto, che dovunque è
cielo sia la stella, così è nobilitade dovunque è
vertude, e non vertude dovunque nobilitade: e con bello e convenevole
essemplo, ché veramente è cielo ne lo quale molte e
diverse stelle rilucono. Riluce in essa le intellettuali e le morali
virtudi; riluce in essa le buone disposizioni da natura date, cioè
pietade e religione, e le laudabili passioni, cioè vergogna e
misericordia e altre molte; riluce in essa le corporali bontadi, cioè
bellezza, fortezza e quasi perpetua valitudine. E tante sono le sue
stelle, che nel cielo si stendono, che certo non è da
maravigliare se molti e diversi frutti fanno ne la umana nobilitade;
tante sono le nature e le potenze di quella, in una sotto una
semplice sustanza comprese e adunate, ne le quali sì come in
diversi rami fruttifica diversamente. Certo da dovvero ardisco a dire
che la nobilitade umana, quanto è da la parte di molti suoi
frutti, quella de l'angelo soperchia, tutto che l'angelica in sua
unitade sia più divina. Di questa nobilitade nostra, che in
tanti e tali frutti fruttificava, s'accorse lo Salmista, quando fece
quel Salmo che comincia: "Segnore nostro Iddio, quanto è
ammirabile lo nome tuo ne l'universa terra!", là dove
commenda l'uomo, quasi maravigliandosi del divino affetto in essa
umana creatura, dicendo: "Che cosa è l'uomo, che tu, Dio,
lo visiti? Tu l'hai fatto poco minore che li angeli, di gloria e
d'onore l'hai coronato, e posto lui sopra l'opere de le mani tue".
Veramente dunque bella e convenevole comparazione fu del cielo a
l'umana nobilitade.
Poi quando dice: E noi in donna e in età novella,
pruova ciò che dico, mostrando che la nobilitade si stenda in
parte dove virtù non sia. E dice poi: vedem questa salute:
e tocca nobilitade, che bene è vera salute, essere là
dove è vergogna, cioè tema di disnoranza, sì
come è ne le donne e ne li giovani, dove la vergogna è
buona e laudabile; la qual vergogna non è virtù, ma
certa passione buona. E dice: E noi in donna e in età
novella, cioè in giovani; però che, secondo che
vuole lo Filosofo nel quarto de l'Etica, "vergogna non è
laudabile né sta bene ne li vecchi e ne li uomini studiosi",
però che a loro si conviene di guardare da quelle cose che a
vergogna li conducano. A li giovani e a le donne non è tanto
richesto di cautela, e però in loro è laudabile la
paura del disnore ricevere per la colpa; che da nobilitade viene, e
nobilitade si puote credere e in loro chiamare, sì come
viltade e ignobilitade la sfacciatezza. Onde buono e ottimo segno di
nobilitade è ne li pargoli e imperfetti d'etade, quando dopo
lo fallo nel viso loro vergogna si dipinge, che è allora
frutto di vera nobilitade.
Capitolo XX
Quando appresso seguita: Dunque verrà, come dal nero il
perso, procede lo testo a la diffinizione di nobilitade, la qual
si cerca, e per la quale si potrà vedere che è questa
nobilitade di che tanta gente erroneamente parla. Dice dunque,
conchiudendo da quello che dinanzi detto è: dunque ogni
vertude, o vero il gener loro, cioè l'abito elettivo
consistente nel mezzo, verrà da questa, cioè
nobilitade. E rende essemplo ne li colori, dicendo: sì come lo
perso dal nero discende, così questa, cioè vertude,
discende da nobilitade. Lo perso è uno colore misto di
purpureo e di nero, ma vince lo nero, e da lui si dinomina; e così
la vertù è una cosa mista di nobilitade e di passione;
ma perché la nobilitade vince in quella, è la vertù
dinominata da essa, e appellata bontade. Poi appresso argomenta, per
quello che detto è, che nessuno, per poter dire: "Io sono
di cotale schiatta", non dee credere essere con essa, se questi
frutti non sono in lui. E rende incontanente ragione, dicendo che
quelli che hanno questa grazia, cioè questa divina
cosa, sono quasi come dèi, sanza macula di
vizio; e ciò dare non può se non Iddio solo, appo cui
non è scelta di persone, sì come le divine Scritture
manifestano. E non paia troppo alto dire ad alcuno, quando si dice:
Ch'elli son quasi dèi; ché, sì come di
sopra nel settimo capitolo del terzo trattato si ragiona, così
come uomini sono vilissimi e bestiali, così uomini sono
nobilissimi e divini, e ciò pruova Aristotile nel settimo de
l'Etica per lo testo d'Omero poeta. Sì che non dica quelli de
li Uberti di Fiorenza, né quelli de li Visconti da Melano:
"Perch'io sono di cotale schiatta, io sono nobile"; ché
'l divino seme non cade in ischiatta, cioè in istirpe, ma cade
ne le singulari persone, e, sì come di sotto si proverà,
la stirpe non fa le singulari persone nobili, ma le singulari persone
fanno nobile la stirpe.
Poi, quando dice: Ché solo Iddio a l'anima la dona,
ragione è del suscettivo, cioè del subietto dove questo
divino dono discende: ch'è bene divino dono, secondo la parola
de l'Apostolo: "Ogni ottimo dato e ogni dono perfetto di suso
viene, discendendo dal Padre de' lumi". Dice adunque che Dio
solo porge questa grazia a l'anima di quelli cui vede stare
perfettamente ne la sua persona, acconcio e disposto a questo divino
atto ricevere. Ché, secondo dice lo Filosofo nel secondo de
l'Anima, "le cose convengono essere disposte a li loro agenti, e
a ricevere li loro atti"; onde se l'anima è
imperfettamente posta, non è disposta a ricevere questa
benedetta e divina infusione: sì come se una pietra margarita
è male disposta, o vero imperfetta, la vertù celestiale
ricever non può, sì come disse quel nobile Guido
Guinizzelli in una sua canzone, che comincia: Al cor gentil ripara
sempre Amore. Puote adunque l'anima stare non bene ne la persona
per manco di complessione, o forse per manco di temporale: e in
questa cotale questo raggio divino mai non risplende. E possono dire
questi cotali, la cui anima è privata di questo lume, che essi
siano sì come valli volte ad aquilone, o vero spelunche
sotterranee, dove la luce del sole mai non discende, se non
ripercussa da altra parte da quella illuminata.
Ultimamente conchiude, e dice che, per quello che dinanzi detto è
(cioè che le vertudi sono frutto di nobilitade, e che Dio
questa metta ne l'anima che ben siede), che ad alquanti, cioè
a quelli che hanno intelletto, che sono pochi, è manifesto che
nobilitade umana non sia altro che "seme di felicitade",
messo da Dio ne l'anima ben posta, cioè lo cui corpo è
d'ogni parte disposto perfettamente. Ché se le vertudi sono
frutto di nobilitade, e felicitade è dolcezza per quelle
comparata, manifesto è essa nobilitade essere semente di
felicitade, come detto è. E se bene si guarda, questa
diffinizione tutte e quattro le cagioni, cioè materiale,
formale, efficiente e finale, comprende: materiale in quanto dice: ne
l'anima ben posta, che è materia e subietto di nobilitade;
formale in quanto dice che è seme; efficiente in quanto
dice: Messo da Dio ne l'anima; finale in quanto dice: di
felicità. E così è diffinita questa nostra
bontade, la quale in noi similemente discende da somma e spirituale
Virtude, come virtude in pietra da corpo nobilissimo celestiale.
Capitolo XXI
Acciò che più perfettamente s'abbia conoscenza de la
umana bontade, secondo che in noi è principio di tutto bene,
la quale nobilitade si chiama, da chiarire è in questo
speziale capitolo come questa bontade discende in noi; e prima per
modo naturale, e poi per modo teologico, cioè divino e
spirituale. In prima è da sapere che l'uomo è composto
d'anima e di corpo; ma ne l'anima è quella; sì come
detto è che è a guisa di semente de la virtù
divina. Veramente per diversi filosofi de la differenza de le nostre
anime fue diversamente ragionato: ché Avicenna e Algazel
volsero che esse da loro e per loro principio fossero nobili e vili;
e Plato e altri volsero che esse procedessero da le stelle, e fossero
nobili e più e meno secondo la nobilitade de la stella.
Pittagora volse che tutte fossero d'una nobilitade, non solamente le
umane ma con le umane quelle de li animali bruti e de le piante, e le
forme de le minere, e disse che tutta la differenza è de le
corpora e de le forme. Se ciascuno fosse a difendere la sua
oppinione, potrebbe essere che la veritade si vedrebbe essere in
tutte; ma però che ne la prima faccia paiono un poco lontane
dal vero, non secondo quelle procedere si conviene, ma secondo
l'oppinione d'Aristotile e de li Peripatetici. E però dico che
quando l'umano seme cade nel suo recettaculo, cioè ne la
matrice, esso porta seco la vertù de l'anima generativa e la
vertù del cielo e la vertù de li elementi legati, cioè
la complessione; e matura e dispone la materia a la vertù
formativa, la quale diede l'anima del generante; e la vertù
formativa prepara li organi a la vertù celestiale, che produce
de la potenza del seme l'anima in vita. La quale, incontanente
produtta, riceve da la vertù del motore del cielo lo
intelletto possibile; lo quale potenzialmente in sé adduce
tutte le forme universali, secondo che sono nel suo produttore, e
tanto meno quanto più dilungato da la prima Intelligenza
è.
