Dante Alighieri

Rime

Parte prima



I

Savete giudicar vostra ragione,

O om che pregio di saver portate

Per che, vitando aver con voi quistione

Com so rispondo a le parole ornate.



Disio verace, u' rado fin si pone,

Che mosse di valore o di bieltate,

Imagina l'amica oppinione

Significasse il don che pria narrate.



Lo vestimento, aggiate vera spene

Che fia, da lei cui desiate, amore

E 'n ciò provide vostro spirto bene:



Dico, pensando l'ovra sua d'allore.

La figura che già morta sorvene

È la fermezza ch'averà nel core.





II

Qual che voi siate, amico, vostro manto

Di scienza parmi tal che non è gioco;

Sì che, per non saver, d'ira mi coco,

Non che laudarvi sodisfarvi tanto.



Sacciate ben (ch'io mi conosco alquanto)

Che di saver ver' voi ho men d'un moco,

Né per via saggia come voi non voco,

Così parete saggio in ciascun canto.



Poi piacevi saver lo meo coraggio,

E io 'l vi mostro di menzogna fore,

Sì come quei ch'a saggio è 'l suo parlare:



Certanamente a mia coscienza pare,

Chi non è amato, s'elli è amadore

Che 'n cor porti dolor senza paraggio







III

Non canoscendo, amico, vostro nomo,

Donde che mova chi con meco parla,

Conosco ben che scienz'à di gran nomo,

Sì che di quanti saccio nessun par l'à:



Ché si pò ben canoscere d'un omo,

Ragionando, se ha senno, che ben par là;

Conven poi voi laudar sanza far nomo,

È forte a lingua mia di ciò com parla.



Amico (certo sonde, acciò ch'amato

Per amore aggio), sacci ben, chi ama,

Se non è amato, lo maggior dol porta;



Ché tal dolor ten sotto suo camato

Tutti altri, e capo di ciascun si chiama:

Da ciò ven quanta pena Amore porta.







IV

Savere e cortesia, ingegno ed arte,

Nobilitate, bellezza e riccore,

Fortezza e umiltate e largo core,

Prodezza ed eccellenza, giunte e sparte,



Este grazie e vertuti in onne parte

Con lo piacer di lor vincono Amore:

Una più ch'altra ben ha più valore

Inverso lui, ma ciascuna n'ha parte.



Onde se voli, amico, che ti vaglia

Vertute naturale od accidente,

Con lealtà in piacer d'Amor l'adovra,



E non a contastar sua graziosa ovra:

Ché nulla cosa gli è incontro possente,

Volendo prender om con lui battaglia.







V

Se Lippo amico se' tu che mi leggi,

Davanti che proveggi

A le parole che dir ti prometto,

Da parte di colui che mi t'ha scritto

In tua balia mi metto

E recoti salute quali eleggi.



Per tuo onor audir prego mi deggi

E con l'udir richeggi

Ad ascoltar la mente e lo 'ntelletto:

Io che m'appello umile sonetto,

Davanti al tuo cospetto

Vegno, perché al non caler non feggi.



Lo qual ti guido esta pulcella nuda,

Che ven di dietro a me sì vergognosa

Ch'a torto gir non osa,

Perch'ella non ha vesta in che si chiuda;



E priego il gentil cor che 'n te riposa

Che la rivesta e tegnala per druda,

Sì che sia conosciuda

E possa andar là ‘vunque è disïosa.





VI

Lo meo servente core

Vi raccomandi Amor, che vi l'ha dato,

E Merzé d'altro lato

Di me vi rechi alcuna rimembranza;

Ché, del vostro valore

Avanti ch'io mi sia guari allungato,

Mi tien già confortato

Di ritornar la mia dolce speranza.



Deo, quanto fie poca addimoranza,

Secondo il mio parvente:

Ché mi volge sovente

La mente per mirar vostra sembianza;

Per che ne lo meo gire e addimorando,

Gentil mia donna, a voi mi raccomando.



VII

La dispietata mente, che pur mira

Di retro al tempo che se n'è andato,

Da l'un de' lati mi combatte il core;

E 'l disio amoroso, che mi tira

Ver' lo dolce paese c'ho lasciato,

D'altra part'è con la forza d'Amore;

Né dentro i' sento tanto di valore

Che lungiamente i' possa far difesa,

Gentil madonna, se da voi non vene:

Però, se a voi convene

Ad iscampo di lui mai fare impresa,

Piacciavi di mandar vostra salute,

Che sia conforto de la sua virtute.



Piacciavi, donna mia, non venir meno

A questo punto al cor che tanto v'ama,

Poi sol da voi lo suo soccorso attende;

Ché buon signor già non ristringe freno

Per soccorrer lo servo quando 'l chiama,

Ché non pur lui, ma suo onor difende.

E certo la sua doglia più m’incende,

Quand’ ‘i mi penso ben, donna, che vui

Per man d’Amor là entro pinta siete:

Così e voi dovete

Vie maggiormente aver cura di lui;

Ché Que’ da cui convien che ‘l ben s’appari,

Per l’magine sua ne rien più cari.



Se dir voleste, dolce mia speranza,

Di dare indugio a quel ch’io vi domando,

Sacciate che l’attender io non posso;

Ch’i’ sono al fine de la mia possanza.

E ciò conoscer voi dovete, quando

L’ultima speme a cercar mi son mosso;

Ché tutti incarchi sostenere a dosso

De’ l’uomo infin al peso ch’è mortale,

Prima che ‘l suo maggiore amico provi,

Poi non sa qual lo trovi:

E s’elli avven che li risponda male,

Cosa non è che costi tanto cara,

Ché morte n’ha più tosto e più amara.



E voi pur sete quella ch’io più amo,

E che far mi potete maggior dono,

E ‘n cui la mia speranza più riposa;

Ché sol per voi servir la vita bramo,

E quelle cose che a voi onor sono.

Dimando e voglio: ogni altra m'è noiosa.

Dar mi potete ciò ch'altri non m'osa,

Ché 'l sì e 'l no di me in vostra mano

Ha posto Amore; ond'io grande mi tegno.

La fede ch'eo v'assegno muove

Dal portamento vostro umano;

Ché ciascun che vi mira, in veritate

Di fuor conosce che dentro è pietate.



Dunque vostra salute omai si mova,

E vegna dentro al cor, che lei aspetta,

Gentil madonna, come avete inteso:

Ma sappia che l'entrar di lui si trova

Serrato forte da quella saetta

Ch'Amor lanciò lo giorno ch'i' fui preso;

Per che l'entrare a tutt'altri è conteso,

Fuor ch'a' messi d'Amor, ch'aprir lo sanno

Per volontà de la vertù che 'l serra:

Onde ne la mia guerra

La sua venuta mi sarebbe danno,

Sed ella fosse sanza compagnia

De' messi del signor che m'ha in balia.



Canzone, il tuo cammin vuol esser corto;

Ché tu sai ben che poco tempo omai

Puote aver luogo quel per che tu vai.



VIII

Non mi poriano già mai fare ammenda

Del lor gran fallo gli occhi miei, sed elli

Non s'accecasser, poi la Garisenda

Torre miraro co' risguardi belli,



E non conobber quella (mal lor prenda)

Ch'è la maggior de la qual si favelli:

Però ciascun di lor voi' che m'intenda

Che già mai pace non farò con elli;



Poi tanto furo, che ciò che sentire

Doveano a ragion senza veduta,

Non conobber vedendo; onde dolenti



Son li miei spirti per lo lor fallire,

E dico ben, se 'l voler non mi muta,

Ch'eo stesso li uccidrò, que' scanoscenti.



IX

Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io

Fossimo presi per incantamento,

E messi in un vasel ch'ad ogni vento

Per mare andasse al voler vostro e mio,



Sì che fortuna od altro tempo rio

Non ci potesse dare impedimento,

Anzi, vivendo sempre in un talento,

Di stare insieme crescesse 'l disio.



E monna Vanna e monna Lagia poi

Con quella ch'è sul numer de le trenta

Con noi ponesse il buono incantatore:



E quivi ragionar sempre d'amore,

E ciascuna di lor fosse contenta,

Sì come i' credo che saremmo noi.



X

Per una ghirlandetta

Ch'io vidi, mi farà

Sospirare ogni fiore.



I' vidi a voi, donna, portare

Ghirlandetta di fior gentile,

E sovr'a lei vidi volare

Un angiolel d'amore umile;

E 'n suo cantar sottile

Dicea: «Chi mi vedrà

lauderà 'l mio signore».



Se io sarò là dove sia

Fioretta mia bella a sentire,

Allor dirò la donna mia

Che port'in testa i miei sospire.

Ma per crescer disire

Mia donna verrà

Coronata da Amore.



Le parolette mie novelle,

Che di fiori fatto han ballata,

Per leggiadria ci hanno tolt'elle

Una vesta ch'altrui fu data:

Però siate pregata,

Qual uom la canterà,

Che li facciate onore.



XI

Madonna, quel signor che voi portate

Ne gli occhi, tal che vince ogni possanza,

Mi dona sicuranza

Che voi sarete amica di pietate,



Però che là dov'ei fa dimoranza

Ed ha in compagnia molta beltate,

Tragge tutta bontate

A sé, come principio c'ha possanza;



Ond'io conforto sempre mia speranza,

La qual è stata tanto combattuta

Che sarebbe perduta,

Se non fosse che Amore

Contro ogni avversità le dà valore

Con la sua vista e con la rimembranza

Del dolce loco e del soave fiore

Che di novo colore

Cerchiò la mente mia,

Merzé di vostra grande cortesia.



XII

Deh, Vïoletta, che in ombra d'Amore

Ne gli occhi miei sì subito apparisti,

Aggi pietà del cor che tu feristi,

Che spera in te e disiando more.



Tu, Violetta, in forma più che umana,

Foco mettesti dentro in la mia mente

Col tuo piacer ch'io vidi;

Poi con atto di spirito cocente

Creasti speme, che in parte mi sana

Là dove tu mi ridi.



Deh, non guardare perché a lei mi fidi,

Ma drizza li occhi al gran disio che m'arde,

Ché mille donne già per esser tarde

Sentiron pena de l'altrui dolore.



XIII

Volgete li occhi a veder chi mi tira,

Per ch'i' non posso più venir con vui,

E onoratel, ché questi è colui

Che per le gentil donne altrui martira.



La sua vertute, ch'ancide sanz'ira,

Pregatel che mi laghi venir pui,

Ed io vi dico, de li modi sui

Cotanto intende quanto l'om sospira:



Ch'elli m'è giunto fero ne la mente,

E pingevi una donna sì gentile

Che tutto mio valore a' piè le corre;



E fammi udire una voce sottile

Che dice: «Dunque vuo' tu per neente

A li occhi tuoi sì bella donna tòrre?»



XIV

Deh, ragioniamo insieme un poco, Amore,

E tra'mi d'ira, che mi fa pensare;

E se vuol l'un de l'altro dilettare,

Trattiam di nostra donna omai, signore.



Certo il viaggio ne parrà minore

Prendendo un così dolze tranquillare,

E già mi par gioioso il ritornare,

Audendo dire e dir di suo valore.



Or incomincia, Amor, ché si convene,

E moviti a far ciò ch'è la cagione

Che ti dichini a farmi compagnia,



O vuol merzede o vuol tua cortesia;

Ché la mia mente il mio penser dipone,

Cotal disio de l'ascoltar mi vene.



XV

Sonar bracchetti, e cacciatori aizzare,

Lepri levare, ed isgridar le genti,

E di guinzagli uscir veltri correnti,

Per belle piagge volgere e imboccare



Assai credo che deggia dilettare

Libero core e van d'intendimenti.

Ed io, fra gli amorosi pensamenti,

D'uno sono schernito in tale affare;



E dicemi esto motto per usanza:

«Or ecco leggiadria di gentil core,

Per una sì selvaggia dilettanza



Lasciar le donne e lor gaia sembianza".

Allor, temendo non che senta Amore,

Prendo vergogna, onde mi ven pesanza.



