Torquato Tasso
GERUSALEMME
LIBERATA
Indice dei Canti
01 - 02 - 03 - 04 - 05 - 06 - 07 - 08 - 09 - 10
11 - 12 - 13 - 14 - 15 - 16 - 17 - 18 - 19 - 20
GERUSALEMME LIBERATA
POEMA
DEL SIGNOR TORQUATO TASSO
AL SERENISSIMO SIGNORE
IL SIGNOR
DONNO ALFONSO II D'ESTE DUCA DI FERRARA
Argomento
Manda
a Tortosa Dio l'Angelo, u' poi
Goffredo Aduna i Principi
Cristiani.
Quivi concordi que' famosi Eroi
Lui Duce fan degli
altri Capitani.
Quinci egli pria vuol rivedere i suoi
Sotto
l'insegne; e poi gl'invia ne' piani
Ch'a Sion vanno: intanto di
Giudea
Il Re si turba alla novella rea.
Canto l'arme pietose
e 'l capitano
che 'l gran sepolcro liberò di Cristo.
Molto
egli oprò co 'l senno e con la mano,
molto soffrí
nel glorioso acquisto;
e in van l'Inferno vi s'oppose, e in
vano
s'armò d'Asia e di Libia il popol misto.
Il Ciel
gli diè favore, e sotto a i santi
segni ridusse i suoi
compagni erranti.
O
Musa, tu che di caduchi allori
non circondi la fronte in
Elicona,
ma su nel cielo infra i beati cori
hai di stelle
immortali aurea corona,
tu spira al petto mio celesti ardori,
tu
rischiara il mio canto, e tu perdona
s'intesso fregi al ver,
s'adorno in parte
d'altri diletti, che de' tuoi, le carte.
Sai che là
corre il mondo ove piú versi
di sue dolcezze il lusinghier
Parnaso,
e che 'l vero, condito in molli versi,
i piú
schivi allettando ha persuaso.
Cosí a l'egro fanciul
porgiamo aspersi
di soavi licor gli orli del vaso:
succhi amari
ingannato intanto ei beve,
e da l'inganno suo vita riceve.
Tu, magnanimo
Alfonso, il quale ritogli
al furor di fortuna e guidi in porto
me
peregrino errante, e fra gli scogli
e fra l'onde agitato e quasi
absorto,
queste mie carte in lieta fronte accogli,
che quasi in
voto a te sacrate i' porto.
Forse un dí fia che la presaga
penna
osi scriver di te quel ch'or n'accenna.
È
ben ragion, s'egli averrà ch'in pace
il buon popol di
Cristo unqua si veda,
e con navi e cavalli al fero Trace
cerchi
ritòr la grande ingiusta preda,
ch'a te lo scettro in terra
o, se ti piace,
l'alto imperio de' mari a te conceda.
Emulo di
Goffredo, i nostri carmi
intanto ascolta, e t'apparecchia a
l'armi.
Già
'l sesto anno volgea, ch'in oriente
passò il campo
cristiano a l'alta impresa;
e Nicea per assalto, e la
potente
Antiochia con arte avea già presa.
L'avea poscia
in battaglia incontra gente
di Persia innumerabile difesa,
e
Tortosa espugnata; indi a la rea
stagion diè loco, e 'l
novo anno attendea.
E
'l fine omai di quel piovoso inverno,
che fea l'arme cessar, lunge
non era;
quando da l'alto soglio il Padre eterno,
ch'è
ne la parte piú del ciel sincera,
e quanto è da le
stelle al basso inferno,
tanto è piú in su de la
stellata spera,
gli occhi in giú volse, e in un sol punto e
in una
vista mirò ciò ch'in sé il mondo
aduna.
Mirò
tutte le cose, ed in Soria
s'affisò poi ne' principi
cristiani;
e con quel guardo suo ch'a dentro spia
nel piú
secreto lor gli affetti umani,
vide Goffredo che scacciar desia
de
la santa città gli empi pagani,
e pien di fé, di
zelo, ogni mortale
gloria, imperio, tesor mette in non cale.
Ma vede in
Baldovin cupido ingegno,
ch'a l'umane grandezze intento
aspira:
vede Tancredi aver la vita a sdegno,
tanto un suo vano
amor l'ange e martira:
e fondar Boemondo al novo regno
suo
d'Antiochia alti princípi mira,
e leggi imporre, ed
introdur costume
ed arti e culto di verace nume;
e
cotanto internarsi in tal pensiero,
ch'altra impresa non par che
piú rammenti:
scorge in Rinaldo e animo guerriero
e
spirti di riposo impazienti;
non cupidigia in lui d'oro o
d'impero,
ma d'onor brame immoderate, ardenti:
scorge che da la
bocca intento pende
di Guelfo, e i chiari antichi essempi
apprende.
Ma poi
ch'ebbe di questi e d'altri cori
scòrti gl'intimi sensi il
Re del mondo,
chiama a sé da gli angelici
splendori
Gabriel, che ne' primi era secondo.
È tra Dio
questi e l'anime migliori
interprete fedel, nunzio giocondo:
giú
i decreti del Ciel porta, ed al Cielo
riporta de' mortali i preghi
e 'l zelo.
Disse
al suo nunzio Dio: "Goffredo trova,
e in mio nome di' lui:
perché si cessa?
perché la guerra omai non si
rinova
a liberar Gierusalemme oppressa?
Chiami i duci a
consiglio, e i tardi mova
a l'alta impresa: ei capitan fia
d'essa.
Io qui l'eleggo; e 'l faran gli altri in terra,
già
suoi compagni, or suoi ministri in guerra."
Cosí
parlogli, e Gabriel s'accinse
veloce ad esseguir l'imposte
cose:
la sua forma invisibil d'aria cinse
ed al senso mortal la
sottopose.
Umane membra, aspetto uman si finse,
ma di celeste
maestà il compose;
tra giovene e fanciullo età
confine
prese, ed ornò di raggi il biondo crine.
Ali bianche
vestí, c'han d'or le cime,
infaticabilmente agili e
preste.
Fende i venti e le nubi, e va sublime
sovra la terra e
sovra il mar con queste.
Cosí vestito, indirizzossi a
l'ime
parti del mondo il messaggier celeste:
pria sul Libano
monte ei si ritenne,
e si librò su l'adeguate penne;
e vèr le
piagge di Tortosa poi
drizzò precipitando il volo in
giuso.
Sorgeva il novo sol da i lidi eoi,
parte già
fuor, ma 'l piú ne l'onde chiuso;
e porgea matutini i
preghi suoi
Goffredo a Dio, come egli avea per uso;
quando a
paro co 'l sol, ma piú lucente,
l'angelo gli apparí
da l'oriente;
e
gli disse: "Goffredo, ecco opportuna
già la stagion
ch'al guerreggiar s'aspetta;
perché dunque trapor dimora
alcuna
a liberar Gierusalem soggetta?
Tu i principi a consiglio
omai raguna,
tu al fin de l'opra i neghittosi affretta.
Dio per
lor duce già t'elegge, ed essi
sopporran volontari a te se
stessi.
Dio
messaggier mi manda: io ti rivelo
la sua mente in suo nome. Oh
quanta spene
aver d'alta vittoria, oh quanto zelo
de l'oste a
te commessa or ti conviene!"
Tacque; e, sparito, rivolò
del cielo
a le parti piú eccelse e piú serene.
Resta
Goffredo a i detti, a lo splendore,
d'occhi abbagliato, attonito
di core.
Ma poi
che si riscote, e che discorre
chi venne, chi mandò, che
gli fu detto,
se già bramava, or tutto arde d'imporre
fine
a la guerra ond'egli è duce eletto.
Non che 'l vedersi a
gli altri in Ciel preporre
d'aura d'ambizion gli gonfi il
petto,
ma il suo voler piú nel voler s'infiamma
del suo
Signor, come favilla in fiamma.
Dunque
gli eroi compagni, i quai non lunge
erano sparsi, a ragunarsi
invita;
lettere a lettre, e messi a messi aggiunge,
sempre al
consiglio è la preghiera unita;
ciò ch'alma generosa
alletta e punge,
ciò che può risvegliar virtù
sopita,
tutto par che ritrovi, e in efficace
modo l'adorna sí
che sforza e piace.
Vennero
i duci, e gli altri anco seguiro,
e Boemondo sol qui non
convenne.
Parte fuor s'attendò, parte nel giro
e tra gli
alberghi suoi Tortosa tenne.
I grandi de l'essercito
s'uniro
(glorioso senato) in dí solenne.
Qui il pio
Goffredo incominciò tra loro,
augusto in volto ed in sermon
sonoro:
"Guerrier
di Dio, ch'a ristorar i danni
de la sua fede il Re del Cielo
elesse,
e securi fra l'arme e fra gl'inganni
de la terra e del
mar vi scòrse e resse,
sí ch'abbiam tante e tante in
sí pochi anni
ribellanti provincie a lui sommesse,
e fra
le genti debellate e dome
stese l'insegne sue vittrici e 'l nome,
già non
lasciammo i dolci pegni e 'l nido
nativo noi (se 'l creder mio non
erra),
né la vita esponemmo al mare infido
ed a i
perigli di lontana guerra,
per acquistar di breve suono un
grido
vulgare e posseder barbara terra,
ché proposto ci
avremmo angusto e scarso
premio, e in danno de l'alme il sangue
sparso.
Ma fu de'
pensier nostri ultimo segno
espugnar di Sion le nobil mura,
e
sottrarre i cristiani al giogo indegno
di servitù cosí
spiacente e dura,
fondando in Palestina un novo regno,
ov'abbia
la pietà sede secura;
né sia chi neghi al peregrin
devoto
d'adorar la gran tomba e sciòrre il voto.
Dunque il fatto
sin ora al rischio è molto,
piú che molto al
travaglio, a l'onor poco,
nulla al disegno, ove o si fermi o
vòlto
sia l'impeto de l'armi in altro loco.
Che gioverà
l'aver d'Europa accolto
sí grande sforzo, e posto in Asia
il foco,
quando sia poi di sí gran moti il fine
non
fabbriche di regni, ma ruine?
Non
edifica quei che vuol gl'imperi
su fondamenti fabricar
mondani,
ove ha pochi di patria e fé stranieri
fra
gl'infiniti popoli pagani,
ove ne' Greci non conven che speri,
e
i favor d'Occidente ha sí lontani;
ma ben move ruine,
ond'egli oppresso
sol construtto un sepolcro abbia a se stesso.
Turchi, Persi,
Antiochia (illustre suono
e di nome magnifico e di cose)
opre
nostre non già, ma del Ciel dono
furo, e vittorie fur
meravigliose.
Or se da noi rivolte e torte sono
contra quel fin
che 'l donator dispose,
temo ce 'n privi, e favola a le genti
quel
sí chiaro rimbombo al fin diventi.
Ah
non sia alcun, per Dio, che sí graditi
doni in uso sí
reo perda e diffonda!
A quei che sono alti princípi
orditi
di tutta l'opra il filo e 'l fin risponda.
Ora che i
passi liberi e spediti,
ora che la stagione abbiam seconda,
ché
non corriamo a la città ch'è mèta
d'ogni
nostra vittoria? e che piú 'l vieta?
Principi,
io vi protesto (i miei protesti
udrà il mondo presente,
udrà il futuro,
l'odono or su nel Cielo anco i Celesti):
il
tempo de l'impresa è già maturo;
men diviene
opportun piú che si resti,
incertissimo fia quel ch'è
securo.
Presago son, s'è lento il nostro corso,
avrà
d'Egitto il Palestin soccorso."
Disse,
e a i detti seguí breve bisbiglio;
ma sorse poscia il
solitario Piero,
che privato fra' principi a consiglio
sedea,
del gran passaggio autor primiero:
"Ciò ch'essorta
Goffredo, ed io consiglio,
né loco a dubbio v'ha, sí
certo è il vero
e per sé noto: ei dimostrollo a
lungo,
voi l'approvate, io questo sol v'aggiungo:
se
ben raccolgo le discordie e l'onte
quasi a prova da voi fatte e
patite,
i ritrosi pareri, e le non pronte
e in mezzo a
l'esseguire opre impedite,
reco ad un'altra originaria fonte
la
cagion d'ogni indugio e d'ogni lite,
a quella autorità che,
in molti e vari
d'opinion quasi librata, è pari.
Ove un sol non
impera, onde i giudíci
pendano poi de' premi e de le
pene,
onde sian compartite opre ed uffici,
ivi errante il
governo esser conviene.
Deh! fate un corpo sol de' membri
amici,
fate un capo che gli altri indrizzi e frene,
date ad un
sol lo scettro e la possanza,
e sostenga di re vece e sembianza."
Qui tacque il
veglio. Or quai pensier, quai petti
son chiusi a te, sant'Aura e
divo Ardore?
Inspiri tu de l'Eremita i detti,
e tu gl'imprimi a
i cavalier nel core;
sgombri gl'inserti, anzi gl'innati affetti
di
sovrastar, di libertà, d'onore,
sí che Guglielmo e
Guelfo, i piú sublimi,
chiamàr Goffredo per lor duce
i primi.
L'approvàr
gli altri: esser sue parti denno
deliberare e comandar
altrui.
Imponga a i vinti legge egli a suo senno,
porti la
guerra e quando vòle e a cui;
gli altri, già pari,
ubidienti al cenno
siano or ministri de gl'imperii sui.
Concluso
ciò, fama ne vola, e grande
per le lingue de gli uomini si
spande.
Ei si
mostra a i soldati, e ben lor pare
degno de l'alto grado ove l'han
posto,
e riceve i saluti e 'l militare
applauso, in volto
placido e composto.
Poi ch'a le dimostranze umili e care
d'amor,
d'ubidienza ebbe risposto,
impon che 'l dí seguente in un
gran campo
tutto si mostri a lui schierato il campo.
Facea ne
l'oriente il sol ritorno,
sereno e luminoso oltre l'usato,
quando
co' raggi uscí del novo giorno
sotto l'insegne ogni
guerriero armato,
e si mostrò quanto poté piú
adorno
al pio Buglion, girando il largo prato.
S'era egli
fermo, e si vedea davanti
passar distinti i cavalieri e i fanti.
Mente, de gli
anni e de l'oblio nemica,
de le cose custode e
dispensiera,
vagliami tua ragion, sí ch'io ridica
di
quel campo ogni duce ed ogni schiera:
suoni e risplenda la lor
fama antica,
fatta da gli anni omai tacita e nera;
tolto da'
tuoi tesori, orni mia lingua
ciò ch'ascolti ogni età,
nulla l'estingua.
Prima
i Franchi mostràrsi: il duce loro
Ugone esser solea, del re
fratello.
Ne l'Isola di Francia eletti foro,
fra quattro fiumi,
ampio paese e bello.
Poscia ch'Ugon morí, de' gigli
d'oro
seguí l'usata insegna il fer drapello
sotto
Clotareo, capitano egregio,
a cui, se nulla manca, è il
nome regio.
Mille
son di gravissima armatura,
sono altrettanti i cavalier
seguenti,
di disciplina a i primi e di natura
e d'arme e di
sembianza indifferenti;
normandi tutti, e gli ha Roberto in
cura,
che principe nativo è de le genti.
Poi duo pastor
de' popoli spiegaro
le squadre lor, Guglielmo ed Ademaro.
L'uno e l'altro
di lor, che ne' divini
uffici già trattò pio
ministero,
sotto l'elmo premendo i lunghi crini,
essercita de
l'arme or l'uso fero.
Da la città d'Orange e da i
confini
quattrocento guerrier scelse il primiero;
ma guida quei
di Poggio in guerra l'altro,
numero egual, né men ne l'arme
scaltro.
Baldovin
poscia in mostra addur si vede
co' Bolognesi suoi quei del
germano,
ché le sue genti il pio fratel gli cede
or
ch'ei de' capitani è capitano.
Il conte di Carnuti indi
succede,
potente di consiglio e pro' di mano;
van con lui
quattrocento, e triplicati
conduce Baldovino in sella armati.
Occupa Guelfo il
campo a lor vicino,
uom ch'a l'alta fortuna agguaglia il
merto:
conta costui per genitor latino
de gli avi Estensi un
lungo ordine e certo.
Ma german di cognome e di domino,
ne la
gran casa de' Guelfoni è inserto:
regge Carinzia, e presso
l'Istro e 'l Reno
ciò che i prischi Suevi e i Reti avièno.
A questo, che
retaggio era materno,
acquisti ei giunse gloriosi e grandi.
Quindi
gente traea che prende a scherno
d'andar contra la morte, ov'ei
comandi:
usa a temprar ne' caldi alberghi il verno,
e celebrar
con lieti inviti i prandi.
Fur cinquemila a la partenza, e a
pena
(de' Persi avanzo) il terzo or qui ne mena.
Seguia
la gente poi candida e bionda
che tra i Franchi e i Germani e 'l
mar si giace,
ove la Mosa ed ove il Reno inonda,
terra di biade
e d'animai ferace;
e gl'insulani lor, che d'alta sponda
riparo
fansi a l'ocean vorace:
l'ocean che non pur le merci e i legni,
ma
intere inghiotte le cittadi e i regni.
Gli
uni e gli altri son mille, e tutti vanno
sotto un altro Roberto
insieme a stuolo.
Maggior alquanto è lo squadron
britanno;
Guglielmo il regge, al re minor figliuolo.
Sono
gl'Inglesi sagittari, ed hanno
gente con lor ch'è piú
vicina al polo:
questi da l'alte selve irsuti manda
la divisa
dal mondo ultima Irlanda.
Vien
poi Tancredi, e non è alcun fra tanti
(tranne Rinaldo) o
feritor maggiore,
o piú bel di maniere e di sembianti,
o
piú eccelso ed intrepido di core.
S'alcun'ombra di colpa i
suoi gran vanti
rende men chiari, è sol follia
d'amore:
nato fra l'arme, amor di breve vista,
che si nutre
d'affanni, e forza acquista.
È
fama che quel dí che glorioso
fe' la rotta de' Persi il
popol franco,
poi che Tancredi al fin vittorioso
i fuggitivi di
seguir fu stanco,
cercò di refrigerio e di riposo
a
l'arse labbia, al travagliato fianco,
e trasse ove invitollo al
rezzo estivo
cinto di verdi seggi un fonte vivo.
Quivi
a lui d'improviso una donzella
tutta, fuor che la fronte, armata
apparse:
era pagana, e là venuta anch'ella
per l'istessa
cagion di ristorarse.
Egli mirolla, ed ammirò la
bella
sembianza, e d'essa si compiacque, e n'arse.
Oh
meraviglia! Amor, ch'a pena è nato,
già grande vola,
e già trionfa armato.
Ella
d'elmo coprissi, e se non era
ch'altri quivi arrivàr, ben
l'assaliva.
Partí dal vinto suo la donna altera,
ch'è
per necessità sol fuggitiva;
ma l'imagine sua bella e
guerriera
tale ei serbò nel cor, qual essa è viva;
e
sempre ha nel pensiero e l'atto e 'l loco
in che la vide, esca
continua al foco.
E
ben nel volto suo la gente accorta
legger potria: "Questi
arde, e fuor di spene";
cosí vien sospiroso, e cosí
porta
basse le ciglia e di mestizia piene.
Gli ottocento a
cavallo, a cui fa scorta,
lasciàr le piaggie di Campagna
amene,
pompa maggior de la natura, e i colli
che vagheggia il
Tirren fertili e molli.
Venian
dietro ducento in Grecia nati,
che son quasi di ferro in tutto
scarchi:
pendon spade ritorte a l'un de' lati,
suonano al tergo
lor faretre ed archi;
asciutti hanno i cavalli, al corso usati,
a
la fatica invitti, al cibo parchi:
ne l'assalir son pronti e nel
ritrarsi,
e combatton fuggendo erranti e sparsi.
Tatin
regge la schiera, e sol fu questi
che, greco, accompagnò
l'arme latine.
Oh vergogna! oh misfatto! or non avesti
tu,
Grecia, quelle guerre a te vicine?
E pur quasi a spettacolo
sedesti,
lenta aspettando de' grand'atti il fine.
Or, se tu se'
vil serva, è il tuo servaggio
(non ti lagnar) giustizia, e
non oltraggio.
Squadra
d'ordine estrema ecco vien poi
ma d'onor prima e di valor e
d'arte.
Son qui gli aventurieri, invitti eroi,
terror de l'Asia
e folgori di Marte.
Taccia Argo i Mini, e taccia Artù que'
suoi
erranti, che di sogni empion le carte;
ch'ogni antica
memoria appo costoro
perde: or qual duce fia degno di loro?
Dudon di Consa è
il duce; e perché duro
fu il giudicar di sangue e di
virtute,
gli altri sopporsi a lui concordi furo,
ch'avea piú
cose fatte e piú vedute.
Ei di virilità grave e
maturo,
mostra in fresco vigor chiome canute;
mostra, quasi
d'onor vestigi degni,
di non brutte ferite impressi segni.
Eustazio è
poi fra i primi; e i propri pregi
illustre il fanno, e piú
il fratel .
Gernando v'è, nato di re norvegi,
che
scettri vanta e titoli e corone.
Ruggier di Balnavilla infra gli
egregi
la vecchia fama ed Engerlan ripone;
e celebrati son fra'
piú gagliardi
un Gentonio, un Rambaldo e due Gherardi.
Son fra' lodati
Ubaldo anco, e Rosmondo
del gran ducato di Lincastro erede;
non
fia ch'Obizzo il Tosco aggravi al fondo
chi fa de le memorie avare
prede,
né i tre frati lombardi al chiaro mondo
involi,
Achille, Sforza e Palamede,
o 'l forte Otton, che conquistò
lo scudo
in cui da l'angue esce il fanciullo ignudo.
Né
Guasco né Ridolfo a dietro lasso,
né l'un né
l'altro Guido, ambo famosi,
non Eberardo e non Gernier
trapasso
sotto silenzio ingratamente ascosi.
Ove voi me, di
numerar già lasso,
Gildippe ed Odoardo, amanti e
sposi,
rapite? o ne la guerra anco consorti,
non sarete
disgiunti ancor che morti!
Ne
le scole d'Amor che non s'apprende?
Ivi si fe' costei guerriera
ardita:
va sempre affissa al caro fianco, e pende
da un fato
solo l'una e l'altra vita.
Colpo che ad un sol noccia unqua non
scende,
ma indiviso è il dolor d'ogni ferita;
e spesso è
l'un ferito, e l'altro langue,
e versa l'alma quel, se questa il
sangue.
Ma il
fanciullo Rinaldo, e sovra questi
e sovra quanti in mostra eran
condutti,
dolcemente feroce alzar vedresti
la regal fronte, e
in lui mirar sol tutti.
L'età precorse e la speranza, e
presti
pareano i fior quando n'usciro i frutti;
se 'l miri
fulminar ne l'arme avolto,
Marte lo stimi; Amor, se scopre il
volto.
Lui ne la
riva d'Adige produsse
a Bertoldo Sofia, Sofia la bella
a
Bertoldo il possente; e pria che fusse
tolto quasi il bambin da la
mammella,
Matilda il volse, e nutricollo, e instrusse
ne l'arti
regie; e sempre ei fu con ella,
sin ch'invaghí la
giovanetta mente
la tromba che s'udia da l'oriente.
Allor
(né pur tre lustri avea forniti)
fuggí soletto, e
corse strade ignote;
varcò l'Egeo, passò di Grecia i
liti,
giunse nel campo in region remote.
Nobilissima fuga, e
che l'imíti
ben degna alcun magnanimo nepote.
Tre anni
son che è in guerra, e intempestiva
molle piuma del mento a
pena usciva.
Passati
i cavalieri, in mostra viene
la gente a piede, ed è
Raimondo inanti.
Regea Tolosa, e scelse infra Pirene
e fra
Garona e l'ocean suoi fanti.
Son quattromila, e ben armati e
bene
instrutti, usi al disagio e toleranti;
buona è la
gente, e non può da piú dotta
o da piú forte
guida esser condotta.
Ma
cinquemila Stefano d'Ambuosa
e di Blesse e di Turs in guerra
adduce.
Non è gente robusta o faticosa,
se ben tutta di
ferro ella riluce.
La terra molle, lieta e dilettosa,
simili a
sé gli abitator produce.
Impeto fan ne le battaglie
prime,
ma di leggier poi langue, e si reprime.
Alcasto
il terzo vien, qual presso a Tebe
già Capaneo, con
minaccioso volto:
seimila Elvezi, audace e fera plebe,
da gli
alpini castelli avea raccolto,
che 'l ferro uso a far solchi, a
franger glebe,
in nove forme e in piú degne opre ha
vòlto;
e con la man, che guardò rozzi armenti,
par
ch'i regni sfidar nulla paventi.
Vedi
appresso spiegar l'alto vessillo
co 'l diadema di Piero e con le
chiavi.
Qui settemila aduna il buon Camillo
pedoni, d'arme
rilucenti e gravi,
lieto ch'a tanta impresa il Ciel sortillo,
ove
rinovi il prisco onor de gli avi,
o mostri almen ch'a la virtú
latina
o nulla manca, o sol la disciplina.
Ma
già tutte le squadre eran con bella
mostra passate, e
l'ultima fu questa,
quando Goffredo i maggior duci appella,
e
la sua mente a lor fa manifesta:
"Come appaia diman l'alba
novella
vuo' che l'oste s'invii leggiera e presta,
sí
ch'ella giunga a la città sacrata,
quanto è possibil
piú, meno aspettata.
Preparatevi
dunque ed al viaggio
ed a la pugna e a la vittoria ancora."
Questo
ardito parlar d'uom cosí saggio
sollecita ciascuno e
l'avvalora.
Tutti d'andar son pronti al novo raggio,
e
impazienti in aspettar l'aurora.
Ma 'l provido Buglion senza ogni
tema
non è però, benché nel cor la prema.
Perch'egli avea
certe novelle intese
che s'è d'Egitto il re già
posto in via
inverso Gaza, bello e forte arnese
da fronteggiare
i regni di Soria.
Né creder può che l'uomo a fere
imprese
avezzo sempre, or lento in ozio stia;
ma, d'averlo
aspettando aspro nemico,
parla al fedel suo messeggiero Enrico:
"Sovra
una lieve saettia tragitto
vuo' che tu faccia ne la greca
terra.
Ivi giunger dovea (cosí m'ha scritto
chi mai per
uso in avisar non erra)
un giovene regal, d'animo invitto,
ch'a
farsi vien nostro compagno in guerra:
prence è de' Dani, e
mena un grande stuolo
sin da i paesi sottoposti al polo.
Ma perché
'l greco imperator fallace
seco forse userà le solite
arti,
per far ch'o torni indietro o 'l corso audace
torca in
altre da noi lontane parti,
tu, nunzio mio, tu, consiglier
verace,
in mio nome il disponi a ciò che parti
nostro e
suo bene, e di' che tosto vegna,
ché di lui fòra
ogni tardanza indegna.
Non
venir seco tu, ma resta appresso
al re de' Greci a procurar
l'aiuto,
che già piú d'una volta a noi promesso
e
per ragion di patto anco è dovuto."
Cosí parla
e l'informa, e poi che 'l messo
le lettre ha di credenza e di
saluto,
toglie, affrettando il suo partir, congedo,
e tregua fa
co' suoi pensier Goffredo.
Il
dí seguente, allor ch'aperte sono
del lucido oriente al sol
le porte,
di trombe udissi e di tamburi un suono,
ond'al camino
ogni guerrier s'essorte.
Non è sí grato a i caldi
giorni il tuono
che speranza di pioggia al mondo apporte,
come
fu caro a le feroci genti
l'altero suon de' bellici instrumenti.
Tosto ciascun, da
gran desio compunto,
veste le membra de l'usate spoglie,
e
tosto appar di tutte l'arme in punto,
tosto sotto i suoi duci
ogn'uom s'accoglie,
e l'ordinato essercito congiunto
tutte le
sue bandiere al vento scioglie:
e nel vessillo imperiale e
grande
la trionfante Croce al ciel si spande.
Intanto
il sol, che de' celesti campi
va piú sempre avanzando e in
alto ascende,
l'arme percote e ne trae fiamme e lampi
tremuli e
chiari, onde le viste offende.
L'aria par di faville intorno
avampi,
e quasi d'alto incendio in forma splende,
e co' feri
nitriti il suono accorda
del ferro scosso e le campagne assorda.
Il capitan, che
da' nemici aguati
le schiere sue d'assecurar desia,
molti a
cavallo leggiermente armati
a scoprire il paese intorno invia;
e
inanzi i guastatori avea mandati,
da cui si debbe agevolar la
via,
e i vòti luoghi empire e spianar gli erti,
e da cui
siano i chiusi passi aperti.
Non
è gente pagana insieme accolta,
non muro cinto di profondo
fossa,
non gran torrente, o monte alpestre, o folta
selva, che
'l lor viaggio arrestar possa.
Cosí de gli altri fiumi il
re tal volta,
quando superbo oltra misura ingrossa,
sovra le
sponde ruinoso scorre,
né cosa è mai che gli
s'ardisca opporre.
Sol
di Tripoli il re, che 'n ben guardate
mura, genti, tesori ed arme
serra,
forse le schiere franche avria tardate,
ma non osò
di provocarle in guerra.
Lor con messi e con doni anco
placate
ricettò volontario entro la terra,
e ricevé
condizion di pace,
sí come imporle al pio Goffredo piace.
Qui del monte
Seir, ch'alto e sovrano
da l'oriente a la cittade è
presso,
gran turba scese de' fedeli al piano
d'ogni età
mescolata e d'ogni sesso:
portò suoi doni al vincitor
cristiano,
godea in mirarlo e in ragionar con esso,
stupia de
l'arme pellegrine; e guida
ebbe da lor Goffredo amica e fida.
Conduce ei sempre
a le maritime onde
vicino il campo per diritte strade,
sapendo
ben che le propinque sponde
l'amica armata costeggiando rade,
la
qual può far che tutto il campo abonde
de' necessari arnesi
e che le biade
ogni isola de' Greci a lui sol mieta,
e Scio
pietrosa gli vendemmi e Creta.
Geme
il vicino mar sotto l'incarco
de l'alte navi e de' piú levi
pini,
sí che non s'apre omai securo varco
nel mar
Mediterraneo a i saracini;
ch'oltra quei c'ha Georgio armati e
Marco
ne' veneziani e liguri confini,
altri Inghilterra e
Francia ed altri Olanda,
e la fertil Sicilia altri ne manda.
E questi, che son
tutti insieme uniti
con saldissimi lacci in un volere,
s'eran
carchi e provisti in vari liti
di ciò ch'è d'uopo a
le terrestri schiere,
le quai, trovando liberi e sforniti
i
passi de' nemici a le frontiere,
in corso velocissimo se 'n
vanno
là 've Cristo soffrí mortale affanno.
Ma precorsa è
la fama, apportatrice
de' veraci romori e de' bugiardi,
ch'unito
è il campo vincitor felice,
che già s'è mosso
e che non è chi 'l tardi;
quante e qual sian le squadre
ella ridice,
narra il nome e 'l valor de' piú
gagliardi,
narra i lor vanti, e con terribil faccia
gli
usurpatori di Sion minaccia.
E
l'aspettar del male è mal peggiore,
forse, che non parrebbe
il mal presente;
pende ad ogn'aura incerta di romore
ogni
orecchia sospesa ed ogni mente;
e un confuso bisbiglio entro e di
fore
trascorre i campi e la città dolente.
Ma il vecchio
re ne' già vicin perigli
volge nel dubbio cor feri
consigli.
Aladin
detto è il re, che, di quel regno
novo signor, vive in
continua cura:
uom già crudel, ma 'l suo feroce ingegno
pur
mitigato avea l'età matura.
Egli, che de' Latini udí
il disegno
c'han d'assalir di sua città le mura,
giunge
al vecchio timor novi sospetti,
e de' nemici pave e de' soggetti.
Però che
dentro a una città commisto
popolo alberga di contraria
fede:
la debil parte e la minore in Cristo,
la grande e forte
in Macometto crede.
Ma quando il re fe' di Sion l'acquisto,
e
vi cercò di stabilir la sede,
scemò i publici pesi
a' suoi pagani,
ma piú gravonne i miseri cristiani.
Questo pensier la
ferità nativa,
che da gli anni sopita e fredda
langue,
irritando inasprisce, e la ravviva
sí
ch'assetata è piú che mai di sangue.
Tal fero torna
a la stagione estiva
quel che parve nel gel piacevol angue,
cosí
leon domestico riprende
l'innato suo furor, s'altri l'offende.
"Veggio"
dicea "de la letizia nova
veraci segni in questa turba
infida;
il danno universal solo a lei giova,
sol nel pianto
comun par ch'ella rida;
e forse insidie e tradimenti or
cova,
rivolgendo fra sé come m'uccida,
o come al mio
nemico, e suo consorte
popolo, occultamente apra le porte.
Ma no 'l farà:
prevenirò questi empi
disegni loro, e sfogherommi a
pieno.
Gli ucciderò, faronne acerbi scempi,
svenerò
i figli a le lor madri in seno,
arderò loro alberghi e
insieme i tèmpi,
questi i debiti roghi a i morti fièno;
e
su quel lor sepolcro in mezzo a i voti
vittime pria farò
de' sacerdoti."
Cosí
l'iniquo fra suo cor ragiona,
pur non segue pensier sí mal
concetto;
ma s'a quegli innocenti egli perdona,
è di
viltà, non di pietade effetto,
ché s'un timor a
incrudelir lo sprona,
il ritien piú potente altro
sospetto:
troncar le vie d'accordo, e de' nemici
troppo teme
irritar l'arme vittrici.
Tempra
dunque il fellon la rabbia insana,
anzi altrove pur cerca ove la
sfoghi;
i rustici edifici abbatte e spiana,
e dà in
preda a le fiamme i culti luoghi;
parte alcuna non lascia integra
o sana
ove il Franco si pasca, ove s'alloghi;
turba le fonti e
i rivi, e le pure onde
di veneni mortiferi confonde.
Spietatamente è
cauto, e non oblia
di rinforzar Gierusalem fra tanto.
Da tre
lati fortissima era pria,
sol verso Borea è men secura
alquanto;
ma da' primi sospetti ei le munia
d'alti ripari il
suo men forte canto,
e v'accogliea gran quantitade in fretta
di
gente mercenaria e di soggetta.
Argomento
Novo
canto fa Ismen che vano uscito,
Vuole Aladin che muoja ogni
Cristiano.
La pudica Sofronia e Olindo ardito,
Perché
cessi il furor del re Pagano,
Voglion morir. Clorinda il caso
udito,
Non lascia lor più de' ministri in mano.