Non si
maravigli alcuno, s'io parlo sì che par forte ad intendere;
ché a me medesimo pare maraviglia, come cotale produzione si
può pur conchiudere e con lo intelletto vedere. Non è
cosa da manifestare a lingua, lingua, dico, veramente volgare. Per
che io voglio dire come l'Apostolo: "O altezza de le divizie de
la sapienza di Dio, come sono incomprensibili li tuoi giudicii e
investigabili le tue vie!". E però che la complessione
del seme puote essere migliore e men buona, e la disposizione del
seminante puote essere migliore e men buona, e la disposizione del
Cielo a questo effetto puote essere buona, migliore e ottima (la
quale si varia per le constellazioni, che continuamente si
transmutano); incontra che de l'umano seme e di queste vertudi più
pura e men pura anima si produce; e, secondo la sua puritade,
discende in essa la vertude intellettuale possibile che detta è,
e come detto è. E s'elli avviene che, per la puritade de
l'anima ricevente, la intellettuale vertude sia bene astratta e
assoluta da ogni ombra corporea, la divina bontade in lei multiplica,
sì come in cosa sufficiente a ricevere quella, e quindi sì
multiplica ne l'anima questa intelligenza, secondo che ricevere
puote. E questo è quel seme di felicitade del quale al
presente si parla. E ciò è concordevole a la sentenza
di Tullio in quello De Senectute, che, parlando in persona di Catone,
dice: "Imperciò celestiale anima discese in noi, de
l'altissimo abitaculo venuta in loco lo quale a la divina natura e a
la etternitade è contrario". E in questa cotale anima è
la vertude sua propria, e la intellettuale, e la divina, cioè
quella influenza che detta è: però è scritto nel
libro de le Cagioni: "Ogni anima nobile ha tre operazioni, cioè
animale, intellettuale e divina". E sono alcuni di tale
oppinione che dicono, se tutte le precedenti vertudi s'accordassero
sovra la produzione d'un'anima ne la loro ottima disposizione, che
tanto discenderebbe in quella de la deitade, che quasi sarebbe un
altro Iddio incarnato. E quasi questo è tutto ciò che
per via naturale dicere si puote.
Per via teologica si può dire che, poi che la somma deitade,
cioè Dio, vede apparecchiata la sua creatura a ricevere del
suo beneficio, tanto largamente in quella ne mette quanto
apparecchiata è a riceverne. E però che da ineffabile
caritate vegnono questi doni, e la divina caritate sia appropriata a
lo Spirito Santo, quindi è che chiamati sono doni di Spirito
Santo. Li quali, secondo che li distingue Isaia profeta, sono sette,
cioè Sapienza, Intelletto, Consiglio, Fortezza, Scienza,
Pietade e Timore di Dio. Oh buone biade, e buona e ammirabile
sementa! e oh ammirabile e benigno seminatore, che non attende se non
che la natura umana li apparecchi la terra a seminare! e beati quelli
che tale sementa coltivano come si conviene! Ove è da sapere
che 'l primo e lo più nobile rampollo che germogli di questo
seme, per essere fruttifero, si è l'appetito de l'animo, lo
quale in greco è chiamato "hormen". E se questo non
è bene culto e sostenuto diritto per buona consuetudine, poco
vale la sementa, e meglio sarebbe non essere seminato. E però
vuole santo Augustino, e ancora Aristotile nel secondo de l'Etica,
che l'uomo s'ausi a ben fare e a rifrenare le sue passioni, acciò
che questo tallo, che detto è, per buona consuetudine induri,
e rifermisi ne la sua rettitudine, sì che possa fruttificare,
e del suo frutto uscire la dolcezza de l'umana felicitade.
Capitolo XXII
Comandamento è de li morali filosofi che de li benefici hanno
parlato, che l'uomo dee mettere ingegno e sollicitudine in porgere li
suoi benefici quanto puote utili più al ricevitore; onde io,
volendo a cotale imperio essere obediente, intendo questo mio
Convivio per ciascuna de le sue parti rendere utile quanto più
mi sarà possibile. E però che in questa parte occorre a
me di potere alquanto ragionare de l'umana felicitade, de la sua
dolcezza ragionare intendo; ché più utile ragionamento
fare non si può a coloro che non la conoscono. Ché, sì
come dice lo Filosofo nel primo de l'Etica e Tullio in quello del
Fine de' Beni, male tragge al segno quelli che nol vede; e così
male può ire a questa dolcezza chi prima non l'avvisa. Onde,
con ciò sia cosa che essa sia finale nostro riposo, per lo
quale noi vivemo e operiamo ciò che facemo, utilissimo e
necessario è questo segno vedere, per dirizzare a quello
l'arco de la nostra operazione. E massimamente è da gradire
quelli che a coloro che non veggiano l'addita.
Lasciando dunque stare l'oppinione che di quello ebbe Epicuro
filosofo, e di quello ebbe Zenone, venire intendo sommariamente a la
verace oppinione d'Aristotile e de li altri Peripatetici. Sì
come detto è di sopra, de la divina bontade, in noi seminata e
infusa dal principio de la nostra generazione, nasce uno rampollo,
che li Greci chiamano "hormen", cioè appetito
d'animo naturale. E sì come ne le biade che, quando nascono,
dal principio hanno quasi una similitudine ne l'erba essendo, e poi
si vengono per processo dissimigliando; così questo naturale
appetito, che de la divina grazia surge, dal principio quasi si
mostra non dissimile a quello che pur da natura nudamente viene, ma
con esso, sì come l'erbate quasi di diversi biadi, si
simiglia. E non pur ne li uomini, ma ne li uomini e ne le bestie ha
similitudine; e 'n questo appare, che ogni animale, sì come
elli è nato, razionale come bruto, se medesimo ama, e teme e
fugge quelle cose che a lui sono contrarie, e quelle odia. Procedendo
poi, sì come detto è, comincia una dissimilitudine tra
loro, nel procedere di questo appetito, ché l'uno tiene uno
cammino e l'altro un altro. Sì come dice l'Apostolo: "Molti
corrono al palio, ma uno è quelli che 'l prende", così
questi umani appetiti per diversi calli dal principio se ne vanno, e
uno solo calle è quello che noi mena a la nostra pace. E però,
lasciando stare tutti li altri, col trattato è da tenere
dietro a quello che bene comincia.
Dico adunque che dal principio se stesso ama, avvegna che
indistintamente; poi viene distinguendo quelle cose che a lui sono
più amabili e meno, e più odibili e meno, e seguita e
fugge e più e meno, secondo la conoscenza distingue non
solamente ne l'altre cose, che secondamente ama, ma eziandio
distingue in sé, che ama principalmente. E conoscendo in sé
diverse parti, quelle che in lui sono più nobili, più
ama quelle; e con ciò sia cosa che più nobile parte de
l'uomo sia l'animo che 'l corpo, quello più ama. E così,
amando sé principalmente, e per sé l'altre cose, e
amando di sé la migliore parte più, manifesto è
che più ama l'animo che 'l corpo o che altra cosa: lo quale
animo naturalmente più che altra cosa dee amare. Dunque, se la
mente si diletta sempre ne l'uso de la cosa amata, che è
frutto d'amore, e in quella cosa che massimamente è amata è
l'uso massimamente dilettoso, l'uso del nostro animo è
massimamente dilettoso a noi. E quello che massimamente è
dilettoso a noi, quello è nostra felicitade e nostra
beatitudine, oltre la quale nullo diletto è maggiore, né
nullo altro pare; sì come veder si puote, chi bene riguarda la
precedente ragione.
E non dicesse alcuno che ogni appetito sia animo; ché qui
s'intende animo solamente quello che spetta a la parte razionale,
cioè la volontade e lo intelletto; sì che se volesse
chiamare animo l'appetito sensitivo, qui non ha luogo, né
instanza puote avere, ché nullo dubita che l'appetito
razionale non sia più nobile che 'l sensuale, e però
più amabile: e così è questo di che ora si
parla. Veramente l'uso del nostro animo è doppio, cioè
pratico e speculativo (pratico è tanto quanto operativo),
l'uno e l'altro dilettosissimo, avvegna che quello del contemplare
sia più, sì come di sopra è narrato. Quello del
pratico si è operare per noi virtuosamente, cioè
onestamente, con prudenza, con temperanza, con fortezza e con
giustizia; quello de lo speculativo si è non operare per noi,
ma considerare l'opere di Dio e de la natura. E questo come
quell'altro è nostra beatitudine e somma felicitade, sì
come vedere si può; la quale è la dolcezza del sopra
notato seme, sì come omai manifestamente appare, a la quale
molte volte cotale seme non perviene per male essere coltivato, e per
essere disviata la sua pullulazione. E similemente puote essere per
molta correzione e cultura; ché là dove questo seme dal
principio non cade, si puote inducere nel suo processo, sì che
perviene a questo frutto; ed è uno modo quasi d'insetare
l'altrui natura sopra diversa radice. E però nullo è
che possa essere scusato; ché se da sua naturale radice uomo
non ha questa sementa, ben la puote avere per via d'insetazione. Così
fossero tanti quelli di fatto che s'insetassero, quanti sono quelli
che da la buona radice si lasciano disviare!