Parte seconda



XVI

Ad autore ignoto in risposta ad un

componimento sconosciuto, sul mal d'amore che

non pesa la sesta parte della dolcezza e del bene

che l'amore stesso può dare all'uomo.



Com più vi fere Amor co' suoi vincastri,

Più li vi fate in ubidirlo presto,

Ch'altro consiglio, ben lo vi protesto,

Non vi si può già dar: chi vuol, l'incastri.



Poi, quando fie stagion, coi dolci impiastri

Farà stornarvi ogni tormento agresto,

Ché 'l mal d'Amor non è pesante il sesto

Ver' ch'è dolce lo ben. Dunque ormai lastri



Vostro cor lo cammin per seguitare

Lo suo sommo poder, se v'ha sì punto

Come dimostra 'l vostro buon trovare;



E non vi disviate da lui punto,

Ch'elli sol può tutt'allegrezza dare

E' suoi serventi meritare a punto.



XVII

Si pensa a Meo de' Tolomei da Siena, di cui si

possiedono violente invettive contro la madre e il

fratello; anche Cino da Pistoia gli ha indirizzato

un sonetto



Sonetto, se Meuccio t'è mostrato,

Così tosto 'l saluta come 'l vedi,

E va' correndo e gittaliti a' piedi,

Sì che tu paie bene accostumato.



E quando se' con lui un poco stato,

Anche 'l risalutrai, non ti ricredi;

E poscia a l'ambasciata tua procedi,

Ma fa' che 'l tragghe prima da un lato;



E di': «Meuccio, que' che t'ama assai

De le sue gioie più care ti manda,

Per accontarsi al tu' coraggio bono».



Ma fa' che prenda per lo primo dono

Questi tuo' frati, e a lor sì comanda

Che stean con lui e qua non tornin mai.



XVIII

De gli occhi de la mia donna si move

Un lume sì gentil che, dove appare,

Si veggion cose ch'uom non pò ritrare

Per loro altezza e per lor esser nove:



E de' suoi razzi sovra 'l meo cor piove

Tanta paura che mi fa tremare

E dicer: «Qui non voglio mai tornare»;

Ma poscia perdo tutte le mie prove:



E tornomi colà dov'io son vinto,

Riconfortando gli occhi paurusi,

Che sentiêr prima questo gran valore.



Quando son giunto, lasso, ed e' son chiusi;

Lo disio che li mena quivi è stinto:

Però proveggia a lo mio stato Amore.



XIX

Ne le man vostre, gentil donna mia,

Raccomando lo spirito che more:

E' se ne va sì dolente ch'Amore

Lo mira con pietà, che 'l manda via.



Voi lo legaste a la sua signoria,

Sì che non ebbe poi alcun valore

Di poter lui chiamar se non: "Signore,

Qualunque vuoi di me, quel vo' che sia".



Io so che a voi ogni torto dispiace:

Però la morte, che non ho servita,

Molto più m'entra ne lo core amara.



Gentil mia donna, mentre ho de la vita,

Per tal ch'io mora consolato in pace,

Vi piaccia agli occhi miei non esser cara.



XIX

Ne le man vostre, gentil donna mia,

Raccomando lo spirito che more:

E' se ne va sì dolente ch'Amore

Lo mira con pietà, che 'l manda via.



Voi lo legaste a la sua signoria,

Sì che non ebbe poi alcun valore

Di poter lui chiamar se non: "Signore,

Qualunque vuoi di me, quel vo' che sia".



Io so che a voi ogni torto dispiace:

Però la morte, che non ho servita,

Molto più m'entra ne lo core amara.



Gentil mia donna, mentre ho de la vita,

Per tal ch'io mora consolato in pace,

Vi piaccia agli occhi miei non esser cara.



XX

E' m'incresce di me sì duramente

Ch'altrettanto di doglia

Mi reca la pietà quanto 'l martiro,

Lasso, però che dolorosamente

Sento contro mia voglia

Raccoglier l'aire del sezza' sospiro

Entro 'n quel cor che i belli occhi feriro

Quando li aperse Amor con le sue mani

Per conducermi al tempo che mi sface.

Oimè, quanto piani,

Soavi e dolci ver' me si levaro,

Quand'elli incominciaro

La morte mia, che tanto mi dispiace,

Dicendo: «Nostro lume porta pace».



«Noi darem pace al core, a voi diletto»,

Diceano a li occhi miei

Quei de la bella donna alcuna volta;

Ma poi che sepper di loro intelletto

Che per forza di lei

M’era la mente già ben tutta tolta,

Con le insegne d'Amor dieder la volta,

Sì che la lor vittoriosa vista,

Poi non si vide pur una fiata:

Ond'è rimasta trista

L'anima mia che n'attendea conforto,

E ora quasi morto

Vede lo core a cui era sposata,

E partir la convene innamorata.



Innamorata se ne va piangendo

Fora di questa vita

La sconsolata, ché la caccia Amore.

Ella si move quinci sì dolendo,

Ch'anzi la sua partita

L'ascolta con pietate il suo fattore.

Ristretta s'è entro il mezzo del core

Con quella vita che rimane spenta

Solo in quel punto ch'ella si va via;

E ivi si lamenta

D'Amor, che fuor d'esto mondo la caccia;

E spessamente abbraccia

Li spiriti che piangon tuttavia,

Però che perdon la lor compagnia.



L'imagine di questa donna siede

Su ne la mente ancora,

Là 've la pose quei che fu sua guida;

E non le pesa del mal ch'ella vede,

Anzi vie più bella ora

Che mai e vie più lieta par che rida;

E alza li occhi micidiali, e grida

Sopra colei che piange il suo partire:

«Vanne, misera, fuor, vattene omai».

Questo grida il desire

Che mi combatte così come sole,

Avvegna che men dole,

Però che 'l mio sentire è meno assai

Ed è più presso al terminar de' guai.



Lo giorno che costei nel mondo venne,

Secondo che si trova

Nel libro de la mente che vien meno,

La mia persona pargola sostenne

Una passion nova,

Tal ch'io rimasi di paura pieno;

Ch'a tutte mie virtù fu posto un freno

Subitamente, sì ch'io caddi in terra,

Per una luce che nel cuor percosse:

E se 'l libro non erra,

Lo spirito maggior tremò sì forte,

Che parve ben che morte

Per lui in questo mondo giunta fosse:

Ma or ne incresce a quei che questo mosse.



Quando m'apparve poi la gran biltate

Che sì mi fa dolere,

Donne gentili a cu' i' ho parlato,

Quella virtù che ha più nobilitate,

Mirando nel piacere,

S'accorse ben che 'l suo male era nato;

E conobbe 'l disio ch'era creato

Per lo mirare intento ch'ella fece;

Sì che piangendo dissi a l'altre poi:

«Qui giugnerà, in vece

D'una ch'io vidi, la bella figura,

Che già mi fa paura;

Che sarà donna sopra tutte noi,

Tosto che fia piacer de li occhi suoi».



Io ho parlato a voi, giovani donne,

Che avete li occhi di bellezze ornati

E la mente d'amor vinta e pensosa,

Perché raccomandati

Vi sian li detti miei ovunque sono:

E 'nnanzi a voi perdono

La morte mia a quella bella cosa

Che me n'ha colpa e mai non fu pietosa.



XXI

Questa canzone è l'unica poesia in cui Dante fa

esplicitamente il nome di Batrice (v. 14: "Per

quella moro c'ha nome Beatrice".); la morte di

Beatrice ha tolto e continua tuttora a togliere

agli occhi la vera luce degli occhi.



Lo doloroso amor che mi conduce

A fin di morte per piacer di quella

Che lo mio cor solea tener gioioso,

M'ha tolto e toglie ciascun dì la luce

Che avean li occhi miei di tale stella

Che non credea di lei mai star doglioso:

E 'l colpo suo, c'ho portato nascoso,

Omai si scopre per soverchia pena,

La qual nasce del foco

Che m'ha tratto di gioco,

Sì ch'altro mai che male io non aspetto;

E 'l viver mio (omai esser de' poco)

Fin a la morte mia sospira e dice:

«Per quella moro c'ha nome Beatrice».



Quel dolce nome, che mi fa il cor agro,

Tutte fiate ch'i' lo vedrò scritto

Mi farà nuovo ogni dolor ch'io sento;

E de la doglia diverrò sì magro

De la persona e 'l viso tanto afflitto,

Che qual mi vederà n'avrà pavento.

Ed allor non trarrà sì poco vento

che non mi meni, sì ch'io cadrò freddo;

E per tal verrò morto,

E 'l dolor sarà scorto

Con l'anima che sen girà sì trista;

E sempre mai con lei starà ricolto,

Ricordando la gio' del dolce viso,

A che niente par lo paradiso.



Pensando a quel che d'Amore ho provato,

L'anima mia non chiede altro diletto,

Né il penar non cura il quale attende;

Ché, poi che 'l corpo sarà consumato,

Se n'anderà l'amor che m'ha sì stretto

Con lei a Quel ch'ogni ragione intende;

E se del suo peccar pace no i rende,

Partirassi col tormentar ch'è degna,

Sì che non ne paventa;

E starà tanto attenta

D'imaginar colei per cui s'è mossa,

Che nulla pena avrà ched ella senta;

Sì che, se 'n questo mondo l'ho perduto,

Amor ne l'altro men darà trebuto.



Morte, che fai piacere a questa donna,

Per pietà, innanzi che tu mi discigli,

Va' da lei, fatti dire

Perché m'avvien che la luce di quigli

Che mi fari tristo, mi sia così tolta:

Se per altrui ella fosse ricolta,

Falmi sentire, e trarrà' mi d'errore,

E assai finirò con men dolore.



XXII

Di donne io vidi una gentile schiera

Questo Ognissanti prossimo passato,

E una ne venia quasi imprimiera,

Veggendosi l'Amor dal destro lato.



De gli occhi suoi gittava una lumera,

La qual parea un spirito infiammato;

E i' ebbi tanto ardir ch'in la sua cera

Guarda', e vidi un angiol figurato.



A chi era degno donava salute

Co gli atti suoi quella benigna e piana,

E 'mpiva 'l core a ciascun di vertute.



Credo che de lo ciel fosse soprana,

E venne in terra per nostra salute:

Là 'nd'è beata chi l'è prossimana.



XXIII

Onde venite voi così pensose?

Ditemel, s'a voi piace, in cortesia,

Ch'i' ho dottanza che la donna mia

Non vi faccia tornar così dogliose.



Deh, gentil donne, non siate sdegnose,

Né di ristare alquanto in questa via

E dire al doloroso che disia

Udir de la sua donna alquante cose;



Avvegna che gravoso m'è l'udire:

Sì m'ha in tutto Amor da sé scacciato

Ch'ogni suo atto mi trae a ferire.



Guardate bene s'i' son consumato,

Ch'ogni mio spirto comincia a fuggire,

Se da voi, donne, non son confortato.



XXIV

«Voi, donne, che pietoso atto mostrate,

Chi è esta donna che giace sì venta?

Sarebbe quella ch'è nel mio cor penta?

Deh, s'ella è dessa, più non mel celate.



Ben ha le sue sembianze sì cambiate,

E la figura sua mi par sì spenta,

Ch'al mio parere ella non rappresenta

Quella che fa parer l'altre beate».



«Se nostra donna conoscer non pòi,

Ch'è sì conquisa, non mi par gran fatto,

Però che quel medesmo avvenne a noi.



Ma se tu mirerai il gentil atto

De li occhi suoi, conosceraila poi:

Non pianger più, tu se' già tutto sfatto».



XXV

Un dì si venne a me Malinconia

E disse: «Io voglio un poco stare teco»;

E parve a me ch'ella menasse seco

Dolore e Ira per sua compagnia.



E io le dissi: «Partiti, va' via»;

Ed ella mi rispose come un greco:

E ragionando a grande agio meco,

Guardai e vidi Amore, che venia



Vestito di novo d'un drappo nero,

E nel suo capo portava un cappello;

E certo lacrimava pur di vero.



Ed eo li dissi: «Che hai, cattivello?»