Argante,
poi che quel ch'Alete dice,
Non cura il Franco, a lui guerra aspra
indice.
Mentre
il tiranno s'apparecchia a l'armi,
soletto Ismeno un dí gli
s'appresenta,
Ismen che trar di sotto a i chiusi marmi
può
corpo estinto, e far che spiri e senta,
Ismen che al suon de'
mormoranti carmi
sin ne la reggia sua Pluton spaventa,
e i suoi
demon ne gli empi uffici impiega
pur come servi, e gli discioglie
e lega.
Questi or
Macone adora, e fu cristiano,
ma i primi riti anco lasciar non
pote;
anzi sovente in uso empio e profano
confonde le due leggi
a sé mal note,
ed or da le spelonche, ove lontano
dal
vulgo essercitar suol l'arti ignote,
vien nel publico rischio al
suo signore:
a re malvagio consiglier peggiore.
"Signor,"
dicea "senza tardar se 'n viene
il vincitor essercito
temuto,
ma facciam noi ciò che a noi far conviene:
darà
il Ciel, darà il mondo a i forti aiuto.
Ben tu di re, di
duce hai tutte piene
le parti, e lunge hai visto e
proveduto.
S'empie in tal guisa ogn'altro i propri uffici,
tomba
fia questa terra a' tuoi nemici.
Io,
quanto a me, ne vegno, e del periglio
e de l'opre compagno, ad
aiutarte:
ciò che può dar di vecchia età
consiglio,
tutto prometto, e ciò che magica arte.
Gli
angeli che dal Cielo ebbero essiglio
constringerò de le
fatiche a parte.
Ma dond'io voglia incominciar gl'incanti
e con
quai modi, or narrerotti avanti.
Nel
tempio de' cristiani occulto giace
un sotterraneo altare, e quivi
è il volto
di Colei che sua diva e madre face
quel vulgo
del suo Dio nato e sepolto.
Dinanzi al simulacro accesa
face
continua splende; egli è in un velo avolto.
Pendono
intorno in lungo ordine i voti
che vi portano i creduli devoti.
Or questa effigie
lor, di là rapita,
voglio che tu di propria man trasporte
e
la riponga entro la tua meschita:
io poscia incanto adoprerò
sí forte
ch'ognor, mentre ella qui fia custodita,
sarà
fatal custodia a queste porte;
tra mura inespugnabili il tuo
impero
securo fia per novo alto mistero."
Sí
disse, e 'l persuase; e impaziente
il re se 'n corse a la magion
di Dio,
e sforzò i sacerdoti, e irreverente
il casto
simulacro indi rapio;
e portollo a quel tempio ove
sovente
s'irrita il Ciel co 'l folle culto e rio.
Nel profan
loco e su la sacra imago
susurrò poi le sue bestemmie il
mago.
Ma come
apparse in ciel l'alba novella,
quel cui l'immondo tempio in
guardia è dato
non rivide l'imagine dov'ella
fu posta, e
invan cerconne in altro lato.
Tosto n'avisa il re, ch'a la
novella
di lui si mostra feramente irato,
ed imagina ben
ch'alcun fedele
abbia fatto quel furto, e che se 'l cele.
O fu di man
fedele opra furtiva,
o pur il Ciel qui sua potenza adopra,
che
di Colei ch'è sua regina e diva
sdegna che loco vil
l'imagin copra:
ch'incerta fama è ancor se ciò
s'ascriva
ad arte umana od a mirabil opra;
ben è pietà
che, la pietade e 'l zelo
uman cedendo, autor se 'n creda il
Cielo.
Il re ne
fa con importuna inchiesta
ricercar ogni chiesa, ogni magione,
ed
a chi gli nasconde o manifesta
il furto o il reo, gran pene e
premi impone.
Il mago di spiarne anco non resta
con tutte
l'arti il ver; ma non s'appone,
ché 'l Cielo, opra sua
fosse o fosse altrui,
celolla ad onta de gl'incanti a lui.
Ma poi che 'l re
crudel vide occultarse
quel che peccato de' fedeli ei pensa,
tutto
in lor d'odio infellonissi, ed arse
d'ira e di rabbia immoderata
immensa.
Ogni rispetto oblia, vuol vendicarse,
segua che pote,
e sfogar l'alma accensa.
"Morrà," dicea "non
andrà l'ira a vòto,
ne la strage comune il ladro
ignoto.
Pur che
'l reo non si salvi, il giusto pèra
e l'innocente; ma qual
giusto io dico?
è colpevol ciascun, né in loro
schiera
uom fu giamai del nostro nome amico.
S'anima v'è
nel novo error sincera,
basti a novella pena un fallo antico.
Su
su, fedeli miei, su via prendete
le fiamme e 'l ferro, ardete ed
uccidete."
Cosí
parla a le turbe, e se n'intese
la fama tra' fedeli
immantinente,
ch'attoniti restàr, sí gli sorprese
il
timor de la morte omai presente;
e non è chi la fuga o le
difese,
lo scusar o 'l pregare ardisca o tente.
Ma le timide
genti e irrisolute
donde meno speraro ebber salute.
Vergine era fra
lor di già matura
verginità, d'alti pensieri e
regi,
d'alta beltà; ma sua beltà non cura,
o
tanto sol quant'onestà se 'n fregi.
È il suo pregio
maggior che tra le mura
d'angusta casa asconde i suoi gran
pregi,
e de' vagheggiatori ella s'invola
a le lodi, a gli
sguardi, inculta e sola.
Pur
guardia esser non può ch'in tutto celi
beltà degna
ch'appaia e che s'ammiri;
né tu il consenti, Amor, ma la
riveli
d'un giovenetto a i cupidi desiri.
Amor, ch'or cieco, or
Argo, ora ne veli
di benda gli occhi, ora ce gli apri e giri,
tu
per mille custodie entro a i piú casti
verginei alberghi il
guardo altrui portasti.
Colei
Sofronia, Olindo egli s'appella,
d'una cittade entrambi e d'una
fede.
Ei che modesto è sí com'essa è
bella,
brama assai, poco spera, e nulla chiede;
né sa
scoprirsi, o non ardisce; ed ella
o lo sprezza, o no 'l vede, o
non s'avede.
Cosí fin ora il misero ha servito
o non
visto, o mal noto, o mal gradito.
S'ode
l'annunzio intanto, e che s'appresta
miserabile strage al popol
loro.
A lei, che generosa è quanto onesta,
viene in
pensier come salvar costoro.
Move fortezza il gran pensier,
l'arresta
poi la vergogna e 'l verginal decoro;
vince fortezza,
anzi s'accorda e face
sé vergognosa e la vergogna audace.
La vergine tra 'l
vulgo uscí soletta,
non coprí sue bellezze, e non
l'espose,
raccolse gli occhi, andò nel vel ristretta,
con
ischive maniere e generose.
Non sai ben dir s'adorna o se
negletta,
se caso od arte il bel volto compose.
Di natura,
d'Amor, de' cieli amici
le negligenze sue sono artifici.
Mirata da ciascun
passa, e non mira
l'altera donna, e innanzi al re se 'n viene.
Né,
perché irato il veggia, il piè ritira,
ma il fero
aspetto intrepida sostiene.
"Vengo, signor," gli disse
"e 'ntanto l'ira
prego sospenda e 'l tuo popolo
affrene:
vengo a scoprirti, e vengo a darti preso
quel reo che
cerchi, onde sei tanto offeso."
A
l'onesta baldanza, a l'improviso
folgorar di bellezze altere e
sante,
quasi confuso il re, quasi conquiso,
frenò lo
sdegno, e placò il fer sembiante.
S'egli era d'alma o se
costei di viso
severa manco, ei diveniane amante;
ma ritrosa
beltà ritroso core
non prende, e sono i vezzi esca d'Amore.
Fu stupor, fu
vaghezza, e fu diletto,
s'amor non fu, che mosse il cor
villano.
"Narra" ei le dice "il tutto; ecco, io
commetto
che non s'offenda il popol tuo cristiano."
Ed
ella: "Il reo si trova al tuo cospetto:
opra è il
furto, signor, di questa mano;
io l'imagine tolsi, io son
colei
che tu ricerchi, e me punir tu déi."
Cosí al
publico fato il capo altero
offerse, e 'l volse in sé sola
raccòrre.
Magnanima menzogna, or quand'è il vero
sí
bello che si possa a te preporre?
Riman sospeso, e non sí
tosto il fero
tiranno a l'ira, come suol, trascorre.
Poi la
richiede: "I' vuo' che tu mi scopra
chi diè consiglio,
e chi fu insieme a l'opra."
"Non
volsi far de la mia gloria altrui
né pur minima parte";
ella gli dice
"sol di me stessa io consapevol fui,
sol
consigliera, e sola essecutrice."
"Dunque in te sola"
ripigliò colui
"caderà l'ira mia
vendicatrice."
Diss'ella: "È giusto: esser a me
conviene,
se fui sola a l'onor, sola a le pene."
Qui
comincia il tiranno a risdegnarsi;
poi le dimanda: "Ov'hai
l'imago ascosa?"
"Non la nascosi," a lui risponde
"io l'arsi,
e l'arderla stimai laudabil cosa;
cosí
almen non potrà piú violarsi
per man di miscredenti
ingiuriosa.
Signore, o chiedi il furto, o 'l ladro chiedi:
quel
no 'l vedrai in eterno, e questo il vedi.
Benché
né furto è il mio, né ladra i' sono:
giust'è
ritòr ciò ch'a gran torto è tolto."
Or,
quest'udendo, in minaccievol suono
freme il tiranno, e 'l fren de
l'ira è sciolto.
Non speri piú di ritrovar
perdono
cor pudico, alta mente e nobil volto;
e 'ndarno Amor
contr'a lo sdegno crudo
di sua vaga bellezza a lei fa scudo.
Presa è la
bella donna, e 'ncrudelito
il re la danna entr'un incendio a
morte.
Già 'l velo e 'l casto manto a lei rapito,
stringon
le molli braccia aspre ritorte.
Ella si tace, e in lei non
sbigottito,
ma pur commosso alquanto è il petto forte;
e
smarrisce il bel volto in un colore
che non è pallidezza,
ma candore.
Divulgossi
il gran caso, e quivi tratto
già 'l popol s'era: Olindo
anco v'accorse.
Dubbia era la persona e certo il fatto;
venia,
che fosse la sua donna in forse.
Come la bella prigionera in
atto
non pur di rea, ma di dannata ei scorse,
come i ministri
al duro ufficio intenti
vide, precipitoso urtò le genti.
Al re gridò:
"Non è, non è già rea
costei del furto,
e per follia se 'n vanta.
Non pensò, non ardí, né
far potea
donna sola e inesperta opra cotanta.
Come ingannò
i custodi? e de la Dea
con qual arti involò l'imagin
santa?
Se 'l fece, il narri. Io l'ho, signor, furata."
Ahi!
tanto amò la non amante amata.
Soggiunse
poscia: "Io là, donde riceve
l'alta vostra meschita e
l'aura e 'l die,
di notte ascesi, e trapassai per breve
fòro
tentando inaccessibil vie.
A me l'onor, la morte a me si deve:
non
usurpi costei le pene mie.
Mie son quelle catene, e per me
questa
fiamma s'accende, e 'l rogo a me s'appresta."
Alza Sofronia il
viso, e umanamente
con occhi di pietade in lui rimira.
"A
che ne vieni, o misero innocente?
qual consiglio o furor ti guida
o tira?
Non son io dunque senza te possente
a sostener ciò
che d'un uom può l'ira?
Ho petto anch'io, ch'ad una morte
crede
di bastar solo, e compagnia non chiede."
Cosí
parla a l'amante; e no 'l dispone
sí ch'egli si disdica, e
pensier mute.
Oh spettacolo grande, ove a tenzone
sono Amore e
magnanima virtute!
ove la morte al vincitor si pone
in premio,
e 'l mai del vinto è la salute!
Ma piú s'irrita il
re quant'ella ed esso
è piú costante in incolpar se
stesso.
Pargli
che vilipeso egli ne resti,
e ch'in disprezzo suo sprezzin le
pene.
"Credasi" dice "ad ambo; e quella e
questi
vinca, e la palma sia qual si conviene."
Indi
accenna a i sergenti, i quai son presti
a legar il garzon di lor
catene.
Sono ambo stretti al palo stesso; e vòlto
è
il tergo al tergo, e 'l volto ascoso al volto.
Composto
è lor d'intorno il rogo omai,
e già le fiamme il
mantice v'incita,
quand'il fanciullo in dolorosi lai
proruppe,
e disse a lei ch'è seco unita:
"Quest'è dunque
quel laccio ond'io sperai
teco accoppiarmi in compagnia di
vita?
questo è quel foco ch'io credea ch'i cori
ne
dovesse infiammar d'eguali ardori?
Altre
fiamme, altri nodi Amor promise,
altri ce n'apparecchia iniqua
sorte.
Troppo, ahi! ben troppo, ella già noi divise,
ma
duramente or ne congiunge in morte.
Piacemi almen, poich'in sí
strane guise
morir pur déi, del rogo esser consorte,
se
del letto non fui; duolmi il tuo fato,
il mio non già,
poich'io ti moro a lato.
Ed
oh mia sorte aventurosa a pieno!
oh fortunati miei dolci
martíri!
s'impetrarò che, giunto seno a
seno,
l'anima mia ne la tua bocca io spiri;
e venendo tu meco a
un tempo meno,
in me fuor mandi gli ultimi sospiri."
Cosí
dice piangendo. Ella il ripiglia
soavemente, e 'n tai detti il
consiglia:
"Amico,
altri pensieri, altri lamenti,
per piú alta cagione il
tempo chiede.
Ché non pensi a tue colpe? e non
rammenti
qual Dio prometta a i buoni ampia mercede?
Soffri in
suo nome, e fian dolci i tormenti,
e lieto aspira a la superna
sede.
Mira 'l ciel com'è bello, e mira il sole
ch'a sé
par che n'inviti e ne console."
Qui
il vulgo de' pagani il pianto estolle:
piange il fedel, ma in voci
assai piú basse.
Un non so che d'inusitato e molle
par
che nel duro petto al re trapasse.
Ei presentillo, e si sdegnò;
né volle
piegarsi, e gli occhi torse, e si ritrasse.
Tu
sola il duol comun non accompagni,
Sofronia; e pianta da ciascun,
non piagni.
Mentre
sono in tal rischio, ecco un guerriero
(ché tal parea)
d'alta sembianza e degna;
e mostra, d'arme e d'abito
straniero,
che di lontan peregrinando vegna.
La tigre, che su
l'elmo ha per cimiero,
tutti gli occhi a sé trae, famosa
insegna.
insegna usata da Clorinda in guerra;
onde la credon
lei, né 'l creder erra.
Costei
gl'ingegni feminili e gli usi
tutti sprezzò sin da l'età
piú acerba:
a i lavori d'Aracne, a l'ago, a i fusi
inchinar
non degnò la man superba.
Fuggí gli abiti molli e i
lochi chiusi,
ché ne' campi onestate anco si serba;
armò
d'orgoglio il volto, e si compiacque
rigido farlo, e pur rigido
piacque.
Tenera
ancor con pargoletta destra
strinse e lentò d'un corridore
il morso;
trattò l'asta e la spada, ed in palestra
indurò
i membri ed allenogli al corso.
Poscia o per via montana o per
silvestra
l'orme seguí di fer leone e d'orso;
seguí
le guerre, e 'n esse e fra le selve
fèra a gli uomini
parve, uomo a le belve.
Viene
or costei da le contrade perse
perch'a i cristiani a suo poter
resista,
bench'altre volte ha di lor membra asperse
le piaggie,
e l'onda di lor sangue ha mista.
Or quivi in arrivando a lei
s'offerse
l'apparato di morte a prima vista.
Di mirar vaga e di
saper qual fallo
condanni i rei, sospinge oltre il cavallo.
Cedon le turbe, e
i duo legati insieme
ella si ferma a riguardar da presso.
Mira
che l'una tace e l'altro geme,
e piú vigor mostra il men
forte sesso.
Pianger lui vede in guisa d'uom cui preme
pietà,
non doglia, o duol non di se stesso;
e tacer lei con gli occhi ai
ciel sí fisa
ch'anzi 'l morir par di qua giú divisa.
Clorinda
intenerissi, e si condolse
d'ambeduo loro e lagrimonne
alquanto.
Pur maggior sente il duol per chi non duolse,
piú
la move il silenzio e meno il pianto.
Senza troppo indugiare ella
si volse
ad un uom che canuto avea da canto:
"Deh! dimmi:
chi son questi? ed al martoro
qual gli conduce o sorte o colpa
loro?"
Cosí
pregollo, e da colui risposto
breve ma pieno a le dimande
fue.
Stupissi udendo, e imaginò ben tosto
ch'egualmente
innocenti eran que' due.
Già di vietar lor morte ha in sé
proposto,
quanto potranno i preghi o l'armi sue.
Pronta accorre
a la fiamma, e fa ritrarla,
che già s'appressa, ed a i
ministri parla:
"Alcun
non sia di voi che 'n questo duro
ufficio oltra seguire abbia
baldanza,
sin ch'io non parli al re: ben v'assecuro
ch'ei non
v'accuserà de la tardanza."
Ubidiro i sergenti, e
mossi furo
da quella grande sua regal sembianza.
Poi verso il
re si mosse, e lui tra via
ella trovò che 'ncontra lei
venia.
"Io
son Clorinda:" disse "hai forse intesa
talor nomarmi; e
qui, signor, ne vegno
per ritrovarmi teco a la difesa
de la
fede comune e del tuo regno.
Son pronta, imponi pure, ad ogni
impresa:
l'alte non temo, e l'umili non sdegno;
voglimi in
campo aperto, o pur tra 'l chiuso
de le mura impiegar, nulla
ricuso."
Tacque;
e rispose il re: "Qual sí disgiunta
terra è da
l'Asia, o dal camin del sole,
vergine gloriosa, ove non giunta
sia
la tua fama, e l'onor tuo non vòle?
Or che s'è la
tua spada a me congiunta,
d'ogni timor m'affidi e mi console:
non,
s'essercito grande unito insieme
fosse in mio scampo, avrei piú
certa speme.
Già
già mi par ch'a giunger qui Goffredo
oltra il dover indugi;
or tu dimandi
ch'impieghi io te: sol di te degne credo
l'imprese
malagevoli e le grandi.
Sovr'a i nostri guerrieri a te concedo
lo
scettro, e legge sia quel che comandi."
Cosí parlava.
Ella rendea cortese
grazie per lodi, indi il parlar riprese:
"Nova cosa
parer dovrà per certo
che preceda a i servigi il
guiderdone;
ma tua bontà m'affida: i' vuo' ch'in merto
del
futuro servir que' rei mi done.
In don gli chieggio: e pur, se 'l
fallo è incerto
gli danna inclementissima ragione;
ma
taccio questo, e taccio i segni espressi
onde argomento
l'innocenza in essi.
E
dirò sol ch'è qui comun sentenza
che i cristiani
togliessero l'imago;
ma discordo io da voi, né però
senza
alta ragion del mio parer m'appago.
Fu de le nostre leggi
irriverenza
quell'opra far che persuase il mago:
ché non
convien ne' nostri tèmpi a nui
gl'idoli avere, e men
gl'idoli altrui.
Dunque
suso a Macon recar mi giova
il miracol de l'opra, ed ei la
fece
per dimostrar ch'i tèmpi suoi con nova
religion
contaminar non lece.
Faccia Ismeno incantando ogni sua prova,
egli
a cui le malie son d'arme in vece;
trattiamo il ferro pur noi
cavalieri:
quest'arte è nostra, e 'n questa sol si speri."
Tacque, ciò
detto; e 'l re, bench'a pietade
l'irato cor difficilmente
pieghi,
pur compiacer la volle; e 'l persuade
ragione, e 'l
move autorità di preghi.
"Abbian vita" rispose "e
libertade,
e nulla a tanto intercessor si neghi.
Siasi questa o
giustizia over perdono,
innocenti gli assolvo, e rei gli dono."
Cosí furon
disciolti. Aventuroso
ben veramente fu d'Olindo il fato,
ch'atto
poté mostrar che 'n generoso
petto al fine ha d'amore amor
destato.
Va dal rogo a le nozze; ed è già
sposo
fatto di reo, non pur d'amante amato.
Volse con lei
morire: ella non schiva,
poi che seco non muor, che seco viva.
Ma il sospettoso
re stimò periglio
tanta virtú congiunta aver
vicina;
onde, com'egli volse, ambo in essiglio
oltra i termini
andàr di Palestina.
Ei, pur seguendo il suo crudel
consiglio,
bandisce altri fedeli, altri confina.
Oh come
lascian mesti i pargoletti
figli, e gli antichi padri e i dolci
letti!
Dura
division! scaccia sol quelli
di forte corpo e di feroce
ingegno;
ma il mansueto sesso, e gli anni imbelli
seco ritien,
sí come ostaggi, in pegno.
Molti n'andaro errando, altri
rubelli
fèrsi, e piú che 'l timor poté lo
sdegno.
Questi unírsi co' Franchi, e gl'incontraro
a
punto il dí che 'n Emaús entraro.
Emaús
è città cui breve strada
da la regal Gierusalem
disgiunge,
ed uom che lento a suo diporto vada,
se parte
matutino, a nona giunge.
Oh quant'intender questo a i Franchi
aggrada!
Oh quanto piú 'l desio gli affretta e punge!
Ma
perch'oltra il meriggio il sol già scende,
qui fa spiegare
il capitan le tende.
L'avean
già tese, e poco era remota
l'alma luce del sol da
l'oceano,
quando duo gran baroni in veste ignota
venir son
visti, e 'n portamento estrano.
Ogni atto lor pacifico dinota
che
vengon come amici al capitano.
Del gran re de l'Egitto eran
messaggi,
e molti intorno avean scudieri e paggi.
Alete
è l'un, che da principio indegno
tra le brutture de la
plebe è sorto;
ma l'inalzaro a i primi onor del
regno
parlar facondo e lusinghiero e scòrto,
pieghevoli
costumi e vario ingegno
al finger pronto, a l'ingannare
accorto:
gran fabro di calunnie, adorne in modi
novi, che sono
accuse, e paion lodi.
L'altro
è il circasso Argante, uom che straniero
se 'n venne a la
regal corte d'Egitto;
ma de' satrapi fatto è de l'impero,
e
in sommi gradi a la milizia ascritto:
impaziente, inessorabil,
fero,
ne l'arme infaticabile ed invitto,
d'ogni dio
sprezzatore, e che ripone
ne la spada sua legge e sua ragione.
Chieser questi
udienza ed al cospetto
del famoso Goffredo ammessi entraro,
e
in umil seggio e in un vestire schietto
fra' suoi duci sedendo il
ritrovaro;
ma verace valor, benché negletto,
è di
se stesso a sé fregio assai chiaro.
Picciol segno d'onor
gli fece Argante,
in guisa pur d'uom grande e non curante.
Ma la destra si
pose Alete al seno,
e chinò il capo, e piegò a terra
i lumi,
e l'onorò con ogni modo a pieno
che di sua gente
portino i costumi.
Cominciò poscia, e di sua bocca
uscièno
piú che mèl dolci d'eloquenza i
fiumi;
e perché i Franchi han già il sermone
appreso
de la Soria, fu ciò ch'ei disse inteso.
"O
degno sol cui d'ubidire or degni
questa adunanza di famosi
eroi,
che per l'adietro ancor le palme e i regni
da te conobbe
e da i consigli tuoi,
il nome tuo, che non riman tra i
segni
d'Alcide, omai risuona anco fra noi,
e la fama d'Egitto
in ogni parte
del tuo valor chiare novelle ha sparte.
Né
v'è fra tanti alcun che non le ascolte
come egli suol le
meraviglie estreme,
ma dal mio re con istupore accolte
sono non
sol, ma con diletto insieme;
e s'appaga in narrarle anco e le
volte,
amando in te ciò ch'altri invidia e teme:
ama il
valore, e volontario elegge
teco unirsi d'amor, se non di legge.
Da sí
bella cagion dunque sospinto,
l'amicizia e la pace a te
richiede,
e l' mezzo onde l'un resti a l'altro avinto
sia la
virtú s'esser non può la fede.
Ma perché
inteso avea che t'eri accinto
per iscacciar l'amico suo di
sede,
volse, pria ch'altro male indi seguisse,
ch'a te la mente
sua per noi s'aprisse.
E
la sua mente è tal, che s'appagarti
vorrai di quanto hai
fatto in guerra tuo,
né Giudea molestar, né l'altre
parti
che ricopre il favor del regno suo,
ei promette a
l'incontro assecurarti
il non ben fermo stato. E se voi duo
sarete
uniti, or quando i Turchi e i Persi
potranno unqua sperar di
riaversi?
Signor,
gran cose in picciol tempo hai fatte
che lunga età porre in
oblio non pote:
esserciti, città, vinti, disfatte,
superati
disagi e strade ignote,
sí ch'al grido o smarrite o
stupefatte
son le provincie intorno e le remote;
e se ben
acquistar puoi novi imperi,
acquistar nova gloria indarno speri.
Giunta è
tua gloria al sommo, e per l'inanzi
fuggir le dubbie guerre a te
conviene,
ch'ove tu vinca, sol di stato avanzi,
né tua
gloria maggior quinci diviene;
ma l'imperio acquistato e preso
inanzi
e l'onor perdi, se 'l contrario aviene.
Ben gioco è
di fortuna audace e stolto
por contra il poco e incerto il certo e
'l molto.
Ma
il consiglio di tal cui forse pesa
ch'altri gli acquisti a lungo
ancor conserve,
e l'aver sempre vinto in ogni impresa,
e quella
voglia natural, che ferve
e sempre è piú ne' cor piú
grandi accesa,
d'aver le genti tributarie e serve,
faran per
aventura a te la pace
fuggir, piú che la guerra altri non
face.
T'essorteranno
a seguitar la strada
che t'è dal fato largamente aperta,
a
non depor questa famosa spada,
al cui valore ogni vittoria è
certa,
sin che la legge di Macon non cada,
sin che l'Asia per
te non sia deserta:
dolci cose ad udir e dolci inganni
ond'escon
poi sovente estremi danni.
Ma
s'animosità gli occhi non benda,
né il lume oscura
in te de la ragione,
scorgerai, ch'ove tu la guerra prenda,
hai
di temer, non di sperar cagione,
ché fortuna qua giú
varia a vicenda
mandandoci venture or triste or buone,
ed ai
voli troppo alti e repentini
sogliono i precipizi esser vicini.
Dimmi: s'a' danni
tuoi l'Egitto move,
d'oro e d'arme potente e di consiglio,
e
s'avien che la guerra anco rinove
il Perso e 'l Turco e di Cassano
il figlio,
quai forzi opporre a sí gran furia o
dove
ritrovar potrai scampo al tuo periglio?
T'affida forse il
re malvagio greco
il qual da i sacri patti unito è teco?
La fede greca a
chi non è palese?
Tu da un sol tradimento ogni altro
impara,
anzi da mille, perché mille ha tese
insidie a
voi la gente infida, avara.
Dunque chi dianzi il passo a voi
contese,
per voi la vita esporre or si prepara?
chi le vie che
comuni a tutti sono
negò, del proprio sangue or farà
dono?
Ma forse
hai tu riposta ogni tua speme
in queste squadre ond'ora cinto
siedi.
Quei che sparsi vincesti, uniti insieme
di vincer anco
agevolmente credi,
se ben son le tue schiere or molto sceme
tra
le guerre e i disagi, e tu te 'l vedi;
se ben novo nemico a te
s'accresce
e co' Persi e co' Turchi Egizi mesce.
Or
quando pure estimi esser fatale
che non ti possa il ferro vincer
mai,
siati concesso, e siati a punto tale
il decreto del Ciel
qual tu te l' fai;
vinceratti la fame: a questo male
che
rifugio, per Dio, che schermo avrai?
Vibra contra costei la
lancia, e stringi
la spada, e la vittoria anco ti fingi.
Ogni campo
d'intorno arso e distrutto
ha la provida man de gli abitanti,
e
'n chiuse mura e 'n alte torri il frutto
riposto, al tuo venir piú
giorni inanti.
Tu ch'ardito sin qui ti sei condutto,
onde speri
nutrir cavalli e fanti?
Dirai: `L'armata in mar cura ne
prende.'
Da i venti dunque il viver tuo dipende?
Comanda
forse tua fortuna a i venti,
e gli avince a sua voglia e gli
dislega?
e 'l mar ch'a i preghi è sordo ed a i lamenti,
te
sol udendo, al tuo voler si piega?
O non potranno pur le nostre
genti,
e le perse e le turche unite in lega,
cosí
potente armata in un raccòrre
ch'a questi legni tuoi si
possa opporre?
Doppia
vittoria a te, signor, bisogna,
s'hai de l'impresa a riportar
l'onore.
Una perdita sola alta vergogna
può cagionarti e
danno anco maggiore:
ch'ove la nostra armata in rotta pogna
la
tua, qui poi di fame il campo more;
e se tu sei perdente, indarno
poi
saran vittoriosi i legni tuoi.
Ora
se in tale stato anco rifiuti
co 'l gran re de l'Egitto e pace e
tregua,
(diasi licenza ai ver) l'altre virtuti
questo consiglio
tuo non bene adegua.
Ma voglia il Ciel che 'l tuo pensier si
muti,
s'a guerra è vòlto, e che 'l contrario
segua,
sí che l'Asia respiri omai da i lutti,
e goda tu
de la vittoria i frutti.
Né
voi che del periglio e de gli affanni
e de la gloria a lui sète
consorti,
il favor di fortuna or tanto inganni
che nove guerre
a provocar v'essorti.
Ma qual nocchier che da i marini
inganni
ridutti ha i legni a i desiati porti,
raccòr
dovreste omai le sparse vele,
né fidarvi di novo al mar
crudele."
Qui
tacque Alete, e 'l suo parlar seguiro
con basso mormorar que'
forti eroi;
e ben ne gli atti disdegnosi apriro
quanto ciascun
quella proposta annoi.
Il capitan rivolse gli occhi in giro
tre
volte e quattro, e mirò in fronte i suoi,
e poi nel volto
di colui gli affisse
ch'attendea la risposta, e cosí disse:
"Messaggier,
dolcemente a noi sponesti
ora cortese, or minaccioso invito.
Se
'l tuo re m'ama e loda i nostri gesti,
è sua mercede, e m'è
l'amor gradito.
A quella parte poi dove protesti
la guerra a
noi del paganesmo unito,
risponderò, come da me si
suole,
liberi sensi in semplici parole.
Sappi
che tanto abbiam sin or sofferto
in mare, in terra, a l'aria
chiara e scura,
solo acciò che ne fosse il calle aperto
a
quelle sacre e venerabil mura,
per acquistarne appo Dio grazia e
merto
togliendo lor di servitú sí dura,
né
mai grave ne fia per fin sí degno
esporre onor mondano e
vita e regno;
ché
non ambiziosi avari affetti
ne spronaro a l'impresa, e ne fur
guida
(sgombri il Padre del Ciel da i nostri petti
peste sí
rea, s'in alcun pur s'annida;
né soffra che l'asperga, e
che l'infetti
di venen dolce che piacendo ancida),
ma la sua
man ch'i duri cor penètra
soavemente, e gli ammollisce e
spetra.
Questa ha
noi mossi e questa ha noi condutti,
tratti d'ogni periglio e
d'ogni impaccio;
questa fa piani i monti e i fiumi
asciutti,
l'ardor toglie a la state, al verno il ghiaccio;
placa
del mare i tempestosi flutti,
stringe e rallenta questa a i venti
il laccio;
quindi son l'alte mura aperte ed arse,
quindi
l'armate schiere uccise e sparse;
quindi
l'ardir, quindi la speme nasce,
non da le frali nostre forze e
stanche,
non da l'armata, e non da quante pasce
genti la Grecia
e non da l'arme franche.
Pur ch'ella mai non ci abbandoni e
lasce,
poco dobbiam curar ch'altri ci manche.
Chi sa come
difende e come fère,
soccorso a i suoi perigli altro non
chere.
Ma quando
di sua aita ella ne privi,
per gli error nostri o per giudizi
occulti,
chi fia di noi ch'esser sepulto schivi
ove i membri di
Dio fur già sepulti?
Noi morirem, né invidia avremo
a i vivi;
noi morirem, ma non morremo inulti,
né l'Asia
riderà di nostra sorte,
né pianta fia da noi la
nostra morte.
Non
creder già che noi fuggiam la pace
come guerra mortal si
fugge e pave,
ché l'amicizia del tuo re ne piace,
né
l'unirci con lui ne sarà grave;
ma s'al suo impero la
Giudea soggiace,
tu 'l sai; perché tal cura ei dunque
n'have?
De' regni altrui l'acquisto ei non ci vieti,
e regga in
pace i suoi tranquilli e lieti."
Cosí
rispose, e di pungente rabbia
la risposta ad Argante il cor
trafisse;
né 'l celò già, ma con enfiate
labbia
si trasse avanti al capitano e disse:
"Chi la pace
non vuol, la guerra s'abbia,
ché penuria giamai non fu di
risse;
e ben la pace ricusar tu mostri,
se non t'acqueti a i
primi detti nostri."
Indi
il suo manto per lo lembo prese,
curvollo e fenne un seno; e 'l
seno sporto,
cosí pur anco a ragionar riprese
via piú
che prima dispettoso e torto:
"O sprezzator de le piú
dubbie imprese,
e guerra e pace in questo sen t'apporto:
tua
sia l'elezione; or ti consiglia
senz'altro indugio, e qual piú
vuoi ti piglia."
L'atto
fero e 'l parlar tutti commosse
a chiamar guerra in un concorde
grido,
non attendendo che risposto fosse
dal magnanimo lor duce
Goffrido.
Spiegò quel crudo il seno e 'l manto scosse,
ed:
"A guerra mortal" disse "vi sfido";
e 'l disse
in atto sí feroce ed empio
che parve aprir di Giano il
chiuso tempio.
Parve
ch'aprendo il seno indi traesse
il Furor pazzo e la Discordia
fera,
e che ne gli occhi orribili gli ardesse
la gran face
d'Aletto e di Megera.
Quel grande già che 'ncontra il cielo
eresse
l'alta mole d'error, forse tal era;
e in cotal atto il
rimirò Babelle
alzar la fronte e minacciar le stelle.
Soggiunse allor
Goffredo: "Or riportate
al vostro re che venga, e che
s'affretti,
che la guerra accettiam che minacciate;
e s'ei non
vien, fra 'l Nilo suo n'aspetti."
Accommiatò lor
poscia in dolci e grate
maniere, e gli onorò di doni
eletti.