Veramente di questi usi l'uno è più pieno di
beatitudine che l'altro; sì come è lo speculativo, lo
quale sanza mistura alcuna è uso de la nostra nobilissima
parte, la quale, per lo radicale amore che detto è,
massimamente è amabile, sì com'è lo 'ntelletto.
E questa parte in questa vita perfettamente lo suo uso avere non
puote - lo quale è vedere in sé Iddio ch'è sommo
intelligibile -, se non in quanto considera lui e mira lui per li
suoi effetti. E che noi domandiamo questa beatitudine per somma, e
non altra, cioè quella de la vita attiva, n'ammaestra lo
Vangelio di Marco, se bene quello volemo guardare. Dice Marco che
Maria Maddalena e Maria Iacobi e Maria Salomè andaro per
trovare lo Salvatore al monimento, e quello non trovaro; ma trovaro
uno giovane vestito di bianco che disse loro: "Voi domandate lo
Salvatore, e io vi dico che non è qui; e però non
abbiate temenza, ma ite, e dite a li discepoli suoi e a Piero che
elli li precederà in Galilea; e quivi lo vedrete, sì
come vi disse". Per queste tre donne si possono intendere le tre
sette de la vita attiva, cioè li Epicurei, li Stoici e li
Peripatetici, che vanno al monimento, cioè al mondo presente
che è recettaculo di corruttibili cose, e domandano lo
Salvatore, cioè la beatitudine, e non la truovano; ma uno
giovane truovano in bianchi vestimenti, lo quale, secondo la
testimonianza di Matteo e anche de li altri, era angelo di Dio. E
però Matteo disse: "L'angelo di Dio discese di cielo, e
vegnendo volse la pietra e sedea sopra essa. E 'l suo aspetto era
come folgore, e le sue vestimenta erano come neve". Questo
angelo è questa nostra nobilitade che da Dio viene, come detto
è, che ne la nostra ragione parla, e dice a ciascuna di queste
sette, cioè a qualunque va cercando beatitudine ne la vita
attiva, che non è qui; ma vada, e dicalo a li discepoli e a
Piero, cioè a coloro che 'l vanno cercando, e a coloro che
sono sviati, sì come Piero che l'avea negato, che in Galilea
li precederà: cioè che la beatitudine precederà
noi in Galilea, cioè ne la speculazione. Galilea è
tanto a dire quanto bianchezza. Bianchezza è uno colore pieno
di luce corporale più che nullo altro; e così la
contemplazione è più piena di luce spirituale che altra
cosa che qua giù sia. E dice: "Elli precederà";
e non dice: "Elli sarà con voi": a dare a intendere
che ne la nostra contemplazione Dio sempre precede, né mai lui
giugnere potemo qui, lo quale è nostra beatitudine somma. E
dice: "Quivi lo vedrete, sì come disse": cioè
quivi avrete de la sua dolcezza, cioè de la felicitade, sì
come a voi è promesso qui; cioè, sì come
stabilito è che voi avere possiate. E così appare che
nostra beatitudine (questa felicitade di cui si parla) prima trovare
potemo quasi imperfetta ne la vita attiva, cioè ne le
operazioni de le morali virtudi, e poi perfetta quasi ne le
operazioni de le intellettuali. Le quali due operazioni sono vie
espedite e dirittissime a menare a la somma beatitudine, la quale qui
non si puote avere, come appare pur per quello che detto è.
Capitolo XXIII
Poi che dimostrata sufficientemente pare la diffinizione di
nobilitade, e quella per le sue parti, come possibile è stato,
è dichiarata, sì che vedere si puote omai che è
lo nobile uomo, da procedere pare a la parte del testo che comincia:
L'anima cui adorna esta bontate; ne la quale si mostrano li
segni per li quali conoscere si puote il nobile uomo che detto è.
E dividesi questa parte in due: che ne la prima s'afferma che questa
nobilitade luce e risplende per tutta la vita del nobile,
manifestamente; ne la seconda si dimostra specificamente ne li suoi
splendori, e comincia questa seconda parte: Ubidente, soave e
vergognosa.
Intorno de la prima è da sapere che questo seme divino, di cui
parlato è di sopra, ne la nostra anima incontanente germoglia,
mettendo e diversificando per ciascuna potenza de l'anima, secondo la
essigenza di quella. Germoglia dunque per la vegetativa, per la
sensitiva e per la razionale; e dibrancasi per le vertuti di quelle
tutte, dirizzando quelle tutte a le loro perfezioni, e in quelle
sostenendosi sempre infino al punto che, con quella parte de la
nostra anima che mai non muore, a l'altissimo e gloriosissimo
seminadore al cielo ritorna. E questo dice per quella prima che detta
è. Poi quando comincia: Ubidente, soave e vergognosa,
mostra quello per che potemo conoscere l'uomo nobile a li segni
apparenti, che sono, di questa bontade divina, operazione; e partesi
questa parte in quattro, secondo che per quattro etadi diversamente
adopera, sì come per l'adolescenza, per la gioventute, per la
senettute e per lo senio. E comincia la seconda parte: In
giovinezza, temperata e forte; la terza comincia: E ne la sua
senetta; la quarta comincia: Poi ne la quarta parte de la
vita. In questo è la sentenza di questa parte in generale.
Intorno a la quale si vuole sapere che ciascuno effetto, in quanto
effetto è, riceve la similitudine de la sua cagione, quanto è
più possibile di ritenere. Onde, con ciò sia cosa che
la nostra vita, sì come detto è, ed ancora d'ogni
vivente qua giù, sia causata dal cielo, e lo cielo a tutti
questi cotali effetti, non per cerchio compiuto, ma per parte di
quello a loro si scuopra; e così conviene che 'l suo movimento
sia sopra essi come uno arco quasi, e tutte le terrene vite (e dico
terrene, sì de li uomini come de li altri viventi), montando e
volgendo, convengono essere quasi ad imagine d'arco assimiglianti.
Tornando dunque a la nostra, sola de la quale al presente s'intende,
sì dico ch'ella procede a imagine di questo arco, montando e
discendendo.
Ed è
da sapere che questo arco di giù, come l'arco di su sarebbe
eguale, se la materia de la nostra seminale complessione non
impedisse la regola de la umana natura. Ma però che l'umido
radicale è meno e più, e di migliore qualitade e men
buona, e più ha durare in uno che in uno altro effetto - lo
qual è subietto e nutrimento del calore, che è nostra
vita -, avviene che l'arco de la vita d'un uomo è di minore e
di maggiore tesa che quello de l'altro. E alcuna morte è
violenta, o vero per accidentale infertade affrettata; ma solamente
quella che naturale è chiamata dal vulgo, e che è, è
quel termine del quale si dice per lo Salmista: "Ponesti
termine, lo quale passare non si può". E però che
lo maestro de la nostra vita Aristotile s'accorse di questo arco di
che ora si dice, parve volere che la nostra vita non fosse altro che
uno salire e uno scendere: però dice in quello dove tratta di
Giovinezza e di Vecchiezza, che giovinezza non è altro se non
accrescimento di quella. Là dove sia lo punto sommo di questo
arco, per quella disaguaglianza che detta è di sopra, è
forte da sapere; ma ne li più io credo tra il trentesimo e
quarantesimo anno, e io credo che ne li perfettamente naturati esso
ne sia nel trentacinquesimo anno. E muovemi questa ragione: che
ottimamente naturato fue lo nostro salvatore Cristo, lo quale volle
morire nel trentaquattresimo anno de la sua etade; ché non era
convenevole la divinitade stare in cosa in discrescere, né da
credere è ch'elli non volesse dimorare in questa nostra vita
al sommo, poi che stato c'era nel basso stato de la puerizia. E ciò
manifesta l'ora del giorno de la sua morte, ché volle quella
consimigliare con la vita sua; onde dice Luca che era quasi ora sesta
quando morio, che è a dire lo colmo del die. Onde si può
comprendere per quello "quasi" che al trentacinquesimo anno
di Cristo era lo colmo de la sua etade.