Ed el rispose: «Eo ho guai e pensero

Ché nostra donna mor, dolce fratello».



XXVI

Il sonetto è dedicato a Forese Donati, fratello di

Corso e Piccarda ed è il primo della famosa tenzone

tra Dante e Forese. I sonetti, scritti tra il 1283, anno

della morte del padre di Dante cui lo stesso Donati si

riferisce, e il 1296, anno della morte dello stesso

Forese. Il sonetto è imperniato sul tema della

povertà e dell'impotenza sessuale.



Chi udisse tossir la malfatata

Moglie di Bicci vocato Forese,

Potrebbe dir ch'ell'ha forse vernata

Ove si fa 'l cristallo, in quel paese.



Di mezzo agosto la truovi infreddata:

Or sappi che de' far d'ogni altro mese...;

E non le val perché dorma calzata,

Merzé del copertoio c'ha cortonese.



La tosse, 'l freddo e l'altra mala voglia

No l'addovien per omor' ch'abbia vecchi,

Ma per difetto ch'ella sente al nido.



Piange la madre, c'ha più d'una doglia,

Dicendo: "Lassa, che per fichi secchi

Messa l'avre' 'n casa del conte Guido".



XXVII

Risposta al sonetto L'altra notte mi venne una

gran tosse, con cui forse Forese Donati (Bicci) ha

risposto al sonetto precedente (n. XXVI), toccando i

temi dell'ingordigia (per cui Dante lo condanna

all'Inferno nel III cerchio, dove si trovano i golosi) e

della ladroneria.



Ben ti faranno il nodo Salamone,

Bicci novello, e' petti de le starne,

Ma peggio fia la lonza del castrone,

Ché 'l cuoio farà vendetta de la carne;



Tal che starai più presso a San Simone,

Se tu non ti procacci de l'andarne:

E 'ntendi che 'l fuggire el mal boccone

Sarebbe oramai tardi a ricomprarne.



Ma ben m'è detto che tu sai un'arte

Che, s'egli è vero, tu ti puoi rifare,

Però ch'ell'è di molto gran guadagno;



E fa sì, a tempo, che tema di carte

Non hai, che ti bisogni scioperare;

Ma ben ne colse male a' fi' di Stagno.



XXVIII

Risposta al sonetto Vai rivesti San Gal prima che

dichi, con cui forse Forese Donati ha replicato al

precedente sonetto di Dante (n. XXXVII). Al verso

due compare Monna Tessa, o Contessa, madre di

"Bicci" Forese Donati. Forese risponderà col sonetto

Ben so che fosti figliuol d'Alaghieri, col quale

termina la tenzone.



Bicci novel, figliuol di non so cui

(S'i' non ne domandasse monna Tessa),

Giù per la gola tanta roba hai messa

Ch'a forza ti convien tòrre l'altrui.



E già la gente si guarda da lui,

Chi ha borsa a lato, là dov'e' s'appressa

Dicendo: «Questi c'ha la faccia fessa,

È piuvico ladron negli atti sui».



E tal giace per lui nel letto tristo,

Per tema non sia preso a lo 'mbolare,

Che gli appartien quanto Giosepp'a Cristo.



Di Bicci e de' fratei posso contare

Che, per lo sangue lor, del malacquisto

Sanno a lor donne buon' cognati stare.





Parte terza



XXIX

Ballata: la "donna disdegnosa" è la Filosofia,

generosa con chi non l'abbandona



Voi che savete ragionar d'Amore,

udite la ballata mia pietosa,

che parla d'una donna disdegnosa,

la qual m'ha tolto il cor per suo valore.



Tanto disdegna qualunque la mira,

che fa chinare gli occhi di paura,

però che intorno a' suoi sempre si gira

d'ogni crudelitate una pintura;

ma dentro portan la dolze figura

ch'a l'anima gentil fa dir: «Merzede»,

sì vertuosa che, quando si vede,

trae li sospiri altrui fora del core.



Par ch'ella dica: «Io non sarò umile

verso d'alcun che ne li occhi mi guardi,

ch'io ci porto entro quel segnor gentile

che m'ha fatto sentir de li suoi dardi».

E certo i' credo che così li guardi

per vederli per sé quando le piace,

A quella guisa retta donna face

Quando si mira per volere onore.



Io non ispero che mai per pietate

Degnasse di guardare un poco altrui,

Così è fera donna in sua bieltate

Questa che sente Amor negli occhi sui.

Ma quando vuol nasconda e guardi lui,

Ch'io non veggia talor tanta salute;

Però che i miei disiri avran vertute

Contra 'l disdegno che mi dà tremore.



XXX

Poscia ch'Amor del tutto m'ha lasciato,

non per mio grato,

ché stato non avea tanto gioioso,

ma però che pietoso

fu tanto del meo core

che non sofferse d'ascoltar suo pianto;

i' canterò così disamorato

contra 'l peccato,

ch'è nato in noi, di chiamare a ritroso

tal ch'è vile e noioso

con nome di valorecioè di leggiadria, ch'è bella tanto

che fa degno di manto

imperial colui dov'ella regna:

ell'è verace insegna

la qual dimostra u' la vertù dimora

per ch'io son certo, se ben la difendo

nel dir com'io la 'ntendo,

Ch'Amor di sé mi farà grazia ancora.



Sono che per gittar via loro avere

Credon potere

Capere là dove li boni stanno,

Che dopo morte fanno

Riparo ne la mente

A quei cotanti c'hanno canoscenza.

Ma lor messione a' bon' non pò piacere,

Perché tenere

Savere fora, e fuggiriano il danno,

Che si aggiugne a lo 'nganno

Di loro e de la gente

C'hanno falso iudicio in lor sentenza.

Qual non dirà fallenza

Divorar cibo ed a lussuria intendere?

Ornarsi come vendere

Si dovesse al mercato di non saggi?

Ché 'l saggio non pregia om per vestimenta,

Ch'altrui sono ornamenta,

Ma pregia il senno e li genti coraggi.



E altri son che, per esser ridenti,

D'intendimenti

Correnti' voglion esser iudicati

Da quei che so' ingannati

Veggendo rider cosa

Che lo 'ntelletto cieco non la vede

E' parlan con vocaboli eccellenti;

Vanno spiacenti

Contenti che da lunga sian mirati;

Non sono innamorati

Mai di donna amorosa;

Ne' parlamenti lor tengono scede;

Non moveriano il piede

Per donneare a guisa di leggiadro,

Ma come al furto il ladro,

Così vanno a pigliar villan diletto;

E non però che 'n donne è sì dispento

Leggiadro portamento

Che paiono animai sanza intelletto.



Ancor che ciel con cielo in punto sia,

Che leggiadria

Disvia cotanto, e più che quant'io conto,

Io, che le sono conto

Me'é d'una gentile

Che la mostrava in tutti gli atti sui,

Non tacerò di lei, ché villania

Far mi parria

Sì ria, ch'a' suoi nemici sarei giunto:

Per che da questo punto

Con rima più sottile

Tratterò il ver di lei, ma non so cui.

Eo giuro per colui

Ch'Amor si chiama ed è pien di salute,

Che sanza ovrar vertute

Nessun pote acquistar verace loda:

Dunque, se questa mia matera è bona,

Come ciascun ragiona,

Sarà vertù o con vertù s'annoda.



Non è pura vertù la disviata,

Poi ch'è blasmata,

Negata là 'v'è più vertù richiesta,

Cioè in gente onesta

Di vita spiritale

O in abito che di scienza tiene.

Dunque, s'ell'è in cavalier lodata,

Sarà mischiata,

Causata di più cose; perché questa

Conven che di sé vesta

L'un bene e l'altro male,

Ma vertù pura in ciascuno sta bene.

Sollazzo è che convene

Con esso Amore e l'opera perfetta:

Da questo terzo retta

è vera leggiadria e in esser dura,

Si come il sole al cui esser s'adduce

Lo calore e la luce

Con la perfetta sua bella figura.



Al gran pianeto è tutta simigliante

Che, dal levante

Avante infino a tanto che s'asconde,

Co li bei raggi infonde

Vita e vertù qua giuso

Ne la matera si com'è disposta:

E questa, disdegnosa di cotante

Persone, quante

Sembiante portan d'uomo, e non responde

Il lor frutto a le fronde

Per lo mal c'hanno in uso,

Simili beni al cor gentile accosta;

Ché 'n donar vita è tosta

Co' bei sembianti e co' begli atti novi

Ch'ognora par che trovi,

E vertù per essemplo a chi lei piglia.

Oh falsi cavalier, malvagi e rei,

Nemici di costei,

Ch'al prenze de le stelle s'assimiglia.



Dona e riceve l'om cui questa vole,

Mai non sen dole;

Né 'l sole per donar luce a le stelle,

Né per prender da elle

Nel suo effetto aiuto;

Ma l'uno e l'altro in ciò diletto tragge.

Già non s'induce a ira per parole,

Ma quelle sole

Ricole che son bone, e sue novelle

Sono leggiadre e belle;

Per sé caro è tenuto

E disiato da persone sagge,

Ché de l'altre selvagge

Cotanto laude quanto biasmo prezza,

Per nessuna grandezza

Monta in orgoglio, ma quando gl'incontra

Che sua franchezza li conven mostrare,

Quivi si fa laudare.

Color che vivon fanno tutti contra.



XXXI

Parole mie che per lo mondo siete,

Voi che nasceste poi ch'io cominciai

A dir per quella donna in cui errai:

«Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete»,



Andatevene a lei, che la sapete,

Chiamando sì ch'ell'oda i vostri guai;

Ditele: «Noi siam vostre, ed unquemai

Più che noi siamo non ci vederete».



Con lei non state, ché non v'è Amore,

Ma gite a torno in abito dolente

A guisa de le vostre antiche sore.



Quando trovate donna di valore,

Gittatelevi a' piedi umilemente,

Dicendo: «A voi dovem noi fare onore».



XXXII

O dolci rime che parlando andate

De la donna gentil che l'altre onora,

A voi verrà, se non è giunto ancora,

Un che direte: «Questi è nostro frate».



Io vi scongiuro che non l'ascoltiate,

Per quel signor che le donne innamora,

Ché ne la sua sentenzia non dimora

Cosa che amica sia di veritate.



E se voi foste per le sue parole

Mosse a venire inver' la donna vostra,

Non v'arrestate, ma venite a lei.



Dite: «Madonna, la venuta nostra

È per raccomandarvi un che si dole,

Dicendo: Ov'è 'l disio de li occhi miei?».



XXXIII

Le due donne sono metaforicamente la Virtù e la

Bellezza: la Virtù si pratica, la Bellezza si contempla,

mentre Amore è sorgente di nobili parole.



Due donne in cima de la mente mia

Venute sono a ragionar d'amore:

L'una ha in sé cortesia e valore,

Prudenza e onestà in compagnia;



L'altra ha bellezza e vaga leggiadria,

Adorna gentilezza le fa onore:

E io, merzé del dolce mio signore,

Mi sto a piè de la lor signoria.



Parlan Bellezza e Virtù a l'intelletto

E fan quistion come un cor puote stare

Intra due donne con amor perfetto.



Risponde il fonte del gentil parlare

Ch'amar si può bellezza per diletto

E puossi amar virtù per operare.



XXXIV

Ballata, di scuola stilnovistica, indirizzata a una

donna, la "pargoletta" amata da Dante fra il 1290 e il

1300, probabilmente verso la metà del decennio, fra

il periodo dell'amore per Beatrice e l'amore per la

donna-pietra



«I' mi son pargoletta bella e nova,

Che son venuta per mostrare altrui

De le bellezze del loco ond'io fui.



I' fui del cielo, e tornerovvi ancora

Per dar de la mia luce altrui diletto;

E chi mi vede e non se ne innamora

D'amor non averà mai intelletto,

Ché non mi fu in piacer alcun disdetto

Quando Natura mi chiese a Colui

Che volle, donne, accompagnarmi a vui.



Ciascuna stella ne li occhi mi piove

Del lume suo e de la sua vertute;

Le mie bellezze sono al mondo nove,

Però che di là su mi son venute:

Le quai non posson esser canosciute

Se non da canoscenza d'omo in cui

Amor si metta per piacer altrui».