Ricchissimo ad Alete un elmo diede
ch'a Nicea conquistò
fra l'altre prede.
Ebbe
Argante una spada; e 'l fabro egregio
l'else e 'l pomo le fe'
gemmato e d'oro,
con magistero tal che perde il pregio
de la
ricca materia appo il lavoro.
Poi che la tempra e la ricchezza e
'l fregio
sottilmente da lui mirati foro,
disse Argante al
Buglion: "Vedrai ben tosto
come da me il tuo dono in uso è
posto."
Indi
tolto il congedo, è da lui ditto
al suo compagno: "Or
ce n'andremo omai,
io a Gierusalem, tu verso Egitto,
tu co 'l
sol novo, io co' notturni rai,
ch'uopo o di mia presenza, o di mio
scritto
essere non può colà dove tu vai.
Reca tu
la risposta, io dilungarmi
quinci non vuo', dove si trattan
l'armi."
Cosí
di messaggier fatto è nemico,
sia fretta intempestiva o sia
matura:
la ragion de le genti e l'uso antico
s'offenda o no, né
'l pensa egli, né 'l cura.
Senza risposta aver, va per
l'amico
silenzio de le stelle a l'alte mura,
d'indugio
impaziente, ed a chi resta
già non men la dimora anco è
molesta.
Era la
notte allor ch'alto riposo
han l'onde e i venti, e parea muto il
mondo.
Gli animai lassi, e quei che 'l mar ondoso
o de liquidi
laghi alberga il fondo,
e chi si giace in tana o in mandra
ascoso,
e i pinti augelli, ne l'oblio profondo
sotto il
silenzio de' secreti orrori
sopian gli affanni e raddolciano i
cori.
Ma né
'l campo fedel, né 'l franco duca
si discioglie nel sonno,
o almen s'accheta,
tanta in lor cupidigia è che riluca
omai
nel ciel l'alba aspettata e lieta,
perché il camin lor
mostri, e li conduca
a la città ch'al gran passaggio è
mèta.
Mirano ad or ad or se raggio alcuno
spunti, o si
schiari de la notte il bruno.
Argomento
Giunge a Gierusalemme
il campo: e quivi
In fera guisa è da Clorinda
accolto.
Sveglia in Erminia amor Tancredi: e vivi
Fa i propri
incendj al discoprir d'un volto.
Restan gli Avventurier di duce
privi:
Ch'un sol colpo d'Argante a lor l'ha tolto.
Pietose
esequie fangli. Il pio Buglione,
Ch'antica selva si recida,
impone.
Già l'aura
messaggiera erasi desta
a nunziar che se ne vien l'aurora;
ella
intanto s'adorna, e l'aurea testa
di rose colte in paradiso
infiora,
quando il campo, ch'a l'arme omai s'appresta,
in voce
mormorava alta e sonora,
e prevenia le trombe; e queste poi
dièr
piú lieti e canori i segni suoi.
Il
saggio capitan con dolce morso
i desideri lor guida e seconda,
ché
piú facil saria svolger il corso
presso Cariddi a la
volubil onda,
o tardar Borea allor che scote il dorso,
de
l'Apennino, e i legni in mare affonda.
Gli ordina, gl'incamina, e
'n suon gli regge
rapido sí, ma rapido con legge.
Ali ha ciascuno
al core ed ali al piede,
né del suo ratto andar però
s'accorge;
ma quando il sol gli aridi campi fiede
con raggi
assai ferventi e in alto sorge,
ecco apparir Gierusalem si
vede,
ecco additar Gierusalem si scorge,
ecco da mille voci
unitamente
Gierusalemme salutar si sente.
Cosí
di naviganti audace stuolo,
che mova a ricercar estranio lido,
e
in mar dubbioso e sotto ignoto polo
provi l'onde fallaci e 'l
vento infido,
s'al fin discopre il desiato suolo,
il saluta da
lunge in lieto grido,
e l'uno a l'altro il mostra, e intanto
oblia
la noia e 'l mal de la passata via.
Al
gran piacer che quella prima vista
dolcemente spirò ne
l'altrui petto,
alta contrizion successe, mista
di timoroso e
riverente affetto.
Osano a pena d'inalzar la vista
vèr
la città, di Cristo albergo eletto,
dove morí, dove
sepolto fue,
dove poi rivestí le membra sue.
Semmessi accenti
e tacite parole,
rotti singulti e flebili sospiri
de la gente
ch'in un s'allegra e duole,
fan che per l'aria un mormorio
s'aggiri
qual ne le folte selve udir si suole
s'avien che tra
le frondi il vento spiri,
o quale infra gli scogli o presso a i
lidi
sibila il mar percosso in rauchi stridi.
Nudo
ciascuno il piè calca il sentiero,
ché l'essempio
de' duci ogn'altro move,
serico fregio o d'or, piuma o
cimiero
superbo dal suo capo ognun rimove;
ed insieme del cor
l'abito altero
depone, e calde e pie lagrime piove.
Pur quasi
al pianto abbia la via rinchiusa,
cosí parlando ognun se
stesso accusa:
«Dunque
ove tu, Signor, di mille rivi
sanguinosi il terren lasciasti
asperso,
d'amaro pianto almen duo fonti vivi
in sí
acerba memoria oggi io non verso?
Agghiacciato mio cor, ché
non derivi
per gli occhi e stilli in lagrime converso?
Duro mio
cor, ché non ti spetri e frangi?
Pianger ben merti ognor,
s'ora non piangi.
De la
cittade intanto un ch'a la guarda
sta d'alta torre, e scopre i
monti e i campi,
colà giuso la polve alzarsi guarda,
sí
che par che gran nube in aria stampi:
par che baleni quella nube
ed arda,
come di fiamme gravida e di lampi;
poi lo splendor de'
lucidi metalli,
distingue, e scerne gli uomini e i cavalli.
Allor gridava:
"Oh qual per l'aria stesa
polvere i' veggio! oh come par che
splenda!
Su, suso, o cittadini, a la difesa
s'armi ciascun
veloce, e i muri ascenda:
già presente è il nemico."
E poi, ripresa
la voce: "Ognun s'affretti, e l'arme
prenda;
ecco, il nemico è qui: mira la polve
che sotto
orrida nebbia il ciel involve."
I
semplici fanciulli, e i vecchi inermi,
e 'l vulgo de le donne
sbigottite,
che non sanno ferir né fare schermi,
traean
supplici e mesti a le meschite.
Gli altri di membra e d'animo piú
fermi
già frettolosi l'arme avean rapite.
Accorre altri
a le porte, altri a le mura;
il re va intorno, e 'l tutto vede e
cura.
Gli ordini
diede, e poscia ei si ritrasse
ove sorge una torre infra due
porte,
sí ch'è presso al bisogno; e son piú
basse
quindi le piaggie e le montagne scorte.
Volle che quivi
seco Erminia andasse,
Erminia bella, ch'ei raccolse in corte
poi
ch'a lei fu da le cristiane squadre
presa Antiochia, e morto il re
suo padre.
Clorinda
intanto incontra a i Franchi è gita:
molti van seco, ed
ella a tutti è inante;
ma in altra parte, ond'è
secreta uscita,
sta preparato a le riscosse Argante.
La
generosa i suoi seguaci incita
co' detti e con l'intrepido
sembiante:
"Ben con alto principio a noi conviene"
dicea
"fondar de l'Asia oggi la spene."
Mentre
ragiona a i suoi, non lunge scorse
un franco stuol addur rustiche
prede,
che, com'è l'uso, a depredar precorse;
or con
greggie ed armenti al campo riede.
Ella vèr lor, e verso
lei se 'n corse
il duce lor, ch'a sé venir la vede.
Gardo
il duce è nomato, uom di gran possa,
ma non già tal
ch'a lei resister possa.
Gardo
a quel fero scontro è spinto a terra
in su gli occhi de'
Franchi e de' pagani,
ch'allor tutti gridàr, di quella
guerra
lieti augúri prendendo, i quai fur vani.
Spronando
adosso a gli altri ella si serra,
e val la destra sua per cento
mani.
Seguirla i suoi guerrier per quella strada
che spianàr
gli urti, e che s'aprí la spada.
Tosto
la preda al predator ritoglie;
cede lo stuol de' Franchi a poco a
poco,
tanto ch'in cima a un colle ei si raccoglie,
ove aiutate
son l'arme dal loco.
Allor, sí come turbine si scioglie
e
cade da le nubi aereo fuoco,
il buon Tancredi, a cui Goffredo
accenna,
sua squadra mosse, ed arrestò l'antenna.
Porta sí
salda la gran lancia, e in guisa
vien feroce e leggiadro il
giovenetto,
che veggendolo d'alto il re s'avisa
che sia
guerriero infra gli scelti eletto.
Onde dice a colei ch'è
seco assisa,
e che già sente palpitarsi il petto:
"Ben
conoscer déi tu per sí lungo uso
ogni cristian,
benché ne l'arme chiuso.
Chi
è dunque costui, che cosí bene
s'adatta in giostra,
e fero in vista è tanto?"
A quella, in vece di
risposta, viene
su le labra un sospir, su gli occhi il pianto.
Pur
gli spirti e le lagrime ritiene,
ma non cosí che lor non
mostri alquanto:
ché gli occhi pregni un bel purpureo
giro
tinse, e roco spuntò mezzo il sospiro.
Poi
gli dice infingevole, e nasconde
sotto il manto de l'odio altro
desio:
"Oimè! bene il conosco, ed ho ben donde
fra
mille riconoscerlo deggia io,
ché spesso il vidi i campi e
le profonde
fosse del sangue empir del popol mio.
Ahi quanto è
crudo nel ferire! a piaga
ch'ei faccia, erba non giova od arte
maga.
Egli è
il prence Tancredi: oh prigioniero
mio fosse un giorno! e no 'l
vorrei già morto;
vivo il vorrei, perch'in me desse al
fero
desio dolce vendetta alcun conforto."
Cosí
parlava, e de' suoi detti il vero
da chi l'udiva in altro senso è
torto;
e fuor n'uscí con le sue voci estreme
misto un
sospir che 'ndarno ella già preme.
Clorinda
intanto ad incontrar l'assalto
va di Tancredi, e pon la lancia in
resta.
Ferírsi a le visiere, e i tronchi in alto
volaro
e parte nuda ella ne resta;
ché, rotti i lacci a l'elmo
suo, d'un salto
(mirabil colpo!) ei le balzò di testa;
e
le chiome dorate al vento sparse,
giovane donna in mezzo 'l campo
apparse.
Lampeggiàr
gli occhi, e folgoràr gli sguardi,
dolci ne l'ira; or che
sarian nel riso?
Tancredi, a che pur pensi? a che pur guardi?
non
riconosci tu l'altero viso?
Quest'è pur quel bel volto onde
tutt'ardi;
tuo core il dica, ov'è il suo essempio
inciso.
Questa è colei che rinfrescar la fronte
vedesti
già nel solitario fonte.
Ei
ch'al cimiero ed al dipinto scudo
non badò prima, or lei
veggendo impètra;
ella quanto può meglio il capo
ignudo
si ricopre, e l'assale; ed ei s'arretra.
Va contra gli
altri, e rota il ferro crudo;
ma però da lei pace non
impetra,
che minacciosa il segue, e: "Volgi" grida;
e
di due morti in un punto lo sfida.
Percosso,
il cavalier non ripercote,
né sí dal ferro a
riguardarsi attende,
come a guardar i begli occhi e le
gote
ond'Amor l'arco inevitabil tende.
Fra sé dicea:
"Van le percosse vote
talor, che la sua destra armata
stende;
ma colpo mai del bello ignudo volto
non cade in fallo,
e sempre il cor m'è colto."
Risolve
al fin, benché pietà non spere,
di non morir tacendo
occulto amante.
Vuol ch'ella sappia ch'un prigion suo fère
già
inerme, e supplichevole e tremante;
onde le dice: "O tu, che
mostri avere
per nemico me sol fra turbe tante,
usciam di
questa mischia, ed in disparte
i' potrò teco, e tu meco
provarte.
Cosí
me' si vedrà s'al tuo s'agguaglia
il mio valore." Ella
accettò l'invito:
e come esser senz'elmo a lei non
caglia,
gía baldanzosa, ed ei seguia smarrito.
Recata
s'era in atto di battaglia
già la guerriera, e già
l'avea ferito,
quand'egli: "Or ferma," disse "e
siano fatti
anzi la pugna de la pugna i patti."
Fermossi, e lui
di pauroso audace
rendé in quel punto il disperato
amore.
"I patti sian," dicea "poi che tu pace
meco
non vuoi, che tu mi tragga il core.
Il mio cor, non piú
mio, s'a te dispiace
ch'egli piú viva, volontario more:
è
tuo gran tempo, e tempo è ben che trarlo
omai tu debbia, e
non debb'io vietarlo.
Ecco
io chino le braccia, e t'appresento
senza difesa il petto: or ché
no 'l fiedi?
vuoi ch'agevoli l'opra? i' son contento
trarmi
l'usbergo or or, se nudo il chiedi."
Distinguea forse in piú
duro lamento
i suoi dolori il misero Tancredi,
ma calca
l'impedisce intempestiva
de' pagani e de' suoi che soprarriva.
Cedean cacciati
da lo stuol cristiano
i Palestini, o sia temenza od arte.
Un
de' persecutori, uomo inumano,
videle sventolar le chiome
sparte,
e da tergo in passando alzò la mano
per ferir
lei ne la sua ignuda parte;
ma Tancredi gridò, che se
n'accorse,
e con la spada a quel gran colpo occorse.
Pur
non gí tutto in vano, e ne' confini
del bianco collo il bel
capo ferille.
Fu levissima piaga, e i biondi crini
rosseggiaron
cosí d'alquante stille,
come rosseggia l'or che di
rubini
per man d'illustre artefice sfaville.
Ma il prence
infuriato allor si strinse
adosso a quel villano, e 'l ferro
spinse.
Quel si
dilegua, e questi acceso d'ira
il segue, e van come per l'aria
strale.
Ella riman sospesa, ed ambo mira
lontani molto, né
seguir le cale,
ma co' suoi fuggitivi si ritira:
talor mostra
la fronte e i Franchi assale;
or si volge or rivolge, or fugge or
fuga,
né si può dir la sua caccia né fuga.
Tal gran tauro
talor ne l'ampio agone,
se volge il corno a i cani ond'è
seguito,
s'arretran essi; e s'a fuggir si pone,
ciascun ritorna
a seguitarlo ardito.
Clorinda nel fuggir da tergo oppone
alto
lo scudo, e 'l capo è custodito.
Cosí coperti van
ne' giochi mori
da le palle lanciate i fuggitori.
Già
questi seguitando e quei fuggendo
s'erano a l'alte mura
avicinati,
quando alzaro i pagani un grido orrendo
e indietro
si fur subito voltati;
e fecero un gran giro, e poi
volgendo
ritornaro a ferir le spalle e i lati.
E intanto
Argante giú movea dal monte
la schiera sua per assalirgli a
fronte.
Il feroce
circasso uscí di stuolo,
ch'esser vols'egli il feritor
primiero,
e quegli in cui ferí fu steso al suolo,
e
sossopra in un fascio il suo destriero;
e pria che l'asta in
tronchi andasse a volo,
molti cadendo compagnia gli fèro.
Poi
stringe il ferro, e quando giunge a pieno
sempre uccide od abbatte
o piaga almeno.
Clorinda,
emula sua, tolse di vita
il forte Ardelio, uom già d'età
matura,
ma di vecchiezza indomita, e munita
di duo gran figli,
e pur non fu secura,
ch'Alcandro, il maggior figlio, aspra
ferita
rimosso avea da la paterna cura,
e Poliferno, che
restogli appresso,
a gran pena salvar poté se stesso.
Ma Tancredi,
dapoi ch'egli non giunge
quel villan che destriero ha piú
corrente,
si mira a dietro, e vede ben che lunge
troppo è
trascorsa la sua audace gente.
Vedela intorniata, e 'l corsier
punge
volgendo il freno, e là s'invia repente;
ned egli
solo i suoi guerrier soccorre,
ma quello stuol ch'a tutt'i rischi
accorre:
quel di
Dudon aventurier drapello,
fior de gli eroi, nerbo e vigor del
campo.
Rinaldo, il piú magnanimo e il piú
bello,
tutti precorre, ed è men ratto il lampo.
Ben
tosto il portamento e 'l bianco augello
conosce Erminia nel
celeste campo,
e dice al re, che 'n lui fisa lo sguardo:
"Eccoti
il domator d'ogni gagliardo.
Questi
ha nel pregio de la spada eguali
pochi, o nessuno; ed è
fanciullo ancora.
Se fosser tra' nemici altri sei tali,
già
Soria tutta vinta e serva fòra;
e già dómi
sarebbono i piú australi
regni, e i regni piú
prossimi a l'aurora;
e forse il Nilo occultarebbe in vano
dal
giogo il capo incognito e lontano.
Rinaldo
ha nome; e la sua destra irata
teman piú d'ogni machina le
mura.
Or volgi gli occhi ov'io ti mostro, e guata
colui che
d'oro e verde ha l'armatura.
Quegli è Dudone, ed è
da lui guidata
questa schiera, che schiera è di ventura:
è
guerrier d'alto sangue e molto esperto,
che d'età vince e
non cede di merto.
Mira
quel grande, ch'è coperto a bruno:
è Gernando, il
fratel del re norvegio;
non ha la terra uom piú superbo
alcuno,
questo sol de' suoi fatti oscura il pregio.
E son que'
duo che van sí giunti in uno,
e c'han bianco il vestir,
bianco ogni fregio,
Gildippe ed Odoardo, amanti e sposi,
in
valor d'arme e in lealtà famosi."
Cosí
parlava, e già vedean là sotto
come la strage piú
e piú s'ingrosse,
ché Tancredi e Rinaldo il cerchio
han rotto
benché d'uomini denso e d'armi fosse;
e poi lo
stuol, ch'è da Dudon condotto,
vi giunse, ed aspramente
anco il percosse.
Argante, Argante stesso, ad un grand'urto
di
Rinaldo abbattuto, a pena è surto.
Né
sorgea forse, ma in quel punto stesso
al figliuol di Bertoldo il
destrier cade;
e restandogli sotto il piede oppresso,
convien
ch'indi a ritrarlo alquanto bade.
Lo stuol pagan fra tanto, in
rotta messo,
si ripara fuggendo a la cittade.
Soli Argante e
Clorinda argine e sponda
sono al furor che lor da tergo inonda.
Ultimi vanno, e
l'impeto seguente
in lor s'arresta alquanto, e si reprime,
sí
che potean men perigliosamente
quelle genti fuggir che fuggean
prime.
Segue Dudon ne la vittoria ardente
i fuggitivi, e 'l fer
Tigrane opprime
con l'urto del cavallo, e con la spada
fa che
scemo del capo a terra cada.
Né
giova ad Algazarre il fino usbergo,
ned e Corban robusto il forte
elmetto,
ché 'n guisa lor ferí la nuca e 'l
tergo
che ne passò la piaga al viso, al petto.
E per sua
mano ancor del dolce albergo
l'alma uscí d'Amurate e di
Meemetto,
e del crudo Almansor; né 'l gran circasso
può
securo da lui mover un passo.
Freme
in se stesso Argante, e pur tal volta
si ferma e volge, e poi cede
pur anco.
Al fin cosí improviso a lui si volta,
e di
tanto rovescio il coglie al fianco,
che dentro il ferro vi
s'immerge, e tolta
è dal colpo la vita al duce
franco.
Cade; e gli occhi, ch'a pena aprir si ponno,
dura
quiete preme e ferreo sonno.
Gli
aprí tre volte, e i dolci rai del cielo
cercò fruire
e sovra un braccio alzarsi,
e tre volte ricadde, e fosco velo
gli
occhi adombrò, che stanchi al fin serràrsi.
Si
dissolvono i membri, e 'l mortal gelo
inrigiditi e di sudor gli ha
sparsi.
Sovra il corpo già morto il fero Argante
punto
non bada, e via trascorre inante.
Con
tutto ciò, se ben d'andar non cessa,
si volge a i Franchi,
e grida: "O cavalieri,
questa sanguigna spada è quella
stessa
che 'l signor vostro mi donò pur ieri;
ditegli
come in uso oggi l'ho messa,
ch'udirà la novella ei
volentieri.
E caro esser gli dée che 'l suo bel dono
sia
conosciuto al paragon sí buono.
Ditegli
che vederne ormai s'aspetti
ne le viscere sue piú certa
prova;
e quando d'assalirne ei non s'affretti,
verrò non
aspettato ove si trova."
Irritati i cristiani a i feri
detti,
tutti vèr lui già si moveano a prova;
ma
con gli altri esso è già corso in securo
sotto la
guardia de l'amico muro.
I
difensori a grandinar le pietre
da l'alte mura in guisa
incominciaro,
e quasi innumerabili faretre
tante saette a gli
archi ministraro,
che forza è pur che 'l franco stuol
s'arretre;
e i saracin ne la cittade entraro.
Ma già
Rinaldo, avendo il piè sottratto
al giacente destrier,
s'era qui tratto.
Venia
per far nel barbaro omicida
de l'estinto Dudone aspra vendetta,
e
fra' suoi giunto alteramente grida:
"Or qual indugio è
questo? e che s'aspetta?
poi ch'è morto il signor che ne fu
guida,
ché non corriamo a vendicarlo in fretta?
Dunque
in sí grave occasion di sdegno
esser può fragil muro
a noi ritegno?
Non,
se di ferro doppio o d'adamante
questa muraglia impenetrabil
fosse,
colà dentro securo il fero Argante
s'appiatteria
da le vostr'alte posse:
andiam pure a l'assalto!" Ed egli
inante
a tutti gli altri in questo dir si mosse,
ché
nulla teme la secura testa
o di sasso o di strai nembo o tempesta.
Ei crollando il
gran capo, alza la faccia
piena di sí terribile
ardimento,
che sin dentro a le mura i cori agghiaccia
a i
difensor d'insolito spavento.
Mentre egli altri rincora, altri
minaccia,
sopravien chi reprime il suo talento;
ché
Goffredo lor manda il buon Sigiero
de' gravi imperii suoi nunzio
severo.
Questi
sgrida in suo nome il troppo ardire,
e incontinente il ritornar
impone:
"Tornatene," dicea "ch'a le vostr'ire
non
è il loco opportuno o la stagione;
Goffredo il vi comanda."
A questo dire
Rinaldo si frenò, ch'altrui fu sprone,
benché
dentro ne frema, e in piú d'un segno
dimostri fuore il mal
celato sdegno.
Tornàr
le schiere indietro, e da i nemici
non fu il ritorno lor punto
turbato;
né in parte alcuna de gli estremi uffici
il
corpo di Dudon restò fraudato.
Su le pietose braccia i fidi
amici
portàrlo, caro peso ed onorato.
Mira intanto il
Buglion d'eccelsa parte
de la forte cittade il sito e l'arte.
Gierusalem sovra
duo colli è posta
d'impari attezza, e vòlti fronte a
fronte.
Va per lo mezzo suo valle interposta,
che lei
distingue, e l'un da l'altro monte.
Fuor da tre lati ha malagevol
costa,
per l'altro vassi, e non par che si monte;
ma
d'altissime mura è piú difesa
la parte piana, e
'ncontra Borea è stesa.
La
città dentro ha lochi in cui si serba
l'acqua che piove, e
laghi e fonti vivi;
ma fuor la terra intorno è nuda
d'erba,
e di fontane sterile e di rivi.
Né si vede
fiorir lieta e superba
d'alberi, e fare schermo a i raggi
estivi,
se non se in quanto oltra sei miglia un bosco
sorge
d'ombre nocenti orrido e fosco.
Ha
da quel lato donde il giorno appare
del felice Giordan le nobil
onde;
e da la parte occidental, del mare
Mediterraneo l'arenose
sponde.
Verso Borea è Betèl, ch'alzò
l'altare
al bue de l'oro, e la Samaria, e donde
Austro portar
le suol piovoso nembo,
Betelèm che 'l gran parto ascose in
grembo.
Or mentre
guarda e l'alte mura e 'l sito
de la città Goffredo e del
paese,
e pensa ove s'accampi, onde assalito
sia il muro ostil
piú facile a l'offese,
Erminia il vide, e dimostrollo a
dito
al re pagano, e cosí a dir riprese:
"Goffredo
è quel, che nel purpureo ammanto
ha di regio e d'augusto in
sé cotanto.
Veramente
è costui nato a l'impero,
sí del regnar, del
comandar sa l'arti,
e non minor che duce è cavaliero,
ma
del doppio valor tutte ha le parti;
né fra turba sí
grande uom piú guerriero
o piú saggio di lui potrei
mostrarti.
Sol Raimondo in consiglio, ed in battaglia
sol
Rinaldo e Tancredi a lui s'agguaglia."
Risponde
il re pagan: "Ben ho di lui
contezza, e 'l vidi a la gran
corte in Francia,
quand'io d'Egitto messaggier vi fui,
e 'l
vidi in nobil giostra oprar la lancia;
e se ben gli anni
giovenetti sui
non gli vestian di piume ancor la guancia,
pur
dava a i detti, a l'opre, a le sembianze,
presagio omai
d'altissime speranze;
presagio
ahi troppo vero!" E qui le ciglia
turbate inchina, e poi
l'inalza e chiede:
"Dimmi chi sia colui c'ha pur vermiglia
la
sopravesta, e seco a par si vede.
Oh quanto di sembianti a lui
somiglia!
se ben alquanto di statura cede."
"È
Baldovin," risponde "e ben si scopre
nel volto a lui
fratel, ma piú ne l'opre.
Or
rimira colui che, quasi in modo
d'uomo che consigli, sta da
l'altro fianco:
quegli è Raimondo, il qual tanto ti
lodo
d'accorgimento, uom già canuto e bianco.
Non è
chi tesser me' bellico frodo
di lui sapesse o sia latino o
franco;
ma quell'altro piú in là, ch'orato ha
l'elmo,
del re britanno è il buon figliuol Guglielmo.
V'è Guelfo
seco, e gli è d'opre leggiadre
emulo, e d'alto sangue e
d'alto stato:
ben il conosco a le sue spalle quadre,
ed a quel
petto colmo e rilevato.
Ma 'l gran nemico mio tra queste
squadre
già riveder non posso, e pur vi guato;
io dico
Boemondo il micidiale,
distruggitor del sangue mio reale."
Cosí
parlavan questi; e 'l capitano,
poi ch'intorno ha mirato, a i suoi
discende;
e perché crede che la terra in vano
s'oppugneria
dov'il piú erto ascende,
contra lo porta Aquilonar, nel
piano
che con lei si congiunge, alza le tende;
e quinci
procedendo infra la torre
che chiamano Angolar gli altri fa porre.
Da quel giro del
campo è contenuto
de la cittade il terzo, o poco meno,
che
d'ogn'intorno non avria potuto,
(cotanto ella volgea) cingerla a
pieno;
ma le vie tutte ond'aver pote aiuto
tenta Goffredo
d'impedirle almeno,
ed occupar fa gli opportuni passi
onde da
lei si viene ed a lei vassi.
Impon
che sian le tende indi munite
e di fosse profonde e di
trinciere,
che d'una parte a cittadine uscite,
da l'altra
oppone a correrie straniere.
Ma poi che fur quest'opere
fornite,
vols'egli il corpo di Dudon vedere,
e colà
trasse ove il buon duce estinto
da mesta turba e lagrimosa è
cinto.
Di nobil
pompa i fidi amici ornaro
il gran ferètro ove sublime ei
giace.
Quando Goffredo entrò, le turbe alzaro
la voce
assai piú flebile e loquace;
ma con volto né torbido
né chiaro
frena il suo affetto il pio Buglione, e tace.
E
poi che 'n lui pensando alquanto fisse
le luci ebbe tenute, al fin
sí disse:
"Già
non si deve a te doglia né pianto,
che se mori nel mondo,
in Ciel rinasci;
e qui dove ti spogli il mortal manto
di gloria
impresse alte vestigia lasci.
Vivesti qual guerrier cristiano e
santo,
e come tal sei morto; or godi, e pasci
in Dio gli occhi
bramosi, o felice alma,
ed hai del bene oprar corona e palma.
Vivi beata pur,
ché nostra sorte,
non tua sventura, a lagrimar
n'invita,
poscia ch'al tuo partir sí degna e forte
parte
di noi fa co 'l tuo piè partita.
Ma se questa, che 'l vulgo
appella morte,
privati ha noi d'una terrena aita,
celeste aita
ora impetrar ne puoi
che 'l Ciel t'accoglie infra gli eletti suoi.
E come a nostro
pro veduto abbiamo
ch'usavi, uom già mortal, l'arme
mortali,
cosí vederti oprare anco speriamo,
spirto
divin, l'arme del Ciel fatali.
Impara i voti omai, ch'a te
porgiamo,
raccòrre, e dar soccorso a i nostri mali:
indi
vittoria annunzio; a te devoti
solverem trionfando al tempio i
voti."
Cosí
diss'egli; e già la notte oscura
avea tutti del giorno i
raggi spenti,
e con l'oblio d'ogni noiosa cura
ponea tregua a
le lagrime, a i lamenti.
Ma il capitan, ch'espugnar mai le
mura
non crede senza i bellici tormenti,
pensa ond'abbia le
travi, ed in quai forme
le machine componga; e poco dorme.
Sorse a pari co
'l sole, ed egli stesso
seguir la pompa funeral poi volle.
A
Dudon d'odorifero cipresso
composto hanno un sepolcro a piè
d'un colle,
non lunge a gli steccati; e sovra ad esso
un'altissima
palma i rami estolle.
Or qui fu posto, e i sacerdoti
intanto
quiete a l'alma gli pregàr co 'l canto.
Quinci e quindi
fra i rami erano appese
insegne e prigioniere arme diverse,
già
da lui tolte in piú felici imprese
a le genti di Siria ed a
le perse.
De la corazza sua, de l'altro arnese,
in mezzo il
grosso tronco si coperse.
"Qui" vi fu scritto poi "giace
Dudone:
onorate l'altissimo campione."
Ma
il pietoso Buglion, poi che da questa
opra si tolse dolorosa e
pia,
tutti i fabri del campo a la foresta
con buona scorta di
soldati invia.
Ella è tra valli ascosa, e manifesta
l'avea
fatta a i Francesi uom di Soria.
Qui per troncar le machine
n'andaro,
a cui non abbia la città riparo.
L'un
l'altro essorta che le piante atterri,
e faccia al bosco inusitati
oltraggi.
Caggion recise da i pungenti ferri
le sacre palme e i
frassini selvaggi,
i funebri cipressi e i pini e i cerri,
l'elci
frondose e gli alti abeti e i faggi,
gli olmi mariti, a cui talor
s'appoggia
la vite, e con piè torto al ciel se 'n poggia.
Altri i tassi, e
le quercie altri percote,
che mille volte rinovàr le
chiome,
e mille volte ad ogni incontro immote
l'ire de' venti
han rintuzzate e dome;
ed altri impone a le stridenti rote
d'orni
e di cedri l'odorate some.
Lascian al suon de l'arme, al vario
grido,
e le fère e gli augei la tana e 'l nido.
Argomento
Tutti i Numi d'Inferno a se raccoglie
L'Imperator
del tenebroso regno:
E per dar a Cristiani acerbe doglie,
Vuol
ch'usi ognun di lor suo iniquo ingegno.
Per lor opra Idraote a
crude voglie
Si volge, e vuol ch'Armida al suo disegno
Spiani
la via parlando in dolci modi;
E sue macchine sian bellezze e
frodi.
Mentre
son questi a le bell'opre intenti,
perché debbiano tosto in
uso porse,
il gran nemico de l'umane genti
contra i cristiani i
lividi occhi torse;
e scorgendogli omai lieti e contenti,
ambo
le labra per furor si morse,
e qual tauro ferito il suo
dolore
versò mugghiando e sospirando fuore.
Quinci, avendo
pur tutto il pensier vòlto
a recar ne' cristiani ultima
doglia,
che sia, comanda, il popol suo raccolto
(concilio
orrendo!) entro la regia soglia;
come sia pur leggiera impresa,
ahi stolto!,
il repugnare a la divina voglia:
stolto, ch'al
Ciel s'agguaglia, e in oblio pone
come di Dio la destra irata
tuone.
Chiama gli
abitator de l'ombre eterne
il rauco suon de la tartarea
tromba.
Treman le spaziose atre caverne,
e l'aer cieco a quel
romor rimbomba;
né sí stridendo mai da le
superne
regioni del cielo il folgor piomba,
né sí
scossa giamai trema la terra
quando i vapori in sen gravida serra.
Tosto gli dèi
d'Abisso in varie torme
concorron d'ogn'intorno a l'alte porte.
Oh
come strane, oh come orribil forme!
quant'è ne gli occhi
lor terrore e morte!
Stampano alcuni il suol di ferine orme,
e
'n fronte umana han chiome d'angui attorte,
e lor s'aggira dietro
immensa coda
che quasi sferza si ripiega e snoda.
Qui
mille immonde Arpie vedresti e mille
Centauri e Sfingi e pallide
Gorgoni,
molte e molte latrar voraci Scille,
e fischiar Idre e
sibilar Pitoni,
e vomitar Chimere atre faville,
e Polifemi
orrendi e Gerioni;
e in novi mostri, e non piú intesi o
visti,
diversi aspetti in un confusi e misti.
D'essi
parte a sinistra e parte a destra
a seder vanno al crudo re
davante.
Siede Pluton nel mezzo, e con la destra
sostien lo
scettro ruvido e pesante;
né tanto scoglio in mar, né
rupe alpestra,
né pur Calpe s'inalza o 'l magno
Atlante,
ch'anzi lui non paresse un picciol colle,
sí la
gran fronte e le gran corna estolle.
Orrida
maestà nel fero aspetto
terrore accresce, e piú
superbo il rende:
rosseggian gli occhi, e di veneno infetto
come
infausta cometa il guardo splende,
gl'involve il mento e su
l'irsuto petto
ispida e folta la gran barba scende,
e in guisa
di voragine profonda
s'apre la bocca d'atro sangue immonda.
Qual i fumi
sulfurei ed infiammati
escon di Mongibello e 'l puzzo e 'l
tuono,
tal de la fera bocca i negri fiati,
tale il fetore e le
faville sono.
Mentre ei parlava, Cerbero i latrati
ripresse, e
l'Idra si fe' muta al suono;
restò Cocito, e ne tremàr
gli abissi,
e in questi detti il gran rimbombo udissi:
"Tartarei
numi, di seder piú degni
là sovra il sole, ond'è
l'origin vostra,
che meco già da i piú felici
regni
spinse il gran caso in questa orribil chiostra,
gli
antichi altrui sospetti e i feri sdegni
noti son troppo, e l'alta
impresa nostra;
or Colui regge a suo voler le stelle,
e noi
siam giudicate alme rubelle.