Veramente questo arco non pur per mezzo si distingue da le scritture;
ma, seguendo le quattro combinazioni de le contrarie qualitadi che
sono ne la nostra composizione, a le quali pare essere appropriata,
dico a ciascuna, una parte de la nostra etade, in quattro parti si
divide, e chiamansi quattro etadi. La prima è Adolescenza, che
s'appropria al caldo e a l'umido; la seconda si è Gioventute,
che s'appropria al caldo e al secco; la terza si è Senettute,
che s'appropria al freddo e al secco; la quarta si è Senio,
che s'appropria al freddo e a l'umido, secondo che nel quarto de la
Metaura scrive Alberto. E queste parti si fanno simigliantemente ne
l'anno, in primavera, in estate, in autunno e in inverno; e nel die,
ciò è infino a la terza, e poi infino a la nona
(lasciando la sesta, nel mezzo di questa parte, per la ragione che si
discerne), e poi infino al vespero e dal vespero innanzi. E però
li gentili, cioè li pagani, diceano che 'l carro del sole avea
quattro cavalli: lo primo chiamavano Eoo, lo secondo Pirroi, lo terzo
Eton, lo quarto Flegon, secondo che scrive Ovidio nel secondo del
Metamorfoseos. Intorno a le parti del giorno è brievemente da
sapere che, sì come detto è di sopra nel sesto del
terzo trattato, la Chiesa usa, ne la distinzione de le ore, le ore
del dì temporali, che sono in ciascuno die dodici, o grandi o
piccole, secondo la quantitade del sole; e però che la sesta
ora, cioè lo mezzo die, è la più nobile di tutto
lo die e la più virtuosa, li suoi offici appressa quivi da
ogni parte, cioè da prima e di poi, quanto puote. E però
l'officio de la prima parte del die, cioè la terza, si dice in
fine di quella; e quello de la terza parte e de la quarta si dice ne
li principii. E però si dice mezza terza, prima che suoni per
quella parte; e mezza nona, poi che per quella parte è sonato;
e così mezzo vespero. E però sappia ciascuno che, ne la
diritta nona, sempre dee sonare nel cominciamento de la settima ora
del die: e questo basti a la presente digressione.
Capitolo XXIV
Ritornando al proposito, dico che la umana vita si parte per quattro
etadi. La prima si chiama Adolescenzia, cioè "accrescimento
di vita"; la seconda si chiama Gioventute, cioè "etate
che puote giovare", cioè perfezione dare, e così
s'intende perfetta - ché nullo puote dare se non quello
ch'elli ha -; la terza si chiama Senettute; la quarta si chiama
Senio, sì come di sopra detto è.
De la prima nullo dubita, ma ciascuno savio s'accorda ch'ella dura in
fino al venticinquesimo anno; e però che infino a quel tempo
l'anima nostra intende a lo crescere e a lo abbellire del corpo, onde
molte e grandi transmutazioni sono ne la persona, non puote
perfettamente la razionale parte discernere. Per che la Ragione vuole
che dinanzi a quella etade l'uomo non possa certe cose fare sanza
curatore di perfetta etade.
De la seconda, la quale veramente è colmo de la nostra vita,
diversamente è preso lo tempo da molti. Ma, lasciando ciò
che ne scrivono li filosofi e li medici, e tornando a la ragione
propria, dico che ne li più, ne li quali prendere si puote e
dee ogni naturale giudicio, quella etade è venti anni. E la
ragione che ciò mi dà si è che, se 'l colmo del
nostro arco è ne li trentacinque, tanto quanto questa etade ha
di salita tanto dee avere di scesa; e quella salita e quella scesa è
quasi lo tenere de l'arco, nel quale poco di flessione si discerne.
Avemo dunque che la gioventute nel quarantacinquesimo anno si compie.
E sì come l'adolescenzia è in venticinque anni che
precede, montando, a la gioventute, così lo discendere, cioè
la senettute, è in altrettanto tempo che succede a la
gioventute; e così si termina la senettute nel settantesimo
anno. Ma però che l'adolescenza non comincia dal principio de
la vita, pigliandola per lo modo che detto è, ma presso a otto
anni dopo quello; e però che la nostra natura si studia di
salire, e a lo scendere raffrena, però che lo caldo naturale è
menomato, e puote poco, e l'umido è ingrossato (non però
in quantitade, ma pur in qualitade, sì ch'è meno
vaporabile e consumabile), avviene che oltre la senettute rimane de
la nostra vita forse in quantitade di diece anni, o poco più o
poco meno: e questo tempo si chiama senio. Onde avemo di Platone, del
quale ottimamente si può dire che fosse naturato e per la sua
perfezione e per la fisonomia che di lui prese Socrate quando prima
lo vide, che esso vivette ottantuno anno, secondo che testimonia
Tullio in quello De Senectute. E io credo che se Cristo fosse stato
non crucifisso, e fosse vivuto lo spazio che la sua vita poteva
secondo natura trapassare, elli sarebbe a li ottantuno anno di
mortale corpo in etternale transmutato.
Veramente, sì come di sopra detto è, queste etadi
possono essere più lunghe e più corte secondo la
complessione nostra e la composizione; ma, come elle siano in questa
proporzione, come detto è, in tutti mi pare da servare, cioè
di fare l'etadi in quelli cotali e più lunghe e meno secondo
la integritade di tutto lo tempo de la naturale vita. Per queste
tutte etadi questa nobilitade, di cui si parla, diversamente mostra
li suoi effetti ne l'anima nobilitata; e questo è quello che
questa parte, sopra la quale al presente si scrive, intende a
dimostrare. Dov'è da sapere che la nostra buona e diritta
natura ragionevolmente procede in noi, sì come vedemo
procedere la natura de le piante in quelle; e però altri
costumi e altri portamenti sono ragionevoli ad una etade più
che ad altra, ne li quali l'anima nobilitata ordinatamente procede
per una semplice via, usando li suoi atti ne li loro tempi ed etadi
sì come a l'ultimo suo frutto sono ordinati. E Tullio in ciò
s'accorda in quello De Senectute. E lasciando lo figurato che di
questo diverso processo de l'etadi tiene Virgilio ne lo Eneida, e
lasciando stare quello che Egidio eremita ne dice ne la prima parte
de lo Reggimento de' Principi, e lasciando stare quello che ne tocca
Tullio in quello de li Offici, e seguendo solo quello che la ragione
per sé ne puote vedere, dico che questa prima etade è
porta e via per la quale s'entra ne la nostra buona vita. E questa
entrata conviene avere di necessitade certe cose, le quali la buona
natura, che non viene meno ne le cose necessarie, ne dà; sì
come vedemo che dà a la vite le foglie per difensione del
frutto, e li vignuoli con li quali difende e lega la sua
imbecillitade, sì che sostiene lo peso del suo
frutto.
Dà
adunque la buona natura a questa etade quattro cose, necessarie a lo
entrare ne la cittade del bene vivere. La prima si è
obedienza; la seconda soavitade; la terza vergogna; la quarta
adornezza corporale, sì come dice lo testo ne la prima
particola. E` dunque da sapere, che sì come quello che mai non
fosse stato in una cittade, non saprebbe tenere le vie sanza
insegnamento di colui che l'hae usata; così l'adolescente, che
entra ne la selva erronea di questa vita, non saprebbe tenere lo
buono cammino, se da li suoi maggiori non li fosse mostrato. Né
lo mostrare varrebbe, se a li loro comandamenti non fosse obediente;
e però fu a questa etade necessaria la obedienza. Ben potrebbe
alcuno dire così: dunque potrà essere detto quelli
obediente che crederà li malvagi comandamenti, come quelli che
crederà li buoni? Rispondo che non ha quella obedienza, ma
transgressione: ché se lo re comanda una via e lo servo ne
comanda un'altra, non è da obedire lo servo; ché
sarebbe disobedire lo re, e così sarebbe transgressione. E
però dice Salomone, quando intende correggere suo figlio (e
questo è lo primo suo comandamento): "Audi, figlio mio,
l'ammaestramento del tuo padre". E poi lo rimuove incontanente
da l'altrui reo consiglio e ammaestramento, dicendo: "Non ti
possano quello fare di lusinghe né di diletto li peccatori,
che tu vadi con loro". Onde, sì come, nato, tosto lo
figlio a la tetta de la madre s'apprende, così tosto, come
alcuno lume d'animo in esso appare, si dee volgere a la correzione
del padre, e lo padre lui ammaestrare. E guardisi che non li dea di
sé essemplo ne l'opera, che sia contrario a le parole de la
correzione: ché naturalmente vedemo ciascuno figlio più
mirare a le vestigie de li paterni piedi che a l'altre. E però
dice e comanda la Legge, che a ciò provede, che la persona del
padre sempre santa e onesta dee apparere a li suoi figli; e così
appare che la obedienza fue necessaria in questa etade. E però
scrive Salomone ne li Proverbi, che quelli che umilemente e
obedientemente sostiene dal correttore le sue correttive riprensioni,
"sarà glorioso"; e dice "sarà", a
dare ad intendere che elli parla a lo adolescente, che non puote
essere, ne la presente etade. E se alcuno calunniasse: "Ciò
che detto è, è pur del padre e non d'altri", dico
che al padre si dee riducere ogni altra obedienza. Onde dice
l'Apostolo a li Colossensi: "Figliuoli, obedite a li vostri
padri per tutte cose, per ciò che questo vuole Iddio". E
se non è in vita lo padre, riducere si dee a quelli che per lo
padre è ne l'ultima volontade in padre lasciato; e se lo padre
muore intestato, riducere si dee a colui cui la Ragione commette lo
suo governo. E poi deono essere obediti maestri e maggiori, cui in
alcuno modo pare dal padre, o da quelli che loco paterno tiene,
essere commesso. Ma però che lungo è stato lo capitolo
presente per le utili digressioni che contiene, per l'altro capitolo
l'altre cose sono da ragionare.