Queste parole si leggon nel viso

D'un'angioletta che ci è apparita:

E io, che per veder lei mirai fiso,

Ne sono a rischio di perder la vita:

Però ch'io ricevetti tal ferita

Da un ch'io vidi dentro a li occhi sui,

Ch'i' vo piangendo e non m'acchetai pui.



XXXV

Ancora una ballata per la "pargoletta", che non ha

mai provato l'amore, ed è così dura di cuore, perché

sa di essere giovinetta e bella, che la sua durezza

avrebbe potuto perfino uccidere Dante



Perché ti vedi giovinetta e bella,

Tanto che svegli ne la mente Amore,

Pres'hai orgoglio e durezza nel core.



Orgogliosa se' fatta e per me dura,

Po' che d'ancider me, lasso, ti prove:

Credo che 'l facci per esser sicura

Se la vertù d'Amore a morte move.

Ma perché preso più ch'altro mi trove,

Non hai respetto alcun del mi' dolore.

Possi tu spermentar lo suo valore.



XXXVI

Sonetto ancora sulla crudeltà della «pargoletta»:

Dante, che aspetta la morte per la durezza della

donna, è ormai un esempio per gli altri che non si

arrischino a guardare la «pargoletta» negli occhi per

preservare la propria salute.



Chi guarderà già mai sanza paura

Ne li occhi d'esta bella pargoletta,

Che m'hanno concio sì che non s'aspetta

Per me se non la morte, che m'è dura?



Vedete quanto è forte mia ventura,

Che fu tra l'altre la mia vita eletta

Per dare essemplo altrui ch'uom non si metta

In rischio di mirar la sua figura.



Destinata mi fu questa finita,

Da ch'un uom convenia esser disfatto,

Perch'altri fosse di pericol tratto;



E però, lasso, fu'io così ratto

In trarre a me 'l contrario de la vita

Come vertù di stella margherita.



XXXVII

Amor, che movi tua vertù da cielo

Come 'l sol lo splendore,

Che là s'apprende più lo suo valore

Dove più nobiltà suo raggio trova;

E come el fuga oscuritate e gelo,

Così, alto segnore,

Tu cacci la viltate altrui del core,

Né ira contra te fa lunga prova:

Da te conven che ciascun ben si mova

Per lo qual si travaglia il mondo tutto;

Sanza te è distrutto

Quanto avemo in potenzia di ben fare,

Come pintura in tenebrosa parte,

Che non si può mostrare

Né dar diletto di color né d'arte.



Feremi ne lo cor sempre tua luce,

Come raggio in la stella,

Poi che l'anima mia fu fatta ancella

De la tua podestà primeramente;

Onde ha vita un disio che mi conduce

Con sua dolce favella

In rimirar ciascuna cosa bella

Con più diletto quanto è più piacente.

Per questo mio guardar m'è ne la mente

Una giovane entrata, che m'ha preso,

E hagli un foco acceso,

Com'acqua per chiarezza fiamma accende;

Perché nel suo venir li raggi tuoi,

Con li quai mi risplende,

Saliron tutti su ne gli occhi suoi.



Quanto è ne l'esser suo bella, e gentile

Ne gli atti ed amorosa,

Tanto lo imaginar, che non si posa,

L'adorna ne la mente ov'io la porto;

Non che da sé medesmo sia sottile

A così alta cosa,

Ma da la tua vertute ha quel ch'elli osa

Oltre al poder che natura ci ha porto.

E sua beltà del tuo valor conforto,

In quanto giudicar si puote effetto

Sovra degno suggetto,

In guisa ched è 'l sol segno di foco;

Lo qual a lui non dà né to' virtute,

Ma fallo in altro loco

Ne l'effetto parer di più salute.



Dunque, segnor di sì gentil natura

Che questa nobiltate

Che avven qua giuso e tutt'altra bontate

Lieva principio de la tua altezza,

Guarda la vita mia quanto ella è dura,

E prendine pietate,

Ché lo tuo ardor per la costei bieltate

Mi fa nel core aver troppa gravezza.

Falle sentire, Amor, per tua dolcezza,

Il gran disio ch'i' ho di veder lei;

Non soffrir che costei

Per giovanezza mi conduca a morte;

Ché non s'accorge ancor com'ella piace,

Né quant'io l'amo forte,

Né che ne li occhi porta la mia pace.



Onor ti sarà grande se m'aiuti,

E a me ricco dono,

Tanto quanto conosco ben ch'io sono

Là 'v'io non posso difender mia vita:

Ché gli spiriti miei son combattuti

Da tal ch'io non ragiono,

Se per tua volontà non han perdono,

Che possan guari star sanza finita.

Ed ancor tua potenzia fia sentita

Da questa bella donna, che n'è degna;

Ché par che si convegna

Di darle d'ogni ben gran compagnia,

Com'a colei che fu nel mondo nata

Per aver segnoria

Sovra la mente d'ogni uom che la guata.



XXXVIII

Io sento sì d'Amor la gran possanza

Ch'io non posso durare

Lungamente a soffrire, ond'io mi doglio:

Però che 'l suo valor si pur avanza,

E 'l mio sento mancare

Sì ch'io son meno ognora ch'io non soglio.

Non dico ch'Amor faccia più ch'io voglio,

Ché, se facesse quanto il voler chiede,

Quella vertù che natura mi diede

Non sosterria, però ch'ella è finita:

Ma questo è quello ond'io prendo cordoglio,

Che a la voglia il poder non terrà fede;

E se di buon voler nasce merzede,

Io l'addimando per aver più vita

Da li occhi che nel lor bello splendore

Portan conforto ovunque io sento amore.



Entrano i raggi di questi occhi belli

Ne' miei innamorati,

E portan dolce ovunque io sento amaro;

E sanno lo cammin, sì come quelli

Che già vi son passati,

E sanno il loco dove Amor lasciaro,

quando per li occhi miei dentro il menaro:

Per che merzé, volgendosi, a me fanno,

E di colei cui son procaccian danno

Celandosi da me, poi tanto l'amo

Che sol per lei servir mi tegno caro.

E' miei pensier', che pur d'amor si fanno,

Come a lor segno, al suo servizio vanno:

Per che l'adoperar sì forte bramo,

Che s'io 'l credesse far fuggendo lei,

Lieve saria; ma so ch'io ne morrei.



Ben è verace amor quel che m'ha preso,

E ben mi stringe forte,

Quand'io farei quel ch'io dico per lui;

Ché nullo amore è di cotanto peso,

Quanto è quel che la morte

Face piacer, per ben servire altrui.

E io 'n cotal voler fermato fui

Sì tosto come il gran disio ch'io sento

Fu nato per vertù del piacimento

Che nel bel viso d'ogni bel s'accoglie.

Io son servente, e quando penso a cui,

Qual ch'ella sia, di tutto son contento,

Ché l'uom può ben servir contra talento;

E se merzé giovanezza mi toglie,

Io spero tempo che più ragion prenda,

Pur che la vita tanto si difenda.



Quand'io penso un gentil disio, ch'è nato

Del gran disio ch'io porto,

Ch'a ben far tira tutto il mio podere,

Parmi esser di merzede oltrapagato;

E anche più ch'a torto

Mi par di servidor nome tenere:

Così dinanzi a li occhi del piacere

Si fa 'l servir merzé d'altrui bontate.

Ma poi ch'io mi ristringo a veritate,

Convien che tal disio servigio conti:

Però che, s'io procaccio di valere,

Non penso tanto a mia proprietate

Quanto a colei che m'ha in sua podestate,

Ché 'l fo perché sua cosa in pregio monti;

E io son tutto suo; così mi tegno,

Ch'Amor di tanto onor m'ha fatto degno.



Altri ch'Amor non mi potea far tale,

Ch'eo fosse degnamente

Cosa di quella che non s'innamora,

Ma stassi come donna a cui non cale

De l'amorosa mente

Che sanza lei non può passar un'ora.

Io non la vidi tante volte ancora

Ch'io non trovasse in lei nova bellezza;

Onde Amor cresce in me la sua grandezza

Tanto quanto il piacer novo s'aggiugne.

Ond'elli avven che tanto fo dimora

In uno stato e tanto Amor m'avvezza

Con un martiro e con una dolcezza,

Quanto è quel tempo che spesso mi pugne

Che dura da ch'io perdo la sua vista

In fino al tempo ch'ella si racquista.



Canzon mia bella, se tu mi somigli,

Tu non sarai sdegnosa

Tanto quanto a la tua bontà s'avvene:

Però ti prego che tu t'assottigli,

Dolce mia amorosa,

In prender modo e via che ti stea bene.

Se cavalier t'invita o ti ritene,

Imprima che nel suo piacer ti metta,

Espia, se far lo puoi, de la sua setta,

Se vuoi saver qual è la sua persona:

Ché 'l buon col buon sempre camera tene.

Ma elli avven che spesso altri si getta

In compagnia che non è che disdetta

Di mala fama ch'altri di lui suona:

Con rei non star né a cerchio né ad arte,

Ché non fu mai saver tener lor parte.



Canzone, a' tre men rei di nostra terra

Te n'anderai prima che vadi altrove:

Li due saluta, e 'l terzo vo' che prove

Di trarlo fuor di mala setta in pria.

Digli che 'l buon col buon non prende guerra,

Prima che co' malvagi vincer prove;

Digli ch'è folle chi non si rimove

Per tema di vergogna da follia:

Che que' la teme c'ha del mal paura

Perché, fuggendo l'un, l'altro assicura.



XXXIX

All'ignoto



Io Dante a te, che m'hai così chiamato,

Rispondo brieve con poco pensare,

Però che più non posso soprastare,

Tanto m'ha 'l tuo pensier forte affannato.



Ma ben vorrei saper dove e in qual lato

Ti richiamasti, per me ricordare:

Forse che per mia lettera mandare

Saresti d'ogni colpo risanato.



Ma s'ella è donna che porti anco vetta,

Sì 'n ogni parte mi pare esser fiso

Ch'ella verrà a farti gran disdetta.



Secondo detto m'hai ora, m'avviso

Che ella è d'ogni peccato netta

Come angelo che stia in paradiso.



XL

A Cino da Pistoia

I' ho veduto già senza radice

Legno ch'è per omor tanto gagliardo

Che que' che vide nel fiume lombardo

Cader suo figlio, fronde fuor n'elice;



Ma frutto no, però che 'l contradice

Natura, ch'al difetto fa riguardo,

Perché conosce che saria bugiardo

Sapor non fatto da vera notrice.



Giovane donna a cotal guisa verde

Talor per gli occhi sì a dentro è gita

Che tardi poi è stata la partita.



Periglio è grande in donna sì vestita:

Però l'affronto de la gente verde

Parmi che la tua caccia non seguer de'.



XLI

A Cino da Pistoia

Perch'io non trovo chi meco ragioni

Del signor a cui siete voi ed io,

Conviemmi sodisfare al gran disio

Ch'i' ho di dire i pensamenti boni.



Null'altra cosa appo voi m'accagioni

Del lungo e del noioso tacer mio

Se non il loco ov'i' son, ch'è sì rio

Che 'l ben non trova chi albergo li doni.



Donna non ci ha ch'Amor le venga al volto,

Né omo ancora che per lui sospiri;

E chi 'l facesse, qua sarebbe stolto.



Oh, messer Cin, come 'l tempo è rivolto

A danno nostro e de li nostri diri,

Da po' che 'l ben è sì poco ricolto.



XLII

È un sonetto di accompagnamento per un'altra lirica

dantesca (indicata qui con il termine "pulzelletta" al

v. 1. Non si sa con certezza chi sia messer Brunetto:

si esclude con relativa certezza che possa essere

Brunetto Latini, forse un certo Betto Brunelleschi o

altro membro della stessa famiglia.



Messer Brunetto, questa pulzelletta

Con esso voi si ven la pasqua a fare:

Non intendete pasqua di mangiare,

Ch'ella non mangia, anzi vuol esser letta.