Ed
in vece del dí sereno e puro,
de l'aureo sol, de gli
stellati giri,
n'ha qui rinchiusi in questo abisso oscuro,
né
vuol ch'al primo onor per noi s'aspiri;
e poscia (ahi quanto a
ricordarlo è duro!
quest'è quel che piú
inaspra i miei martíri)
ne' bei seggi celesti ha l'uom
chiamato,
l'uom vile e di vil fango in terra nato.
Né
ciò gli parve assai; ma in preda a morte,
sol per farne piú
danno, il figlio diede.
Ei venne e ruppe le tartaree porte,
e
porre osò ne' regni nostri il piede,
e trarne l'alme a noi
dovute in sorte,
e riportarne al Ciel sí ricche
prede,
vincitor trionfando, e in nostro scherno
l'insegne ivi
spiegar del vinto Inferno.
Ma
che rinovo i miei dolor parlando?
Chi non ha già l'ingiurie
nostre intese?
Ed in qual parte si trovò, né
quando,
ch'egli cessasse da l'usate imprese?
Non piú
déssi a l'antiche andar pensando,
pensar dobbiamo a le
presenti offese.
Deh! non vedete omai com'egli tenti
tutte al
suo culto richiamar le genti?
Noi
trarrem neghittosi i giorni e l'ore,
né degna cura fia che
'l cor n'accenda?
e soffrirem che forza ognor maggiore
il suo
popol fedele in Asia prenda?
e che Giudea soggioghi? e che 'l suo
onore,
che 'l nome suo piú si dilati e stenda?
che suoni
in altre lingue, e in altri carmi
si scriva, e incida in novi
bronzi e marmi?
Che
sian gl'idoli nostri a terra sparsi?
ch'i nostri altari il mondo
a lui converta?
ch'a lui sospesi i voti, a lui sol arsi
siano
gl'incensi, ed auro e mirra offerta?
ch'ove a noi tempio non solea
serrarsi,
or via non resti a l'arti nostre aperta?
che di
tant'alme il solito tributo
ne manchi, e in vòto regno
alberghi Pluto?
Ah!
non fia ver, ché non sono anco estinti
gli spirti in voi di
quel valor primiero,
quando di ferro e d'alte fiamme
cinti
pugnammo già contra il celeste impero.
Fummo, io
no 'l nego, in quel conflitto vinti,
pur non mancò virtute
al gran pensiero.
Diede che che si fosse a lui vittoria:
rimase
a noi d'invitto ardir la gloria.
Ma
perché piú v'indugio? Itene, o miei
fidi consorti, o
mia potenza e forze:
ite veloci, ed opprimete i rei
prima che
'l lor poter piú si rinforze;
pria che tutt'arda il regno
de gli Ebrei,
questa fiamma crescente omai s'ammorze;
fra loro
entrate, e in ultimo lor danno
or la forza s'adopri ed or
l'inganno.
Sia
destin ciò ch'io voglio: altri disperso
se 'n vada errando,
altri rimanga ucciso,
altri in cure d'amor lascive immerso
idol
si faccia un dolce sguardo e un riso.
Sia il ferro incontra 'l suo
rettor converso
da lo stuol ribellante e 'n sé diviso:
pèra
il campo e ruini, e resti in tutto
ogni vestigio suo con lui
distrutto."
Non
aspettàr già l'alme a Dio rubelle
che fosser queste
voci al fin condotte;
ma fuor volando a riveder le stelle
già
se n'uscian da la profonda notte,
come sonanti e torbide
procelle
che vengan fuor de le natie lor grotte
ad oscurar il
cielo, a portar guerra
a i gran regni del mar e de la terra.
Tosto, spiegando
in vari lati i vanni,
si furon questi per lo mondo sparti,
e
'ncominciaro a fabricar inganni
diversi e novi, e ad usar lor
arti.
Ma di' tu, Musa, come i primi danni
mandassero a i
cristiani e di quai parti;
tu 'l sai, e di tant'opra a noi sí
lunge
debil aura di fama a pena giunge.
Reggea
Damasco e le città vicine
Idraote, famoso e nobil mago,
che
fin da' suoi prim'anni a l'indovine
arti si diede, e ne fu ognor
piú vago.
Ma che giovàr, se non poté del
fine
di quella incerta guerra esser presago?
Ned aspetto di
stelle erranti o fisse,
né risposta d'inferno il ver
predisse.
Giudicò
questi (ahi, cieca umana mente,
come i giudizi tuoi son vani e
torti!)
ch'a l'essercito invitto d'Occidente
apparecchiasse il
Ciel ruine e morti;
però, credendo che l'egizia gente
la
palma de l'impresa al fin riporti,
desia che 'l popol suo ne la
vittoria
sia de l'acquisto a parte e de la gloria.
Ma
perché il valor franco ha in grande stima,
di sanguigna
vittoria i danni teme;
e va pensando con qual arte in prima
il
poter de' cristiani in parte sceme,
sí che piú
agevolmente indi s'opprima
da le sue genti e da l'egizie
insieme:
in questo suo pensier il sovragiunge
l'angelo iniquo,
e piú l'instiga e punge.
Esso
il consiglia, e gli ministra i modi
onde l'impresa agevolar si
pote.
Donna a cui di beltà le prime lodi
concedea
l'Oriente, è sua nepote:
gli accorgimenti e le piú
occulte frodi
ch'usi o femina o maga a lei son note.
Questa a
sé chiama e seco i suoi consigli
comparte, e vuol che cura
ella ne pigli.
Dice:
"O diletta mia, che sotto biondi
capelli e fra sí
tenere sembianze
canuto senno e cor virile ascondi,
e già
ne l'arti mie me stesso avanze,
gran pensier volgo; e se tu lui
secondi,
seguiteran gli effetti a le speranze.
Tessi la tela
ch'io ti mostro ordita,
di cauto vecchio essecutrice ardita.
Vanne al campo
nemico: ivi s'impieghi
ogn'arte feminil ch'amore alletti.
Bagna
di pianto e fa' melati i preghi,
tronca e confondi co' sospiri i
detti:
beltà dolente e miserabil pieghi,
al tuo volere i
piú ostinati petti.
Vela il soverchio ardir con la
vergogna,
e fa' manto del vero a la menzogna.
Prendi,
s'esser potrà, Goffredo a l'esca
de' dolci sguardi e de'
be' detti adorni,
sí ch'a l'uomo invaghito omai
rincresca
l'incominciata guerra, e la distorni.
Se ciò
non puoi, gli altri piú grandi adesca:
menagli in parte
ond'alcun mai non torni."
Poi distingue i consigli; al fin le
dice:
"Per la fé, per la patria il tutto lice."
La bella Armida,
di sua forma altera
e de' doni del sesso e de l'etate,
l'impresa
prende, e in su la prima sera
parte e tiene sol vie chiuse e
celate;
e 'n treccia e 'n gonna feminile spera
vincer popoli
invitti e schiere armate.
Ma son del suo partir tra 'l vulgo ad
arte
diverse voci poi diffuse e sparte.
Dopo
non molti dí vien la donzella
dove spiegate i Franchi avean
le tende.
A l'apparir de la beltà novella
nasce un
bisbiglio e 'l guardo ognun v'intende,
sí come là
dove cometa o stella,
non piú vista di giorno, in ciel
risplende;
e traggon tutti per veder chi sia
sí bella
peregrina, e chi l'invia.
Argo
non mai, non vide Cipro o Delo
d'abito o di beltà forme sí
care:
d'auro ha la chioma, ed or dal bianco velo
traluce
involta, or discoperta appare.
Cosí, qualor si rasserena il
cielo,
or da candida nube il sol traspare,
or da la nube
uscendo i raggi intorno
piú chiari spiega e ne raddoppia il
giorno.
Fa nove
crespe l'aura al crin disciolto,
che natura per sé
rincrespa in onde;
stassi l'avaro sguardo in sé raccolto,
e
i tesori d'amore e i suoi nasconde.
Dolce color di rose in quel
bel volto
fra l'avorio si sparge e si confonde,
ma ne la bocca,
onde esce aura amorosa,
sola rosseggia e semplice la rosa.
Mostra il bel
petto le sue nevi ignude,
onde il foco d'Amor si nutre e
desta.
Parte appar de le mamme acerbe e crude,
parte altrui ne
ricopre invida vesta:
invida, ma s'a gli occhi il varco
chiude,
l'amoroso pensier già non arresta,
ché
non ben pago di bellezza esterna
ne gli occulti secreti anco
s'interna.
Come
per acqua o per cristallo intero
trapassa il raggio, e no 'l
divide o parte,
per entro il chiuso manto osa il pensiero
sí
penetrar ne la vietata parte.
Ivi si spazia, ivi contempla il
vero
di tante meraviglie a parte a parte;
poscia al desio le
narra e le descrive,
e ne fa le sue fiamme in lui piú vive.
Lodata passa e
vagheggiata Armida
fra le cupide turbe, e se n'avede.
No 'l
mostra già, benché in suo cor ne rida,
e ne disegni
alte vittorie e prede.
Mentre, sospesa alquanto, alcuna guida
che
la conduca al capitan richiede,
Eustazio occorse a lei, che del
sovrano
principe de le squadre era germano.
Come
al lume farfalla, ei si rivolse
a lo splendor de la beltà
divina,
e rimirar da presso i lumi volse
che dolcemente atto
modesto inchina;
e ne trasse gran fiamma e la raccolse
come da
foco suole esca vicina,
e disse verso lei, ch'audace e baldo
il
fea de gli anni e de l'amore il caldo:
"Donna,
se pur tal nome a te conviensi,
ché non somigli tu cosa
terrena,
né v'è figlia d'Adamo in cui
dispensi
cotanto il Ciel di sua luce serena,
che da te si
ricerca? ed onde viensi?
qual tua ventura o nostra or qui ti
mena?
Fa' che sappia chi sei, fa' ch'io non erri
ne l'onorarti;
e s'è ragion, m'atterri."
Risponde:
"Il tuo lodar troppo alto sale,
né tanto in suso il
merto nostro arriva.
Cosa vedi, signor, non pur mortale,
ma già
morta a i diletti, al duol sol viva;
mia sciagura mi spinge in
loco tale,
vergine peregrina e fuggitiva.
Ricovro al pio
Goffredo, e in lui confido
tal va di sua bontate intorno il grido.
Tu l'adito
m'impetra al capitano,
s'hai, come pare, alma cortese e pia."
Ed
egli: "È ben ragion ch'a l'un germano
l'altro ti
guidi, e intercessor ti sia.
Vergine bella, non ricorri in
vano,
non è vile appo lui la grazia mia;
spender tutto
potrai, come t'aggrada,
ciò che vaglia il suo scettro o la
mia spada."
Tace,
e la guida ove tra i grandi eroi
allor dal vulgo il pio Buglion
s'invola.
Essa inchinollo riverente, e poi
vergognosetta non
facea parola.
Ma quei rossor, ma quei timori suoi
rassecura il
guerriero e riconsola,
sí che i pensati inganni al fine
spiega
in suon che di dolcezza i sensi lega.
"Principe
invitto," disse "il cui gran nome
se 'n vola adorno di
sí ricchi fregi
che l'esser da te vinte e in guerra
dome
recansi a gloria le provincie e i regi,
noto per tutto è
il tuo valor; e come
sin da i nemici avien che s'ami e pregi,
cosí
anco i tuoi nemici affida, e invita
di ricercarti e d'impetrarne
aita.
Ed io, che
nacqui in sí diversa fede
che tu abbassasti e ch'or
d'opprimer tenti,
per te spero acquistar la nobil sede
e lo
scettro regal de' miei parenti;
e s'altri aita a i suoi congiunti
chiede
contro il furor de le straniere genti,
io, poi che 'n
lor non ha pietà piú loco,
contra il mio sangue il
ferro ostile invoco.
Io
te chiamo, in te spero; e in quella altezza
puoi tu sol pormi onde
sospinta io fui,
né la tua destra esser dée meno
avezza
di sollevar che d'atterrar altrui,
né meno il
vanto di pietà si prezza
che 'l trionfar de gl'inimici
sui;
e s'hai potuto a molti il regno tòrre,
fia gloria
egual nel regno or me riporre.
Ma
se la nostra fé varia ti move
a disprezzar forse i miei
preghi onesti,
la fé, c'ho certa in tua pietà, mi
giove,
né dritto par ch'ella delusa resti.
Testimone è
quel Dio ch'a tutti è Giove
ch'altrui piú giusta
aita unqua non désti.
Ma perché il tutto a pieno
intenda, or odi
le mie sventure insieme e l'altrui frodi.
Figlia i' son
d'Arbilan, che 'l regno tenne
del bel Damasco e in minor sorte
nacque,
ma la bella Cariclia in sposa ottenne,
cui farlo erede
del suo imperio piacque.
Costei co 'l suo morir quasi prevenne
il
nascer mio, ch'in tempo estinta giacque
ch'io fuori uscia de
l'alvo; e fu il fatale
giorno ch'a lei dié morte, a me
natale.
Ma il
primo lustro a pena era varcato
dal dí ch'ella spogliossi
il mortal velo,
quando il mio genitor, cedendo al fato,
forse
con lei si ricongiunse in Cielo,
di me cura lassando e de lo
stato
al fratel, ch'egli amò con tanto zelo
che, se in
petto mortal pietà risiede,
esser certo dovea de la sua
fede.
Preso
dunque di me questi il governo,
vago d'ogni mio ben si mostrò
tanto
che d'incorrotta fé, d'amor paterno
e d'immensa
pietade ottenne il vanto,
o che 'l maligno suo pensiero
interno
celasse allor sotto contrario manto,
o che sincere
avesse ancor le voglie,
perch'al figliuol mi destinava in moglie.
Io crebbi, e
crebbe il figlio; e mai né stile
di cavalier, né
nobil arte apprese,
nulla di pellegrino o di gentile
gli
piacque mai, né mai troppo alto intese;
sotto diforme
aspetto animo vile,
e in cor superbo avare voglie accese:
ruvido
in atti, ed in costumi è tale
ch'è sol ne' vizi a se
medesmo eguale.
Ora
il mio buon custode ad uom sí degno
unirmi in matrimonio in
sé prefisse,
e farlo del mio letto e del mio
regno
consorte; e chiaro a me piú volte il disse.
Usò
la lingua e l'arte, usò l'ingegno
perché 'l bramato
effetto indi seguisse,
ma promessa da me non trasse mai,
anzi
ritrosa ognor tacqui o negai.
Partissi
alfin con un sembiante oscuro,
onde l'empio suo cor chiaro
trasparve;
e ben l'istoria del mio mal futuro
leggergli scritta
in fronte allor mi parve.
Quinci i notturni miei riposi
furo
turbati ognor da strani sogni e larve,
ed un fatale orror
ne l'alma impresso
m'era presagio de' miei danni espresso.
Spesso l'ombra
materna a me s'offria,
pallida imago e dolorosa in atto,
quanto
diversa, oimè!, da quel che pria
visto altrove il suo volto
avea ritratto!
`Fuggi, figlia,' dicea `morte sí ria
che
ti sovrasta omai, pàrtiti ratto,
già veggio il tòsco
e 'l ferro in tuo sol danno
apparecchiar dal perfido tiranno.'
Ma che giovava,
oimè!, che del periglio
vicino omai fosse presago il
core,
s'irresoluta in ritrovar consiglio
la mia tenera età
rendea il timore?
Prender fuggendo volontario essiglio,
e
ignuda uscir del patrio regno fuore,
grave era sí ch'io fea
minore stima
di chiuder gli occhi ove gli apersi in prima.
Temea, lassa!, la
morte, e non avea
(chi 'l crederia?) poi di fuggirla ardire;
e
scoprir la mia tema anco temea,
per non affrettar l'ore al mio
morire.
Cosí inquieta e torbida traea
la vita in un
continuo martíre,
qual uom ch'aspetti che su 'l collo
ignudo
ad or ad or gli caggia il ferro crudo.
In
tal mio stato, o fosse amica sorte
o ch'a peggio mi serbi il mio
destino,
un de' ministri de la regia corte,
che 'l re mio padre
s'allevò bambino,
mi scoperse che 'l tempo a la mia
morte
dal tiranno prescritto era vicino,
e ch'egli a quel
crudele avea promesso
di porgermi il venen quel giorno stesso.
E mi soggiunse
poi ch'a la mia vita,
sol fuggendo, allungar poteva il corso;
e
poi ch'altronde io non sperava aita,
pronto offrí se
medesmo al mio soccorso,
e confortando mi rendé sí
ardita
che del timor non mi ritenne il morso,
sí ch'io
non disponessi a l'aer cieco,
la patria e 'l zio fuggendo, andarne
seco.
Sorse la
notte oltra l'usato oscura,
che sotto l'ombre amiche ne
coperse,
onde con due donzelle uscii secura,
compagne elette a
le fortune averse;
ma pure indietro a le mie patrie mura
le
luci io rivolgea di pianto asperse,
né de la vista del
natio terreno
potea, partendo, saziarle a pieno.
Fea
l'istesso camin l'occhio e 'l pensiero,
e mal suo grado il piede
inanzi giva,
sí come nave ch'improviso e fero
turbine
scioglia da l'amata riva.
La notte andammo e 'l dí seguente
intero
per lochi ov'orma altrui non appariva;
ci ricovrammo in
un castello al fine
che siede del mio regno in su 'l confine.
È d'Aronte
il castel, ch'Aronte fue
quel che mi trasse di periglio e
scòrse.
Ma poiché me fuggito aver le sue
mortali
insidie il traditor s'accorse,
acceso di furor contr'ambedue,
le
sue colpe medesme in noi ritorse;
ed ambo fece rei di
quell'eccesso
che commetter in me volse egli stesso.
Disse ch'Aronte
i' avea con doni spinto
fra sue bevande a mescolar veneno
per
non aver, poi ch'egli fosse estinto,
chi legge mi prescriva o
tenga a freno;
e ch'io, seguendo un mio lascivo instinto,
volea
raccòrmi a mille amanti in seno.
Ahi, che fiamma del cielo
anzi in me scenda,
santa onestà, ch'io le tue leggi
offenda!
Ch'avara
fame d'oro e sete insieme
del mio sangue innocente il crudo
avesse,
grave m'è sí; ma via piú il cor mi
preme
che 'l mio candido onor macchiar volesse.
L'empio, che i
popolari impeti teme,
cosí le sue menzogne adorna e
tesse
che la città, del ver dubbia e sospesa,
sollevata
non s'arma a mia difesa.
Né,
perch'or sieda nel mio seggio e 'n fronte
già gli risplenda
la regal corona,
pone alcun fine a i miei gran danni, a l'onte,
sí
la sua feritate oltra lo sprona.
Arder minaccia entro 'l castello
Aronte,
se di proprio voler non s'imprigiona;
ed a me, lassa!,
e 'nsieme a i miei consorti
guerra annunzia non pur, ma strazi e
morti.
Ciò
dice egli di far perché dal volto
cosí lavarsi la
vergogna crede,
e ritornar nel grado, ond'io l'ho tolto,
l'onor
del sangue e de la regia sede;
ma il timor n'è cagion che
non ritolto
gli sia lo scettro ond'io son vera erede,
ché
sol s'io caggio por fermo sostegno
con le ruine mie pote al suo
regno.
E ben quel
fine avrà l'empio desire
che già il tiranno ha
stabilito in mente,
e saran nel mio sangue estinte l'ire
che
dal mio lagrimar non fiano spente,
se tu no 'l vieti. A te
rifuggo, o sire,
io misera fanciulla, orba, innocente;
e questo
pianto, ond'ho i tuoi piedi aspersi,
vagliami sí che 'l
sangue io poi non versi.
Per
questi piedi ond'i superbi e gli empi
calchi, per questa man che
'l dritto aita,
per l'alte tue vittorie, e per que' tèmpi
sacri
cui désti e cui dar cerchi aita,
il mio desir, tu che puoi
solo, adempi
e in un co 'l regno a me serbi la vita
la tua
pietà; ma pietà nulla giove,
s'anco te il dritto e
la ragion non move.
Tu,
cui concesse il Cielo e dielti in fato
voler il giusto e poter ciò
che vuoi,
a me salvar la vita, a te lo stato
(ché tuo
fia s'io 'l ricovro) acquistar puoi.
Fra numero sí grande a
me sia dato
diece condur de' tuoi piú forti eroi,
ch'avendo
i padri amici e 'l popol fido,
bastan questi a ripormi entro al
mio nido.
Anzi un
de' primi, a la cui fé commessa
è la custodia di
secreta porta,
promette aprirla e ne la reggia stessa
pórci
di notte tempo, e sol m'essorta
ch'io da te cerchi alcuna aita; e
in essa,
per picciola che sia, si riconforta
piú che
s'altronde avesse un grande stuolo,
tanto l'insegne estima e 'l
nome solo."
Ciò
detto, tace; e la risposta attende,
con atto che 'n silenzio ha
voce e preghi.
Goffredo il dubbio cor volve e sospende
fra
pensier vari, e non sa dove il pieghi.
Teme i barbari inganni, e
ben comprende
che non è fede in uom ch'a Dio la neghi.
Ma
d'altra parte in lui pietoso affetto
si desta, che non dorme in
nobil petto.
Né
pur l'usata sua pietà natia
vuol che costei de la sua
grazia degni,
ma il move util ancor, ch'util gli fia
che ne
l'imperio di Damasco regni
chi da lui dipendendo apra la via
ed
agevoli il corso a i suoi disegni,
e genti ed arme gli ministri ed
oro
contra gli Egizi e chi sarà con loro.
Mentre
ei cosí dubbioso a terra vòlto
lo sguardo tiene, e
'l pensier volve e gira,
la donna in lui s'affisa, e dal suo
volto
intenta pende e gli atti osserva e mira;
e perché
tarda oltra 'l suo creder molto
la risposta, ne teme e ne
sospira.
Quegli la chiesta grazia al fin negolle,
ma diè
risposta assai cortese e molle:
"S'in
servigio di Dio, ch'a ciò n'elesse,
non s'impiegasser qui
le nostre spade,
ben tua speme fondar potresti in esse
e
soccorso trovar, non che pietade;
ma se queste sue greggie e
queste oppresse
mura non torniam prima in libertade,
giusto non
è, con iscemar le genti,
che di nostra vittoria il corso
allenti.
Ben ti
prometto (e tu per nobil pegno
mia fé ne prendi, e vivi in
lei secura)
che se mai sottrarremo al giogo indegno
queste
sacre e dal Ciel dilette mura,
di ritornarti al tuo perduto
regno,
come pietà n'essorta, avrem poi cura.
Or mi
farebbe la pietà men pio,
s'anzi il suo dritto io non
rendessi a Dio."
A
quel parlar chinò la donna e fisse
le luci a terra, e
stette immota alquanto;
poi sollevolle rugiadose e
disse,
accompagnando i flebil atti al pianto:
"Misera! ed
a qual altra il Ciel prescrisse
vita mai grave ed immutabil
tanto,
che si cangia in altrui mente e natura
pria che si cangi
in me sorte sí dura?
Nulla
speme piú resta, in van mi doglio:
non han piú forza
in uman petto i preghi.
Forse lece sperar che 'l mio
cordoglio,
che te non mosse, il reo tiranno pieghi?
Né
già te d'inclemenza accusar voglio
perché 'l picciol
soccorso a me si neghi,
ma il Cielo accuso, onde il mio mal
discende,
che 'n te pietate innessorabil rende.
Non
tu, signor, né tua bontade è tale,
ma 'l mio destino
è che mi nega aita.
Crudo destino, empio destin
fatale,
uccidi omai questa odiosa vita.
L'avermi priva, oimè!,
fu picciol male
de' dolci padri in loro età fiorita,
se
non mi vedi ancor, del regno priva,
qual vittima al coltello andar
cattiva.
Ché,
poi che legge d'onestate e zelo
non vuol che qui sí
lungamente indugi,
a cui ricovro intanto? ove mi celo?
o quai
contra il tiranno avrò rifugi?
Nessun loco sí chiuso
è sotto il cielo
ch'a l'or non s'apra: or perché
tanti indugi?
Veggio la morte, e se 'l fuggirla è
vano,
incontro a lei n'andrò con questa mano."
Qui tacque, e
parve ch'un regale sdegno
e generoso l'accendesse in vista;
e
'l piè volgendo di partir fea segno,
tutta ne gli atti
dispettosa e trista.
Il pianto si spargea senza ritegno,
com'ira
suol produrlo a dolor mista,
e le nascenti lagrime a vederle
erano
a i rai del sol cristallo e perle.
Le
guancie asperse di que' vivi umori
che giú cadean sin de la
veste al lembo,
parean vermigli insieme e bianchi fiori,
se pur
gli irriga un rugiadoso nembo,
quando su l'apparir de' primi
albori
spiegano a l'aure liete il chiuso grembo;
e l'alba, che
li mira e se n'appaga,
d'adornarsene il crin diventa vaga.
Ma il chiaro
umor, che di sí spesse stille
le belle gote e 'l seno
adorno rende,
opra effetto di foco, il qual in mille
petti
serpe celato e vi s'apprende.
O miracol d'Amor, che le
faville
tragge del pianto, e i cor ne l'acqua accende!
Sempre
sovra natura egli ha possanza.
ma in virtú di costei se
stesso avanza.
Questo
finto dolor da molti elice
lagrime vere, e i cor piú duri
spetra.
Ciascun con lei s'affligge, e fra sé dice:
"Se
mercé da Goffredo or non impetra,
ben fu rabbiosa tigre a
lui nutrice,
e 'l produsse in aspr'alpe orrida pietra
o l'onda
che nel mar si frange e spuma:
crudel, che tal beltà turba
e consuma."
Ma
il giovenetto Eustazio, in cui la face
di pietade e d'amore è
piú fervente,
mentre bisbiglia ciascun altro, e tace,
si
tragge avanti e parla audacemente:
"O germano e signor,
troppo tenace
del suo primo proposto è la tua mente,
s'al
consenso comun, che brama e prega,
arrendevole alquanto or non si
piega.
Non dico
io già che i principi, ch'a cura
si stanno qui de' popoli
soggetti,
torcano il piè da l'oppugnate mura,
e sian gli
uffici lor da lor negletti;
ma fra noi, che guerrier siam di
ventura,
senz'alcun proprio peso e meno astretti
a le leggi de
gli altri, elegger diece
difensori del giusto a te ben lece;
ch'al servigio di
Dio già non si toglie
l'uom ch'innocente vergine
difende,
ed assai care al Ciel son quelle spoglie
che d'ucciso
tiranno altri gli appende.
Quando dunque a l'impresa or non
m'invoglie
quell'util certo che da lei s'attende,
mi ci move il
dover, ch'a dar tenuto
è l'ordin nostro a le donzelle
aiuto.
Ah! non
sia ver, per Dio, che si ridica
in Francia, o dove in pregio è
cortesia,
che si fugga da noi rischio o fatica
per cagion cosí
giusta e cosí pia.
Io per me qui depongo elmo e lorica,
qui
mi scingo la spada, e piú non fia
ch'adopri indegnamente
arme o destriero,
o 'l nome usurpi mai di cavaliero."
Cosí
favella; e seco in chiaro suono
tutto l'ordine suo concorde
freme,
e chiamando il consiglio utile e buono
co' preghi il
capitan circonda e preme.
"Cedo," egli disse allora "e
vinto sono
al concorso di tanti uniti insieme;
abbia, se parvi,
il chiesto don costei
da i vostri sí, non da i consigli
miei.
Ma se
Goffredo di credenza alquanto
pur trova in voi, temprate i vostri
affetti."
Tanto ei sol disse, e basta lor ben tanto
perché
ciascun quel che concede accetti.
Or che non può di bella
donna il pianto,
ed in lingua amorosa i dolci detti?
Esce da
vaghe labra aurea catena
che l'alme a suo voler prende ed affrena.
Eustazio lei
richiama, e dice: "Omai
cessi, vaga donzella, il tuo
dolore,
ché tal da noi soccorso in breve avrai
qual par
che piú 'l richieggia il tuo timore."
Serenò
allora i nubilosi rai
Armida, e sí ridente apparve
fuore
ch'innamorò di sue bellezze il cielo
asciugandosi
gli occhi co 'l bel velo.
Rendé
lor poscia, in dolci e care note,
grazie per l'alte grazie a lei
concesse,
mostrando che sariano al mondo note
mai sempre, e
sempre nel suo core impresse;
e ciò che lingua esprimer ben
non pote,
muta eloquenza ne' suoi gesti espresse,
e celò
sí sotto mentito aspetto
il suo pensier ch'altrui non diè
sospetto.
Quinci
vedendo che furtuna arriso
al gran principio di sue frodi
avea,
prima che 'l suo pensier le sia preciso,
dispon di trarre
al fin opra sí rea,
e far con gli atti dolci e co 'l bel
viso
piú che con l'arti lor Circe o Medea,
e in voce di
sirena a i suoi concenti
addormentar le piú svegliate
menti.
Usa
ogn'arte la donna, onde sia colto
ne la sua rete alcun novello
amante;
né con tutti, né sempre un stesso
volto
serba, ma cangia a tempo atti e sembiante.
Or tien pudica
il guardo in sé raccolto,
or lo rivolge cupido e
vagante:
la sferza in quegli, il freno adopra in questi,
come
lor vede in amar lenti o presti.
Se
scorge alcun che dal suo amor ritiri
l'alma, e i pensier per
diffidenza affrene,
gli apre un benigno riso, e in dolci
giri
volge le luci in lui liete e serene;
e cosí i pigri
e timidi desiri
sprona, ed affida la dubbiosa spene,
ed
infiammando l'amorose voglie
sgombra quel gel che la paura
accoglie.
Ad
altri poi, ch'audace il segno varca
scòrto da cieco e
temerario duce,
de' cari detti e de' begli occhi è parca,
e
in lui timore e riverenza induce.
Ma fra lo sdegno, onde la fronte
è carca,
pur anco un raggio di pietà riluce,
sí
ch'altri teme ben, ma non dispera,
e piú s'invoglia quanto
appar piú altera.
Stassi
tal volta ella in disparte alquanto
e 'l volto e gli atti suoi
compone e finge
quasi dogliosa, e in fin su gli occhi il
pianto
tragge sovente e poi dentro il respinge;
e con
quest'arti a lagrimar intanto
seco mill'alme semplicette
astringe,
e in foco di pietà strali d'amore
tempra, onde
pèra a sí fort'arme il core.
Poi,
sí come ella a quei pensier s'invole
e novella speranza in
lei si deste,
vèr gli amanti il piè drizza e le
parole,
e di gioia la fronte adorna e veste;
e lampeggiar fa,
quasi un doppio sole,
il chiaro sguardo e 'l bel riso celeste
su
le nebbie del duolo oscure e folte,
ch'avea lor prima intorno al
petto accolte.
Ma
mentre dolce parla e dolce ride,
e di doppia dolcezza inebria i
sensi,
quasi dal petto lor l'alma divide,
non prima usata a
quei diletti immensi.
Ahi crudo Amor, ch'egualmente
n'ancide
l'assenzio e 'l mèl che tu fra noi dispensi,
e
d'ogni tempo egualmente mortali
vengon da te le medicine e i mali!
Fra sí
contrarie tempre, in ghiaccio e in foco,
in riso e in pianto, e
fra paura e spene,
inforsa ogni suo stato, e di lor
gioco
l'ingannatrice donna a prender viene;
e s'alcun mai con
suon tremante e fioco
osa parlando d'accennar sue pene,
finge,
quasi in amor rozza e inesperta,
non veder l'alma ne' suoi detti
aperta.
O pur le
luci vergognose e chine
tenendo, d'onestà s'orna e
colora,
sí che viene a celar le fresche brine
sotto le
rose onde il bel viso infiora,
qual ne l'ore piú fresche e
matutine
del primo nascer suo veggiam l'aurora;
e 'l rossor de
lo sdegno insieme n'esce
con la vergogna, e si confonde e mesce.
Ma se prima ne
gli atti ella s'accorge
d'uom che tenti scoprir l'accese
voglie,
or gli s'invola e fugge, ed or gli porge
modo onde
parli e in un tempo il ritoglie;
cosí il dí tutto in
vano error lo scorge
stanco, e deluso poi di speme il toglie.
Ei
si riman qual cacciator ch'a sera
perda al fin l'orma di seguita
fèra.
Queste
fur l'arti onde mill'alme e mille
prender furtivamente ella
poteo,
anzi pur furon l'arme onde rapille
ed a forza d'Amor
serve le feo.
Qual meraviglia or fia s'il fero Achille
d'Amor
fu preda, ed Ercole e Teseo,
s'ancor chi per Giesú la spada
cinge
l'empio ne' lacci suoi talora stringe?
Argomento
Sdegna
Gernando che Rinaldo aspire
Al grado, ov'egli esser assunto
agogna:
Perciò ministro a se del suo morire,
Lui, che
l'uccide poi, forte rampogna,
Va l'uccisor in bando: né
patire
Vuol che catena, o ceppi altri gli pogna.
Parte Armida
contenta; ma dal mare
Vengono al gran Buglion novelle amare.
Mentre
in tal guisa i cavalieri alletta
ne l'amor suo l'insidiosa
Armida,
né solo i diece a lei promessi aspetta
ma di
furto menarne altri confida,
volge tra sé Goffredo a cui
commetta
la dubbia impresa ov'ella esser dée guida,
ché
de gli aventurier la copia e 'l merto
e 'l desir di ciascuno il
fanno incerto.
Ma
con provido aviso al fin dispone
ch'essi un di loro scelgano a sua
voglia,
che succeda al magnanimo Dudone
e quella elezion sovra
sé toglia.
Cosí non averrà ch'ei dia
cagione
ad alcun d'essi che di lui si doglia,
e insieme
mostrerà d'aver nel pregio,
in cui deve a ragion, lo stuolo
egregio.
A sé
dunque li chiama, e lor favella:
"Stata è da voi la
mia sentenza udita,
ch'era non di negare a la donzella,
ma di
darle in stagion matura aita.
Di novo or la propongo, e ben pote
ella
esser dal parer vostro anco seguita,
ché nel mondo
mutabile e leggiero
costanza è spesso il variar pensiero.
Ma se stimate
ancor che mal convegna
al vostro grado il rifiutar periglio,
e
se pur generoso ardire sdegna
quel che troppo gli par cauto
consiglio,
non sia ch'involontari io vi ritegna,
né quel
che già vi diedi or mi ripiglio;
ma sia con esso voi,
com'esser deve,
il fren del nostro imperio lento e leve.