Capitolo XXV
Non solamente questa anima e natura buona in adolescenza è
obediente, ma eziandio soave; la quale cosa è l'altra ch'è
necessaria in questa etade a bene intrare ne la porta de la
gioventute. Necessaria è, poi che noi non potemo perfetta vita
avere sanza amici, sì come ne l'ottavo de l'Etica vuole
Aristotile; e la maggiore parte de l'amistadi si paiono seminare in
questa etade prima, però che in essa comincia l'uomo ad essere
grazioso, o vero lo contrario: la quale grazia s'acquista per soavi
reggimenti, che sono dolce e cortesemente parlare, dolce e
cortesemente servire e operare. E però dice Salomone a lo
adolescente figlio: "Li schernidori Dio li schernisce, e a li
mansueti Dio darà grazia". E altrove dice: "Rimuovi
da te la mala bocca, e li altri atti villani siano di lungi da te".
Per che appare, che necessaria sia questa soavitade, come detto
è.
Anche è
necessaria a questa etade la passione de la vergogna; e però
la buona e nobile natura in questa etade la mostra, sì come lo
testo dice. E però che la vergogna è apertissimo segno
in adolescenza di nobilitade, perché quivi è
massimamente necessaria al buono fondamento de la nostra vita, a lo
quale la nobile natura intende, di quella è alquanto con
diligenza da parlare. Dico che per vergogna io intendo tre passioni
necessarie al fondamento de la nostra vita buona: l'una si è
stupore; l'altra si è pudore; la terza si è verecundia;
avvegna che la volgare gente questa distinzione non discerna. E tutte
e tre queste sono necessarie a questa etade per questa ragione: a
questa etade è necessario d'essere reverente e disidiroso di
sapere; a questa etade è necessario d'essere rifrenato, sì
che non transvada; a questa etade è necessario d'essere
penitente del fallo, sì che non s'ausi a fallare. E tutte
queste cose fanno le passioni sopra dette, che vergogna volgarmente
sono chiamate. Ché lo stupore è uno stordimento d'animo
per grandi e maravigliose cose vedere o udire o per alcuno modo
sentire: che, in quanto paiono grandi, fanno reverente a sé
quelli che le sente; in quanto paiono mirabili, fanno voglioso di
sapere di quelle. E però li antichi regi ne le loro magioni
faceano magnifici lavorii d'oro e di pietre e d'artificio, acciò
che quelli che le vedessero divenissero stupidi, e però
reverenti, e domandatori de le condizioni onore voli de lo rege. E
però dice Stazio, lo dolce poeta, nel primo de la Tebana
Istoria, che quando Adrasto, rege de li Argi, vide Polinice coverto
d'un cuoio di leone, e vide Tideo coverto d'un cuoio di porco
selvatico, e ricordossi del risponso che Apollo dato avea per le sue
figlie, che esso divenne stupido; e però più reverente
e più disideroso di sapere.
Lo pudore è uno ritraimento d'animo da laide cose, con paura
di cadere in quelle; sì come vedemo ne le vergini e ne le
donne buone e ne li adolescenti, che tanto sono pudici, che non
solamente là dove richesti o tentati sono di fallare, ma dove
pure alcuna imaginazione di venereo compimento avere si puote, tutti
si dipingono ne la faccia di palido o di rosso colore. Onde dice lo
sopra notato poeta ne lo allegato libro primo di Tebe, che quando
Aceste, nutrice d'Argia e di Deifile, figlie d'Adrasto rege, le menò
dinanzi da li occhi del santo padre ne la presenza de li due
peregrini, cioè Polinice e Tideo, le vergini palide e
rubicunde si fecero, e li loro occhi fuggiro da ogni altrui sguardo,
e solo ne la paterna faccia, quasi come sicuri, si tennero. Oh quanti
falli rifrena esto pudore! quante disoneste cose e dimande fa tacere!
quante disoneste cupiditati raffrena! quante male tentazioni non pur
ne la pudica persona diffida, ma eziandio in quello che la guarda!
quante laide parole ritene! Ché, sì come dice Tullio
nel primo de li Offici: Nullo atto è laido, che non sia laido
quello nominare; e però lo pudico e nobile uomo mai non parla
sì, che ad una donna non fossero oneste le sue parole. Ahi
quanto sta male a ciascuno nobile uomo che onore vada cercando,
menzionare cose che ne la bocca d'ogni donna stean male!
La verecundia è una paura di disonoranza per fallo commesso; e
di questa paura nasce un pentimento del fallo, lo quale ha in sé
una amaritudine che è gastigamento a più non fallire.
Onde dice questo medesimo poeta, in quella medesima parte, che quando
Polinice fu domandato da Adrasto rege del suo essere, ch'elli dubitò
prima di dicere, per vergogna del fallo che contra lo padre fatto
avea, e ancora per li falli d'Edippo suo padre, ché paiono
rimanere in vergogna del figlio; e non nominò suo padre, ma li
antichi suoi e la terra e la madre. Per che bene appare, vergogna
essere necessaria in quella etade.
E non pure obedienza, soavitade e vergogna la nobile natura in questa
etade dimostra, ma dimostra bellezza e snellezza nel corpo; sì
come dice lo testo quando dice: E sua persona adorna. E questo
"adorna" è verbo e non nome: verbo, dico, indicativo
del tempo presente in terza persona. Ove è da sapere che anco
è necessaria questa opera a la nostra buona vita; ché
la nostra anima conviene grande parte de le sue operazioni operare
con organo corporale, e allora opera bene che 'l corpo è bene
per le sue parti ordinato e disposto. E quando elli è bene
ordinato e disposto, allora è bello per tutto e per le parti;
ché l'ordine debito de le nostre membra rende uno piacere non
so di che armonia mirabile, e la buona disposizione, cioè la
sanitade, getta sopra quelle uno colore dolce a riguardare. E così
dicere che la nobile natura lo suo corpo abbellisca e faccia conto e
accorto, non è altro a dire se non che l'acconcia a perfezione
d'ordine, e, così questa come l'altre cose che ragionate sono,
appare essere necessarie a l'adolescenza: le quali la nobile anima,
cioè la nobile natura, dà, e ad esse primamente
intende, sì come cosa che, come detto è, da la divina
provedenza è seminata.
Capitolo XXVI
Poi che sopra la prima particola di questa parte, che mostra quello
per che potemo conoscere l'uomo nobile a li segni apparenti, è
ragionato, da procedere è a la seconda parte, la quale
comincia: In giovinezza, temperata e forte. Dice adunque che
sì come la nobile natura in adolescenza ubidente, soave e
vergognosa, e adornatrice de la sua persona si mostra, così
ne la gioventute si fa temperata, forte, amorosa, cortese e leale: le
quali cinque cose paiono, e sono, necessarie a la nostra perfezione,
in quanto avemo rispetto a noi medesimi. E intorno di ciò si
vuole sapere che tutto quanto la nobile natura prepara ne la prima
etade, è apparecchiato e ordinato per provedimento di Natura
universale, che ordina la particulare a sua perfezione. Questa
perfezione nostra si può doppiamente considerare. Puotesi
considerare secondo che ha rispetto a noi medesimi: e questa ne la
nostra gioventute si dee avere, che è colmo de la nostra vita.
Puotesi considerare secondo che ha rispetto ad altri; e però
che prima conviene essere perfetto, e poi la sua perfezione
comunicare ad altri, convienesi questa secondaria perfezione avere
appresso questa etade, cioè ne la senettute, sì come di
sotto si dicerà.
Qui adunque è da reducere a mente quello che di sopra, nel
ventiduesimo capitolo di questo trattato, si ragiona de lo appetito
che in noi dal nostro principio nasce. Questo appetito mai altro non
fa che cacciare e fuggire; e qualunque ora esso caccia quello che e
quanto si conviene, e fugge quello che e quanto si conviene, l'uomo è
ne li termini de la sua perfezione. Veramente questo appetito
conviene essere cavalcato da la ragione; ché sì come
uno sciolto cavallo, quanto ch'ello sia di natura nobile, per sé,
sanza lo buono cavalcatore, bene non si conduce, così questo
appetito, che irascibile e concupiscibile si chiama, quanto ch'ello
sia nobile, a la ragione obedire conviene, la quale guida quello con
freno e con isproni, come buono cavaliere. Lo freno usa quando elli
caccia, e chiamasi quello freno temperanza, la quale mostra lo
termine infino al quale è da cacciare; lo sprone usa quando
fugge, per lui tornare a lo loco onde fuggire vuole, e questo sprone
si chiama fortezza, o vero magnanimitate, la quale vertute mostra lo
loco dove è da fermarsi e da pugnare. E così infrenato
mostra Virgilio, lo maggiore nostro poeta, che fosse Enea, ne la
parte de lo Eneida ove questa etade si figura; la quale parte
comprende lo quarto, lo quinto e lo sesto libro de lo Eneida. E
quanto raffrenare fu quello, quando, avendo ricevuto da Dido tanto di
piacere quanto di sotto nel settimo trattato si dicerà, e
usando con essa tanto di dilettazione, elli si partio, per seguire
onesta e laudabile via e fruttuosa, come nel quarto de l'Eneida
scritto è! Quanto spronare fu quello, quando esso Enea
sostenette solo con Sibilla a intrare ne lo Inferno a cercare de
l'anima di suo padre Anchise, contra tanti pericoli, come nel sesto
de la detta istoria si dimostra! Per che appare che, ne la nostra
gioventute, essere a nostra perfezione ne convegna "temperati e
forti". E questo fa e dimostra la buona natura, sì come
lo testo dice espressamente.