La sua sentenzia non richiede fretta

Né luogo di romor né da giullare;

Anzi si vuol più volte lusingare

Prima che 'n intelletto altrui si metta.



Se voi non la intendete in questa guisa,

In vostra gente ha molti frati Alberti

Da intender ciò ch'è posto loro in mano.



Con lor vi restringete sanza risa;

E se li altri de' dubbî non son certi,

Ricorrete a la fine a messer Giano.



XLIII

Io son venuto al punto de la rota

Che l'orizzonte, quando il sol si corca,

Ci partorisce il geminato cielo,

E la stella d'amor ci sta remota

Per lo raggio lucente che la 'nforca

Sì di traverso che le si fa velo;

E quel pianeta che conforta il gelo

Si mostra tutto a noi per lo grand'arco

Nel qual ciascun di sette fa poca ombra:

E però non disgombra

Un sol penser d'amore, ond'io son carco,

La mente mia, ch'è più dura che petra

In tener forte imagine di petra.



Levasi de la rena d'Etiopia

Lo vento peregrin che l'aere turba,

Per la spera del sol ch'ora la scalda;

E passa il mare, onde conduce copia

Di nebbia tal che, s'altro non la sturba,

Questo emisperio chiude tutto e salda;

E poi si solve, e cade in bianca falda

Di fredda neve ed in noiosa pioggia,

Onde l'aere s'attrista tutto e piagne:

E Amor, che sue ragne

Ritira in alto pel vento che poggia,

Non m'abbandona, sì è bella donna

Questa crudel che m'è data per donna.



Fuggito è ogne augel che l' caldo segue

Del paese d'Europa, che non perde

Le sette stelle gelide unquemai;

E li altri han posto a le lor voci triegue

Per non sonarle infino al tempo verde,

Se ciò non fosse per cagion di guai;

E tutti li animali che son gai

Di lor natura, son d'amor disciolti,

Però che 'l freddo lor spirito ammorta:

E 'l mio più d'amor porta;

Ché li dolzi pensier non mi son tolti

Né mi son dati per volta di tempo,

Ma donna li mi dà c'ha picciol tempo.



Passato hanno lor termine le fronde

Che trasse fuor la vertù d'Ariete

Per adornare il mondo, e morta è l'erba;

Ramo di foglia verde a noi s'asconde

Se non se in lauro, in pino o in abete

O in alcun che sua verdura serba;

E tanto è la stagion forte ed acerba,

C'ha morti li fioretti per le piagge,

Li quai non poten tollerar la brina:

E la crudele spina

Però Amor di cor non la mi tragge;

Per ch'io son fermo di portarla sempre

Ch'io sarò in vita, s'io vivesse sempre.



Versan le vene le fummifere acque

Per li vapor' che la terra ha nel ventre,

Che d'abisso li tira suso in alto;

Onde cammino al bel giorno mi piacque

Che ora è fatto rivo, e sarà mentre

Che durerà del verno il grande assalto;

La terra fa un suol che par di smalto,

E l'acqua morta si converte in vetro

Per la freddura che di fuor la serra:

E io de la mia guerra

Non son però tornato un passo a retro,

Né vo' tornar; ché se 'l martiro è dolce,

La morte de' passare ogni altro dolce.



Canzon, or che sarà di me ne l'altro

Dolce tempo novello, quando piove

Amore in terra da tutti li cieli,

Quando per questi geli

Amore è solo in me, e non altrove?

Saranne quello ch'è d'un uom di marmo,

Se in pargoletta fia per core un marmo.



XLIV

Al poco giorno e al gran cerchio d'ombra

Son giunto, lasso, ed al bianchir de' colli,

Quando si perde lo color ne l'erba:

E 'l mio disio però non cangia il verde,

Sì è barbato ne la dura petra

Che parla e sente come fosse donna.



Similemente questa nova donna

Si sta gelata come neve a l'ombra:

Ché non la move, se non come petra,

Il dolce tempo che riscalda i colli,

E che li fa tornar di bianco in verde

Perché li copre di fioretti e d'erba.



Quand'ella ha in testa una ghirlanda d'erba,

Trae de la mente nostra ogn'altra donna:

Perché si mischia il crespo giallo e 'l verde

Sì bel, ch'Amor lì viene a stare a l'ombra,

Che m'ha serrato intra piccioli colli

Più forte assai che la calcina petra.



La sua bellezza ha più vertù che petra,

E 'l colpo suo non può sanar per erba.

Ch'io son fuggito per piani e per colli,

Per potere scampar da cotal donna;

E dal suo lume non mi può far ombra

Poggio né muro mai né fronda verde.



Io l'ho veduta già vestita a verde,

Sì fatta ch'ella avrebbe messo in petra

L'amor ch'io porto pur a la sua ombra:

Ond'io l'ho chesta in un bel prato d'erba

Innamorata com'anco fu donna,

E chiuso intorno d'altissimi colli.



Ma ben ritorneranno i fiumi a' colli,

Prima che questo legno molle e verde

S'infiammi, come suol far bella donna,

Di me; che mi torrei dormire in petra

Tutto il mio tempo e gir pascendo l'erba,

Sol per veder do' suoi panni fanno ombra.



Quantunque i colli fanno più nera ombra,

Sotto un bel verde la giovane donna

La fa sparer, com'uom petra sott'erba.



Parte quarta

XLV

Amor, tu vedi ben che questa donna

La tua vertù non cura in alcun tempo

Che suol de l'altre belle farsi donna;

E poi s'accorse ch'ell'era mia donna

Per lo tuo raggio ch'al volto mi luce,

D'ogne crudelità si fece donna;

Sì che non par ch'ell'abbia cor di donna,

Ma di qual fiera l'ha d'amor più freddo:

Ché per lo tempo caldo e per lo freddo

Mi fa sembiante pur come una donna

Che fosse fatta d'una bella petra

Per man di quei che me' intagliasse in petra.



E io, che son costante più che petra

In ubidirti per bieltà di donna,

Porto nascoso il colpo de la petra

Con la qual tu mi desti come a petra

Che t'avesse innoiato lungo tempo,

Tal che m'andò al core ov'io son petra.

E mai non si scoperse alcuna petra

O da splendor di sole o da sua luce,

Che tanta avesse né vertù né luce

Che mi potesse atar da questa petra,

Sì ch'ella non mi meni col suo freddo

Colà dov'io sarò di morte freddo.



Segnor, tu sai che per algente freddo

L'acqua diventa cristallina petra

Là sotto tramontana ov'è il gran freddo,

E l'aere sempre in elemento freddo

Vi si converte, sì che l'acqua è donna

In quella parte per cagion dd freddo:

Così dinanzi dal sembiante freddo

Mi ghiaccia sopra il sangue d'ogne tempo

E quel pensiero che m'accorcia il tempo

Mi si converte tutto in corpo freddo,

Che m'esce poi per mezzo de la luce

Là ond'entrò la dispietata luce.



In lei s'accoglie d'ogni bieltà luce:

Così di tutta crudeltate il freddo

Le corre al core, ove non va tua luce:

Per che ne li occhi sì bella mi luce

Quando la miro, ch'io la veggio in petra,

E po' in ogni altro ov'io volga mia luce.

Da li occhi suoi mi ven la dolce luce

Che mi fa non caler d'ogn'altra donna:

Così foss'ella più pietosa donna

Ver me, che chiamo di notte e di luce,

Solo per lei servire, e luogo e tempo.

Né per altro disio viver gran tempo.



Però, Vertù che se' prima che tempo,

Prima che moto o che sensibil luce,

Increscati di me, c'ho sì mal tempo;

Entrale in core omai, ché ben n'è tempo,

Sì che per te se n'esca fuor lo freddo

Che non mi lascia aver, com'altri, tempo:

Ché se mi giunge lo tuo forte tempo

In tale stato, questa gentil petra

Mi vedrà coricare in poca petra,

Per non levarmi se non dopo il tempo,

Quando vedrò se mai fu bella donna

Nel mondo come questa acerba donna.



Canzone, io porto ne la mente donna

Tal che, con tutto ch'ella mi sia petra,

Mi dà baldanza, ond'ogni uom mi par freddo:

Sì ch'io ardisco a far per questo freddo

La novità che per tua forma luce,

Che non fu mai pensata in alcun tempo.



XLVI

Così nel mio parlar voglio esser aspro

Com'è ne li atti questa bella petra,

La quale ognora impetra

Maggior durezza e più natura cruda,

E veste sua persona d'un diaspro

Tal che per lui, o perch'ella s'arretra,

Non esce di faretra

Saetta che già mai la colga ignuda;

Ed ella ancide, e non val ch'om si chiuda

Né si dilunghi da' colpi mortali,

Che, com'avesser ali,

Giungono altrui e spezzan ciascun'arme:

Sì ch'io non so da lei né posso atarme.



Non trovo scudo ch'ella non mi spezzi

Né loco che dal suo viso m'asconda:

Ché, come fior di fronda,

Così de la mia mente tien la cima.

Cotanto del mio mal par che si prezzi

Quanto legno di mar che non lieva onda;

E 'l peso che m'affonda

è tal che non potrebbe adequar rima.

Ahi angosciosa e dispietata lima

Che sordamente la mia vita scemi,

Perché non ti ritemi

Sì di rodermi il core a scorza a scorza

Com'io di dire altrui chi ti dà forza?



Che più mi triema il cor qualora io penso

Di lei in parte ov'altri li occhi induca,

Per tema non traluca

Lo mio penser di fuor sì che si scopra,

Ch'io non fo de la morte, che ogni senso

Co li denti d'Amor già mi manduca:

Ciò è che 'l pensier bruca

La lor vertù sì che n'allenta l'opra.

E' m'ha percosso in terra, e stammi sopra

Con quella spada ond'elli ancise Dido,

Amore, a cui io grido

Merzé chiamando, e umilmente il priego:

Ed el d'ogni merzé par messo al niego.



Egli alza ad ora ad or la mano, e sfida

La debole mia vita, esto perverso,

Che disteso a riverso

Mi tiene in terra d'ogni guizzo stanco:

Allor mi surgon ne la mente strida;

E 'l sangue, ch'è per le vene disperso,

Fuggendo corre verso

Lo cor, che 'l chiama; ond'io rimango bianco.

Elli mi fiede sotto il braccio manco

Sì forte che 'l dolor nel cor rimbalza:

Allor dico: "S'elli alza

Un'altra volta, Morte m'avrà chiuso

Prima che 'l colpo sia disceso giuso".



Così vedess'io lui fender per mezzo

Lo core a la crudele che 'l mio squatra;

Poi non mi sarebb'atra

La morte, ov'io per sua bellezza corro:

Ché tanto dà nel sol quanto nel rezzo

Questa scherana micidiale e latra.

Omè, perché non latra

Per me, com'io per lei, nel caldo borro?

Ché tosto griderei: "Io vi soccorro";

E fare'l volentier, sì come quelli

Che nei biondi capelli

Ch'Amor per consumarmi increspa e dora

Metterei mano, e piacere'le allora.



S'io avessi le belle trecce prese,

Che fatte son per me scudiscio e ferza,

Pigliandole anzi terza,

Con esse passerei vespero e squille:

E non sarei pietoso né cortese,

Anzi farei com'orso quando scherza;

E se Amor me ne sferza,

Io mi vendicherei di più di mille.

Ancor ne li occhi, ond'escon le faville

Che m'infiammano il cor, ch'io porto anciso,

Guarderei presso e fiso,

Per vendicar lo fuggir che mi face;

E poi le renderei con amor pace.



Canzon, vattene dritto a quella donna

Che m'ha ferito il core e che m'invola

Quello ond'io ho più gola,

E dàlle per lo cor d'una saetta,

Ché bell'onor s'acquista in far vendetta.



XLVII

Tre donne intorno al cor mi son venute,

E seggonsi di fore:

Ché dentro siede Amore

Lo quale è in segnoria de la mia vita.

Tanto son belle e di tanta vertute

Che 'l possente segnore,

Dico quel ch'è nel core,

A pena del parlar di lor s'aita.