Dunque lo starne
o 'l girne i' son contento
che dal vostro piacer libero penda:
ben
vuo' che pria facciate al duce spento
successor novo, e di voi
cura ei prenda,
e tra voi scelga i diece a suo talento;
non già
di diece il numero trascenda,
ch'in questo il sommo imperio a me
riservo:
non fia l'arbitrio suo per altro servo."
Cosí disse
Goffredo; e 'l suo germano,
consentendo ciascun, risposta
diede:
"Sí come a te conviensi, o capitano,
questa
lenta virtú che lunge vede,
cosí il vigor del core e
de la mano,
quasi debito a noi, da noi si chiede.
E saria la
matura tarditate,
ch'in altri è providenza, in voi viltate.
E poi che 'l
rischio è di sí leve danno
posto in lance co 'l pro
che 'l contrapesa,
te permettente, i diece eletti andranno
con
la donzella a l'onorata impresa."
Cosí conclude, e con
sí adorno inganno
cerca di ricoprir la mente accesa
sotto
altro zelo; e gli altri anco d'onore
fingon desio quel ch'è
desio d'amore.
Ma
il piú giovin Buglione, il qual rimira
con geloso occhio il
figlio di Sofia,
la cui virtute invidiando ammira
che 'n sí
bel corpo piú cara venia,
no 'l vorrebbe compagno, e al cor
gli inspira
cauti pensier l'astuta gelosia,
onde, tratto il
rivale a sé in disparte,
ragiona a lui con lusinghevol
arte:
"O di
gran genitor maggior figliuolo,
che 'l sommo pregio in arme hai
giovenetto,
or chi sarà del valoroso stuolo,
di cui
parte noi siamo, in duce eletto?
Io, ch'a Dudon famoso a pena, e
solo
per l'onor de l'età, vivea soggetto;
io, fratel di
Goffredo, a chi piú deggio
cedere omai? se tu non sei, no
'l veggio.
Te, la
cui nobiltà tutt'altre agguaglia,
gloria e merito d'opre a
me prepone,
né sdegnerebbe in pregio di battaglia
minor
chiamarsi anco il maggior Buglione.
Te dunque in duce bramo, ove
non caglia
a te di questa sira esser campione,
né già
cred'io che quell'onor tu curi
che da' fatti verrà notturni
e scuri;
né
mancherà qui loco ove s'impieghi
con piú lucida fama
il tuo valore.
Or io procurerò, se tu no 'l neghi,
ch'a
te concedan gli altri il sommo onore;
ma perché non so ben
dove si pieghi
l'irresoluto mio dubbioso core,
impetro or io da
te, ch'a voglia mia
o segua poscia Armida o teco stia."
Qui tacque
Eustazio, e questi estremi accenti
non proferí senza
arrossarsi in viso,
e i mal celati suoi pensier ardenti
l'altro
ben vide, e mosse ad un sorriso;
ma perch'a lui colpi d'amor piú
lenti
non hanno il petto oltra la scorza inciso,
né
molto impaziente è di rivale,
né la donzella di
seguir gli cale
ben
altamente ha nel pensier tenace
l'acerba morte di Dudon
scolpita,
e si reca a disnor ch'Argante audace
gli soprastia
lunga stagion in vita;
e parte di sentir anco gli piace
quel
parlar ch'al dovuto onor l'invita,
e 'l giovenetto cor s'appaga e
gode
del dolce suon de la verace lode.
Onde
cosí rispose: "I gradi primi
piú meritar che
conseguir desio,
né, pur che me la mia virtú
sublimi,
di scettri altezza invidiar degg'io;
ma s'a l'onor mi
chiami, e che lo stimi
debito a me, non ci verrò restio,
e
caro esser mi dée che sia dimostro
sí bel segno da
voi del valor nostro.
Dunque
io no 'l chiedo e no 'l rifiuto; e quando
duce io pur sia, sarai
tu de gli eletti."
Allora il lascia Eustazio, e va
piegando
de' suoi compagni al suo voler gli affetti;
ma chiede
a prova il principe Gernando
quel grado, e bench'Armida in lui
saetti,
men può nel cor superbo amor di donna
ch'avidità
d'onor che se n'indonna.
Sceso
Gernando è da' gran re norvegi,
che di molte provincie
ebber l'impero;
e le tante corone e' scettri regi
e del padre e
de gli avi il fanno altero.
Altero è l'altro de' suoi
propri pregi,
piú che de l'opre che i passati fèro,
ancor
che gli avi suoi cento e piú lustri
stati sian chiari in
pace e 'n guerra illustri.
Ma
il barbaro signor, che sol misura
quanto l'oro o 'l domino oltre
si stenda,
e per sé stima ogni virtute oscura
cui titolo
regal chiara non renda,
non può soffrir che 'n ciò
ch'egli procura
seco di merto il cavalier contenda,
e se ne
cruccia sí ch'oltra ogni segno
di ragione il trasporta ira
e disdegno.
Tal
che 'l maligno spirito d'Averno,
ch'in lui strada sí larga
aprir si vede,
tacito in sen gli serpe ed al governo
de' suoi
pensieri lusingando siede.
E qui piú sempre l'ira e l'odio
interno
inacerbisce, e 'l cor stimola e fiede;
e fa che 'n
mezzo a l'alma ognor risuona
una voce ch'a lui cosí
ragiona:
"Teco
giostra Rinaldo: or tanto vale
quel suo numero van d'antichi
eroi?
Narri costui, ch'a te vuol farsi eguale,
le genti serve e
i tributari suoi;
mostri gli scettri, e in dignità
regale
paragoni i suoi morti a i vivi tuoi.
Ah quanto osa un
signor d'indegno stato,
signor che ne la serva Italia è
nato!
Vinca egli
o perda omai, ché vincitore
fu insino allor ch'emulo tuo
divenne,
che dirà il mondo? (e ciò fia sommo
onore):
`Questi già con Gernando in gara venne.'
Poteva
a te recar gloria e splendore
il nobil grado che Dudon pria
tenne;
ma già non meno esso da te n'attese:
costui scemò
suo pregio allor che 'l chiese.
E
se, poi ch'altri piú non parla o spira,
de' nostri affari
alcuna cosa sente,
come credi che 'n Ciel di nobil ira
il buon
vecchio Dudon si mostri ardente,
mentre in questo superbo i lumi
gira
ed al suo temerario ardir pon mente,
che seco ancor, l'età
sprezzando e 'l merto,
fanciullo osa agguagliarsi ed inesperto?
E l'osa pure e 'l
tenta, e ne riporta
in vece di castigo onor e laude,
e v'è
chi ne 'l consiglia e ne l'essorta
(o vergogna comune!) e chi gli
applaude.
Ma se Goffredo il vede, e gli comporta
che di ciò
ch'a te déssi egli ti fraude,
no 'l soffrir tu; né
già soffrirlo déi,
ma ciò che puoi dimostra e
ciò che sei."
Al
suon di queste voci arde lo sdegno
e cresce in lui quasi commossa
face;
né capendo nel cor gonfiato e pregno,
per gli
occhi n'esce e per la lingua audace.
Ciò che di
riprensibile e d'indegno
crede in Rinaldo, a suo disnor non
tace;
superbo e vano il finge, e 'l suo valore
chiama temerità
pazza e furore.
E
quanto di magnanimo e d'altero
e d'eccelso e d'illustre in lui
risplende,
tutto adombrando con mal arti il vero,
pur come
vizio sia, biasma e riprende,
e ne ragiona sí che 'l
cavaliero,
emulo suo, publico il suon n'intende;
non però
sfoga l'ira o si raffrena
quel cieco impeto in lui ch'a morte il
mena,
ché
'l reo demon che la sua lingua move
di spirto in vece, e forma
ogni suo detto,
fa che gl'ingiusti oltraggi ognor rinove,
esca
aggiungendo a l'infiammato petto.
Loco è nel campo assai
capace, dove
s'aduna sempre un bel drapello eletto,
e quivi
insieme in torneamenti e in lotte
rendon le membra vigorose e
dotte.
Or quivi,
allor che v'è turba piú folta,
pur, com'è suo
destin, Rinaldo accusa,
e quasi acuto strale in lui rivolta
la
lingua, del venen d'Averno infusa;
e vicino è Rinaldo e i
detti ascolta,
né pote l'ira omai tener piú
chiusa,
ma grida: "Menti," e adosso a lui si spinge,
e
nudo ne la destra il ferro stringe.
Parve
un tuono la voce, e 'l ferro un lampo
che di folgor cadente
annunzio apporte.
Tremò colui, né vide fuga o
scampo
da la presente irreparabil morte;
pur, tutto essendo
testimonio il campo,
fa sembianti d'intrepido e di forte,
e 'l
gran nemico attende, e 'l ferro tratto
fermo si reca di difesa in
atto.
Quasi in
quel punto mille spade ardenti
furon vedute fiammeggiar
insieme,
ché varia turba di mal caute genti
d'ogn'intorno
v'accorre, e s'urta e preme.
D'incerte voci e di confusi
accenti
un suon per l'aria si raggira e freme,
qual s'ode in
riva al mare, ove confonda
il vento i suoi co' mormorii de l'onda.
Ma per le voci
altrui già non s'allenta
ne l'offeso guerrier l'impeto e
l'ira.
Sprezza i gridi e i ripari e ciò che
tenta
chiudergli il varco, ed a vendetta aspira;
e fra gli
uomini e l'armi oltre s'aventa,
e la fulminea spada in cerchio
gira,
sí che le vie si sgombra e solo, ad onta
di mille
difensor, Gernando affronta.
E
con la man, ne l'ira anco maestra,
mille colpi vèr lui
drizza e comparte:
or al petto, or al capo, or a la destra
tenta
ferirlo, ora a la manca parte,
e impetuosa e rapida la destra
è
in guisa tal che gli occhi inganna e l'arte,
tal ch'improvisa e
inaspettata giunge
ove manco si teme, e fère e punge.
Né cessò
mai sin che nel seno immersa
gli ebbe una volta e due la fera
spada.
Cade il meschin su la ferita, e versa
gli spirti e
l'alma fuor per doppia strada.
L'arme ripone ancor di sangue
aspersa
il vincitor, né sovra lui piú bada;
ma si
rivolge altrove, e insieme spoglia
l'animo crudo e l'adirata
voglia.
Tratto al
tumulto il pio Goffredo intanto,
vede fero spettacolo
improviso:
steso Gernando, il crin di sangue e 'l manto
sordido
e molle, e pien di morte il viso;
ode i sospiri e le querele e 'l
pianto
che molti fan sovra il guerrier ucciso.
Stupido chiede:
"Or qui, dove men lece,
chi fu ch'ardí cotanto e tanto
fece?"
Arnalto,
un de' piú cari al prence estinto,
narra (e 'l caso in
narrando aggrava molto)
che Rinaldo l'uccise e che fu spinto
da
leggiera cagion d'impeto stolto,
e che quel ferro, che per Cristo
è cinto,
ne' campioni di Cristo avea rivolto,
e
sprezzato il suo impero e quel divieto
che fe' pur dianzi e che
non è secreto;
e
che per legge è reo di morte e deve,
come l'editto impone,
esser punito,
sí perché il fallo in se medesmo è
greve,
sí perché 'n loco tale egli è
seguito;
che se de l'error suo perdon riceve,
fia ciascun altro
per l'essempio ardito,
e che gli offesi poi quella
vendetta
vorranno far ch'a i giudici s'aspetta;
onde
per tal cagion discordie e risse
germoglieran fra quella parte e
questa.
Rammentò i merti de l'estinto, e disse
tutto ciò
ch'o pietate o sdegno desta.
Ma s'oppose Tancredi e contradisse,
e
la causa del reo dipinse onesta.
Goffredo ascolta, e in rigida
sembianza
porge piú di timor che di speranza.
Soggiunse allor
Tancredi: "Or ti sovegna,
saggio signor, chi sia Rinaldo e
quale:
qual per se stesso onor gli si convegna,
e per la stirpe
sua chiara e regale,
e per Guelfo suo zio. Non dée chi
regna
nel castigo con tutti esser eguale:
vario è
l'istesso error ne' gradi vari,
e sol l'egualità giusta è
co' pari."
Risponde
il capitan: "Da i piú sublimi
ad ubidire imparino i
piú bassi.
Mal, Tancredi, consigli e male stimi
se vuoi
ch'i grandi in sua licenza io lassi.
Qual fòra imperio il
mio s'a vili ed imi,
sol duce de la plebe, io commandassi?
Scettro
impotente e vergognoso impero:
se con tal legge è dato, io
piú no 'l chero.
Ma
libero fu dato e venerando,
né vuo' ch'alcun d'autorità
lo scemi.
E so ben io come si deggia e quando
ora diverse impor
le pene e i premi,
ora, tenor d'egualità serbando,
non
separar da gli infimi i supremi."
Cosí dicea; né
rispondea colui,
vinto da riverenza, a i detti sui.
Raimondo,
imitator de la severa
rigida antichità, lodava i
detti.
"Con quest'arti" dicea "chi bene impera
si
rende venerabile a i soggetti,
ché già non è
la disciplina intera
ov'uom perdono e non castigo aspetti.
Cade
ogni regno, e ruinosa è senza
la base del timor ogni
clemenza."
Tal
ei parlava, e le parole accolse
Tancredi, e piú fra lor non
si ritenne,
ma vèr Rinaldo immantinente volse
un suo
destrier che parve aver le penne.
Rinaldo, poi ch'al fer nemico
tolse
l'orgoglio e l'alma, al padiglion se 'n venne.
Qui
Tancredi trovollo, e de le cose
dette e risposte a pien la somma
espose.
Soggiunse
poi: "Bench'io sembianza esterna
del cor non stimi testimon
verace,
ché 'n parte troppo cupa e troppo interna
il
pensier de' mortali occulto giace,
pur ardisco affermar, a quel
ch'io scerna
nel capitan ch'in tutto anco no 'l tace,
ch'egli
ti voglia a l'obligo soggetto
de' rei comune e in suo poter
ristretto."
Sorrise
allor Rinaldo, e con un volto
in cui tra 'l riso lampeggiò
lo sdegno:
"Difenda sua ragion ne' ceppi involto
chi servo
è" disse "o d'esser servo è degno.
Libero
i' nacqui e vissi, e morrò sciolto
pria che man porga o
piede a laccio indegno:
usa a la spada è questa destra ed
usa
a le palme, e vil nodo ella ricusa.
Ma
s'a i meriti miei questa mercede
Goffredo rende e vuol
impregionarme
pur com'io fosse un uom del vulgo, e crede
a
carcere plebeo legato trarme,
venga egli o mandi, io terrò
fermo il piede.
Giudici fian tra noi la sorte e l'arme:
fera
tragedia vuol che s'appresenti
per lor diporto a le nemiche
genti."
Ciò
detto, l'armi chiede; e 'l capo e 'l busto
di finissimo acciaio
adorno rende
e fa del grande scudo il braccio onusto,
e la
fatale spada al fianco appende,
e in sembiante magnanimo ed
augusto,
come folgore suol, ne l'arme splende.
Marte, e'
rassembra te qualor dal quinto
cielo di ferro scendi e d'orror
cinto.
Tancredi
intanto i feri spirti e 'l core
insuperbito d'ammollir
procura.
"Giovene invitto," dice "al tuo valore
so
che fia piana ogn'erta impresa e dura,
so che fra l'arme sempre e
fra 'l terrore
la tua eccelsa virtute è piú
secura;
ma non consenta Dio ch'ella si mostri
oggi sí
crudelmente a' danni nostri.
Dimmi,
che pensi far? vorrai le mani
del civil sangue tuo dunque
bruttarte?
e con le piaghe indegne de' cristiani
trafigger
Cristo, ond'ei son membra e parte?
Di transitorio onor rispetti
vani,
che qual onda del mar se 'n viene e parte,
potranno in te
piú che la fede e 'l zelo
di quella gloria che n'eterna in
Cielo?
Ah non,
per Dio!, vinci te stesso e spoglia
questa feroce tua mente
superba.
Cedi! non fia timor, ma santa voglia,
ch'a questo
ceder tuo palma si serba.
E se pur degna ond'altri essempio
toglia
è la mia giovenetta etate acerba,
anch'io fui
provocato, e pur non venni
co' fedeli in contesa e mi contenni;
ch'avend'io preso
di Cilicia il regno,
e l'insegne spiegatevi di Cristo,
Baldovin
sopragiunse, e con indegno
modo occupollo e ne fe' vile
acquisto;
ché, mostrandosi amico ad ogni segno,
del suo
avaro pensier non m'era avisto.
Ma con l'arme però di
ricovrarlo
non tentai poscia, e forse i' potea farlo.
E
se pur anco la prigion ricusi
e i lacci schivi, quasi ignobil
pondo,
e seguir vuoi l'opinioni e gli usi
che per leggi d'onore
approva il mondo,
lascia qui me ch'al capitan ti scusi,
e 'n
Antiochia tu vanne a Boemondo,
ché né soppórti
in questo impeto primo
a' suoi giudizi assai securo stimo.
Ben tosto fia, se
pur qui contra avremo
l'arme d'Egitto o d'altro stuol
pagano,
ch'assai piú chiaro il tuo valore
estremo
n'apparirà mentre sarai lontano;
e senza te
parranne il campo scemo,
quasi corpo cui tronco è braccio o
mano."
Qui Guelfo sopragiunge e i detti approva,
e vuol
che senza indugio indi si mova.
A
i lor consigli la sdegnosa mente
de l'audace garzon si svolge e
piega,
tal ch'egli di partirsi immantinente
fuor di quell'oste
a i fidi suoi non nega.
Molta intanto è concorsa amica
gente,
e seco andarne ognun procura e prega;
egli tutti
ringrazia e seco prende
sol duo scudieri, e su 'l cavallo ascende.
Parte, e porta un
desio d'eterna ed alma
gloria ch'a nobil core è sferza e
sprone;
a magnanime imprese intent'ha l'alma,
ed insolite cose
oprar dispone:
gir fra i nemici, ivi o cipresso o palma
acquistar
per la fede ond'è campione,
scorrer l'Egitto, e penetrar
sin dove
fuor d'incognito fonte il Nilo move.
Ma
Guelfo, poi che 'l giovene feroce
affrettato al partir preso ha
congedo,
quivi non bada, e se ne va veloce
ove egli stima
ritrovar Goffredo,
il qual, come lui vede, alza la voce:
"Guelfo,"
dicendo "a punto or te richiedo,
e mandato ho pur ora in
varie parti
alcun de' nostri araldi a ricercarti."
Poi fa ritrarre
ogn'altro, e in basse note
ricomincia con lui grave
sermone:
"Veracemente, o Guelfo, il tuo nepote
troppo
trascorre, ov'ira il cor gli sprone,
e male addursi a mia credenza
or pote
di questo fatto suo giusta cagione.
Ben caro avrò
ch'ella ci rechi tale,
ma Goffredo con tutti è duce eguale;
e sarà del
legitimo e del dritto
custode in ogni caso e difensore,
serbando
sempre al giudicare invitto
da le tiranne passioni il core.
Or
se Rinaldo a violar l'editto
e de la disciplina il sacro
onore
costretto fu, come alcun dice, a i nostri
giudizi venga
ad inchinarsi, e 'l mostri.
A
sua retenzion libero vegna:
questo, ch'io posso, a i merti suoi
consento.
Ma s'egli sta ritroso e se ne sdegna
(conosco quel
suo indomito ardimento),
tu di condurlo a proveder t'ingegna
ch'ei
non isforzi uom mansueto e lento
ad esser de le leggi e de
l'impero
vendicator, quanto è ragion, severo."
Cosí disse
egli; e Guelfo a lui rispose;
"Anima non potea d'infamia
schiva
voci sentir di scorno ingiuriose,
e non farne repulsa
ove l'udiva.
E se l'oltraggiatore a morte ei pose,
chi è
che mèta a giust'ira prescriva?
chi conta i colpi o la
dovuta offesa,
mentre arde la tenzon, misura e pesa?
Ma
quel che chiedi tu, ch'al tuo soprano
arbitrio il garzon venga a
sottoporse,
duolmi ch'esser non può, ch'egli lontano
da
l'oste immantinente il passo torse.
Ben m'offro io di provar con
questa mano
a lui ch'a torto in falsa accusa il morse,
o
s'altri v'è di sí maligno dente,
ch'ei puní
l'onta ingiusta giustamente.
A
ragion, dico, al tumido Gernando
fiaccò le corna del
superbo orgoglio.
Sol, s'egli errò, fu ne l'oblio del
bando;
ciò ben mi pesa, ed a lodar no 'l toglio."
Tacque,
e disse Goffredo: "Or vada errando,
e porti risse altrove; io
qui non voglio
che sparga seme tu di nove liti:
deh, per Dio,
sian gli sdegni anco forniti."
Di
procurare il suo soccorso intanto
non cessò mai
l'ingannatrice rea.
Pregava il giorno, e ponea in uso
quanto
l'arte e l'ingegno e la beltà potea;
ma poi,
quando stendendo il fosco manto
la notte in occidente il dí
chiudea,
tra duo suoi cavalieri e due matrone
ricovrava in
disparte al padiglione.
Ma
benché sia mastra d'inganni, e i suoi
modi gentili e le
maniere accorte,
e bella sí che 'l ciel prima né
poi
altrui non dié maggior bellezza in sorte,
tal che
del campo i piú famosi eroi
ha presi d'un piacer tenace e
forte;
non è però ch'a l'esca de' diletti
il pio
Goffredo lusingando alletti.
In
van cerca invaghirlo, e con mortali
dolcezze attrarlo a l'amorosa
vita,
ché qual saturo augel, che non si cali
ove il cibo
mostrando altri l'invita,
tal ei sazio del mondo i piacer
frali
sprezza, e se 'n poggia al Ciel per via romita,
e quante
insidie al suo bel volo tende
l'infido amor, tutte fallaci rende.
Né
impedimento alcun torcer da l'orme
pote, che Dio ne segna, i
pensier santi.
Tentò ella mill'arti, e in mille forme
quasi
Proteo novel gli apparse inanti,
e desto Amor, dove piú
freddo ei dorme,
avrian gli atti dolcissimi e i sembianti,
ma
qui (grazie divine) ogni sua prova
vana riesce, e ritentar non
giova.
La bella
donna, ch'ogni cor piú casto
arder credeva ad un girar di
ciglia,
oh come perde or l'alterezza e 'l fasto!
e quale ha di
ciò sdegno e meraviglia!
Rivolger le sue forze ove
contrasto
men duro trovi al fin si riconsiglia,
qual capitan
ch'inespugnabil terra
stanco abbandoni, e porti altrove guerra.
Ma contra l'arme
di costei non meno
si mostrò di Tancredi invitto il
core,
però ch'altro desio gli ingombra il seno,
né
vi può loco aver novello ardore;
ché si come da l'un
l'altro veneno
guardar ne suol, tal l'un da l'altro amore.
Questi
soli non vinse: o molto o poco
avampò ciascun altro al suo
bel foco.
Ella,
se ben si duol che non succeda
sí pienamente il suo disegno
e l'arte,
pur fatto avendo cosí nobil preda
di tanti
eroi, si riconsola in parte.
E pria che di sue frodi altri
s'aveda,
pensa condurgli in piú secura parte,
ove gli
stringa poi d'altre catene
che non son quelle ond'or presi li
tiene.
E sendo
giunto il termine che fisse
il capitano a darle alcun soccorso,
a
lui se 'n venne riverente e disse:
"Sire, il dí
stabilito è già trascorso,
e se per sorte il reo
tiranno udisse
ch'i' abbia fatto a l'arme tue ricorso,
prepareria
sue forze a la difesa,
né cosí agevol poi fòra
l'impresa.
Dunque,
prima ch'a lui tal nova apporti
voce incerta di fama o certa
spia,
scelga la tua pietà fra i tuoi piú
forti
alcuni pochi, e meco or or gli invia,
ché se non
mira il Ciel con occhi torti
l'opre mortali o l'innocenza
oblia,
sarò riposta in regno, e la mia terra
sempre
avrai tributaria in pace e in guerra."
Cosí
diceva, e 'l capitano a i detti
quel che negar non si potea
concede,
se ben, ov'ella il suo partir affretti,
in sé
tornar l'elezion ne vede;
ma nel numero ognun de' diece eletti
con
insolita instanza esser richiede,
e l'emulazion che 'n lor si
desta
piú importuni li fa ne la richiesta.
Ella,
che 'n essi mira aperto il core,
prende vedendo ciò novo
argomento,
e su 'l lor fianco adopra il rio timore
di gelosia
per ferza e per tormento;
sapendo ben ch'al fin s'invecchia
Amore
senza quest'arti e divien pigro e lento,
quasi destrier
che men veloce corra
se non ha chi lui segua e chi 'l precorra.
E in tal modo
comparte i detti sui
e 'l guardo lusinghiero e 'l dolce
riso,
ch'alcun non è che non invidii altrui,
né
il timor de la speme è in lor diviso.
La folle turba de gli
amanti, a cui
stimolo è l'arte d'un fallace viso,
senza
fren corre, e non li tien vergogna,
e loro indarno il capitan
rampogna.
Ei
ch'egualmente satisfar desira
ciascuna de le parti e in nulla
pende,
se ben alquanto or di vergogna or d'ira
al vaneggiar de'
cavalier s'accende,
poi ch'ostinati in quel desio li mira,
novo
consiglio in accordarli prende:
"Scrivansi i vostri nomi ed
in un vaso
pongansi," disse "e sia giudice il caso."
Subito il nome di
ciascun si scrisse,
e in picciol'urna posti e scossi foro,
e
tratti a sorte; e 'l primo che n'uscisse
fu il conte di Pembrozia
Artemidoro.
Legger poi di Gherardo il nome udisse,
ed uscí
Vincilao dopo costoro:
Vincilao che, sí grave e saggio
inante,
canuto or pargoleggia e vecchio amante.
Oh
come il volto han lieto, e gli occhi pregni
di quel piacer che dal
cor pieno inonda,
questi tre primi eletti, i cui disegni
la
fortuna in amor destra seconda!
D'incerto cor, di gelosia dan
segni
gli altri il cui nome avien che l'urna asconda,
e da la
bocca pendon di colui
che spiega i brevi e legge i nomi altrui.
Guasco quarto
fuor venne, a cui successe
Ridolfo ed a Ridolfo indi
Olderico,
quinci Guglielmo Ronciglion si lesse,
e 'l bavaro
Eberardo, e 'l franco Enrico.
Rambaldo ultimo fu, che farsi
elesse
poi, fé cangiando, di Giesú nemico
(tanto
pote Amor dunque?); e questi chiuse
il numero de' diece, e gli
altri escluse.
D'ira,
di gelosia, d'invidia ardenti,
chiaman gli altri Fortuna ingiusta
e ria,
a te accusano, Amor, che le consenti,
che ne l'imperio
tuo giudice sia.
Ma perché instinto è de l'umane
genti
che ciò che piú si vieta uom piú
desia,
dispongon molti ad onta di fortuna
seguir la donna come
il ciel s'imbruna.
Voglion
sempre seguirla a l'ombra al sole,
e per lei combattendo espor la
vita.
Ella fanne alcun motto, e con parole
tronche e dolci
sospir a ciò gli invita,
ed or con questo ed or con quel si
duole
che far convienle senza lui partita.
S'erano armati
intanto, e da Goffredo
toglieano i diece cavalier congedo.
Gli ammonisce
quel saggio a parte a parte
come la fé pagana è
incerta e leve,
e mal securo pegno; e con qual arte
l'insidie e
i casi aversi uom fuggir deve;
ma son le sue parole al vento
sparte,
né consiglio d'uom sano Amor riceve.
Lor dà
commiato al fine, e la donzella
non aspetta al partir l'alba
novella.
Parte la
vincitrice, e quei rivali
quasi prigioni al suo trionfo
inanti
seco n'adduce, e tra infiniti mali
lascia la turba poi
de gli altri amanti.
Ma come uscí la notte, e sotto
l'ali
menò il silenzio e i levi sogni
erranti,
secretamente, com'Amor gl'informa,
molti d'Armida
seguitaron l'orma.
Segue
Eustazio il primiero, e pote a pena
aspettar l'ombre che la notte
adduce;
vassene frettoloso ove ne 'l mena
per le tenebre cieche
un cieco duce.
Errò la notte tepida e serena;
ma poi ne
l'apparir de l'alma luce
gli apparse insieme Armida e 'l suo
drapello,
dove un borgo lor fu notturno ostello.
Ratto
ei vèr lei si move, ed a l'insegna
tosto Rambaldo il
riconosce, e grida
che ricerchi fra loro e perché
vegna.
"Vengo" risponde "a seguitarne Armida,
ned
ella avrà da me, se non la sdegna,
men pronta aita o
servitú men fida."
Replica l'altro: "Ed a cotanto
onore,
di', chi t'elesse?" Egli soggiunge: "Amore.
Me scelse Amor,
te la Fortuna: or quale
da piú giusto elettore eletto
parti?"
Dice Rambaldo allor: "Nulla ti vale
titolo
falso, ed usi inutil arti;
né potrai de la vergine
regale
fra i campioni legitimi meschiarti,
illegitimo servo."
"E chi" riprende
cruccioso il giovenetto "a me il
contende?"
"Io
te 'l difenderò" colui rispose,
e feglisi a l'incontro
in questo dire,
e con voglie egualmente in lui sdegnose
l'altro
si mosse e con eguale ardire;
ma qui stese la mano, e si
frapose
la tiranna de l'alme in mezzo a l'ire,
ed a l'uno
dicea: "Deh! non t'incresca
ch'a te compagno, a me campion
s'accresca.
S'ami
che salva i' sia, perché mi privi
in sí grand'uopo
de la nova aita?"
Dice a l'altro: "Opportuno e grato
arrivi
difensor di mia fama e di mia vita;
né vuol
ragion, né sarà mai ch'io schivi
compagnia nobil
tanto e sí gradita."
Cosí parlando, ad or ad or
tra via
alcun novo campion le sorvenia.
Chi
di là giunge e chi di qua, né l'uno
sapea de
l'altro, e il mira bieco e torto.
Essa lieta gli accoglie, ed a
ciascuno
mostra del suo venir gioia e conforto.
Ma già
ne lo schiarir de l'aer bruno
s'era del lor partir Goffredo
accorto,
e la mente, indovina de' lor danni,
d'alcun futuro mal
par che s'affanni.
Mentre
a ciò pur ripensa, un messo appare
polveroso, anelante, in
vista afflitto,
in atto d'uom ch'altrui novelle amare
porti, e
mostri il dolore in fronte scritto.
Disse costui: "Signor,
tosto nel mare
la grande armata apparirà d'Egitto;
e
l'aviso Guglielmo, il qual comanda
a i liguri navigli, a te ne
manda."
Soggiunse
a questo poi che, da le navi
sendo condotta vettovaglia al
campo,
i cavalli e i cameli onusti e gravi
trovato aveano a
mezza strada inciampo,
e ch'i lor difensori uccisi o
schiavi
restàr pugnando, e nessun fece scampo,
da i
ladroni d'Arabia in una valle
assaliti a la fronte ed a le spalle;
e che l'insano
ardire e la licenza
di que' barbari erranti è omai sí
grande
ch'in guisa d'un diluvio intorno senza
alcun contrasto
si dilata e spande,
onde convien ch'a porre in lor temenza
alcuna
squadra di guerrier si mande,
ch'assecuri la via che da
l'arene
del mar di Palestina al campo viene.
D'una
in un'altra lingua in un momento
ne trapassa la fama e si
distende,
e 'l vulgo de' soldati alto spavento
ha de la fame
che vicina attende.
Il saggio capitan, che l'ardimento
solito
loro in essi or non comprende,
cerca con lieto volto e con
parole
come li rassecuri e riconsole:
"O
per mille perigli e mille affanni
meco passati in quelle parti e
in queste,
campion di Dio, ch'a ristorare i danni
de la
cristiana sua fede nasceste;
voi, che l'arme di Persia e i greci
inganni,
e i monti e i mari e 'l verno e le tempeste,
de la
fame i disagi e de la sete
superaste, voi dunque ora temete?
Dunque il Signor
che v'indirizza e move,
già conosciuto in caso assai piú
rio,
non v'assecura, quasi or volga altrove
la man de la
clemenza e 'l guardo pio?
Tosto un dí fia che rimembrar vi
giove
gli scorsi affanni, e sciòrre i voti a Dio.
Or
durate magnanimi, e voi stessi
serbate, prego, a i prosperi
successi."
Con
questi detti le smarrite menti
consola e con sereno e lieto
aspetto,
ma preme mille cure egre e dolenti
altamente riposte
in mezzo al petto.
Come possa nutrir sí varie genti
pensa
fra la penuria e tra 'l difetto,
come a l'armata in mar s'opponga,
e come
gli Arabi predatori affreni e dome.
Argomento
Argante
ogni Cristiano a giostra appella:
Indi Otton non eletto, a lui
s'oppone
Audace troppo, e tolto vien di sella;
Onde sen va
nella città prigione.
Tancredi pur con lui pugna
novella
Comincia; ma a lei tregua il bujo impone.
Erminia che
del suo signor si crede
Curare il mal, move notturna il piede.
Ma
d'altra parte l'assediate genti
speme miglior conforta e
rassecura,
ch'oltra il cibo raccolto altri alimenti
son lor
dentro portati a notte oscura,
ed han munite d'arme e
d'instrumenti
di guerra verso l'Aquilon le mura,
che d'altezza
accresciute e sode e grosse
non mostran di temer d'urti o di
scosse.
E 'l re
pur sempre queste parti e quelle
lor fa inalzare e rafforzare i
fianchi,
o l'aureo sol risplenda od a le stelle
ed a la luna il
fosco ciel s'imbianchi;
e in far continuamente arme novelle
sudano
i fabri affaticati e stanchi.
In sí fatto apparecchio
intolerante
a lui se 'n venne, e ragionolli Argante:
"E
insino a quando ci terrai prigioni
fra queste mura in vile assedio
e lento?
Odo ben io stridere incudi, e suoni
d'elmi e di scudi
e di corazze sento,
ma non veggio a quel uso; e quei
ladroni
scorrono i campi e i borghi a lor talento,
né
v'è di noi chi mai lor passo arresti,
né tromba che
dal sonno almen gli desti.
A
lor né i prandi mai turbati e rotti,
né molestate
son le cene liete,
anzi egualmente i dí lunghi e le
notti
traggon con securezza e con quiete.
Voi da i disagi e da
la fame indotti
a darvi vinti a lungo andar sarete
od a morirne
qui, come codardi,
quando d'Egitto pur l'aiuto tardi.