Ancora è a questa etade, a sua perfezione, necessario d'essere
amorosa; però che ad essa si conviene guardare diretro e
dinanzi, sì come cosa che è nel meridionale cerchio:
conviensi amare li suoi maggiori, da li quali ha ricevuto ed essere e
nutrimento e dottrina, sì che esso non paia ingrato; conviensi
amare li suoi minori, acciò che, amando quelli, dea loro de li
suoi benefici, per li quali poi ne la minore prosperitade esso sia da
loro sostenuto e onorato. E questo amore mostra che avesse Enea lo
nomato poeta nel quinto libro sopra detto, quando lasciò li
vecchi Troiani in Cicilia raccomandati ad Aceste, e partilli da le
fatiche; e quando ammaestrò in questo luogo Ascanio, suo
figliuolo, con li altri adolescentuli armeggiando. Per che appare a
questa etade necessario essere amare, come lo testo dice.
Ancora è necessario a questa etade essere cortese; ché,
avvegna che a ciascuna etade sia bello l'essere di cortesi costumi, a
questa è massimamente necessario; però che lievemente
merita perdono l'adolescenza, se di cortesia manchi, per minoranza
d'etade, e però che, nel contrario, non la puote avere la
senettute, per la gravezza sua e per la severitade che a lei si
richiede; e così lo senio maggiormente. E questa cortesia
mostra che avesse Enea questo altissimo poeta, nel sesto sopra detto,
quando dice che Enea rege, per onorare lo corpo di Miseno morto, che
era stato trombatore d'Ettore e poi s'era raccomandato a lui,
s'accinse e prese la scure ad aiutare tagliare le legne per lo fuoco
che dovea ardere lo corpo morto, come era di loro costume. Per che
bene appare questa essere necessaria a la gioventute, e però
la nobile anima in quella la dimostra, come detto è.
Ancora è necessario a questa etade essere leale. Lealtade è
seguire e mettere in opera quello che le leggi dicono, e ciò
massimamente si conviene a lo giovane: però che lo
adolescente, come detto è, per minoranza d'etade lievemente
merita perdono; lo vecchio per più esperienza dee essere
giusto, e non essaminatore di legge, se non in quanto lo suo diritto
giudicio e la legge è tutto uno quasi e, quasi sanza legge
alcuna, dee giustamente sé guidare: che non può fare lo
giovane. E basti che esso seguiti la legge, e in quella seguitare si
diletti: sì come dice lo predetto poeta, nel predetto quinto
libro, che fece Enea, quando fece li giuochi in Cicilia ne
l'anniversario del padre; che ciò che promise per le vittorie,
lealmente diede poi a ciascuno vittorioso, sì come era di loro
lunga usanza, che era loro legge. Per che è manifesto che a
questa etade lealtade, cortesia, amore, fortezza e temperanza siano
necessarie, sì come dice lo testo che al presente è
ragionato; e però la nobile anima tutte le dimostra.
Capitolo XXVII
Veduto e ragionato è assai sofficientemente sopra quella
particola che 'l testo pone, mostrando quelle probitadi che a la
gioventute presta la nobile anima; per che da intendere pare a la
terza parte che comincia: è ne la sua senetta, ne la
quale intende lo testo mostrare quelle cose che la nobile natura
mostra e dee avere ne la terza etade, cioè senettude. E dice
che l'anima nobile ne la senetta sì è prudente,
sì è giusta, sì è larga, e allegra
di dir bene in prode d'altrui e d'udire quello, cioè che è
affabile. E veramente queste quattro vertudi a questa etade sono
convenientissime. E a ciò vedere, è da sapere che, sì
come dice Tullio in quello De Senectute, "certo corso ha la
nostra buona etade, e una via semplice è quella de la nostra
buona natura; e a ciascuna parte de la nostra etade è data
stagione a certe cose". Onde sì come a l'adolescenza dato
è, com'è detto di sopra, quello per che a perfezione e
a maturitade venire possa, così a la gioventute è data
la perfezione, e a la senettute la maturitade acciò che la
dolcezza del suo frutto e a sé e ad altrui sia profittabile;
ché, sì come Aristotile dice, l'uomo è animale
civile, per che a lui si richiede non pur a sé ma altrui
essere utile. Onde si legge di Catone che non a sé, ma a la
patria e a tutto lo mondo nato esser credea. Dunque appresso la
propria perfezione, la quale s'acquista ne la gioventute, conviene
venire quella che alluma non pur sé ma li altri; e conviensi
aprire l'uomo quasi com'una rosa che più chiusa stare non
puote, e l'odore che dentro generato è spandere: e questo
conviene essere in questa terza etade, che per mano corre. Conviensi
adunque essere prudente, cioè savio: e a ciò essere si
richiede buona memoria de le vedute cose, buona conoscenza de le
presenti e buona provedenza de le future. E, sì come dice lo
Filosofo nel sesto de l'Etica, "impossibile è essere
savio chi non è buono", e però non è da
dire savio chi con sottratti e con inganni procede, ma è da
chiamare astuto; ché sì come nullo dicerebbe savio
quelli che si sapesse bene trarre de la punta d'uno coltello ne la
pupilla de l'occhio, così non è da dire savio quelli
che ben sa una malvagia cosa fare, la quale facendo, prima sé
sempre che altrui offende.
Se bene si mira, da la prudenza vegnono li buoni consigli, li quali
conducono sé e altri a buono fine ne le umane cose e
operazioni; e questo è quello dono che Salomone, veggendosi al
governo del populo essere posto, chiese a Dio, sì come nel
terzo libro de li Regi è scritto. Né questo cotale
prudente non attende chi li domandi "Consigliami", ma
proveggendo per lui, sanza richesta colui consiglia; sì come
la rosa, che non pur a quelli che va a lei per lo suo odore rende
quello, ma eziandio a qualunque appresso lei va. Potrebbe qui dire
alcuno medico o legista: "Dunque porterò io lo mio
consiglio e darollo eziandio che non mi sia chesto, e de la mia arte
non averò frutto?" Rispondo, sì come dice nostro
Signore: "A grado riceveste, a grado e date". Dico dunque,
messer lo legista, che quelli consigli che non hanno rispetto a la
tua arte e che procedono solo da quel buono senno che Dio ti diede
(che è prudenza, de la quale si parla), tu non li dei vendere
a li figli di Colui che te l'ha dato: quelli che hanno rispetto a
l'arte, la quale hai comperata, vendere puoi; ma non sì che
non si convegnano alcuna volta decimare e dare a Dio, cioè a
quelli miseri a cui solo lo grado divino è rimaso. Conviensi
anche a questa etade essere giusto, acciò che li suoi giudicii
e la sua autoritade sia un lume e una legge a li altri. E perché
questa singulare vertù, cioè giustizia, fue veduta per
li antichi filosofi apparire perfetta in questa etade, lo reggimento
de le cittadi commisero in quelli che in questa etade erano; e però
lo collegio de li rettori fu detto Senato. Oh misera, misera patria
mia! quanta pietà mi stringe per te, qual volta leggo, qual
volta scrivo cosa che a reggimento civile abbia rispetto! Ma però
che di giustizia nel penultimo trattato di questo volume si tratterà,
basti qui al presente questo poco avere toccato di quella.
Conviensi anche a questa etade essere largo; però che allora
si conviene la cosa quando più satisface al debito de la sua
natura, né mai a lo debito de la larghezza non si può
satisfacere così come in questa etade. Che se volemo bene
mirare al processo d'Aristotile nel quarto de l'Etica, e a quello di
Tullio in quello de li Offici, la larghezza vuole essere a luogo e a
tempo, tale che lo largo non noccia a sé né ad altrui.
La quale cosa avere non si puote sanza prudenza e sanza giustizia; le
quali virtudi anzi a questa etade avere perfette per via naturale è
impossibile. Ahi malestrui e malnati, che disertate vedove e pupilli,
che rapite a li men possenti, che furate e occupate l'altrui ragioni;
e di quelle corredate conviti, donate cavalli e arme, robe e denari,
portate le mirabili vestimenta, edificate li mirabili edifici, e
credetevi larghezza fare! E che è questo altro a fare che
levare lo drappo di su l'altare e coprire lo ladro la sua mensa? Non
altrimenti si dee ridere, tiranni, de le vostre messioni, che del
ladro che menasse a la sua casa li convitati, e la tovaglia furata di
su l'altare, con li segni ecclesiastici ancora, ponesse in su la
mensa e non credesse che altri se n'accorgesse. Udite, ostinati, che
dice Tullio contro a voi nel libro de li Offici: "Sono molti,
certo desiderosi d'essere apparenti e gloriosi, che tolgono a li
altri per dare a li altri, credendosi buoni essere tenuti, se li
arricchiscono per qual ragione essere voglia. Ma ciò tanto è
contrario a quello che far si conviene, che nulla è
più".