Ciascuna par dolente e sbigottita,

Come persona discacciata e stanca,

Cui tutta gente manca

E cui vertute né beltà non vale.

Tempo fu già nel quale,

Secondo il lor parlar, furon dilette;

Or sono a tutti in ira ed in non cale.

Queste così solette

Venute son come a casa d'amico:

Ché sanno ben che dentro è quel ch'io dico.



Dolesi l'una con parole molto,

E 'n su la man si posa

Come succisa rosa:

Il nudo braccio, di dolor colonna,

Sente l'oraggio che cade dal volto;

L'altra man tiene ascosa

La faccia lagrimosa:

Discinta e scalza, e sol di sé par donna.

Come Amor prima per la rotta gonna

La vide in parte che il tacere è bello

Egli, pietoso e fello,

Di lei e del dolor fece dimanda.

"Oh di pochi vivanda",

Rispose in voce con sospiri mista,

"nostra natura qui a te ci manda:

Io, che son la più trista,

Son suora a la tua madre, e son Drittura;

Povera, vedi, a panni ed a cintura".



Poi che fatta si fu palese e conta,

Doglia e vergogna prese

Lo mio segnore, e chiese

Chi fosser l'altre due ch'erano con lei.

E questa, ch'era sì di pianger pronta,

Tosto che lui intese,

Più nel dolor s'accese,

Dicendo: "A te non duol de gli occhi miei?".

Poi cominciò: "Sì come saper dei,

Di fonte nasce il Nilo picciol fiume:

Quivi dove il gran lume

Toglie a la terra del vinco la fronda,

Sovra la vergin onda

Generai io costei che m'è da lato

E che s'asciuga con la treccia bionda.

Questo mio bel portato,

Mirando sé ne la chiara fontana,

Generò questa che m'è più lontana".



Fenno i sospiri Amore un poco tardo;

E poi con gli occhi molli,

Che prima furon folli,

Salutò le germane sconsolate.

E poi che prese l'uno e l'altro dardo,

Disse: "Drizzate i colli:

Ecco l'armi ch'io volli;

Per non usar, vedete, son turbate.

Larghezza e Temperanza e l'altre nate

Del nostro sangue mendicando vanno.

Però, se questo è danno,

Piangano gli occhi e dolgasi la bocca

De li uomini a cui tocca,

Che sono a' raggi di cotal ciel giunti;

Non noi, che semo de l'etterna rocca;

Ché, se noi siamo or punti,

Noi pur saremo, e pur tornerà gente

Che questo dardo farà star lucente".



E io, che ascolto nel parlar divino

Consolarsi e dolersi

Così alti dispersi,

I'essilio che m'è dato, onor mi tegno:

Ché, se giudizio o forza di destino

Vuol pur che il mondo versi

I bianchi fiori in persi,

Cader co' buoni è pur di lode degno.

E se non che de gli occhi miei 'l bel segno

Per lontananza m'è tolto dal viso,

Che m'àve in foco miso,

Lieve mi conterei ciò che m'è grave.

Ma questo foco m'àve

Già consumato sì l'ossa e la polpa,

Che Morte al petto m'ha posto la chiave.

Onde, s'io ebbi colpa,

Più lune ha volto il sol poi che fu spenta,

Se colpa muore perché l'uom si penta.



Canzone, a' panni tuoi non ponga uom mano,

Per veder quel che bella donna chiude:

Bastin le parti nude;

Lo dolce pome a tutta gente niega,

Per cui ciascun man piega.

Ma s'elli avvien che tu alcun mai truovi

Amico di virtù, ed e' ti priega,

Fatti di color' novi,

Poi li ti mostra, e 'l fior, ch'è bel di fori,

Fa disiar ne li amorosi cori.



Canzone, uccella con le bianche penne;

Canzone, caccia con li neri veltri,

Che fuggir i convenne,

Ma far mi poterian di pace dono.

Però nol fan che non san quel che sono:

Camera di perdon savio uom non serra,

Ché 'l perdonare è bel vincer di guerra.



XLVIII

Se vedi li occhi miei di pianger vaghi

Per novella pietà che 'l cor mi strugge,

Per lei ti priego che da te non fugge,

Signor, che tu di tal piacere i svaghi:



Con la tua dritta man, cioè, che paghi

Chi la giustizia uccide e poi rifugge

Al gran tiranno, del cui tosco sugge

Ch'elli ha già sparto e vuol che 'l mondo allaghi;



E messo ha di paura tanto gelo

Nel cor de' tuo' fedei che ciascun tace.

Ma tu, foco d'amor, lume del cielo,



Questa vertù che nuda e fredda giace,

Levala su vestita del tuo velo,

Ché sanza lei non è in terra pace.



XLIX

Doglia mi reca ne lo core ardire

A voler ch'è di veritate amico:

Però, donne, s'io dico

Parole quasi contra tutta gente,

Non vi maravigliate,

Ma conoscete il vil vostro disire;

Ché la beltà ch'Amore in voi consente,

A vertù solamente

Formata fu dal suo decreto antico,

Contra 'l qual voi fallate.

Io dico a voi che siete innamorate

Che, se vertute a noi

Fu data, e beltà a voi,

E a costui di due potere un fare,

Voi non dovreste amare

Ma coprir quanto di biltà v'è dato,

Poi che non c'è vertù, ch'era suo segno.

Lasso, a che dicer vegno?

Dico che bel disdegno

Sarebbe in donna, di ragion laudato,

Partir beltà da sé per suo commiato.



Omo da sé vertù fatto ha lontana:

Omo no, mala bestia ch'om simiglia.

O Deo, qual maraviglia

Voler cadere in servo di signore,

O ver di vita in morte.

Vertute, al suo fattor sempre sottana,

Lui obedisce e lui acquista onore,

Donne, tanto che Amore

La segna d'eccellente sua famiglia

Ne la beata corte:

Lietamente esce da le belle porte,

A la sua donna torna;

Lieta va e soggiorna,

Lietamente ovra suo gran vassallaggio;

Per lo corto viaggio

Conserva, adorna, accresce ciò che trova;

Morte repugna sì che lei non cura.

O cara ancella e pura,

Colt'hai nel ciel misura;

Tu sola fai segnore, e quest'è prova

Che tu se' possession che sempre giova.



Servo non di signor, ma di vil servo

Si fa chi da cotal serva si scosta.

Vedete quanto costa,

Se ragionate l'uno e l'altro danno,

A chi da lei si svia:

Questo servo signor tant'è protervo,

Che gli occhi ch'a la mente lume fanno,

Chiusi per lui si stanno,

Sì che gir ne convene a colui posta,

Ch'adocchia pur follia.

Ma perché lo meo dire util vi sia,

Discenderò del tutto

In parte ed in costrutto

Più lieve, sì che men grave s'intenda:

Ché rado sotto benda

Parola oscura giugne ad intelletto;

Per che parlar con voi si vole aperto:

Ma questo vo' per merto,

Per voi, non per me certo,

Ch'abbiate a vil ciascuno e a dispetto,

Ché simiglianza fa nascer diletto.



Chi è servo è come quello ch'è seguace

Ratto a segnore, e non sa dove vada,

Per dolorosa strada;

Come l'avaro seguitando avere,

Ch'a tutti segnoreggia.

Corre l'avaro, ma più fugge pace:

Oh mente cieca, che non pò vedere

Lo suo folle volere

Che 'l numero, ch'ognora a passar bada,

Che 'nfinito vaneggia.

Ecco giunta colei che ne pareggia:

Dimmi, che hai tu fatto,

Cieco avaro disfatto?

Rispondimi, se puoi, altro che "Nulla".

Maladetta tua culla,

Che lusingò cotanti sonni invano;

Maladetto lo tuo perduto pane,

Che non si perde al cane:

Ché da sera e da mane

Hai raunato e stretto ad ambo mano

Ciò che sì tosto si rifà lontano.



Come con dismisura si rauna,

Così con dismisura si distringe:

Questo è quello che pinge

Molti in servaggio; e s'alcun si difende,

Non è sanza gran briga.

Morte, che fai? che fai, fera Fortuna,

Che non solvete quel che non si spende

Se 'l fate, a cui si rende?

Non so, poscia che tal cerchio ne cinge

Che di là su ne riga.

Colpa è de la ragion che nol gastiga.

Se vol dire "I' son presa",

Ah com poca difesa

Mostra segnore a cui servo sormonta.

Qui si raddoppia l'onta,

Se ben si guarda là dov'io addito,

Falsi animali, a voi ed altrui crudi,

Che vedete gir nudi

Per colli e per paludi

Omini innanzi cui vizio è fuggito,

E voi tenete vil fango vestito.



Fassi dinanzi da l'avaro volto

Vertù, che i suoi nimici a pace invita,

Con matera pulita,

Per allettarlo a sé; ma poco vale,

Ché sempre fugge l'esca.

Poi che girato l'ha chiamando molto,

Gitta 'l pasto ver lui, tanto glien cale;

Ma quei non v'apre l'ale:

E se pur vene quand'ell'è partita,

Tanto par che li 'ncresca

Come ciò possa dar, sì che non esca

Dal benefizio loda.

I' vo' che ciascun m'oda:

Chi con tardare e chi con vana vista,

Chi con sembianza trista

Volge il donare in vender tanto caro

Quanto sa sol chi tal compera paga.

Volete udir se piaga?

Tanto chi prende smaga

Che 'l negar poscia non li pare amaro.

Così altrui e sé concia l'avaro.



Disvelato v'ho, donne, in alcun membro

La viltà de la gente che vi mira,

Perché l'aggiate in ira;

Ma troppo è più ancor quel che s'asconde

Perché a dicerne è lado.

In ciascun è di ciascun vizio assembro,

Per che amistà nel mondo si confonde:

Ché l'amorose fronde

Di radice di ben altro ben tira,

Poi sol simile è in grado.

Vedete come conchiudendo vado:

Che non dee creder quella

Cui par bene esser bella,

Esser amata da questi cotali;

Che se beltà tra i mali

Volemo annumerar, creder si pòne,

Chiamando amore appetito di fera.

Oh cotal donna pera

Che sua biltà dischiera

Da natural bontà per tal cagione,

E crede amor fuor d'orto di ragione.



Canzone, presso di qui è una donna

Ch'è del nostro paese;

Bella, saggia e cortese

La chiaman tutti, e neun se n'accorge

Quando suo nome porge,

Bianca, Giovanna, Contessa chiamando:

A costei te ne va chiusa ed onesta;

Prima con lei t'arresta,

Prima a lei manifesta

Quel che tu se' e quel per ch'io ti mando;

Poi seguirai secondo suo comando.



L

A CINO DA PISTOIA

Io sono stato con Amore insieme

Da la circulazion del sol mia nona

E so com'egli affrena e come sprona,

E come sotto lui si ride e geme.



Chi ragione o virtù contra gli sprieme,

Fa come que' che 'n la tempesta sona,

Credendo far colà dove si tona

Esser le guerre de' vapori sceme.



Però nel cerchio de la sua palestra

Liber arbitrio già mai non fu franco,

Sì che consiglio invan vi si balestra.



Ben può con nuovi spron' punger lo fianco,

E qual che sia 'l piacer ch'ora n'addestra,

Seguitar si convien, se l'altro è stanco.



LI

A CINO DA PISTOIA



Degno fa voi trovare ogni tesoro

La voce vostra sì dolce e latina,

Ma volgibile cor ven disvicina,

Ove stecco d'Amor mai non fe' foro.



Io, che trafitto sono in ogni poro

Del prun che con sospir' si medicina,

Pur trovo la minera in cui s'affina

Quella virtù per cui mi discoloro.



Non è colpa del sol se l'orba fronte

Nol vede quando scende e quando poia,

Ma de la condizion malvagia e croia.



S'i' vi vedesse uscir de gli occhi ploia

Per prova fare a le parole conte,

Non mi porreste di sospetto in ponte.



LII

A CINO DA PISTOIA



Io mi credea del tutto esser partito

Da queste nostre rime, messer Cino,

Ché si conviene omai altro cammino

A la mia nave più lungi dal lito;



Ma perch'i' ho di voi più volte udito

Che pigliar vi lasciate a ogni uncino,

Piacemi di prestare un pocolino

A questa penna lo stancato dito.