Io
per me non vuo' già ch'ignobil morte
i giorni miei d'oscuro
oblio ricopra,
né vuo' ch'al novo dí fra queste
porte
l'alma luce del sol chiuso mi scopra.
Di questo viver mio
faccia la sorte
quel che già stabilito è là
di sopra;
non farà già che senza oprar la
spada
inglorioso e invendicato io cada.
Ma
quando pur del valor vostro usato
cosí non fosse in voi
spento ogni seme,
non di morir pugnando ed onorato,
ma di vita
e di palma anco avrei speme.
A incontrare i nemici e 'l nostro
fato
andianne pur deliberati insieme,
ché spesso avien
che ne' maggior perigli
sono i piú audaci gli ottimi
consigli.
Ma se
nel troppo osar tu non isperi,
né sei d'uscir con ogni
squadra ardito,
procura almen che sia per duo guerrieri
questo
tuo gran litigio or difinito.
E perch'accetti ancor piú
volentieri
il capitan de' Franchi il nostro invito,
l'arme egli
scelga e 'l suo vantaggio toglia,
e le condizion formi a sua
voglia.
Ché
se 'l nemico avrà due mani ed una
anima solo, ancor
ch'audace e fera,
temer non déi, per isciagura alcuna,
che
la ragion da me difesa pèra.
Pote in vece di fato e di
fortuna
darti la destra mia vittoria intera,
ed a te se medesma
or porge in pegno
che se 'l confidi in lei salvo è il tuo
regno."
Tacque,
e rispose il re: "Giovene ardente,
se ben me vedi in grave
età senile,
non sono al ferro queste man sí
lente,
né sí quest'alma è neghittosa e
vile
ch'anzi morir volesse ignobilmente
che di morte magnanima
e gentile,
quando io temenza avessi o dubbio alcuno
de' disagi
ch'annunzii e del digiuno.
Cessi
Dio tanta infamia! Or quel ch'ad arte
nascondo altrui, vuo' ch'a
te sia palese.
Soliman di Nicea, che brama in parte
di vendicar
le ricevute offese,
de gli Arabi le schiere erranti e
sparte
raccolte ha fin dal libico paese,
e i nemici assalendo a
l'aria nera
darne soccorso e vettovaglia spera.
Tosto
fia che qui giunga; or se fra tanto
son le nostre castella
oppresse e serve,
non ce ne caglia, pur che 'l regal manto
e la
mia nobil reggia io mi conserve.
Tu l'ardimento e questo ardore
alquanto
tempra, per Dio, che 'n te soverchio ferve,
ed
opportuna la stagione aspetta
a la tua gloria ed a la mia
vendetta."
Forte
sdegnossi il saracino audace,
ch'era di Solimano emulo antico,
sí
amaramente ora d'udir gli spiace
che tanto se 'n prometta il rege
amico.
"A tuo senno" risponde "e guerra e
pace
farai, signor: nulla di ciò piú dico.
S'indugi
pure, e Soliman s'attenda;
ei, che perdé il suo regno, il
tuo difenda.
Vengane
a te quasi celeste messo,
liberator del popolo pagano,
ch'io,
quanto a me, bastar credo a me stesso,
e sol vuo' libertà
da questa mano.
Or nel riposo altrui siami concesso
ch'io ne
discenda a guerreggiar nel piano:
privato cavalier, non tuo
campione,
verrò co' Franchi a singolar tenzone."
Replica il re:
"Se ben l'ire e la spada
dovresti riserbare a migliore
uso,
che tu sfidi però, se ciò t'aggrada,
alcun
guerrier nemico, io non ricuso."
Cosí gli disse, ed ei
punto non bada:
"Va," dice ad un araldo "or colà
giuso,
ed al duce de' Franchi, udendo l'oste,
fa' queste mie
non picciole proposte:
ch'un
cavalier, che d'appiattarsi in questo
forte cinto di muri a sdegno
prende,
brama di far con l'armi or manifesto
quanto la sua
possanza oltra si stende;
e ch'a duello di venirne è
presto
nel pian ch'è fra le mura e l'alte tende
per
prova di valore, e che disfida
qual piú de' Franchi in sua
virtú si fida;
e
che non solo è di pugnare accinto
e con uno e con duo del
campo ostile,
ma dopo il terzo, il quarto accetta e 'l quinto,
sia
di vulgare stirpe o di gentile:
dia, se vuol, la franchigia, e
serva il vinto
al vincitor come di guerra è stile."
Cosí
gli impose, ed ei vestissi allotta
la purpurea de l'arme aurata
cotta.
E poi che
giunse a la regal presenza
del principe Goffredo e de'
baroni,
chiese: "O signore, a i messaggier licenza
dassi
tra voi di liberi sermoni?"
"Dassi," rispose il
capitano "e senza
alcun timor la tua proposta
esponi."
Riprese quegli: "Or si parrà se grata
o
formidabil fia l'alta ambasciata."
E
seguí poscia, e la disfida espose
con parole magnifiche ed
altere.
Fremer s'udiro, e si mostràr sdegnose
al suo
parlar quelle feroci schiere;
e senza indugio il pio Buglion
rispose:
"Dura impresa intraprende il cavaliere;
e tosto
io creder vuo' che glie ne incresca
sí che d'uopo non fia
che 'l quinto n'esca.
Ma
venga in prova pur, che d'ogn'oltraggio
gli offero campo libero e
securo;
e seco pugnerà senza vantaggio
alcun de' miei
campioni, e cosí giuro."
Tacque, e tornò il re
d'arme al suo viaggio
per l'orme ch'al venir calcate furo,
e
non ritenne il frettoloso passo
sin che non diè risposta al
fier circasso.
"Armati,"
dice "alto signor; che tardi?
la disfida accettata hanno i
cristiani,
e d'affrontarsi teco i men gagliardi
mostran desio,
non che i guerrier soprani.
E mille i' vidi minacciosi sguardi,
e
mille al ferro apparecchiate mani:
loco securo il duce a te
concede."
Cosí gli dice; e l'arme esso richiede,
e se ne cinge
intorno e impaziente
di scenderne s'affretta a la campagna.
Disse
a Clorinda il re, ch'era presente:
"Giusto non è ch'ei
vada e tu rimagna.
Mille dunque con te di nostra gente
prendi
in sua securezza, e l'accompagna;
ma vada inanzi a giusta pugna ei
solo,
tu lunge alquanto a lui ritien lo stuolo."
Tacque ciò
detto; e poi che furo armati,
quei del chiuso n'uscivano a
l'aperto,
e giva inanzi Argante e de gli usati
arnesi in su 'l
cavallo era coperto.
Loco fu tra le mura e gli steccati
che
nulla avea di diseguale e d'erto:
ampio e capace, e parea fatto ad
arte
perch'egli fosse altrui campo di Marte.
Ivi
solo discese, ivi fermosse
in vista de' nemici il fero
Argante,
per gran cor, per gran corpo e per gran posse
superbo
e minaccievole in sembiante,
qual Encelado in Flegra, o qual
mostrosse
ne l'ima valle il filisteo gigante,
ma pur molti di
lui tema non hanno,
ch'anco quanto sia forte a pien non sanno.
Alcun però,
dal pio Goffredo eletto
come il miglior, ancor non è fra
molti.
Ben si vedean con desioso affetto
tutti gli occhi in
Tancredi esser rivolti,
e dichiarato infra i miglior perfetto
dal
favor manifesto era de' volti;
e s'udia non oscuro anco il
bisbiglio,
e l'approvava il capitan co 'l ciglio.
Già
cedea ciascun altro, e non secreto
era il volere omai del pio
Buglione:
"Vanne," a lui disse "a te l'uscir non
vieto,
e reprimi il furor di quel fellone."
E tutto in
volto baldanzoso e lieto
per sí alto giudizio, il fer
garzone
a lo scudier chiedea l'elmo e 'l cavallo,
poi seguito
da molti uscia del vallo.
Ed
a quel largo pian fatto vicino,
ov'Argante l'attende, anco non
era,
quando in leggiadro aspetto e pellegrino
s'offerse a gli
occhi suoi l'alta guerriera.
Bianche via piú che neve in
giogo alpino
avea le sopraveste, e la visiera
alta tenea dal
volto; e sovra un'erta,
tutta, quanto ella è grande, era
scoperta.
Già
non mira Tancredi ove il circasso
la spaventosa fronte al cielo
estolle,
ma move il suo destrier con lento passo,
volgendo gli
occhi ov'è colei su 'l colle;
poscia immobil si ferma, e
pare un sasso:
gelido tutto fuor, ma dentro bolle.
Sol di mirar
s'appaga, e di battaglia
sembiante fa che poco or piú gli
caglia.
Argante,
che non vede alcun ch'in atto
dia segno ancor d'apparecchiarsi in
giostra:
"Da desir di contesa io qui fui tratto";
grida
"or chi viene inanzi, e meco giostra?"
L'altro, attonito
quasi e stupefatto,
pur là s'affissa e nulla udir ben
mostra.
Ottone inanzi allor spinse il destriero,
e ne l'arringo
vòto entrò primiero.
Questi
un fu di color cui dianzi accese
di gir contra il pagano alto
desio;
pur cedette a Tancredi, e 'n sella ascese
fra gli altri
che seguírlo e seco uscio.
Or veggendo sue voglie altrove
intese
e starne lui quasi al puguar restio,
prende, giovene
audace e impaziente,
l'occasione offerta avidamente;
e
veloce cosí che tigre o pardo
va men ratto talor per la
foresta,
corre a ferire il saracin gagliardo,
che d'altra parte
la gran lancia arresta.
Si scote allor Tancredi, e dal suo
tardo
pensier, quasi da un sonno, al fin si desta,
e grida ei
ben: "La pugna è mia; rimanti."
Ma troppo Ottone
è già trascorso inanti.
Onde
si ferma; e d'ira e di dispetto
avampa dentro, e fuor qual fiamma
è rosso,
perch'ad onta si reca ed a difetto
ch'altri si
sia primiero in giostra mosso.
Ma intanto a mezzo il corso in su
l'elmetto
dal giovin forte è il saracin percosso;
egli a
l'incontro a lui co 'l ferro nudo
fende l'usbergo, e pria rompe lo
scudo.
Cade il
cristiano, e ben è il colpo acerbo,
poscia ch'avien che da
l'arcion lo svella.
Ma il pagan di piú forza e di piú
nerbo
non cade già, né pur si torce in sella;
indi
con dispettoso atto superbo
sovra il caduto cavalier
favella:
"Renditi vinto, e per tua gloria basti
che dir
potrai che contra me pugnasti."
"No,"
gli risponde Otton "fra noi non s'usa
cosí tosto depor
l'arme e l'ardire;
altri del mio cader farà la scusa,
io
vuo' far la vendetta o qui morire."
In sembianza d'Aletto e
di Medusa
freme il circasso, e par che fiamma spire:
"Conosci
or" dice "il mio valor a prova,
poi che la cortesia
sprezzar ti giova."
Spinge
il destrier in questo, e tutto oblia
quanto virtú
cavaleresca chiede.
Fugge il franco l'incontro e si desvia,
e
'l destro fianco nel passar gli fiede,
ed è sí grave
la percossa e ria
che 'l ferro sanguinoso indi ne riede;
ma che
pro, se la piaga al vincitore
forza non toglie e giunge ira e
furore?
Argante
il corridor dal corso affrena,
e indietro il volge; e cosí
tosto è vòlto,
che se n'accorge il suo nemico a
pena,
e d'un grand'urto a l'improviso è colto.
Tremar le
gambe, e indebolir la lena,
sbigottir l'alma e impallidir il
volto
fègli l'aspra percossa, e frale e stanco
sovra il
duro terren battere il fianco.
Ne
l'ira Argante infellonisce, e strada
sovra il petto del vinto al
destrier face;
e: "Cosí" grida "ogni superbo
vada,
come costui che sotto i piè mi giace."
Ma
l'invitto Tancredi allor non bada,
ché l'atto crudelissimo
gli spiace,
e vuol che 'l suo valor con chiara emenda
copra il
suo fallo e, come suol, risplenda.
Fassi
inanzi gridando: "Anima vile,
che ancor ne le vittorie infame
sei,
qual titolo di laude alto e gentile
da modi attendi sí
scortesi e rei?
Fra i ladroni d'Arabia o fra simíle
barbara
turba avezzo esser tu déi.
Fuggi la luce, e va' con l'altre
belve
a incrudelir ne' monti e tra le selve."
Tacque; e 'l
pagano, al sofferir poco uso,
morde le labra e di furor si
strugge.
Risponder vuol, ma il suono esce confuso
sí
come strido d'animal che rugge;
o come apre le nubi ond'egli è
chiuso
impetuoso il fulmine, e se 'n fugge,
cosí pareva
a forza ogni suo detto
tonando uscir da l'infiammato petto.
Ma poi ch'in ambo
il minacciar feroce
a vicenda irritò l'orgoglio e
l'ira,
l'un come l'altro rapido e veloce,
spazio al corso
prendendo, il destrier gira.
Or qui, Musa, rinforza in me la
voce,
e furor pari a quel furor m'inspira,
sí che non
sian de l'opre indegni i carmi
ed esprima il mio canto il suon de
l'armi.
Posero in
resta e dirizzaro in alto
i duo guerrier le noderose antenne;
né
fu di corso mai, né fu di salto,
né fu mai tal
velocità di penne,
né furia eguale a quella ond'a
l'assalto
quinci Tancredi e quindi Argante venne.
Rupper l'aste
su gli elmi, e volàr mille
tronconi e scheggie e lucide
faville.
Sol de i
colpi il rimbombo intorno mosse
l'immobil terra, e risonàrne
i monti;
ma l'impeto e 'l furor de le percosse
nulla piegò
de le superbe fronti.
L'uno e l'altro cavallo in guisa urtosse
che
non fur poi cadendo a sorger pronti.
Tratte le spade, i gran
mastri di guerra
lasciàr le staffe e i piè fermaro
in terra.
Cautamente
ciascuno a i colpi move
la destra, a i guardi l'occhio, a i passi
il piede;
si reca in atti vari, in guardie nove:
or gira
intorno, or cresce inanzi, or cede,
or qui ferire accenna e poscia
altrove,
dove non minacciò ferir si vede,
or di sé
discoprire alcuna parte
e tentar di schernir l'arte con l'arte.
De la spada
Tancredi e de lo scudo
mal guardato al pagan dimostra il
fianco;
corre egli per ferirlo, e intanto nudo
di riparo si
lascia il lato manco.
Tancredi con un colpo il ferro crudo
del
nemico ribatte, e lui fère anco;
né poi, ciò
fatto, in ritirarsi tarda,
ma si raccoglie e si restringe in
guarda.
Il fero
Argante, che se stesso mira
del proprio sangue suo macchiato e
molle,
con insolito orror freme e sospira,
di cruccio e di
dolor turbato e folle;
e portato da l'impeto e da l'ira,
con la
voce la spada insieme estolle,
e torna per ferire, ed è di
punta
piagato ov'è la spalla al braccio giunta.
Qual ne
l'alpestri selve orsa, che senta
duro spiedo nel fianco, in rabbia
monta,
e contra l'arme se medesma aventa
e i perigli e la morte
audace affronta,
tale il circasso indomito diventa:
giunta or
piaga a la piaga, ed onta a l'onta,
e la vendetta far tanto
desia
che sprezza i rischi e le difese oblia.
E
congiungendo a temerario ardire
estrema forza e infaticabil
lena,
vien che sí impetuoso il ferro gire
che ne trema
la terra e 'l ciel balena;
né tempo ha l'altro ond'un sol
colpo tire,
onde si copra, onde respiri a pena,
né
schermo v'è ch'assecurar il possa
da la fretta d'Argante e
da la possa.
Tancredi,
in sé raccolto, attende in vano
che de' gran colpi la
tempesta passi.
Or v'oppon le difese, ed or lontano
se 'n va
co' giri e co' veloci passi;
ma poi che non s'allenta il fer
pagano,
è forza al fin che trasportar si lassi,
e
cruccioso egli ancor con quanta pote
violenza maggior la spada
rote.
Vinta da
l'ira è la ragione e l'arte,
e le forze il furor ministra e
cresce.
Sempre che scende, il ferro o fòra o parte
o
piastra o maglia, e colpo in van non esce.
Sparsa è d'arme
la terra, e l'arme sparte
di sangue, e 'l sangue co 'l sudor si
mesce.
Lampo nel fiammeggiar, nel romor tuono,
fulmini nel
ferir le spade sono.
Questo
popolo e quello incerto pende
da sí nuovo spettacolo ed
atroce,
e fra tema e speranza il fin n'attende,
mirando or ciò
che giova, or ciò che noce;
e non si vede pur, né
pur s'intende
picciol cenno fra tanti o bassa voce,
ma se ne
sta ciascun tacito e immoto,
se non se in quanto ha il cor
tremante in moto.
Già
lassi erano entrambi, e giunti forse
sarian pugnando ad immaturo
fine,
ma sí oscura la notte intanto sorse
che nascondea
le cose anco vicine.
Quinci un araldo e quindi un altro
accorse
per dipartirli, e li partiro al fine.
L'uno è il
franco Arideo, Pindoro è l'altro,
che portò la
disfida, uom saggio e scaltro.
I
pacifici scettri osàr costoro
fra le spade interpor de'
combattenti,
con quella securtà che porgea
loro
l'antichissima legge de le genti.
"Sète, o
guerrieri," incominciò Pindoro
"con pari onor, di
pari ambo possenti;
dunque cessi la pugna, e non sian rotte
le
ragioni e 'l riposo de la notte.
Tempo
è da travagliar mentre il sol dura,
ma ne la notte ogni
animale ha pace,
e generoso cor non molto cura
notturno pregio
che s'asconde e tace."
Risponde Argante: "A me per ombra
oscura
la mia battaglia abbandonar non piace,
ben avrei caro il
testimon del giorno!
Ma che giuri costui di far ritorno!"
Soggiunse l'altro
allora: "E tu prometti
di tornar rimenando il tuo
prigione,
perch'altrimenti non fia mai ch'aspetti
per la nostra
contesa altra stagione."
Cosí giuraro; e poi gli
araldi, eletti
a prescriver il tempo a la tenzone,
per dare
spazio a le lor piaghe onesto,
stabiliro il mattin del giorno
sesto.
Lasciò
la pugna orribile nel core
de' saracini e de' fedeli
impressa
un'alta meraviglia ed un orrore
che per lunga stagione
in lor non cessa.
Sol de l'ardir si parla e del valore
che l'un
guerriero e l'altro ha mostro in essa,
ma qual si debbia di lor
due preporre,
vario e discorde il vulgo in sé discorre;
e sta sospeso in
aspettando quale
avrà la fera lite avenimento,
e se 'l
furore a la virtú prevale
o se cede l'audacia a
l'ardimento.
Ma piú di ciascun altro a cui ne cale,
la
bella Erminia n'ha cura e tormento,
che da i giudizi de l'incerto
Marte
vede pender di sé la miglior parte.
Costei,
che figlia fu del re Cassano
che d'Antiochia già l'imperio
tenne,
preso il suo regno, al vincitor cristiano
fra l'altre
prede anch'ella in poter venne.
Ma fulle in guisa allor Tancredi
umano
che nulla ingiuria in sua balia sostenne;
ed onorata fu,
ne la ruina
de l'alta patria sua, come reina.
L'onorò,
la serví, di libertate
dono le fece il cavaliero egregio,
e
le furo da lui tutte lasciate
le gemme e gli ori e ciò
ch'avea di pregio.
Ella vedendo in giovanetta etate
e in
leggiadri sembianti animo regio,
restò presa d'Amor, che
mai non strinse
laccio di quel piú fermo onde lei cinse.
Cosí se 'l
corpo libertà riebbe,
fu l'alma sempre in servitute
astretta.
Ben molto a lei d'abbandonar increbbe
il signor caro
e la prigion diletta;
ma l'onestà regal, che mai non
debbe
da magnanima donna esser negletta,
la costrinse a
partirsi, e con l'antica
madre a ricoverarsi in terra amica.
Venne a
Gierusalemme, e quivi accolta
fu dal tiranno del paese ebreo;
ma
tosto pianse in nere spoglie avolta
de la sua genitrice il fato
reo.
Pur né 'l duol che le sia per morte tolta,
né
l'essiglio infelice, unqua poteo
l'amoroso desio sveller dal
core,
né favilla ammorzar di tanto ardore.
Ama
ed arde la misera, e sí poco
in tale stato che sperar le
avanza
che nudrisce nel sen l'occulto foco
di memoria via piú
che di speranza;
e quanto è chiuso in piú secreto
loco,
tanto ha l'incendio suo maggior possanza.
Tancredi al
fine a risvegliar sua spene
sovra Gierusalemme ad oste viene.
Sbigottír
gli altri a l'apparir di tante
nazioni, e sí indomite e sí
fere;
fe' sereno ella il torbido sembiante
e lieta vagheggiò
le squadre altere,
e con avidi sguardi il caro amante
cercando
gio fra quelle armate schiere.
Cercollo in van sovente ed anco
spesso:
"Eccolo" disse, e 'l riconobbe espresso.
Nel palagio regal
sublime sorge
antica torre assai presso a le mura,
da la cui
sommità tutta si scorge
l'oste cristiana, e 'l monte e la
pianura.
Quivi, da che il suo lume il sol ne porge
in sin che
poi la notte il mondo oscura,
s'asside, e gli occhi verso il campo
gira
e co' pensieri suoi parla e sospira.
Quinci
vide la pugna, e 'l cor nel petto
sentí tremarsi in quel
punto sí forte
che parea che dicesse: "Il tuo
diletto
è quegli là ch'in rischio è de la
morte."
Cosí d'angoscia piena e di sospetto
mirò
i successi de la dubbia sorte,
e sempre che la spada il pagan
mosse,
sentí ne l'alma il ferro e le percosse.
Ma
poi ch'il vero intese, e intese ancora
che dée l'aspra
tenzon rinovellarsi,
insolito timor cosí l'accora
che
sente il sangue suo di ghiaccio farsi.
Talor secrete lagrime e
talora
sono occulti da lei gemiti sparsi:
pallida, essangue e
sbigottita in atto,
lo spavento e 'l dolor v'avea ritratto.
Con orribile
imago il suo pensiero
ad or ad or la turba e la sgomenta,
e via
piú che la morte il sonno è fero,
sí strane
larve il sogno le appresenta.
Parle veder l'amato cavaliero
lacero
e sanguinoso, e par che senta
ch'egli aita le chieda; e desta
intanto,
si trova gli occhi e 'l sen molle di pianto.
Né
sol la tema di futuro danno
con sollecito moto il cor le scote,
ma
de le piaghe ch'egli avea l'affanno
è cagion che quetar
l'alma non pote;
e i fallaci romor, ch'intorno vanno,
crescon
le cose incognite e remote,
sí ch'ella avisa che vicino a
morte
giaccia oppresso languendo il guerrier forte.
E
però ch'ella da la madre apprese
qual piú secreta
sia virtú de l'erbe,
e con quai carmi ne le membra
offese
sani ogni piaga e 'l duol si disacerbe
(arte che per
usanza in quel paese
ne le figlie de i re par che si
serbe),
vorria di sua man propria a le ferute
del suo caro
signor recar salute.
Ella
l'amato medicar dasia,
e curar il nemico a lei conviene;
pensa
talor d'erba nocente e ria
succo sparger in lui che l'avelene,
ma
schiva poi la man vergine e pia
trattar l'arti maligne, e se
n'astiene.
Brama ella almen ch'in uso tal sia vòta
di
sua virtude ogn'erba ed ogni nota.
Né
già d'andar fra la nemica gente
temenza avria, ché
peregrina era ita,
e viste guerre e stragi avea sovente,
e
scorsa dubbia e faticosa vita,
sí che per l'uso la feminea
mente
sovra la sua natura è fatta ardita,
e di leggier
non si conturba e pave
ad ogni imagin di terror men grave.
Ma piú
ch'altra cagion, dal molle seno
sgombra Amor temerario ogni
paura,
e crederia fra l'ugne e fra 'l veneno
de l'africane
belve andar secura;
pur se non de la vita, avere almeno
de la
sua fama dée temenza e cura,
e fan dubbia contesa entro al
suo core
duo potenti nemici, Onore e Amore.
L'un
cosí le ragiona: "O verginella,
che le mie leggi
insino ad or serbasti,
io mentre ch'eri de' nemici ancella
ti
conservai la mente e i membri casti;
e tu libera or vuoi perder la
bella
verginità ch'in prigionia guardasti?
Ahi! nel
tenero cor questi pensieri
chi svegliar può? che pensi,
oimè? che speri?
Dunque
il titolo tu d'esser pudica
sí poco stimi, e d'onestate il
pregio,
che te n'andrai fra nazion nemica,
notturna amante, a
ricercar dispregio?
Onde il superbo vincitor ti dica:
`Perdesti
il regno, e in un l'animo regio;
non sei di me tu degna', e ti
conceda
vulgare a gli altri e mal gradita preda."
Da
l'altra parte, il consiglier fallace
con tai lusinghe al suo
piacer l'alletta:
"Nata non sei tu già d'orsa
vorace,
né d'aspro e freddo scoglio, o giovanetta,
ch'abbia
a sprezzar d'Amor l'arco e la face
ed a fuggir ognor quel che
diletta,
né petto hai tu di ferro o di diamante
che
vergogna ti sia l'esser amante.
Deh!
vanne omai dove il desio t'invoglia.
Ma qual ti fingi vincitor
crudele?
Non sai com'egli al tuo doler si doglia,
come
compianga al pianto, a le querele?
Crudel sei tu, che con sí
pigra voglia
movi a portar salute al tuo fedele.
Langue, o fera
ed ingrata, il pio Tancredi,
e tu de l'altrui vita a cura siedi!
Sana tu pur
Argante, acciò che poi
il tuo liberator sia spinto a
morte:
cosí disciolti avrai gli obblighi tuoi,
e sí
bel premio fia ch'ei ne riporte.
È possibil però che
non t'annoi
quest'empio ministero or cosí forte
che la
noia non basti e l'orror solo
a far che tu di qua te 'n fugga a
volo?
Deh! ben
fòra, a l'incontra, ufficio umano,
e ben n'avresti tu gioia
e diletto,
se la pietosa tua medica mano
avicinassi al valoroso
petto;
ché per te fatto il tuo signor poi sano
colorirebbe
il suo smarrito aspetto,
e le bellezze sue, che spente or
sono,
vagheggiaresti in lui quasi tuo dono.
Parte
ancor poi ne le sue lodi avresti,
e ne l'opre ch'ei fèsse
alte e famose,
ond'egli te d'abbracciamenti onesti
faria lieta,
e di nozze aventurose.
Poi mostra a dito ed onorata andresti
fra
le madri latine e fra le spose
là ne la bella Italia, ov'è
la sede
del valor vero e de la vera fede."
Da
tai speranze lusingata (ahi stolta!)
somma felicitate a sé
figura;
ma pur si trova in mille dubbi avolta
come partir si
possa indi secura,
perché vegghian le guardie e sempre in
volta
van di fuori al palagio e su le mura,
né porta
alcuna, in tal rischio di guerra,
senza grave cagion mai si
disserra.
Soleva
Erminia in compagnia sovente
de la guerriera far lunga
dimora.
Seco la vide il sol da l'occidente,
seco la vide la
novella aurora;
e quando son del dí le luci spente,
un
sol letto le accolse ambe talora:
e null'altro pensier che
l'amoroso
l'una vergine a l'altra avrebbe ascoso.
Questo
sol tiene Erminia a lei secreto
e s'udita da lei talor si
lagna,
reca ad altra cagion del cor non lieto
gli affetti, e
par che di sua sorte piagna.
Or in tanta amistà senza
divieto
venir sempre ne pote a la campagna,
né stanza al
giunger suo giamai si serra,
siavi Clorinda, o sia in consiglio o
'n guerra.
Vennevi
un giorno ch'ella in altra parte
si ritrovava, e si fermò
pensosa,
pur tra sé rivolgendo i modi e l'arte
de la
bramata sua partenza ascosa.
Mentre in vari pensier divide e
parte
l'incerto animo suo che non ha posa,
sospese di Clorinda
in alto mira
l'arme e le sopraveste: allor sospira.
E
tra sé dice sospirando: "O quanto
beata è la
fortissima donzella!
quant'io la invidio! e non l'invidio il
vanto
o 'l feminil onor de l'esser bella.
A lei non tarda i
passi il lungo manto,
né 'l suo valor rinchiude invida
cella,
ma veste l'armi, e se d'uscirne agogna,
vassene e non la
tien tema o vergogna.
Ah
perché forti a me natura e 'l cielo
altrettanto non fèr
le membra e 'l petto,
onde potessi anch'io la gonna e 'l
velo
cangiar ne la corazza e ne l'elmetto?
Ché sí
non riterrebbe arsura o gelo,
non turbo o pioggia il mio
infiammato affetto,
ch'al sol non fossi ed al notturno
lampo,
accompagnata o sola, armata in campo.
Già
non avresti, o dispietato Argante,
co 'l mio signor pugnato tu
primiero,
ch'io sarei corsa ad incontrarlo inante;
e forse or
fòra qui mio prigionero
e sosterria da la nemica
amante
giogo di servitú dolce e leggiero,
e già
per li suoi nodi i' sentirei
fatti soavi e alleggeriti i miei.
O vero a me da la
sua destra il fianco
sendo percosso, e riaperto il core,
pur
risanata in cotal guisa almanco
colpo di ferro avria piaga
d'Amore;
ed or la mente in pace e 'l corpo stanco
riposariansi,
e forse il vincitore
degnato avrebbe il mio cenere e
l'ossa
d'alcun onor di lagrime e di fossa.
Ma
lassa! i' bramo non possibil cosa,
e tra folli pensier in van
m'avolgo;
io mi starò qui timida e dogliosa
com'una pur
del vil femineo volgo.
Ah! non starò: cor mio, confida ed
osa.
Perch'una volta anch'io l'arme non tolgo?
perché
per breve spazio non potrolle
sostener, benché sia debile e
molle?
Sí
potrò, sí, ché mi farà possente
a
tolerarne il peso Amor tiranno,
da cui spronati ancor s'arman
sovente
d'ardire i cervi imbelli e guerra fanno.
Io guerreggiar
non già, vuo' solamente
far con quest'armi un ingegnoso
inganno:
finger mi vuo' Clorinda; e ricoperta
sotto l'imagin
sua, d'uscir son certa.
Non
ardirieno a lei far i custodi
de l'alte porte resistenza
alcuna.
Io pur ripenso, e non veggio altri modi:
aperta è,
credo, questa via sol una.
Or favorisca l'innocenti frodi
Amor
che le m'inspira e la Fortuna.
E ben al mio partir commoda è
l'ora,
mentre co 'l re Clorinda anco dimora."
Cosí
risolve; e stimolata e punta
da le furie d'Amor, piú non
aspetta,
ma da quella a la sua stanza congiunta
l'arme involate
di portar s'affretta.
E far lo può, ché quando ivi
fu giunta,
diè loco ogn'altro, e si restò soletta;
e
la notte i suoi furti ancor copria,
ch'a i ladri amica ed a gli
amanti uscia.
Essa
veggendo il ciel d'alcuna stella
già sparso intorno divenir
piú nero,
senza fraporvi alcuno indugio
appella
secretamente un suo fedel scudiero
ed una sua leal
diletta ancella,
e parte scopre lor del suo pensiero.
Scopre il
disegno de la fuga, e finge
ch'altra cagion a dipartir l'astringe.
Lo scudiero fedel
súbito appresta
ciò ch'al lor uopo necessario
crede.
Erminia intanto la pomposa vesta
si spoglia, che le
scende insino al piede,
e in ischietto vestir leggiadra resta
e
snella sí ch'ogni credenza eccede;
né, trattane
colei ch'a la partita
scelta s'avea, compagna altra l'aita.
Co 'l durissimo
acciar preme ed offende
il delicato collo e l'aurea chioma,
e
la tenera man lo scudo prende,
pur troppo grave e insopportabil
soma.
Cosí tutta di ferro intorno splende,
e in atto
militar se stessa doma.
Gode Amor ch'è presente, e tra sé
ride,
come allor già ch'avolse in gonna Alcide.
Oh! con quanta
fatica ella sostiene
l'inegual peso e move lenti i passi,
ed a
la fida compagnia s'attiene
che per appoggio andar dinanzi
fassi.
Ma rinforzan gli spirti Amore e spene
e ministran vigore
a i membri lassi,
sí che giungono al loco ove le aspetta
lo
scudiero, e in arcion sagliono in fretta.
Travestiti
ne vanno, e la piú ascosa
e piú riposta via prendono
ad arte,
pur s'avengono in molti e l'aria ombrosa
veggon lucer
di ferro in ogni parte;
ma impedir lor viaggio alcun non osa,
e
cedendo il sentier ne va in disparte,
ché quel candido
ammanto e la temuta
insegna anco ne l'ombra è conosciuta.
Erminia, benché
quinci alquanto sceme
del dubbio suo, non va però
secura,
ché d'essere scoperta a la fin teme
e del suo
troppo ardir sente or paura;
ma pur, giunta a la porta, il timor
preme
ed inganna colui che n'ha la cura.
"Io son
Clorinda," disse "apri la porta,
ché 'l re
m'invia dove l'andare importa."
La
voce feminil sembiante a quella
de la guerriera agevola
l'inganno
(chi crederia veder armata in sella
una de l'altre
ch'arme oprar non sanno?),
sí che 'l portier tosto
ubidisce, ed ella
n'esce veloce e i duo che seco vanno;
e per
lor securezza entro le valli
calando prendon lunghi obliqui calli.
Ma poi ch'Erminia
in solitaria ed ima
parte si vede, alquanto il corso allenta,
ch'i
primi rischi aver passati estima,
né d'esser ritenuta omai
paventa.
Or pensa a quello a che pensato in prima
non bene
aveva; ed or le s'appresenta
difficil piú ch'a lei non fu
mostrata
dal frettoloso suo desir, l'entrata.
Vede
or che sotto il militar sembiante
ir tra feri nemici è gran
follia;
né d'altra parte palesarsi, inante
ch'al suo
signor giungesse, altrui vorria.
A lui secreta ed improvisa
amante
con secura onestà giunger desia;
onde si ferma, e
da miglior pensiero
fatta piú cauta parla al suo scudiero:
"Essere, o
mio fedele, a te conviene
mio precursor, ma sii pronto e
sagace.