Conviensi anche a questa etade essere affabile, ragionare lo bene, e
quello udire volontieri: imperò che allora è buono
ragionare lo bene, quando esso è ascoltato. E questa etade pur
ha seco un'ombra d'autoritade, per la quale più pare che lei
l'uomo ascolti che nulla più tostana etade, e più belle
e buone novelle pare dover savere per la lunga esperienza de la vita.
Onde dice Tullio in quello De Senectute, in persona di Catone
vecchio: "A me è ricresciuto e volontà e diletto
di stare in colloquio più ch'io non solea".
E che tutte e quattro queste cose convegnono a questa etade,
n'ammaestra Ovidio nel settimo Metamorfoseos, in quella favola dove
scrive come Cefalo d'Atene venne ad Eaco re per soccorso, ne la
guerra che Atene ebbe con Creti. Mostra che Eaco vecchio fosse
prudente, quando, avendo per pestilenza di corrompimento d'aere quasi
tutto lo popolo perduto, esso saviamente ricorse a Dio e a lui
domandò lo ristoro de la morta gente; e per lo suo senno, che
a pazienza lo tenne e a Dio tornare lo fece, lo suo popolo ristorato
li fu maggiore che prima. Mostra che esso fosse giusto, quando dice
che esso fu partitore a nuovo popolo e distributore de la terra
diserta sua. Mostra che fosse largo, quando disse a Cefalo dopo la
dimanda de lo aiuto: "O Atene, non domandate a me aiutorio, ma
toglietevelo; e non dite a voi dubitose le forze che ha questa isola.
E tutto questo è lo stato de le mie cose: forze non ci
menomano, anzi ne sono a noi di soperchio; e lo avversario è
grande, e lo tempo da dare è, bene avventuroso e sanza
escusa". Ahi quante cose sono da notare in questa risposta! Ma a
buono intenditore basti essere posto qui come Ovidio lo pone. Mostra
che fosse affabile, quando dice e ritrae per lungo sermone a Cefalo
la istoria de la pestilenza del suo popolo diligentemente, e lo
ristoramento di quello. Per che assai è manifesto a questa
etade essere quattro cose convenienti; per che la nobile natura in
essa le mostra, sì come lo testo dice. E perché più
memorabile sia l'essemplo che detto è, dice di Eaco re che
questi fu padre di Telamon, di Peleus e di Foco, del quale Telamon
nacque Aiace, e di Peleus Achilles.
Capitolo XXVIII
Appresso de la ragionata particola è da procedere a l'ultima,
cioè a quella che comincia: Poi ne la quarta parte de la
vita; per la quale lo testo intende mostrare quello che fa la
nobile anima ne l'ultima etade, cioè nel senio. E dice ch'ella
fa due cose: l'una, che ella ritorna a Dio, sì come a quello
porto onde ella si partio quando venne ad intrare nel mare di questa
vita; l'altra si è che ella benedice lo cammino che ha fatto,
però che è stato diritto e buono e sanza amaritudine di
tempesta. E qui è da sapere che, sì come dice Tullio in
quello De Senectute, la naturale morte è quasi a noi porto di
lunga navigazione e riposo. Ed è così: ché, come
lo buono marinaio, come esso appropinqua al porto, cala le sue vele,
e soavemente, con debile conducimento, entra in quello; così
noi dovemo calare le vele de le nostre mondane operazioni e tornare a
Dio con tutto nostro intendimento e cuore, sì che a quello
porto si vegna con tutta soavitade e con tutta pace. E in ciò
avemo da la nostra propria natura grande ammaestramento di soavitade,
ché in essa cotale morte non è dolore né alcuna
acerbitate, ma sì come uno pomo maturo leggiermente e sanza
violenza si dispicca dal suo ramo, così la nostra anima sanza
doglia si parte dal corpo ov'ella è stata. Onde Aristotile in
quello De Iuventute et Senectute dice che "sanza tristizia è
la morte ch'è ne la vecchiezza". E sì come a colui
che viene di lungo cammino, anzi ch'entri ne la porta de la sua
cittade li si fanno incontro li cittadini di quella, così a la
nobile anima si fanno incontro, e deono fare, quelli cittadini de la
etterna vita; e così fanno per le sue buone operazioni e
contemplazioni: ché, già essendo a Dio renduta e
astrattasi da le mondane cose e cogitazioni, vedere le pare coloro
che appresso di Dio crede che siano. Odi che dice Tullio, in persona
di Catone vecchio: "A me pare già vedere e levomi in
grandissimo studio di vedere li vostri padri, che io amai, e non pur
quelli che io stesso conobbi, ma eziandio quelli di cui udi'
parlare". Rendesi dunque a Dio la nobile anima in questa etade,
e attende lo fine di questa vita con molto desiderio e uscir le pare
de l'albergo e ritornare ne la propria mansione, uscir le pare di
cammino e tornare in cittade, uscir le pare di mare e tornare a
porto. O miseri e vili che con le vele alte correte a questo porto, e
là ove dovereste riposare, per lo impeto del vento rompete, e
perdete voi medesimi là dove tanto camminato avete! Certo lo
cavaliere Lancelotto non volse entrare con le vele alte, né lo
nobilissimo nostro latino Guido montefeltrano. Bene questi nobili
calaro le vele de le mondane operazioni, che ne la loro lunga etade a
religione si rendero, ogni mondano diletto e opera disponendo. E non
si puote alcuno escusare per legame di matrimonio, che in lunga etade
lo tegna; ché non torna a religione pur quelli che a santo
Benedetto, a santo Augustino, a santo Francesco e a santo Domenico si
fa d'abito e di vita simile, ma eziandio a buona e vera religione si
può tornare in matrimonio stando, ché Dio non volse
religioso di noi se non lo cuore. E però dice santo Paulo a li
Romani: "Non quelli ch'è manifestamente, è Giudeo,
né quella ch'è manifesta in carne è
circuncisione; ma quelli ch'è in ascoso, è Giudeo, e la
circuncisione del cuore, in ispirito non in littera, è
circuncisione; la loda de la quale è non da li uomini, ma da
Dio".
E
benedice anco la nobile anima in questa etade li tempi passati; e
bene li può benedicere, però che, per quelli rivolvendo
la sua memoria, essa si rimembra de le sue diritte operazioni, sanza
le quali al porto, ove s'appressa, venire non si potea con tanta
ricchezza né con tanto guadagno. E fa come lo buono
mercatante, che, quando viene presso al suo porto, essamina lo suo
procaccio e dice: "Se io non fosse per cotal cammino passato,
questo tesoro non avre'io, e non avrei di ch'io godesse ne la mia
cittade, a la quale io m'appresso"; e però benedice la
via che ha fatta. E che queste due cose convegnano a questa etade, ne
figura quello grande poeta Lucano nel secondo de la sua Farsalia,
quando dice che Marzia tornò a Catone e richiese lui e
pregollo che la dovesse riprendere guasta: per la quale Marzia
s'intende la nobile anima. E potemo così ritrarre la figura a
veritade. Marzia fu vergine, e in quello stato si significa
l'adolescenza; poi si maritò a Catone, e in quello stato si
significa la gioventute; fece allora figli, per li quali si
significano le vertudi che di sopra si dicono a li giovani convenire;
e partissi da Catone, e maritossi ad Ortensio, per che si significa
che si partì la gioventute e venne la senettute; fece figli di
questo anche, per che si significano le vertudi che di sopra si
dicono convenire a la senettute. Morì Ortensio; per che si
significa lo termine de la senettute; e vedova fatta - per lo quale
vedovaggio si significa lo senio - tornò Marzia dal principio
del suo vedovaggio a Catone, per che si significa la nobile anima dal
principio del senio tornare a Dio. E quale uomo terreno più
degno fu di significare Iddio, che Catone? Certo nullo.