Chi s'innamora sì come voi fate,

Or qua or là, e sé lega e dissolve,

Mostra ch'Amor leggermente il saetti.



Però, se leggier cor così vi volve,

Priego che con vertù il correggiate,

Sì che s'accordi i fatti a' dolci detti.



LIII

Amor, da che convien pur ch'io mi doglia

Perché la gente m'oda,

E mostri me d'ogni vertute spento,

Dammi savere a pianger come voglia,

Sì che 'l duol che si snoda

Portin le mie parole com'io 'l sento.

Tu vo' ch'io muoia, e io ne son contento:

Ma chi mi scuserà, s'io non so dire

Ciò che mi fai sentire?

Chi crederà ch'io sia omai sì colto?

E se mi dài parlar quanto tormento,

Fa', signor mio, che innanzi al mio morire

Questa rea per me nol possa udire:

Ché, se intendesse ciò che dentro ascolto,

Pietà faria men bello il suo bel volto.



Io non posso fuggir ch'ella non vegna

Ne l'imagine mia,

Se non come il pensier che la vi mena.

L’anima folle , che al suo mal s’ingegna,

Com’ella è bella e ria,

Così dipinge, e forma la sua pena;

Poi la riguarda, e quando ella è ben piena

Del gran disio che de li occhi li tira,

Incontro a sé s’adira,

C’ha fatto il foco ond’ella trista incende.

Quale argomento di ragion raffrena,

Ove tanta tempesta in me si gira?

L’angoscia, che non cape dentro, spira

Fuor de la bocca, sì ch’ella s’intende,

E anche a li occhi lor merito rende.



La nimica figura, che rimane

Vittorïosa e fera

E signoreggia la virtù che vole,

Vaga di se medesma andar mi fane

Colà dov’ella è vera,

Come simile a simil correr sòle.

Ben conosco che va la neve al sole,

Ma più non posso: fo come colui

Che, nel podere altrui,

Va co’ suoi piedi al loco ov’egli è morto.

Quando son presso, parmi udir parole

Dicer: "vie via vedrai morir costui".

Allor mi volgo per vedere a cui

Mi raccomandi; e ‘ntanto sono scorto

Da li occhi che m’ancidono a gran torto.



Qual io divengo sì feruto, Amore,

Sailo tu, e non io,

Che rimani a veder me sanza vita;

E se l’anima torna poscia al core,

Ignoranza ed oblio

Stato è con lei, mentre ch’ella è partita.

Com’io resurgo, e miro la ferita

Che mi disfece quand’io fui percosso,

Confortar non mi posso

Sì ch’io non triemi tutto di paura.

E mostra poi la faccia scolorita

Qual fu quel trono che mi giunse a dosso;

Che se con dolce riso è stato mosso,

Lunga fïata poi rimane oscura,

Perché lo spirto non si rassicura.



Così m’hai concio, Amore, in mezzo l’alpi,

Ne la valle del fiume

Lungo il qual sempre sopra me se’ forte:

Qui vivo e morto, come vuoi, mi palpi,

Merzé del fiero lume

Che sfolgorando fa via la morte.

Lasso, non donne qui, non genti accorte

Veggio, a cui mi lamenti del mio male:

Se a costei non ne cale,

Non spero mai d’altrui aver soccorso.

E questa sbandeggiata di tua corte,

Signor, non cura colpo di tuo strale:

Fatto ha d’orgoglio al petto schermo tale

Ch’ogni saetta lì spunta suo corso;

Per che l’armato cor da nulla è morso.



O montanina mia canzon, tu vai:

Forse vedrai Fiorenza, la mia terra,

Che fuor di sé mi serra,

Vota d’amore e nuda di pietade;

Se dentro v’entri, va’ dicendo: "Omai

Non vi può far lo mio fattor più guerra:

Là ond’io vegno una catena il serra

Tal che, se piega vostra crudeltate,

Non ha di rotornar qui libertate".



LIV

Per quella via che la bellezza corre

Quando a svegliare Amor va ne la mente,

Passa Lisetta baldanzosamente,

Come colei che mi si crede tòrre.



E quando è giunta a piè di quella torre

Che s'apre quando l'anima acconsente,

Odesi voce dir subitamente:

"Volgiti, bella donna, e non ti porre:



Però che dentro un'altra donna siede,

La qual di signoria chiese la verga

Tosto che giunse, e Amor glile diede".



Quando Lisetta accommiatar si vede

Da quella parte dove Amore alberga,

Tutta dipinta di vergogna riede.



Rime di dubbia attribuzione



LV.

Visto aggio scritto e odito cantare

D'Amor, che 'nfiamma ciascun suo servente;

E tal lodarsi d'esso, e tal biasmare

Si sforza ciaschedun suo convenente;



ch'alcun gioioso diven per amare,

E altri amando languisce sovente:

Se ciò diven d'Amor nol so pensare,

O d'altra cosa che d'amor non sente.



Perciò ritorno a voi, cortese e saggio,

Che mi mandiate novelle d'Amore,

E come avviene ciò che ditto v'aggio.



Parmi che di battaglie di signore

Venga ciascun cui d'Amor cheriraggio

Che d'Amor dica s'ha bene o dolore.



LVI.

Tre pensier' aggio, onde mi vien pensare,

E liovvi incluso tutto il mio sapere;

E ciaschedun per sé mi dà penare,

Comunemente fannomi morere.



L'uno m'afferma pur ch'io deggia amare

La bella a cui donato aggio 'l volere;

Ed io 'l consento, e noi voglio oblïare,

Ché non potria senz'ello gioia avere.



Ne gli altri due non so prender fidanza:

L'un meco ardisce e fammi coraggioso

Ched io d'amor richieda la mi' amanza;



l'altro mantiene il cherir temoroso.

Ond'io ti priego, Chiaro, per tua orranza,

Che mi consigli del men dubitoso.



LVII

Già non m'agenza, Chiaro, il dimandare,

Ma' che m'agenza amare e non cherere,

Ché nullo uom deve sua donna pregare

Di cosa che può lei danno tenere;



ma desïoso nel desïo stare

D'ora d'amore, e in ciò mai permanere,

Ché lo desïo fa l'uomo migliorare,

Che 'l più malvagio isforza di valere.



E quel che viene in su la dilettanza

è di valer non mai sì desïoso:

Perciò in cherir non fermo mia speranza.



Ciò prova augel che più canta amoroso:

Se vien che compia la sua disïanza,

Fi' del cantar che sembra altrui noioso.



LVIII

Saper vorria da voi, nobile e saggio,

Ciò che per me non son ben conoscente.

In due voler' travagliami il coraggio,

E combattuto son da lor sovente:



l'un vol ch'io ami donna di paraggio,

Cortese, saggia, bella e avvenente;

L'altro, ha di me ver' lui par signoraggio,

Vol che di lei non sia benevogliente.



Ond'io non saccio, d'ogni virtù sire,

A qual m'apprenda e deggia dar lo core:

Così m'hanno levato lo sentire.



Acciò richero voi, di gran valore,

Che non v'aggrevi di mandarmi a dire

In qual m'affermi, per simil tenore.



LVIX

Amore e monna Lagia e Guido ed io

Possiamo ringraziare un ser costui

Che 'nd'ha partiti, sapete da cui?

Nel vo' contar per averlo in oblio:



poi questi tre più non v'hanno disio,

Ch'eran serventi di tal guisa in lui

Che veramente più di lor non fui

Imaginando ch'elli fosse iddio.



Sia ringraziato Amor, che se n'accorse

Primeramente; poi la donna saggia,

Che 'n quello punto li ritolse il core;



e Guido ancor, che n'è del tutto fore;

Ed io ancor che 'n sua vertute caggia:

Se poi mi piacque, nol si crede forse.



LX.

In abito di saggia messaggiera

Movi, ballata, senza gir tardando,

A quella bella donna a cui ti mando,

E digli quanto mia vita è leggiera.



Comincerai a dir che h occhi miei

Per riguardar sua angelica figura

Solean portar corona di desiri;

Ora, perché non posson veder lei,

Li strugge Morte con tanta paura

C'hanno fatto ghirlanda di martiri.

Lasso, non so in qual parte li giri

Per lor diletto, sì che quasi morto

Mi troverai, se non rechi conforto

Da lei: ond'eo ti fo dolce preghiera.



LXI.

Donne, i' non so di ch'i' mi prieghi Amore,

Ch'ello m'ancide, e la morte m'è dura,

E di sentir lui meno ho più paura.



Nel mezzo de la mente mia risplende

Un lume de' belli occhi ond'io son vago,

Che l'anima contenta.

Ver è ch'ad ora ad ora indi discende

Una saetta, che m'asciuga il lago

Del cor pria che sia spenta:

Ciò face Amor qual volta mi rammenta

La dolce mano e quella fede pura

Che doveria mia vita far sicura.



Se quella in cui li mie' sospir' si stanno,

Vedesse siccom'io la veggio bella

Nell'allumata mente,

Vedesse li pensier', ch'al cor sen vanno,

Accendersi di lei come facella.

Ma ciò non può saper se non chi '1 sente,

S'Amor nol fa; e quel sen dà men cura,

Quanto l'anima mia più nel scongiura.



O donne, che d'Amore angeli siete,

Quando questa gentil a voi s'appressa,

Di me ricordi a voi.

Guardate infra le belle, e lei vedrete,

Che li atti suoi diranno: "Quest'è dessa

Che sì adorna noi".

Fate volgere a me li pensier' suoi

Pur con sospiri, che la parladura

Di quel che fece lei nolle sia scura.



LXII

Deh, piangi meco tu, dogliosa petra,

Perché s'è Petra en così crudel porta

Entrata che d'angoscia el cor me 'npetra;

Deh, piangi meco, tu che la tien' morta:



ch'eri già bianca, e or se' nera e tetra,

De lo colore suo tutta distorta;

E quanto più ti priego, più s'arretra

Petra d'aprirme, ch'io la veggia scorta.



Aprimi, petra, si ch'io Petra veggia

Ben sen dorria sovente.

Come nel mezzo di te, crudel, giace,

Ché 'l cor mi dice ch'ancor viva seggia.



Che se la vista mia non è fallace,

Il sudore e l'angoscia già di scheggia

Petra è di fuor che dentro petra face.



LXIII

Aï faux ris, pour quoi traï avés

Oculos meos? Et quid tibi feci,

Che fatta m'hai così spietata fraude?

Iam audivissent verba mea Greci.

E selonch autres dames vous savés

Che 'ngannator non è degno di laude.

Tu sai ben come gaude

Miserum eius cor qui prestolatur:

je li sper anc, e pas de moi non cure.

Ai Dieus, quante malure

Atque fortuna ruinosa datur

A colui che, aspettando, il tempo perde,

Né già mai tocca di fioretto il verde.



Conqueror, cor suave, de te primo,

Ché per un matto guardamento d'occhi

Vous non dovris avoir perdu la loi;

Ma e' mi piace che li dardi e i stocchi

Semper insurgant contra me de limo,

Dount je seroi mort, pour foi que je croi.

Fort me desplait pour moi,

Ch'i' son punito ed aggio colpa nulla;

Nec dicit ipsa: "malum est de isto";

Unde querelam sisto.

Ella sa ben che, se 'l mio cor si scrulla

A penser d'autre, que d'amour lesset,

Le faux cuers grant painë an porteret.



Ben avrà questa donna cor di ghiaccio

E tant d'aspresse que, ma foi, est fors,

Nisi pietatem habuerit servo.

Bien set Amours, se je non ai socors,

Che per lei dolorosa morte faccio

Neque plus vitam, sperando, conservo.

Ve omni meo nervo,

S'elle non fet que pour soun sen verai

Io vegna a riveder sua faccia allegra.

Ahi Dio, quant'è integra.

Mes je m'en dout, si gran dolor en ai:

Amorem versus me non tantum curat

Quantum spes in me de ipsa durat.