Vattene al campo, e fa' ch'alcun ti mene
e t'introduca
ove Tancredi giace,
a cui dirai che donna a lui ne viene
che
gli apporta salute e chiede pace:
pace, poscia ch'Amor guerra mi
move,
ond'ei salute, io refrigerio trove;
e
ch'essa ha in lui sí certa e viva fede
ch'in suo poter non
teme onta né scorno.
Di' sol questo a lui solo; e s'altro
ei chiede,
di' non saperlo e affretta il tuo ritorno.
Io (ché
questa mi par secura sede)
in questo mezzo qui farò
soggiorno."
Cosí disse la donna, e quel leale
gía
veloce cosí come avesse ale.
E
'n guisa oprar sapea, ch'amicamente
entro a i chiusi ripari era
raccolto,
e poi condotto al cavalier giacente,
che l'ambasciata
udia con lieto volto;
e già lasciando ei lui, che ne la
mente
mille dubbi pensier avea rivolto,
ne riportava a lei
dolce risposta:
ch'entrar potrà, quando piú lice,
ascosta.
Ma ella
intanto impaziente, a cui
troppo ogni indugio par noioso e
greve,
numera fra se stessa i passi altrui
e pensa: "or
giunge, or entra, or tornar deve."
E già le sembra, e
se ne duol, colui
men del solito assai spedito e leve.
Spingesi
al fine inanti, e 'n parte ascende
onde comincia a discoprir le
tende.
Era la
notte, e 'l suo stellato velo
chiaro spiegava e senza nube
alcuna
e già spargea rai luminosi e gelo
di vive perle
la sorgente luna.
L'innamorata donna iva co 'l cielo
le sue
fiamme sfogando ad una ad una,
e secretari del suo amore
antico
fea i muti campi e quel silenzio amico.
Poi
rimirando il campo ella dicea:
"O belle a gli occhi miei
tende latine!
Aura spira da voi che mi ricrea
e mi conforta pur
che m'avicine;
cosí a mia vita combattuta e rea
qualche
onesto riposo il Ciel destine,
come in voi solo il cerco, e solo
parmi
che trovar pace io possa in mezzo a l'armi.
Raccogliete me
dunque, e in voi si trove
quella pietà che mi promise
Amore
e ch'io già vidi, prigioniera altrove,
nel
mansueto mio dolce signore.
Né già desio di
racquistar mi move
co 'l favor vostro il mio regale onore;
quando
ciò non avenga, assai felice
io mi terrò se 'n voi
servir mi lice."
Cosí
parla costei, che non prevede
qual dolente fortuna a lei
s'appreste.
Ella era in parte ove per dritto fiede
l'armi sue
terse il bel raggio celeste,
sí che da lunge il lampo lor
si vede
co 'l bel candor che le circonda e veste,
e la gran
tigre ne l'argento impressa
fiammeggia sí ch'ognun direbbe:
"È dessa."
Come
volle sua sorte, assai vicini
molti guerrier disposti avean gli
aguati;
e n'eran duci duo fratei latini,
Alcandro e Poliferno,
e fur mandati
per impedir che dentro a i saracini
greggie non
siano e non sian buoi menati;
e se 'l servo passò, fu
perché torse
piú lunge il passo e rapido trascorse.
Al giovin
Poliferno, a cui fu il padre
su gli occhi suoi già da
Clorinda ucciso,
viste le spoglie candide e leggiadre,
fu di
veder l'alta guerriera aviso,
e contra le irritò l'occulte
squadre;
né frenando del cor moto improviso
(com'era in
suo furor súbito e folle)
gridò: "Sei morta",
e l'asta in van lanciolle.
Sí
come cerva ch'assetata il passo
mova a cercar d'acque lucenti e
vive,
ove un bel fonte distillar da un sasso
o vide un fiume
tra frondose rive,
s'incontra i cani allor che 'l corpo
lasso
ristorar crede a l'onde, a l'ombre estive,
volge indietro
fuggendo, e la paura
la stanchezza obliar face e l'arsura;
cosí
costei, che de l'amor la sete,
onde l'infermo core è sempre
ardente,
spegner ne l'accoglienze oneste e liete
credeva, e
riposar la stanca mente,
or che contra gli vien chi glie 'l
diviete,
e 'l suon del ferro e le minaccie sente,
se stessa e
'l suo desir primo abbandona
e 'l veloce destrier timida sprona.
Fugge Erminia
infelice, e 'l suo destriero
con prontissimo piede il suol
calpesta.
Fugge ancor l'altra donna, e lor quel fero
con molti
armati di seguir non resta.
Ecco che da le tende il buon
scudiero
con la tarda novella arriva in questa,
e l'altrui fuga
ancor dubbio accompagna,
e gli sparge il timor per la campagna.
Ma il piú
saggio fratello, il quale anch'esso
la non vera Clorinda avea
veduto,
non la volle seguir, ch'era men presso,
ma ne l'insidie
sue s'è ritenuto;
e mandò con l'aviso al campo un
messo
che non armento od animal lanuto,
né preda altra
simíl, ma ch'è seguita
dal suo german Clorinda
impaurita;
e
ch'ei non crede già, né 'l vuol ragione,
ch'ella,
ch'è duce e non è sol guerriera,
elegga a l'uscir
suo tale stagione
per opportunità che sia leggiera;
ma
giudichi e comandi il pio Buglione,
egli farà ciò
che da lui s'impera.
Giunge al campo tal nova, e se ne intende
il
primo suon ne le latine tende.
Tancredi,
cui dinanzi il cor sospese
quell'aviso primiero, udendo or
questo,
pensa: "Deh! forse a me venia cortese,
e 'n
periglio è per me", né pensa al resto.
E parte
prende sol del grave arnese,
monta a cavallo e tacito esce e
presto;
e seguendo gli indizi e l'orme nove
rapidamente a tutto
corso il move.
Argomento
Fugge
Erminia e un pastor l'accoglie; intanto
Tancredi in van di lei
cercando, il piede
Pon ne' lacci d'Armida: il fero vanto
D'Argante
riprovar Raimondo ha fede:
Però difeso da custode
santo
Seco entra in campo: Belzebù, che vede
Ch'al Pagan
male il folle ardir riesce,
Per lui salvar guerra e procelle
mesce.
Intanto
Erminia infra l'ombrose piante
d'antica selva dal cavallo è
scòrta,
né piú governa il fren la man
tremante,
e mezza quasi par tra viva e morta.
Per tante strade
si raggira e tante
il corridor ch'in sua balia la porta,
ch'al
fin da gli occhi altrui pur si dilegua,
ed è soverchio omai
ch'altri la segua.
Qual
dopo lunga e faticosa caccia
tornansi mesti ed anelanti i cani
che
la fèra perduta abbian di traccia,
nascosa in selva da gli
aperti piani,
tal pieni d'ira e di vergogna in faccia
riedono
stanchi i cavalier cristiani.
Ella pur fugge, e timida e
smarrita
non si volge a mirar s'anco è seguita.
Fuggí
tutta la notte, e tutto il giorno
errò senza consiglio e
senza guida,
non udendo o vedendo altro d'intorno,
che le
lagrime sue, che le sue strida.
Ma ne l'ora che 'l sol dal carro
adorno
scioglie i corsieri e in grembo al mar s'annida,
giunse
del bel Giordano a le chiare acque
e scese in riva al fiume, e qui
si giacque.
Cibo
non prende già, ché de' suoi mali
solo si pasce e
sol di pianto ha sete;
ma 'l sonno, che de' miseri mortali
è
co 'l suo dolce oblio posa e quiete,
sopí co' sensi i suoi
dolori, e l'ali
dispiegò sovra lei placide e chete;
né
però cessa Amor con varie forme
la sua pace turbar mentre
ella dorme.
Non
si destò fin che garrir gli augelli
non sentí lieti
e salutar gli albori,
e mormorar il fiume e gli arboscelli,
e
con l'onda scherzar l'aura e co i fiori.
Apre i languidi lumi e
guarda quelli
alberghi solitari de' pastori,
e parle voce udir
tra l'acqua e i rami
ch'a i sospiri ed al pianto la richiami.
Ma son,
mentr'ella piange, i suoi lamenti
rotti da un chiaro suon ch'a lei
ne viene,
che sembra ed è di pastorali accenti
misto e
di boscareccie inculte avene.
Risorge, e là s'indrizza a
passi lenti,
e vede un uom canuto a l'ombre amene
tesser
fiscelle a la sua greggia a canto
ed ascoltar di tre fanciulli il
canto.
Vedendo
quivi comparir repente
l'insolite arme, sbigottír
costoro;
ma li saluta Erminia e dolcemente
gli affida, e gli
occhi scopre e i bei crin d'oro:
"Seguite," dice
"aventurosa gente
al Ciel diletta, il bel vostro lavoro,
ché
non portano già guerra quest'armi
a l'opre vostre, a i
vostri dolci carmi."
Soggiunse
poscia: "O padre, or che d'intorno
d'alto incendio di guerra
arde il paese,
come qui state in placido soggiorno
senza temer
le militari offese?"
"Figlio," ei rispose "d'ogni
oltraggio e scorno
la mia famiglia e la mia greggia illese
sempre
qui fur, né strepito di Marte
ancor turbò questa
remota parte.
O
sia grazia del Ciel che l'umiltade
d'innocente pastor salvi e
sublime,
o che, sí come il folgore non cade
in basso
pian ma su l'eccelse cime,
cosí il furor di peregrine
spade
sol de' gran re l'altere teste opprime,
né gli
avidi soldati a preda alletta
la nostra povertà vile e
negletta.
Altrui
vile e negletta, a me sí cara
che non bramo tesor né
regal verga,
né cura o voglia ambiziosa o avara
mai nel
tranquillo del mio petto alberga.
Spengo la sete mia ne l'acqua
chiara,
che non tem'io che di venen s'asperga,
e questa greggia
e l'orticel dispensa
cibi non compri a la mia parca mensa.
Ché poco è
il desiderio, e poco è il nostro
bisogno onde la vita si
conservi.
Son figli miei questi ch'addito e mostro,
custodi de
la mandra, e non ho servi.
Cosí me 'n vivo in solitario
chiostro,
saltar veggendo i capri snelli e i cervi,
ed i pesci
guizzar di questo fiume
e spiegar gli augelletti al ciel le piume.
Tempo già
fu, quando piú l'uom vaneggia
ne l'età prima,
ch'ebbi altro desio
e disdegnai di pasturar la greggia;
e
fuggii dal paese a me natio,
e vissi in Menfi un tempo, e ne la
reggia
fra i ministri del re fui posto anch'io,
e benché
fossi guardian de gli orti
vidi e conobbi pur l'inique corti.
Pur lusingato da
speranza ardita
soffrii lunga stagion ciò che piú
spiace;
ma poi ch'insieme con l'età fiorita
mancò
la speme e la baldanza audace,
piansi i riposi di quest'umil
vita
e sospirai la mia perduta pace,
e dissi; `O corte, a Dio.'
Cosí, a gli amici
boschi tornando, ho tratto i dí
felici."
Mentre
ei cosí ragiona, Erminia pende
da la soave bocca intenta e
cheta;
e quel saggio parlar, ch'al cor le scende,
de' sensi in
parte le procelle acqueta.
Dopo molto pensar, consiglio prende
in
quella solitudine secreta
insino a tanto almen farne
soggiorno
ch'agevoli fortuna il suo ritorno.
Onde
al buon vecchio dice: "O fortunato,
ch'un tempo conoscesti il
male a prova,
se non t'invidii il Ciel sí dolce stato,
de
le miserie mie pietà ti mova;
e me teco raccogli in cosí
grato
albergo ch'abitar teco mi giova.
Forse fia che 'l mio
core infra quest'ombre
del suo peso mortal parte disgombre.
Ché se di
gemme e d'or, che 'l vulgo adora
sí come idoli suoi, tu
fossi vago,
potresti ben, tante n'ho meco ancora,
renderne il
tuo desio contento e pago."
Quinci, versando da' begli occhi
fora
umor di doglia cristallino e vago,
parte narrò di
sue fortune, e intanto
il pietoso pastor pianse al suo pianto.
Poi dolce la
consola e sí l'accoglie
come tutt'arda di paterno zelo,
e
la conduce ov'è l'antica moglie
che di conforme cor gli ha
data il Cielo.
La fanciulla regal di rozze spoglie
s'ammanta, e
cinge al crin ruvido velo;
ma nel moto de gli occhi e de le
membra
non già di boschi abitatrice sembra.
Non
copre abito vil la nobil luce
e quanto è in lei d'altero e
di gentile,
e fuor la maestà regia traluce
per gli atti
ancor de l'essercizio umile.
Guida la greggia a i paschi e la
riduce
con la povera verga al chiuso ovile,
e da l'irsute mamme
il latte preme
e 'n giro accolto poi lo strige insieme.
Sovente, allor
che su gli estivi ardori
giacean le pecorelle a l'ombra assise,
ne
la scorza de' faggi e de gli allori
segnò l'amato nome in
mille guise,
e de' suoi strani ed infelici amori
gli aspri
successi in mille piante incise,
e in rileggendo poi le proprie
note
rigò di belle lagrime le gote.
Indi
dicea piangendo: "In voi serbate
questa dolente istoria,
amiche piante;
perché se fia ch'a le vostr'ombre
grate
giamai soggiorni alcun fedele amante,
senta svegliarsi al
cor dolce pietate
de le sventure mie sí varie e tante,
e
dica: `Ah troppo ingiusta empia mercede
diè Fortuna ed
Amore a sí gran fede!'
Forse
averrà, se 'l Ciel benigno ascolta
affettuoso alcun prego
mortale,
che venga in queste selve anco tal volta
quegli a cui
di me forse or nulla cale;
e rivolgendo gli occhi ove
sepolta
giacerà questa spoglia inferma e frale,
tardo
premio conceda a i miei martíri
di poche lagrimette e di
sospiri;
onde se
in vita il cor misero fue,
sia lo spirito in morte almen felice,
e
'l cener freddo de le fiamme sue
goda quel ch'or godere a me non
lice."
Cosí ragiona a i sordi tronchi, e due
fonti
di pianto da' begli occhi elice.
Tancredi intanto, ove fortuna il
tira
lunge da lei, per lei seguir, s'aggira.
Egli,
seguendo le vestigia impresse
rivolse il corso a la selva
vicina;
ma quivi da le piante orride e spesse
nera e folta cosí
l'ombra dechina
che piú non può raffigurar tra
esse
l'orme novelle, e 'n dubbio oltre camina,
porgendo intorno
pur l'orecchie intente
se calpestio, se romor d'armi sente.
E se pur la
notturna aura percote
tenera fronde mai d'olmo o di faggio,
o
se fèra od augello un ramo scote,
tosto a quel picciol suon
drizza il viaggio.
Esce al fin de la selva, e per ignote
strade
il conduce de la luna il raggio
verso un romor che di lontano
udiva,
insin che giunse al loco ond'egli usciva.
Giunse
dove sorgean da vivo sasso
in molta copia chiare e lucide onde,
e
fattosene un rio volgeva a basso
lo strepitoso piè tra
verdi sponde.
Quivi egli ferma addolorato il passo
e chiama, e
sola a i gridi Ecco risponde;
e vede intanto con serene
ciglia
sorger l'aurora candida e vermiglia.
Geme
cruccioso, e 'ncontra il Ciel si sdegna
che sperata gli neghi alta
ventura;
ma de la donna sua, quand'ella vegna
offesa pur, far
la vendetta giura.
Di rivolgersi al campo al fin disegna,
benché
la via trovar non s'assecura,
ché gli sovien che presso è
il dí prescritto
che pugnar dée co 'l cavalier
d'Egitto.
Partesi,
e mentre va per dubbio calle
ode un corso appressar ch'ognor
s'avanza,
ed al fine spuntar d'angusta valle
vede uom che di
corriero avea sembianza.
Scotea mobile sferza, e da le
spalle
pendea il corno su 'l fianco a nostra usanza.
Chiede
Tancredi a lui per quale strada
al campo de' cristiani indi si
vada.
Quegli
italico parla: "Or là m'invio
dove m'ha Boemondo in
fretta spinto."
Segue Tancredi lui che del gran zio
messaggio
stima, e crede al parlar finto.
Giungono al fin là dove un
sozzo e rio
lago impaluda, ed un castel n'è cinto,
ne la
stagion che 'l sol par che s'immerga
ne l'ampio nido ove la notte
alberga.
Suona il
corriero in arrivando il corno,
e tosto giú calar si vede
un ponte:
"Quando latin sia tu, qui far soggiorno
potrai"
gli dice "in fin che 'l sol rimonte,
ché questo loco,
e non è il terzo giorno,
tolse a i pagani di Cosenza il
conte."
Mira il loco il guerrier, che d'ogni
parte
inespugnabil fanno il sito e l'arte.
Dubita
alquanto poi ch'entro sí forte
magione alcuno inganno
occulto giaccia;
ma come avezzo a i rischi de la morte,
motto
non fanne, e no 'l dimostra in faccia,
ch'ovunque il guidi
elezione o sorte,
vuol che securo la sua destra il faccia.
Pur
l'obligo ch'egli ha d'altra battaglia
fa che di nova impresa or
non gli caglia;
sí
ch'incontra al castello, ove in un prato
il curvo ponte si
distende e posa,
ritiene alquanto il passo, ed invitato
non
segue la sua scorta insidiosa.
Su 'l ponte intanto un cavaliero
armato
con sembianza apparia fera e sdegnosa,
ch'avendo ne la
destra il ferro ignudo
in suon parlava minaccioso e crudo:
"O tu, che
(siasi tua fortuna o voglia)
al paese fatal d'Armida arrive,
pensi
indarno al fuggir; or l'arme spoglia,
e porgi a i lacci suoi le
man cattive,
ed entra pur ne la guardata soglia
con queste
leggi ch'ella altrui prescrive,
né piú sperar di
riveder il cielo
per volger d'anni o per cangiar di pelo,
se non giuri
d'andar con gli altri sui
contra ciascun che da Giesú
s'appella."
S'affisa a quel parlar Tancredi in lui
e
riconosce l'arme e la favella.
Rambaldo di Guascogna era
costui
che partí con Armida, e sol per ella
pagan si
fece e difensor divenne
di quell'usanza rea ch'ivi si tenne.
Di santo sdegno
il pio guerrier si tinse
nel volto, e gli rispose: "Empio
fellone,
quel Tancredi son io che 'l ferro cinse
per Cristo
sempre, e fui di lui campione;
e in sua virtute i suoi rubelli
vinse,
come vuo' che tu vegga al paragone,
ché da l'ira
del Ciel ministra eletta
è questa destra a far in te
vendetta."
Turbossi
udendo il glorioso nome
l'empio guerriero, e scolorissi in
viso.
Pur celando il timor, gli disse: "Or come,
misero,
vieni ove rimanga ucciso?
Qui saran le tue forze oppresse e
dome,
e questo altero tuo capo reciso;
e manderollo a i duci
franchi in dono,
s'altro da quel che soglio oggi non sono."
Cosí dicea
il pagano; e perché il giorno
spento era omai sí che
vedeasi a pena,
apparír tante lampade d'intorno
che ne
fu l'aria lucida e serena.
Splende il castel come in teatro
adorno
suol fra notturne pompe altera scena,
ed in eccelsa
parte Armida siede,
onde senz'esser vista e ode e vede.
Il magnanimo eroe
fra tanto appresta
a la fera tenzon l'arme e l'ardire,
né
su 'l debil cavallo assiso resta
già veggendo il nemico a
pié venire.
Vien chiuso ne lo scudo e l'elmo ha in
testa,
la spada nuda, e in atto è di ferire.
Gli move
incontra il principe feroce
con occhi torvi e con terribil voce.
Quegli con larghe
rote aggira i passi
stretto ne l'arme, e colpi accenna e
finge;
questi, se ben ha i membri infermi e lassi,
va risoluto
e gli s'appressa e stringe,
e là donde Rambaldo a dietro
fassi
velocissimamente egli si spinge,
e s'avanza e l'incalza,
e fulminando
spesso a la vista gli dirizza il brando.
E
piú ch'altrove impetuoso fère
ove piú di
vital formò natura,
a le percosse le minaccie
altere
accompagnando, e 'l danno a la paura.
Di qua di là
si volge, e sue leggiere
membra il presto guascone a i colpi
fura,
e cerca or con lo scudo or con la spada
che 'l nemico
furore indarno cada;
ma
veloce a lo schermo ei non è tanto
che piú l'altro
non sia pronto a l'offese.
Già spezzato lo scudo e l'elmo
infranto
e forato e sanguigno avea l'arnese,
e colpo alcun de'
suoi che tanto o quanto
impiagasse il nemico anco non scese;
e
teme, e gli rimorde insieme il core
sdegno, vergogna, conscienza,
amore.
Disponsi
al fin con disperata guerra
far prova omai de l'ultima
fortuna.
Gitta lo scudo, e a due mani afferra
la spada ch'è
di sangue ancor digiuna;
e co 'l nemico suo si stringe e serra
e
cala un colpo, e non v'è piastra alcuna
che gli resista sí
che grave angoscia
non dia piagando a la sinistra coscia.
E poi su l'ampia
fronte il ripercote
sí ch'il picchio rimbomba in suon di
squilla;
l'elmo non fende già, ma lui ben scote,
tal
ch'egli si rannicchia e ne vacilla.
Infiamma d'ira il principe le
gote,
e ne gli occhi di foco arde e sfavilla;
e fuor de la
visiera escono ardenti
gli sguardi, e insieme lo stridor de'
denti.
Il perfido
pagan già non sostiene
la vista pur di sí feroce
aspetto.
Sente fischiare il ferro, e tra le vene
già gli
sembra d'averlo e in mezzo al petto.
Fugge dal colpo, e 'l colpo a
cader viene
dove un pilastro è contra il ponte eretto;
ne
van le scheggie e le scintille al cielo,
e passa al cor del
traditor un gelo,
onde
al ponte rifugge, e sol nel corso
de la salute sua pone ogni
speme.
Ma 'l seguita Tancredi, e già su 'l dorso
la man
gli stende e 'l piè co 'l piè gli preme,
quando ecco
(al fuggitivo alto soccorso)
sparir le faci ed ogni stella
insieme,
né rimaner a l'orba notte alcuna,
sotto povero
ciel, luce di luna.
Fra
l'ombre de la notte e de gli incanti
il vincitor no 'l segue piú
né 'l vede,
né può cosa vedersi a lato o
inanti,
e muove dubbio e mal securo il piede.
Su l'entrare d'un
uscio i passi erranti
a caso mette, né d'entrar s'avede,
ma
sente poi che suona a lui di dietro
la porta, e 'n loco il serra
oscuro e tetro.
Come
il pesce colà dove impaluda
ne i seni di Comacchio il
nostro mare,
fugge da l'onda impetuosa e cruda
cercando in
placide acque ove ripare,
e vien che da se stesso ei si
rinchiuda
in palustre prigion né può tornare,
ché
quel serraglio è con mirabil uso
sempre a l'entrare aperto,
a l'uscir chiuso;
cosí
Tancredi allor, qual che si fosse
de l'estrania prigion l'ordigno
e l'arte,
entrò per se medesmo, e ritrovosse
poi là
rinchiuso ov'uom per sé non parte.
Ben con robusta man la
porta scosse,
ma fur le sue fatiche indarno sparte,
e voce
intanto udí che: "Indarno" grida
"uscir
procuri, o prigionier d'Armida.
Qui
menerai (non temer già di morte)
nel sepolcro de' vivi i
giorni e gli anni."
Non risponde, ma preme il guerrier
forte
nel cor profondo i gemiti e gli affanni,
e fra se stesso
accusa Amor, la sorte,
la sua schiocchezza e gli altrui feri
inganni;
e talor dice in tacite parole:
"Leve perdita fia
perdere il sole,
ma
di piú vago sol piú dolce vista,
misero! i' perdo, e
non so già se mai
in loco tornerò che l'alma
trista
si rassereni a gli amorosi rai."
Poi gli sovien
d'Argante, e piú s'attrista
e: "Troppo" dice "al
mio dover mancai;
ed è ragion ch'ei mi disprezzi e
scherna!
O mia gran colpa! o mia vergogna eterna!"
Cosí
d'amor, d'onor cura mordace
quinci e quindi al guerrier l'animo
rode.
Or mentre egli s'affligge, Argante audace
le molli piume
di calcar non gode;
tanto è nel crudo petto odio di
pace,
cupidigia di sangue, amor di lode,
che, de le piaghe sue
non sano ancora,
brama che 'l sesto dí porti l'aurora.
La notte che
precede, il pagan fero
a pena inchina, per dormir la fronte;
e
sorge poi che 'l cielo anco è sí nero
che non dà
luce in su la cima al monte.
"Recami" grida "l'arme"
al suo scudiero,
ed esso aveale apparecchiate e pronte:
non le
solite sue, ma dal re sono
dategli queste, e prezioso è il
dono.
Senza molto
mirarle egli le prende
né dal gran peso è la persona
onusta,
e la solita spada al fianco appende,
ch'è di
tempra finissima e vetusta.
Qual con le chiome sanguinose
orrende
splender cometa suol per l'aria adusta,
che i regni
muta e i feri morbi adduce,
a i purpurei tiranni infausta luce;
tal ne l'arme ei
fiammeggia, e bieche e torte
volge le luci ebre di sangue e
d'ira.
Spirano gli atti feri orror di morte,
e minaccie di
morte il volto spira.
Alma non è cosí secura e
forte
che non paventi, ove un sol guardo gira.
Nuda ha la spada
e la solleva e scote
gridando, e l'aria e l'ombre in van percote.
"Ben tosto"
dice "il predator cristiano,
ch'audace è sí
ch'a me vuole agguagliarsi,
caderà vinto e sanguinoso al
piano,
bruttando ne la polve i crini sparsi;
e vedrà
vivo ancor da questa mano
ad onta del suo Dio l'arme
spogliarsi,
né morendo impetrar potrà co'
preghi
ch'in pasto a' cani le sue membra i' neghi."
Non
altramente il tauro, ove l'irriti
geloso amor co' stimuli
pungenti,
orribilmente mugge, e co' muggiti
gli spirti in sé
risveglia e l'ire ardenti,
e 'l corno aguzza a i tronchi, e par
ch'inviti
con vani colpi a la battaglia i venti:
sparge co 'l
piè l'arena, e 'l suo rivale
da lunge sfida a guerra aspra
e mortale.
Da sí
fatto furor commosso, appella
l'araldo; e con parlar tronco gli
impone:
"Vattene al campo, e la battaglia fella
nunzia a
colui ch'è di Giesú campione."
Quinci alcun non
aspetta e monta in sella,
e fa condursi inanzi il suo
prigione;
esce fuor de la terra, e per lo colle
in corso vien
precipitoso e folle.
Dà
fiato intanto al corno, e n'esce un suono
che d'ogn'intorno
orribile s'intende
e 'n guisa pur di strepitoso tuono
gli
orecchi e 'l cor de gli ascoltanti offende.
Già i principi
cristiani accolti sono
ne la tenda maggior de l'altre tende:
qui
fe' l'araldo sue disfide e incluse
Tancredi pria, né però
gli altri escluse.
Goffredo
intorno gli occhi gravi e tardi
volge con mente allor dubbia e
sospesa,
né, perché molto pensi e molto guardi,
atto
gli s'offre alcuno a tanta impresa.
Vi manca il fior de' suoi
guerrier gagliardi:
di Tancredi non s'è novella intesa,
e
lunge è Boemondo, ed ito è in bando
l'invitto eroe
ch'uccise il fier Gernando.
Ed
oltre i diece che fur tratti a sorte,
i migliori del campo e i piú
famosi
seguír d'Armida le fallaci scorte,
sotto il
silenzio de la notte ascosi.
Gli altri di mano e d'animo men
forte
taciti se ne stanno e vergognosi,
né vi è
chi cerchi in sí gran rischio onore,
ché vinta la
vergogna è dal timore.
Al
silenzio, a l'aspetto, ad ogni segno,
di lor temenza il capitan
s'accorse,
e tutto pien di generoso sdegno
dal loco ove sedea
repente sorse,
e disse: "Ah! ben sarei di vita indegno
se
la vita negassi or porre in forse,
lasciando ch'un pagan cosí
vilmente
calpestasse l'onor di nostra gente!
Sieda
in pace il mio campo, e da secura
parte miri ozioso il mio
periglio.
Su su, datemi l'arme"; e l'armatura
gli fu
recata in un girar di ciglio.
Ma il buon Raimondo, che in età
matura
parimente maturo avea il consiglio,
e verdi ancor le
forze a par di quanti
erano quivi, allor si trasse avanti,
e disse a lui
rivolto: "Ah non sia vero
ch'in un capo s'arrischi il campo
tutto!
Duce sei tu, non semplice guerriero:
publico fòra
e non privato il lutto.
In te la fé s'appoggia e 'l santo
impero,
per te fia il regno di Babèl distrutto.
Tu il
senno sol, lo scettro solo adopra;
ponga altri poi l'ardire e 'l
ferro in opra.
Ed
io, bench'a gir curvo mi condanni
la grave età, non fia che
ciò ricusi.
Schivino gli altri i marziali affanni,
me
non vuo' già che la vecchiezza scusi.
Oh! foss'io pur su 'l
mio vigor de gli anni
qual sète or voi, che qui temendo
chiusi
vi state e non vi move ira o vergogna
contra lui che vi
sgrida e vi rampogna,
e
quale allora fui, quando al cospetto
di tutta la Germania, a la
gran corte
del secondo Corrado, apersi il petto
al feroce
Leopoldo e 'l posi a morte!
E fu d'alto valor piú chiaro
effetto
le spoglie riportar d'uom cosí forte,
che
s'alcun or fugasse inerme e solo
di questa ignobil turba un grande
stuolo.
Se fosse
in me quella virtú, quel sangue,
di questo alter l'orgoglio
avrei già spento.
Ma qualunque io mi sia, non però
langue
il core in me, né vecchio anco pavento,
E s'io
pur rimarrò nel campo essangue,
né il pagan di
vittoria andrà contento.
Armarmi i' vuo': sia questo il dí
ch'illustri
con novo onor tutti i miei scorsi lustri."
Cosí parla
il gran vecchio, e sproni acuti
son le parole, onde virtú
si desta.
Quei che fur prima timorosi e muti
hanno la lingua or
baldanzosa e presta.
Né sol non v'è che la tenzon
rifiuti,
ma ella omai da molti a prova è chiesta:
Baldovin
la domanda, e con Ruggiero
Guelfo, i due Guidi, e Stefano e
Gerniero,
e
Pirro, quel che fe' il lodato inganno
dando Antiochia presa a
Boemondo;
ed a prova richiesta anco ne fanno
Eberardo, Ridolfo
e 'l pro' Rosmondo,
un di Scozia, un d'Irlanda, ed un
britanno,
terre che parte il mar dal nostro mondo;
e ne son
parimente anco bramosi
Gildippe ed Odoardo, amanti e sposi.
Ma sovra tutti
gli altri il fero vecchio
se ne dimostra cupido ed ardente.
Armato
è già; sol manca a l'apparecchio
de gli altri arnesi
il fino elmo lucente.
A cui dice Goffredo: "O vivo
specchio
del valor prisco, in te la nostra gente
miri e virtú
n'apprenda: in te di Marte
splende l'onor, la disciplina e l'arte.
Oh! pur avessi
fra l'etade acerba
diece altri di valor al tuo simíle,
come
ardirei vincer Babèl superba
e la Croce spiegar da Battro a
Tile.
Ma cedi or, prego, e te medesmo serba
a maggior opre e di
virtú senile.
Pongansi poi tutti i nomi in un vaso
come
è l'usanza, e sia giudice il caso;
anzi
giudice Dio, de le cui voglie
ministra e serva è la fortuna
e 'l fato."
Ma non però dal suo pensier si
toglie
Raimondo, e vuol anch'egli esser notato.
Ne l'elmo suo
Goffredo i brevi accoglie;
e poi che l'ebbe scosso ed agitato,
nel
primo breve che di là traesse,
del conte di Tolosa il nome
lesse.
Fu il nome
suo con lieto grido accolto,
né di biasmar la sorte alcun
ardisce.
Ei di fresco vigor la fronte e 'l volto
riempie; e
cosí allor ringiovenisce
qual serpe fier che in nove
spoglie avolto
d'oro fiammeggi e 'ncontra il sol si lisce.
Ma
piú d'ogn'altro il capitan gli applaude
e gli annunzia
vittoria, e gli dà laude.
E
la spada togliendosi dal fianco,
e porgendola a lui, cosí
dicea:
"Questa è la spada che 'n battaglia il
franco
rubello di Sassonia oprar solea,
ch'io già gli
tolsi a forza, e gli tolsi anco
la vita allor di mille colpe
rea;
questa, che meco ognor fu vincitrice,
prendi, e sia cosí
teco ora felice."
Di
loro indugio intanto è quell'altero
impaziente, e li
minaccia e grida:
"O gente invitta, o popolo
guerriero
d'Europa, un uomo solo è che vi sfida.
Venga
Tancredi omai che par sí fero,
se ne la sua virtú
tanto si fida;
o vuol, giacendo in piume, aspettar forse
la
notte ch'altre volte a lui soccorse?
Venga
altri, s'egli teme; a stuolo a stuolo
venite insieme, o cavalieri,
o fanti,
poi che di pugnar meco a solo a solo
non v'è
fra mille schiere uom che si vanti.
Vedete là il sepolcro
ove il figliuolo
di Maria giacque: or ché non gite
avanti?
ché non sciogliete i voti? Ecco la strada!
A
qual serbate uopo maggior la spada?"
Con
tali scherni il saracin atroce
quasi con dura sferza altrui
percote,
ma piú ch'altri Raimondo a quella voce
s'accende,
e l'onte sofferir non pote.
La virtú stimolata è piú
feroce,
e s'aguzza de l'ira a l'aspra cote,
sí che
tronca gli indugi e preme il dorso
del suo Aquilino, a cui diè
'l nome il corso.
Questo
su 'l Tago nacque, ove talora
l'avida madre del guerriero
armento,
quando l'alma stagion che n'innamora
nel cor le
instiga il natural talento,
volta l'aperta bocca incontra
l'òra,
raccoglie i semi del fecondo vento,
e de' tepidi
fiati (o meraviglia!)
cupidamente ella concipe e figlia.
E ben questo
Aquilin nato diresti
di quale aura del ciel piú lieve
spiri,
o se veloce sí ch'orma non resti
stendere il
corso per l'arena il miri,
o se 'l vedi addoppiar leggieri e
presti
a destra ed a sinistra angusti giri.