E che dice Marzia a Catone? "Mentre che in me fu lo sangue",
cioè la gioventute, "mentre che in me fu la maternale
vertute", cioè la senettute, che bene è madre de
l'alte vertudi, sì come di sopra è mostrato, "io"
dice Marzia "feci e compiei li tuoi comandamenti", cioè
a dire che l'anima stette ferma a le civili operazioni. Dice: "E
tolsi due mariti", cioè a due etadi fruttifera sono
stata. "Ora" dice Marzia "che 'l mio ventre è
lasso, e che io sono per li parti vota, a te mi ritorno, non essendo
più da dare ad altro sposo"; cioè a dire che la
nobile anima, cognoscendosi non avere più ventre da frutto,
cioè li suoi membri sentendosi a debile stato venuti, torna a
Dio, colui che non ha mestiere de le membra corporali. E dice Marzia:
"Dammi li patti de li antichi letti, dammi lo nome solo del
maritaggio"; che è a dire che la nobile anima dice a Dio:
"Dammi, Signor mio, omai lo riposo di te; dammi, almeno, che io
in questa tanta vita sia chiamata tua". E dice Marzia: "Due
ragioni mi muovono a dire questo: l'una si è che dopo me si
dica ch'io sia morta moglie di Catone; l'altra, che dopo me si dica
che tu non mi scacciasti, ma di buono animo mi maritasti". Per
queste due cagioni si muove la nobile anima; e vuole partire d'esta
vita sposa di Dio, e vuole mostrare che graziosa fosse a Dio la sua
operazione. Oh sventurati e male nati, che innanzi volete partirvi
d'esta vita sotto lo titolo d'Ortensio che di Catone! Nel nome di cui
è bello terminare ciò che de li segni de la nobilitade
ragionare si convenia, però che in lui essa nobilitade tutti
li dimostra per tutte etadi.
Capitolo XXIX
Poi che mostrato ha lo testo quelli segni li quali per ciascuna etade
appaiono nel nobile uomo e per li quali conoscere si puote, e sanza
li quali essere non puote, come lo sole sanza luce e lo fuoco sanza
caldo, grida lo testo a la gente, a l'ultimo di ciò che di
nobilità è ritratto, e dice: "O voi che udito
m'avete, vedete quanti sono coloro che sono ingannati!": cioè
coloro che, per essere di famose e antiche generazioni e per essere
discesi di padri eccellenti, credono essere nobili, nobilitade non
avendo in loro. E qui surgono due quistioni, a le quali ne la fine di
questo trattato è bello intendere. Potrebbe dire ser Manfredi
da Vico che ora Pretore si chiama e Prefetto: "Come che io mi
sia, io reduco a memoria e rappresento li miei maggiori, che per loro
nobilitade meritaro l'officio de la Prefettura, e meritaro di porre
mano a lo coronamento de lo Imperio, meritaro di ricevere la rosa dal
romano Pastore: onore deggio ricevere e reverenza da la gente".
E questa è l'una questione. L'altra è, che potrebbe
dire quelli da Santo Nazzaro di Pavia, e quelli de li Piscitelli da
Napoli: "Se la nobilitade è quello che detto è,
cioè seme divino ne la umana anima graziosamente posto, e le
progenie, o vero schiatte, non hanno anima, sì come è
manifesto, nulla progenie, o vero schiatta, nobile dicere si
potrebbe: e questo è contra l'oppinione di coloro che le
nostre progenie dicono essere nobilissime in loro cittadi". A la
prima questione risponde Giovenale ne l'ottava satira, quando
comincia quasi esclamando: "Che fanno queste onoranze che
rimangono da li antichi, se per colui che di quelle si vuole
ammantare male si vive? se per colui che de li suoi antichi ragiona e
mostra le grandi e mirabili opere, s'intende a misere e vili
operazioni?" Avvegna che, "chi dicerà", dice
esso poeta satiro, "nobile per la buona generazione quelli che
de la buona generazione degno non è? Questo non è altro
che chiamare lo nano gigante". Poi appresso, a questo cotale
dice: "Da te a la statua fatta in memoria del tuo antico non ha
dissimilitudine altra, se non che la sua testa è di marmo, e
la tua vive". E in questo, con reverenza lo dico, mi discordo
dal Poeta, ché la statua di marmo, di legno o di metallo,
rimasa per memoria d'alcuno valente uomo, si dissimiglia ne lo
effetto molto dal malvagio discendente. Però che la statua
sempre afferma la buona oppinione in quelli che hanno udito la buona
fama di colui cui è la statua, e ne li altri genera: lo
malestruo figlio o nepote fa tutto lo contrario, ché
l'oppinione di coloro che hanno udito bene de li suoi maggiori, fa
più debile; ché dice alcuno loro pensiero: "Non
può essere che de li maggiori di costui sia tanto quanto si
dice, poi che de la loro semenza sì fatta pianta si vede".
Per che non onore, ma disonore dee ricevere quelli che a li buoni
mala testimonianza porta. E però dice Tullio che "lo
figlio del valente uomo dee procurare di rendere al padre buona
testimonianza". Onde, al mio giudicio, così come chi uno
valente uomo infama è degno d'essere fuggito da la gente e non
ascoltato, così lo malestruo disceso de li buoni maggiori è
degno d'essere da tutti scacciato, e de' si lo buono uomo chiudere li
occhi per non vedere quello vituperio vituperante de la bontade, che
in sola la memoria è rimasa. E questo basti, al presente, a la
prima questione che si movea.
A la seconda questione si può rispondere, che una progenie per
sé non hae anima, e ben è vero che nobile si dice ed è
per certo modo. Onde è da sapere che ogni tutto si fa de le
sue parti. E` alcuno tutto che ha una essenza simplice con le sue
parti, sì come in uno uomo è una essenza di tutto e di
ciascuna parte sua; e ciò che si dice ne la parte, per quello
medesimo modo si dice essere in tutto. Un altro tutto è che
non ha essenza comune con le parti, sì come una massa di
grano; ma è la sua una essenza secondaria che resulta da molti
grani, che vera e prima essenza in loro hanno. E in questo tutto
cotale si dicono essere le qualitadi de le parti così
secondamente come l'essere; onde si dice una bianca massa, perché
li grani onde è la massa sono bianchi. Veramente questa
bianchezza è pur ne li grani prima, e secondariamente resulta
in tutta la massa, e così secondariamente bianca dicere si
può; e per cotale modo si può dicere nobile una
schiatta, o vero una progenie. Onde è da sapere che, sì
come a fare una bianca massa convegnono vincere li bianchi grani,
così a fare una nobile progenie convegnono in essa li nobili
uomini vincere (dico "vincere" essere più che li
altri), sì che la bontade con la sua grida oscuri e celi lo
contrario che dentro è. E sì come d'una massa bianca di
grano si potrebbe levare a grano a grano lo formento, e a grano a
grano restituire meliga rossa, e tutta la massa finalmente cangerebbe
colore; così de la nobile progenie potrebbero li buoni morire
a uno a uno e nascere in quella li malvagi, tanto che cangerebbe lo
nome, e non nobile ma vile da dire sarebbe. E così basti a la
seconda questione essere risposto.
Capitolo XXX
Come di sopra nel terzo capitolo di questo trattato si dimostra,
questa canzone ha tre parti principali. Per che, ragionate le due (de
le quali la prima cominciò nel capitolo predetto, e la seconda
nel sestodecimo; sicché la prima per tredici e la seconda per
quattordici è determinata, sanza lo proemio del trattato de la
canzone, che in due capitoli si comprese), in questo trentesimo e
ultimo capitolo, de la terza parte principale brievemente è da
ragionare, la quale per tornata di questa canzone fatta fu ad alcuno
adornamento, e comincia: Contra-li-erranti mia, tu te n'andrai.
E qui primamente si vuole sapere che ciascuno buono fabricatore, ne
la fine del suo lavoro, quello nobilitare e abbellire dee in quanto
puote, acciò che più celebre e più prezioso da
lui si parta. E questo intendo, non come buono fabricatore ma come
seguitatore di quello, fare in questa parte.
Dico adunque: Contra-li-erranti mia. Questo Contra-li-erranti
è tutto una parola, e è nome d'esta canzone, tolto per
essemplo del buono frate Tommaso d'Aquino, che a uno suo libro, che
fece a confusione di tutti quelli che disviano da nostra Fede, puose
nome ContraliGentili. Dico adunque che "tu andrai": quasi
dica: "Tu se' omai perfetta, e tempo è di non stare
ferma, ma di gire, ché la tua impresa è grande"; e
quando tu sarai In parte dove sia la donna nostra, dille lo tuo
mestiere. Ove è da notare che, sì come dice nostro
Signore, non si deono le margarite gittare innanzi a li porci, però
che a loro non è prode, e a le margarite è danno; e,
come dice Esopo poeta ne la prima Favola, più è prode
al gallo uno grano che una margarita, e però questa lascia e
quello coglie. E in ciò considerando, a cautela di ciò
comando a la canzone che suo mestiere discuopra là dove questa
donna, cioè la filosofia, si troverà. Allora si troverà
questa donna nobilissima quando si truova la sua camera, cioè
l'anima in cui essa alberga. Ed essa filosofia non solamente alberga
pur ne li sapienti, ma eziandio, come provato è di sopra in
altro trattato, essa è dovunque alberga l'amore di quella. E a
questi cotali dico che manifesti lo suo mestiere, perché a
loro sarà utile la sua sentenza, e da loro ricolta.
E dico ad essa: Dì a questa donna, "Io vo parlando de
l'amica vostra". Bene è sua amica nobilitate; ché
tanto l'una con l'altra s'ama, che nobilitate sempre la dimanda, e
filosofia non volge lo sguardo suo dolcissimo a l'altra parte. Oh
quanto e come bello adornamento è questo che ne l'ultimo di
questa canzone si dà ad essa, chiamandola amica di quella la
cui propria ragione è nel secretissimo de la divina mente!