Cianson, povés aler pour tout le monde,

Namque locutus sum in lingua trina,

Ut gravis mea spina

Si saccia per lo mondo. Ogn'uomo senta:

Forse pietà n'avrà chi mi tormenta.



LXIV

Bernardo, io veggio ch'ima donna vene

Al grande assedio della vita mia

Irata sì, che accende e caccia via

Tutto ciò che l'aiuta e la sostene;



onde riman lo cor, ch'è pien di pene,

Senza soccorso e senza compagnia,

E per forza conven che morto sia

Per un gentil disio ch'Amor vi tene.



Questo assedio grande ha posto Morte,

Per conquider la vita, intorno al core,

Che cangiò stato quando 'l prese Amore



per quella donna che si mira forte,

Come colei che sil pone in disnore:

Ond'assalir lo ven, si ch'e' si more.



LXV

Se '1 viso mio a la terra si china

E di vedervi non si rassicura,

Io vi dico, madonna, che paura

Lo face, che di me si fa regina:



perché la biltà vostra, peregrina

Qua giù fra noi, soverchia mia natura,

Tanto che quando veli per avventura

Vi miro, tutta mia vertù ruina;



sì che la morte, che porto vestita,

Combatte dentro a quel poco valore

Che mi rimane, con piogge di troni.



Allor comincia a pianger dentro al core

Lo spirito vezzoso de la vita,

E dice: «Amore, o perché m'abbandoni?».



LXVI

Io sento pianger l'anima nel core,

Sì che fa pianger li occhi li soi guai,

E dice: «Oh lassa me, ch'io non pensai

Che questa fosse di tanto valore;



ché per lei veggio la faccia d'Amore

Vie più crudele ch'io non vidi mai,

E quasi irato mi dice: "Che fai

Dentro a questa persona che si more?".



Dinanzi a li occhi miei un libro mostra,

Nel qual io leggo tutti que' martiri

Che posson far vedere altrui la morte.



Poscia mi dice: "Misera, tu miri

Là dove è scritta la sentenzia nostra

Ditratta del piacer di costei forte"».



LXVII

Non v'accorgete voi d'un che si smore

E va piangendo, sì si disconforta?

Io prego voi, se non vi siete accorta,

Che lo miriate per lo vostro onore.



E' si va sbigottito, in un colore

Che 'l fa parere una persona morta,

Con tanta pena che ne li occhi porta,

Che di levarli già non ha valore.



E quando alcun pietosamente 'l mira,

Lo cor di pianger tutto li si strugge,

E l'anima sen dol sì che ne stride;



e se non fosse ch'elli allor si fugge

Sì alto chiama voi quand'ei sospira

Ch'altri direbbe: "Or sappiam chi l'ancide".



LXVIII

Questa donna che andar mi fa pensoso

Porta nel viso la vertù d'Amore,

La qual fa disvegliar altrui nel core

Lo spirito gentil, se v'è nascoso.



Ella m'ha fatto tanto pauroso,

Poscia ch'io vidi lo dolce signore

Ne li occhi soi con tutto il su' valore,

Ch'io le vo presso e riguardar non l'oso.



E s'avvien ciò, ched i' quest'occhi miri,

Io veggio in quella parte la salute

Che lo 'ntelletto mio non vi pò gire.

Allor si strugge sì la mia vertute

Che l'anima che move li sospiri

S'acconcia per voler del cor fuggire.



LXIX

Poi che sguardando il cor feriste in tanto

Di grave colpo ch'io non batto vena,

Dio, per pietà, or deali alcuna lena,

Che 'l tristo spirto si rinvegna alquanto.



Or non vedete consumar in pianto

Gli occhi dolenti per soperchia pena?

La qual sì stretto a la morte mi mena

Che già fuggir non posso in alcun canto.



Vedete, donna, s'io porto dolore,

E la mia voce ch'è fatta sottile,

Chiamando a voi mercé sempre d'amore;



e s'el v'aggrada, donna mia gentile,

Che questa doglia pur mi strugga 'l core,

Eccomi apparecchiato servo umile.



LXX

Io non domando, Amore,

Fuor che potere il tuo piacer gradire,

Così t'amo seguire in ciascun tempo,

Dolce il mio signore.



Eo son in ciascun tempo ugual d'amare

Quella donna gentile

Che mi mostrasti, Amor, subitamente,

Un giorno che m'entrò sì ne la mente

La sua sembianza umile,

Veggendo te ne' suoi begli occhi stare,

Che dilettare il core

Da poi non s'è voluto in altra cosa

Fuor che 'n quella amorosa

Vista ch'io vidi rimembrar tuttore.



Questa membranza, Amor, tanto mi piace,

E sì l'ho imaginata,

Ch'io veggio sempre quel ch'io vidi allora;

Ma dir non lo poria, tanto m'accora

Che sol mi s'è posata

Entro a la mente: però mi do pace

Che 'l verace colore

Chiarir non si poria per mie parole.

Amor, come si vole

Dil tu per me là 'v'io son servitore.



Ben deggio sempre, Amore,

Rendere a te onor, poi che desire

Mi desti d'ubidire

A quella donna, ch'è di tal valore.



LXXI

Lo sottil ladro che ne gli occhi porti

Vien dritto a l'uom per mezzo de la faccia,

E prima invola il cor ch'altri lo saccia,

Passando a lui per li sentier' più accorti.



Tu ch'a far questo l'aiuti e conforti,

Però che sospirando si disfaccia,

Fuggendo mostri poi che ti dispiaccia,

Sì che 'n tal guisa n'ha' già quasi morti.



Li spiriti dolenti disvïati,

Che n'escon de lo cor, che trovan meno,

Non domandan se non che tu mi guati.



Ma tu se' micidiale, e hai sì pieno

L'animo tuo di pensier' si spietati

Ched ognun par che sia crudel veleno.



LXII

Iacopo, i' fui, ne le nevicate alpi,

Con que' gentili ond'è nata quella

Ch'Amor ne la memoria ti suggella

E per che tu, parlando anzi lei, palpi.



Non credi tu, perch'io aspre vie scalpi,

Ch'io mi ricordi di tua vita fella

Sol per costei che la diana stella

Criò e donde tu mai non ti parti?



Per te beato far mossi parole

A' suo' propinqui del lontano essilio

Che cercar pensa per l'altrui valore.



Donde non nacquer canti né carole,

Ma in tra loro facien lungo concilio:

Non so 'l deliberar, ma so 'l dolore.



Dico che tutti si dolien per lei,

Dicendo: "Dove perderem costei?".



LXXIII

Sennuccio, la tua poca personuzza,

Onde di' che deriva il desiuzzo

Il qual ti fa portare il cappucciuzzo

Cosí polito in su l'assettatuzza,

Quando tu ti vestisti d'una uzza (1)

Ch'era vergata d'uno scaccatuzzo, (2)

E che n'andavi in sul tuo ronzinuzzo,

Spesso ambiando con la pochettuzza, (3)



io mi pensava di darti copiuzza

Di quella donna che miri fisuzzo,

Credendo avessi alcuna bontaduzza;

E t'ho trovato memoria scioccuzza,

Sì ch'io non ti vo' più per fedeluzzo,

Così sa' far di me mala scusuzza.



1) Uzza, tonachetta guarnacchino

2) listata da un contigio a scacchi

3) pochettuzza, fisicuzzo



LXXIV

Nulla mi parve mai più crudel cosa

Di lei per cui servir la vita lago,

Ché 'l suo desio nel congelato lago,

Ed in foco d'amore il mio si posa.



Di così dispietata e disdegnosa

La gran bellezza di veder m'appago;

E tanto son del mio tormento vago

Ch'altro piacere a li occhi miei non osa.



Né quella ch'a veder lo sol si gira

E 'l non mutato amor mutata serba,

Ebbe quant'io già mai fortuna acerba.



Dunque, Giannin, quando questa superba

Convegno amar fin che la vita spira,

Alquanto per pietà con me sospira.



LXXV

La gran virtù d'Amore e 'l bel piacire

Che nel mio cor di voi, mia donna, è nato,

M'ha fedelmente in vo', donna tornato,

Ch'i' v'amo e voglio sempre vo' servire,



perché più bella siete, al mio parire,

D'ogni altra donna di pregio laudato;

Saggia, gentile, core aumillato,

Ciò che sguardate fate ringioire.



Poi conoscete ch'i' v'ho dato il core

E siete donna di tanta valenza,

Degnate me tener per servitore.



Merzé vi chero a vostra provedenza,

Ch'i' senta gioia per alcun sentore

Ch'io sie servente a vostra ubidienza.



LXXVI

De gli occhi di quella gentil mia dama

Esce una vertù d'amor sì pina

Ch'ogni persona che la ve' s'inchina

A veder lei, e mai altro non brama.

Beltà e Cortesia sua dea la chiama,

E fanno ben, ché l'è cosa sì fina

Ch'ella non par umana, anti divina,

E sempre sempre monta la sua fama.



Chi l'ama, come pò esser contento,

Guardando le vertù che 'n lei son tante;

E s' tu mi dici: "come 'l sai?", che 'l sento.

Ma se tu mi dimandi e dici: "quante?",

Non ti so dire, ché non son pur cento,

Anti più d'infinite ed altrettante.



LXXVII

De' tuoi begli occhi un molto acuto strale

M'è nel cor fitto, e oltre più d'un'oncia,

Sì che mi fora meglio ogni altro male,

Secondo ch'Amor dentro mi rinoncia.



Oimè, perché venisti così acconcia

Lo dì ch'i' ebbi quel colpo mortale,

Che vita e ogni stato mi disconcia,

E per campar nulla cosa mi vale?



I' ti scontrai per quel che nel cor porto,

E perché mai de la tua dolce vista

Non fosse allegra l'anima mia trista.



Che se quella pietà ch'amor racquista

Per lei senza veder non s'ha conforto,

E i' ho perduto questo, ond'io son morto.



LXXVIII

"Non piango tanto il non poter vedere

Quella che di mia vita era nutrice,

Quanto per tema non sia sdegnatrice

Di mia dimora, ch'è contra volere,



pensando che ciascun om de' savere

Che mal pittura sta senza vernice,

Ché no ha stabilità": così mi dice

Lo cor c'ha perso lo su' bel piacere.



Sì che 'n questo pensando si conduce

La vita a morte, e spesso la richiama

Dicendo: "Sola tu sei la mia luce".



Sentendo ciò, quello spirito ch'ama

Vien con conforto e dice: "Sempre duce

Fia del tu' amor quella che 'l tu' cor brama".



LXXIX

Molti, volendo dir che fosse Amore,

Disser parole assai, ma non potero

Dir di lui cosa che sembrasse il vero,

Né diffinir qual fosse il suo valore.



Ben fu alcun che disse ch'era ardore

Di mente imaginato per pensiero;

E alcun disse ch'era desidero

Di voler nato per piacer del core.



Io dico che Amor non è sustanza

Né cosa corporal ch'abbia figura,

Anzi è passione in disïanza,

Piacer di forma dato per natura,

Sì che 'l voler del core ogni altro avanza:

E questo basta fin che 'l piacer dura.



LXXX

Quando il consiglio tra gli uccei si tenne,

Di nicistà convenne che

Ciascun comparisse a tal novella;

E la cornacchia maliziosa e fella

Pensò mutar gonnella,

E da molti altri uccei accattò penne;

E addobbossi, e nel consiglio venne:

Ma poco si sostenne,

Perché parëa sopra gli altri bella;

E l'un domandò a l'altro: "Chi è quella?",

Si che finalmente ella

Fu conosciuta. Or odi che n'avvenne.



Che tutti gli altri uccei le fur dintorno

Sì che sanza soggiorno

La pelar si ch'ella rimase ignuda;

E l'un dicëa: "Vedi bella druda",

Dicea l'altro: "Ella muda";

E così la lasciaro in grande scorno.

Similemente divien tutto giorno

D'uom che si fa adorno

Di fama o di vertù ch'altrui dischiuda,

Che spesse volte suda

De l'altrui caldo tal che poi agghiaccia.

Dunque beato chi per sé procaccia.