Sovra tal corridore
il conte assiso
move a l'assalto, e volge al cielo il viso:
"Signor, tu
che drizzasti incontra l'empio
Golia l'arme inesperte in
Terebinto,
sí ch'ei ne fu, che d'Israel fea scempio,
al
primo sasso d'un garzone estinto;
tu fa' ch'or giaccia (e fia pari
l'essempio)
questo fellon da me percosso e vinto,
e debil
vecchio or la superbia opprima
come debil fanciul l'oppresse in
prima."
Cosí
pregava il conte, e le preghiere
mosse dalla speranza in Dio
secura
s'alzàr volando a le celesti spere,
come va foco
al ciel per sua natura.
L'accolse il Padre eterno, e fra le
schiere
de l'essercito suo tolse a la cura
un che 'l difenda, e
sano e vincitore
da le man di quell'empio il tragga fuore.
L'angelo, che fu
già custode eletto
da l'alta Providenza al buon
Raimondo
insin dal primo dí che pargoletto
se 'n venne a
farsi peregrin del mondo,
or che di novo il Re del Ciel gli ha
detto
che prenda in sé de la difesa il pondo,
ne l'alta
rocca ascende, ove de l'oste
divina tutte son l'arme riposte.
Qui l'asta si
conserva onde il serpente
percosso giacque, e i gran fulminei
strali,
e quegli ch'invisibili a la gente
portan l'orride pesti
e gli altri mali;
e qui sospeso è in alto il gran
tridente,
primo terror de' miseri mortali
quando egli avien che
i fondamenti scota
de l'ampia terra, e le città percota.
Si vedea
fiammeggiar fra gli altri arnesi
scudo di lucidissimo
diamante,
grande che può coprir genti e paesi
quanti ve
n'ha fra il Caucaso e l'Atlante;
e sogliono da questo esser
difesi
principi giusti e città caste e sante.
Questo
l'angelo prende, e vien con esso
occultamente al suo Raimondo
appresso.
Piene
intanto le mura eran già tutte
di varia turba, e 'l barbaro
tiranno
manda Clorinda e molte genti instrutte,
che ferme a
mezzo il colle oltre non vanno.
Da l'altro lato in ordine
ridutte
alcune schiere di cristiani stanno,
e largamente a' duo
campioni il campo
vòto riman fra l'uno e l'altro campo.
Mirava Argante, e
non vedea Tancredi,
ma d'ignoto campion sembianze nove.
Fecesi
il conte inanzi, e: " Quel che chiedi,
è" disse a
lui "per tua ventura altrove.
Non superbir però, ché
me qui vedi
apparecchiato a riprovar tue prove,
ch'io di lui
posso sostener la vice
o venir come terzo a me qui lice."
Ne sorride il
superbo, e gli risponde:
"Che fa dunque Tancredi? e dove
stassi?
Minaccia il ciel con l'arme, e poi s'asconde
fidando
sol ne' suoi fugaci passi;
ma fugga pur nel centro e 'n mezzo
l'onde,
ché non fia loco ove securo il lassi."
"Menti"
replica l'altro "a dir ch'uom tale
fugga da te, ch'assai di
te piú vale."
Freme
il circasso irato, e dice: "Or prendi
del campo tu, ch'in
vece sua t'accetto;
e tosto e' si parrà come difendi
l'alta
follia del temerario detto."
Cosí mossero in giostra,
e i colpi orrendi
parimente drizzaro ambi a l'elmetto;
e 'l
buon Raimondo ove mirò scontrollo,
né dar gli fece
ne l'arcion pur crollo.
Da
l'altra parte il fero Argante corse
(fallo insolito a lui)
l'arringo in vano,
ché 'l difensor celeste il colpo
torse
dal custodito cavalier cristiano.
Le labra il crudo per
furor si morse,
e ruppe l'asta bestemmiando al piano.
Poi
tragge il ferro, e va contra Raimondo
impetuoso al paragon
secondo.
E 'l
possente corsiero urta per dritto,
quasi monton ch'al cozzo il
capo abbassa.
Schiva Raimondo l'urto, al lato dritto
piegando
il corso, e 'l fère in fronte e passa.
Torna di novo il
cavalier d'Egitto,
ma quegli pur di novo a destra il lassa,
e
pur su l'elmo il coglie, e 'ndarno sempre
ché l'elmo
adamantine avea le tempre.
Ma
il feroce pagan, che seco vòle
piú stretta zuffa, a
lui s'aventa e serra.
L'altro, ch'al peso di sí vasta
mole
teme d'andar co 'l suo destriero a terra,
qui cede, ed
indi assale, e par che vòle,
intorniando con girevol
guerra,
e i lievi imperii il rapido cavallo
segue del freno, e
non pone orma in fallo.
Qual
capitan ch'oppugni eccelsa torre
infra paludi posta o in alto
monte,
mille aditi ritenta, e tutte scorre
l'arti e le vie,
cotal s'aggira il conte;
e poi che non può scaglia d'arme
tòrre
ch'armano il petto e la superba fronte,
fère
i men forti arnesi, ed a la spada
cerca tra ferro e ferro aprir la
strada.
Ed in due
parti o in tre forate e fatte
l'arme nemiche ha già tepide
e rosse,
ed egli ancor le sue conserva intatte,
né di
cimier, né d'un sol fregio scosse.
Argante indarno
arrabbia, a vòto batte
e spande senza pro l'ire e le
posse;
non si stanca però, ma raddoppiando
va tagli e
punte e si rinforza errando.
Al
fin tra mille colpi il saracino
cala un fendente, e 'l conte è
cosí presso
che forse il velocissimo Aquilino
non
sottraggeasi e rimaneane oppresso;
ma l'aiuto invisibile
vicino
non mancò lui di quel superno messo,
che stese il
braccio e tolse il ferro crudo
sovra il diamante del celeste
scudo.
Fragile è
il ferro allor (ché non resiste
di fucina mortal tempra
terrena
ad armi incorrottibili ed immiste
d'eterno fabro) e
cade in su l'arena.
Il circasso, ch'andarne a terra ha
viste
minutissime parti, il crede a pena;
stupisce poi, scorta
la mano inerme,
ch'arme il campion nemico abbia sí ferme;
e ben rotta la
spada aver si crede
su l'altro scudo, onde è colui
difeso,
e 'l buon Raimondo ha la medesma fede,
ché non
sa già chi sia dal ciel disceso.
Ma però ch'egli
disarmata vede
la man nemica, si riman sospeso,
ché
stima ignobil palma e vili spoglie
quelle ch'altrui con tal
vantaggio toglie.
"Prendi"
volea già dirgli "un'altra spada",
quando novo
pensier nacque nel core,
ch'alto scorno è de' suoi dove
egli cada,
che di publica causa è difensore.
Cosí
né indegna a lui vittoria aggrada,
né in dubbio vuol
porre il comune onore.
Mentre egli dubbio stassi, Argante
lancia
il pomo e l'else a la nemica guancia,
e
in quel tempo medesmo il destrier punge
e per venirne a lotta
oltra si caccia.
La percossa lanciata a l'elmo giunge,
sí
che ne pesta al tolosan la faccia;
ma però nulla
sbigottisce, e lunge
ratto si svia da le robuste braccia,
ed
impiaga la man ch'a dar di piglio
venia piú fera che ferino
artiglio.
Poscia
gira da questa a quella parte,
e rigirasi a questa indi da
quella;
e sempre, e dove riede e donde parte,
fère il
pagan d'aspra percossa e fella.
Quanto avea di vigor, quanto avea
d'arte,
quanto può sdegno antico, ira novella,
a danno
del circasso or tutto aduna,
e seco il Ciel congiura e la fortuna.
Quei di fine arme
e di se stesso armato,
a i gran colpi resiste e nulla pave;
e
par senza governo in mar turbato,
rotte vele ed antenne, eccelsa
nave,
che pur contesto avendo ogni suo lato
tenacemente di
robusta trave,
sdrusciti i fianchi al tempestoso flutto
non
mostra ancor, né si dispera in tutto.
Argante,
il tuo periglio allor tal era,
quando aiutarti Belzebú
dispose.
Questi di cava nube ombra leggiera
(mirabil mostro) in
forma d'uom compose;
e la sembianza di Clorinda altera
gli
finse, e l'arme ricche e luminose:
diegli il parlare e senza mente
il noto
suon de la voce, e 'l portamento e 'l moto.
Il
simulacro ad Oradin, esperto
sagittario famoso, andonne e
disse:
"O famoso Oradin, ch'a segno certo,
come a te
piace, le quadrella affisse,
ah! gran danno saria s'uom di tal
merto,
difensor di Giudea, cosí morisse,
e di sue
spoglie il suo nemico adorno
securo ne facesse a i suoi ritorno.
Qui fa' prova de
l'arte, e le saette
tingi, nel sangue del ladron
francese,
ch'oltra il perpetuo onor vuo' che n'aspette
premio
al gran fatto egual dal re cortese."
Cosí parlò,
né quegli in dubbio stette,
tosto che 'l suon de le
promesse intese;
da la grave faretra un quadrel prende
e su
l'arco l'adatta, e l'arco tende.
Sibila
il teso nervo, e fuore spinto
vola il pennuto stral per l'aria e
stride,
ed a percoter va dove del cinto
si congiungon le fibbie
e le divide;
passa l'usbergo, e in sangue a pena tinto
qui su
si ferma e sol la pelle incide,
ché 'l celeste guerrier
soffrir non volse
ch'oltra passasse, e forza al colpo tolse.
Da l'usbergo lo
stral si tragge il conte
ed ispicciarne fuori il sangue vede;
e
con parlar pien di minaccie ed onte
rimprovera al pagan la rotta
fede.
Il capitan, che non torcea la fronte
da l'amato Raimondo,
allor s'avede
che violato è il patto, e perché
grave
stima la piaga, ne sospira e pave;
e
con la fronte le sue genti altere
e con la lingua a vendicarlo
desta.
Vedi tosto inchinar giú le visiere,
lentare i
freni e por le lancie in resta,
e quasi in un sol punto alcune
schiere
da quella parte moversi e da questa.
Sparisce il campo,
e la minuta polve
con densi globi al ciel s'inalza e volve.
D'elmi e scudi
percossi e d'aste infrante
ne' primi scontri un gran romor
s'aggira.
Là giacere un cavallo, e girne errante
un
altro là senza rettor si mira;
qui giace un guerrier morto,
e qui spirante
altri singhiozza e geme, altri sospira.
Fera è
la pugna, e quanto piú si mesce
e stringe insieme, piú
s'inaspra e cresce.
Salta
Argante nel mezzo agile e sciolto,
e toglie ad un guerrier ferrata
mazza;
e rompendo lo stuol calcato e folto,
la rota intorno e
si fa larga piazza.
E sol cerca Raimondo, e in lui sol vòlto
ha
il ferro e l'ira impetuosa e pazza,
e quasi avido lupo ei par che
brame
ne le viscere sue pascer la fame.
Ma
duro ad impedir viengli il sentiero
e fero intoppo, acciò
che 'l corso ei tardi.
Si trova incontra Ormanno, e con
Ruggiero
di Balnavilla un Guido e duo Gherardi.
Non cessa, non
s'allenta, anzi è piú fero
quanto ristretto è
piú da que' gagliardi,
sí come a forza da rinchiuso
loco
se n'esce e move alte ruine il foco.
Uccide
Ormanno, piaga Guido, atterra
Ruggiero infra gli estinti egro e
languente,
ma contra lui crescon le turbe, e 'l serra
d'uomini
e d'arme cerchio aspro e pungente.
Mentre in virtú di lui
pari la guerra
si mantenea fra l'una e l'altra gente,
il buon
duce Buglion chiama il fratello,
ed a lui dice: "Or movi il
tuo drapello,
e
là dove battaglia è piú mortale
vattene ad
investir nel lato manco."
Quegli si mosse, e fu lo scontro
tale
ond'egli urtò de gli nemici al fianco,
che parve il
popol d'Asia imbelle e frale,
né poté sostener
l'impeto franco,
che gli ordini disperde, e co'
destrieri
l'insegne insieme abbatte e i cavalieri.
Da
l'impeto medesmo in fuga è vòlto
il destro corno; e
non v'è alcun che faccia
fuor ch'Argante difesa, a freno
sciolto
cosí il timor precipiti li caccia.
Egli sol
ferma il passo e mostra il volto,
né chi con mani cento e
cento braccia
cinquanta scudi insieme ed altrettante
spade
movesse, or piú faria d'Argante.
Ei
gli stocchi e le mazze, egli de l'aste
e de' corsieri l'impeto
sostenta;
e solo par che 'ncontra tutti baste,
ed ora a questo
ed ora a quel s'aventa.
Peste ha le membra e rotte l'arme e
guaste,
e sudor versa e sangue, e par no 'l senta.
Ma cosí
l'urta il popol denso e 'l preme
ch'al fin lo svolge e seco il
porta insieme.
Volge
il tergo a la forza ed al furore
di quel diluvio che 'l rapisce e
'l tira;
ma non già d'uom che fugga ha i passi e 'l
core,
s'a l'opre de la mano il cor si mira.
Serbano ancora gli
occhi il lor terrore
e le minaccie de la solita ira;
e cerca
ritener con ogni prova
la fuggitiva turba, e nulla giova.
Non può
far quel magnanimo ch'almeno
sia lor fuga piú tarda e piú
raccolta,
ché non ha la paura arte né freno,
né
pregar qui né comandar s'ascolta.
Il pio Buglion, ch'i suoi
pensieri a pieno
vede fortuna a favorir rivolta,
segue de la
vittoria il lieto corso
e invia novello a i vincitor soccorso.
E se non che non
era il dí che scritto
Dio ne gli eterni suoi decreti
avea,
quest'era forse il dí che 'l campo invitto
de le
sante fatiche al fin giungea.
Ma la schiera infernal, ch'in quel
conflitto
la tirannide sua cader vedea,
sendole ciò
permesso, in un momento
l'aria in nube ristrinse e mosse il vento.
Da gli occhi de'
mortali un negro velo
rapisce il giorno e 'l sole, e par
ch'avampi
negro via piú ch'orror d'inferno il cielo,
cosí
fiammeggia infra baleni e lampi.
Fremono i tuoni, e pioggia
accolta in gelo
si versa, e i paschi abbatte e inonda i
campi.
Schianta i rami il gran turbo, e par che crolli
non pur
le quercie ma le rocche e i colli.
L'acqua
in un tempo, il vento e la tempesta
ne gli occhi a i Franchi
impetuosa fère,
e l'improvisa violenza arresta
con un
terror quasi fatal le schiere.
La minor parte d'esse accolta
resta
(ché veder non le puote) a le bandiere.
Ma
Clorinda, che quindi alquanto è lunge
prende opportuno il
tempo e 'l destrier punge.
Ella
gridava a i suoi: "Per noi combatte,
compagni, il Cielo, e la
giustizia aita;
da l'ira sua le faccie nostre intatte
sono, e
non è la destra indi impedita,
e ne la fronte solo irato ei
batte
de la nemica gente impaurita,
e la scote de l'arme, e de
la luce
la priva: andianne pur, ché 'l fato è duce."
Cosí
spinge le genti, e ricevendo
sol nelle spalle l'impeto
d'inferno,
urta i Francesi con assalto orrendo,
e i vani colpi
lor si prende a scherno.
Ed in quel tempo Argante anco volgendo
fa
de' già vincitor aspro governo,
e quei lasciando il campo a
tutto corso
volgono al ferro, a le procelle il dorso.
Percotono le
spalle a i fuggitivi
l'ire immortali e le mortali spade,
e 'l
sangue corre e fa, commisto a i rivi
de la gran pioggia,
rosseggiar le strade.
Qui tra 'l vulgo de' morti e de' mal vivi
e
Pirro e 'l buon Ridolfo estinto cade;
e toglie a questo il fier
circasso l'alma,
e Clorinda di quello ha nobil palma.
Cosí
fuggiano i Franchi, e di lor caccia
non rimaneano i Siri anco o i
demoni.
Sol contra l'arme e contra ogni minaccia
di granuole,
di turbini e di tuoni
volgea Goffredo la secura
faccia,
rampognando aspramente i suoi baroni;
e, fermo anzi la
porta il gran cavallo,
le genti sparse raccogliea nel vallo.
E ben due volte
il corridor sospinse
contra il feroce Argante e lui ripresse,
ed
altrettante il nudo ferro spinse
dove le turbe ostili eran piú
spesse;
al fin con gli altri insieme ei si ristrinse
dentro a i
ripari, e la vittoria cesse.
Tornano allora i saracini, e
stanchi
restan nel vallo e sbigottiti i Franchi.
Né
quivi ancor de l'orride procelle
ponno a pieno schivar la forza e
l'ira,
ma sono estinte or queste faci or quelle,
e per tutto
entra l'acqua e 'l vento spira.
Squarcia le tele e spezza i pali,
e svelle
le tende intere e lunge indi le gira;
la pioggia a i
gridi, a i venti, a i tuon s'accorda
d'orribile armonia che 'l
mondo assorda.
Argomento
Narra
a Goffredo del signor de' Dani
Il valor prima un messo, e poi la
morte
Credendo quei d'Italia a' segni vani,
Stimano estinto il
lor Rinaldo forte.
Dunque al furor ch'Aletto spira, insani,
di
soverchia ira, e d'odio apron le porte:
E minaccia Goffredo: ei
con la voce
Sola in lor frena l'impeto feroce.
Già
cheti erano i tuoni e le tempeste
e cessato il soffiar d'Austro e
di Coro,
e l'alba uscia de la magion celeste
con la fronte di
rose e co' piè d'oro.
Ma quei che le procelle avean già
deste
non rimaneansi ancor da l'arti loro,
anzi l'un d'essi,
ch'Astragorre è detto,
cosí parlava a la compagna
Aletto:
"Mira,
Aletto, venirne (ed impedito
esser non può da noi) quel
cavaliero
che da le fere mani è vivo uscito
del sovran
difensor del nostro impero.
Questi, narrando del suo duce ardito
e
de' compagni a i Franchi il caso fero,
paleserà gran cose;
onde è periglio
che si richiami di Bertoldo il figlio.
Sai quanto ciò
rilevi e se conviene
a i gran princípi oppor forza ed
inganno.
Scendi tra i Franchi adunque, e ciò ch'a
bene
colui dirà tutto rivolgi in danno:
spargi le fiamme
e 'l tòsco entro le vene
del Latin, de l'Elvezio e del
Britanno,
movi l'ire e i tumulti a fa' tal opra
che tutto vada
il campo al fin sossopra.
L'opra
è degna di te, tu nobil vanto
te 'n désti già
dinanzi al signor nostro."
Cosí le parla, e basta ben
sol tanto
perché prenda l'impresa il fero mostro.
Giunto
è su 'l vallo dei cristiani intanto
quel cavaliero il cui
venir fu mostro,
e disse lor: "Deh, sia chi m'introduca
per
mercede, o guerrieri, al sommo duca."
Molti
scorta gli furo al capitano,
vaghi d'udir del peregrin
novelle.
Egli inchinollo, e l'onorata mano
volea baciar che fa
tremar Babelle;
"Signor," poi dice "che con
l'oceano
termini la tua fama e con le stelle,
venirne a te
vorrei piú lieto messo."
Qui sospirava, e soggiungeva
appresso:
"Sveno,
del re de' Dani unico figlio,
gloria e sostegno a la cadente
etade,
esser tra quei bramò che 'l tuo consiglio
seguendo
han cinto per Giesú le spade;
né timor di fatica o
di periglio,
né vaghezza del regno, né pietade
del
vecchio genitor, sí degno affetto
intepidír nel
generoso petto.
Lo
spingeva un desio d'apprender l'arte
de la milizia faticosa e
dura
da te, sí nobil mastro, e sentia in parte
sdegno e
vergogna di sua fama oscura,
già di Rinaldo il nome in ogni
parte
con gloria udendo in verdi anni matura;
ma piú
ch'altra cagione, il mosse il zelo
non del terren ma de l'onor del
Cielo.
Precipitò
dunque gli indugi, e tolse
stuol di scelti compagni audace e
fero,
e dritto invèr la Tracia il camin volse
a la città
che sede è de l'impero.
Qui il greco Augusto in sua magion
l'accolse,
qui poi giunse in tuo nome un messaggiero.
Questi a
pien gli narrò come già presa
fosse Antiochia, e
come poi difesa;
difesa
incontra al Perso, il qual con tanti
uomini armati ad assediarvi
mosse,
che sembrava che d'arme e d'abitanti
vòto il gran
regno suo rimaso fosse.
Di te gli disse, e poi narrò
d'alquanti
sin ch'a Rinaldo giunse, e qui fermosse;
contò
l'ardita fuga, e ciò che poi
fatto di glorioso avea tra
voi.
Soggiunse al
fin come già il popol franco
veniva a dar l'assalto a
queste porte;
e invitò lui ch'egli volesse almanco
de
l'ultima vittoria esser consorte.
Questo parlare al giovenetto
fianco
del fero Sveno è stimolo sí forte,
ch'ogn'ora
un lustro pargli infra pagani
rotar il ferro e insanguinar le
mani.
Par che la
sua viltà rimproverarsi
senta ne l'altrui gloria, e se ne
rode;
e ch'il consiglia e ch'il prega a fermarsi,
o che non
l'essaudisce o che non l'ode.
Rischio non teme, fuor che 'l non
trovarsi
de' tuoi gran rischi a parte e di tua lode;
questo gli
sembra sol periglio grave,
de gli altri o nulla intende o nulla
pave.
Egli
medesmo sua fortuna affretta,
fortuna che noi tragge e lui
conduce,
però ch'a pena al suo partire aspetta
i primi
rai de la novella luce.
È per miglior la via piú
breve eletta;
tale ei la stima, ch'è signor e duce,
né
i passi piú difficili o i paesi
schivar si cerca de' nemici
offesi.
Or
difetto di cibo, or camin duro
trovammo, or violenza ed or
aguati;
ma tutti fur vinti i disagi, e furo
or uccisi i nemici
ed or fugati.
Fatto avean ne' perigli ogn'uom securo
le
vittorie e insolenti i fortunati,
quando un dí ci
accampammo ove i confini
non lunge erano omai de' Palestini.
Quivi da i
precursori a noi vien detto
ch'alto strepito d'arme avean
sentito,
e viste insegne e indizi onde han sospetto
che sia
vicino essercito infinito.
Non pensier, non color, non cangia
aspetto,
non muta voce il signor nostro ardito,
benché
molti vi sian ch'al fero aviso
tingan di bianca pallidezza il
viso.
Ma dice:
`Oh quale omai vicina abbiamo
corona o di martirio o di
vittoria!
L'una spero io ben piú, ma non men bramo
l'altra
ove è maggior merto e pari gloria.
Questo campo, o
fratelli, ove or noi siamo,
fia tempio sacro ad immortal
memoria,
in cui l'età futura additi e mostri
le nostre
sepolture e i trofei nostri.'
Cosí
parla, e le guardie indi dispone
e gli uffici comparte e la
fatica.
Vuol ch'armato ognun giaccia, e non depone
ei medesmo
gli arnesi o la lorica.
Era la notte ancor ne la stagione
ch'è
piú del sonno e del silenzio amica,
allor che d'urli
barbareschi udissi
romor che giunse al cielo ed a gli abissi.
Si grida `A
l'armi! a l'armi!', e Sveno involto
ne l'armi inanzi a tutti oltre
si spinge,
e magnanimamente i lumi e 'l volto
di color
d'ardimento infiamma e tinge.
Ecco siamo assaliti, e un cerchio
folto
da tutti i lati ne circonda e stringe,
e intorno un bosco
abbiam d'aste e di spade
e sovra noi di strali un nembo cade.
Ne la pugna
inegual (però che venti
gli assalitori sono incontra ad
uno)
molti d'essi piagati e molti spenti
son da cieche ferite a
l'aer bruno;
ma il numero de gli egri e de' cadenti
fra l'ombre
oscure non discerne alcuno:
copre la notte i nostri danni, e
l'opre
de la nostra virtute insieme copre.
Pur
sí fra gli altri Sveno alza la fronte
ch'agevol cosa è
che veder si possa,
e nel buio le prove anco son conte
a chi vi
mira, e l'incredibil possa.
Di sangue un rio, d'uomini uccisi un
monte
d'ogni intorno gli fanno argine e fossa;
e dovunque ne
va, sembra che porte
lo spavento ne gli occhi, e in man la morte.
Cosí
pugnato fu sin che l'albore
rosseggiando nel ciel già
n'apparia.
Ma poi che scosso fu il notturno orrore
che l'orror
de le morti in sé copria,
la desiata luce a noi terrore
con
vista accrebbe dolorosa e ria,
ché pien d'estinti il campo
e quasi tutta
nostra gente vedemmo omai destrutta.
Duomila fummo, e
non siam cento. Or quando
tanto sangue egli mira e tante
morti,
non so se 'l cuor feroce al miserando
spettacolo si
turbi e si sconforti;
ma già no 'l mostra, anzi la voce
alzando:
`Seguiam' ne grida `que' compagni forti
ch'al Ciel
lunge da i laghi averni e stigi
n'han segnati co 'l sangue alti
vestigi.'
Disse,
e lieto (credo io) de la vicina
morte cosí nel cor come al
sembiante,
incontra alla barbarica ruina
portonne il petto
intrepido e costante.
Tempra non sosterrebbe, ancor che fina
fosse
e d'acciaio no, ma di diamante,
i feri colpi, onde egli il campo
allaga,
e fatto è il corpo suo solo una piaga.
La
vita no, ma la virtú sostenta
quel cadavero indomito e
feroce.
Ripercote percosso e non s'allenta,
ma quanto offeso è
piú tanto piú noce.
Quando ecco furiando a lui
s'aventa
uom grande, c'ha sembiante e guardo atroce;
e dopo
lunga ed ostinata guerra,
con l'aita di molti al fin l'atterra.
Cade il garzone
invitto (ahi caso amaro!),
né v'è fra noi chi
vendicare il possa.
Voi chiamo in testimonio, o del mio
caro
signor sangue ben sparso e nobil ossa,
ch'allor non fui de
la mia vita avaro,
né schivai ferro né schivai
percossa;
e se piaciuto pur fosse là sopra
ch'io vi
morissi, il meritai con l'opra.
Fra
gli estinti compagni io sol cadei
vivo, né vivo forse è
chi mi pensi;
né de' nemici piú cosa saprei
ridir,
sí tutti avea sopiti i sensi.
Ma poi che tornò il
lume a gli occhi miei,
ch'eran d'atra caligine condensi,
notte
mi parve, ed a lo sguardo fioco
s'offerse il vacillar d'un picciol
foco.
Non
rimaneva in me tanta virtude
ch'a discerner le cose io fossi
presto,
ma vedea come quei ch'or apre or chiude
gli occhi,
mezzo tra 'l sonno e l'esser desto;
e 'l duolo omai de le ferite
crude
piú cominciava a farmisi molesto,
ché
l'inaspria l'aura notturna e 'l gelo
in terra nuda e sotto aperto
cielo.
Piú
e piú ognor s'avicinava intanto
quel lume e insieme un
tacito bisbiglio,
sí ch'a me giunse e mi si pose a
canto.
Alzo allor, bench'a pena, il debil ciglio
e veggio due
vestiti in lungo manto
tener due faci, e dirmi sento: `O
figlio,
confida in quel Signor ch'a' pii soviene,
e con la
grazia i preghi altrui previene.'
In
tal guisa parlommi: indi la mano
benedicendo sovra me distese;
e
susurrò con suon devoto e piano
voci allor poco udite e
meno intese.
`Sorgi', poi disse; ed io leggiero e sano
sorgo, e
non sento le nemiche offese
(oh miracol gentile!), anzi mi
sembra
piene di vigor novo aver le membra.
Stupido
lor riguardo, e non ben crede
l'anima sbigottita il certo e il
vero;
onde l'un d'essi a me: `Di poca fede,
che dubbii? o che
vaneggia il tuo pensiero?
Verace corpo è quel che 'n noi si
vede:
servi siam di Giesú, che 'l lusinghiero
mondo e 'l
suo falso dolce abbiam fuggito,
e qui viviamo in loco erto e
romito.
Me per
ministro a tua salute eletto
ha quel Signor che 'n ogni parte
regna,
ché per ignobil mezzo oprar effetto
meraviglioso
ed alto egli non sdegna,
né men vorrà che sí
resti negletto
quel corpo in cui già visse alma sí
degna,
lo qual con essa ancor, lucido e leve
e immortal fatto,
riunir si deve.
Dico
il corpo di Sveno a cui fia data
tomba, a tanto valor
conveniente,
la qual a dito mostra ed onorata
ancor sarà
da la futura gente.
Ma leva omai gli occhi a le stelle, e guata
là
splender quella, come un sol lucente;
questa co' vivi raggi or ti
conduce
là dove è il corpo del tuo nobil duce.'
Allor vegg'io che
da la bella face,
anzi dal sol notturno, un raggio scende
che
dritto là dove il gran corpo giace,
quasi aureo tratto di
pennel, si stende;
e sovra lui tal lume e tanto face
ch'ogni
sua piaga ne sfavilla e splende,
e subito da me si raffigura
ne
la sanguigna orribile mistura.
Giacea,
prono non già, ma come vòlto
ebbe sempre a le stelle
il suo desire,
dritto ei teneva inverso il cielo il volto
in
guisa d'uom che pur là suso aspire.
Chiusa la destra e 'l
pugno avea raccolto
e stretto il ferro, e in atto è di
ferire;
l'altra su 'l petto in modo umile e pio
si posa, e par
che perdon chieggia a Dio.
Mentre
io le piaghe sue lavo co 'l pianto,
né però sfogo il
duol che l'alma accora,
gli aprí la chiusa destra il
vecchio santo,
e 'l ferro che stringea trattone fora:
`Questa'
a me disse `ch'oggi sparso ha tanto
sangue nemico, e n'è
vermiglia ancora,
è come sai perfetta, e non è
forse
altra spada che debba a lei preporse.
Onde
piace là su che, s'or la parte
dal suo primo signor acerba
morte,
oziosa non resti in questa parte,
ma di man passi in
mano ardita e forte
che l'usi poi con egual forza ed arte,
ma
piú lunga stagion con lieta sorte;
e con lei faccia, perché
a lei s'aspetta,
di chi Sveno le uccise aspra vendetta.
Soliman Sveno
uccise, e Solimano
dée per la spada sua restarne
ucciso.
Prendila dunque, e vanne ov'il cristiano
campo fia
intorno a l'alte mura assiso;
e non temer che nel paese estrano
ti
sia il sentier di novo anco preciso,
ché t'agevolerà
per l'aspra via
l'alta destra di Lui ch'or là t'invia.
Quivi Egli vuol
che da cotesta voce,
che viva in te servò, si manifesti
la
pietate, il valor, l'ardir feroce
che nel diletto tuo signor
vedesti,
perché a segnar de la purpurea Croce
l'arme con
tale essempio altri si desti,
ed ora e dopo un corso anco di
lustri
infiammati ne sian gli animi illustri.
Resta
che sappia tu chi sia colui
che deve de la spada esser
erede.
Questi è Rinaldo, il giovenetto a cui
il pregio
di fortezza ogn'altro cede.
A lui la porgi, e di' che sol da
lui
l'alta vedetta il Cielo e 'l mondo chiede.'
Or mentre io le
sue voci intento ascolto,
fui da miracol novo a sé rivolto,
ché là
dove il cadavero giacea
ebbi improviso un gran sepolcro
scorto,
che sorgendo rinchiuso in sé l'avea,
come non so
né con qual arte sorto;
e in brevi note altrui vi si
sponea
il nome e la virtú del guerrier morto.
Io non
sapea da tal vista levarmi,
mirando ora le lettre ed ora i marmi.
`Qui' disse il
vecchio `appresso a i fidi amici
giacerà del tuo duce il
corpo ascoso,
mentre gli spirti amando in Ciel felici
godon
perpetuo bene e glorioso.
Ma tu co 'l pianto omai gli estremi
uffici
pagato hai loro, e tempo è di riposo.
Oste mio ne
sarai sin ch'al viaggio
matutin ti risvegli il novo raggio.'
Tacque, e per
lochi ora sublimi or cupi
mi scòrse onde a gran pena il
fianco trassi,
sin ch'ove pende da selvaggie rupi
cava spelonca
raccogliemmo i passi.
Questo è il suo albergo: ivi fra gli
orsi e i lupi
co 'l discepolo suo securo stassi,
ché
difesa miglior ch'usbergo e scudo
è la santa innocenza al
petto ignudo.
Silvestre
cibo e duro letto porse
quivi a le membra mie posa e ristoro.
Ma
poi ch'accesi in oriente scorse
i raggi del mattin purpurei e
d'oro,
vigilante ad orar subito sorse
l'uno e l'altro eremita,
ed io con loro.
Dal santo vecchio poi congedo tolsi
e qui,
dov'egli consigliò, mi volsi."
Qui
si tacque il tedesco, e gli rispose
il pio Buglione: "O
cavalier, tu porte
dure novelle al campo e dolorose
onde a
ragion si turbi e si sconforte,
poi che genti sí amiche e
valorose
breve ora ha tolte e poca terra absorte,
e in guisa
d'un baleno il signor vostro
s'è in un sol punto dileguato
e mostro.
Ma che?
felice è cotal morte e scempio
via piú ch'acquisto
di provincie e d'oro,
né dar l'antico Campidoglio
essempio
d'alcun può mai sí glorioso alloro.
Essi
del ciel nel luminoso tempio
han corona immortal del vincer
loro:
ivi credo io che le sue belle piaghe
ciascun lieto
dimostri e se n'appaghe.
Ma
tu, che a le fatiche ed al periglio
ne la milizia ancor resti del
mondo,
devi gioir de' lor trionfi, e 'l ciglio
render quanto
conviene omai giocondo;
e perché chiedi di Bertoldo il
figlio,
sappi ch'ei fuor de l'oste è vagabondo,
né
lodo io già che dubbia via tu prenda
pria che di lui certa
novella intenda."
Questo
lor ragionar ne l'altrui mente
di Rinaldo l'amor desta e rinova,
e
v'è chi dice: "Ahi! fra pagana gente
il giovenetto
errante or si ritrova."
E non v'è quasi alcun che non
rammente,
narrando al dano, i suoi gran fatti a prova;
e de
l'opere sue la lunga tela
con istupor gli si dispiega e svela.
Or quando del
garzon la rimembranza
avea gli animi tutti inteneriti,
ecco
molti tornar, che per usanza
eran d'intorno a depredare
usciti.
Conducean questi seco in abbondanza
e mandre di lanuti
e buoi rapiti
e biade ancor, benché non molte, e strame
che
pasca de' corsier l'avida fame.
E
questi di sciagura aspra e noiosa
segno portàr che 'n
apparenza è certo:
rotta del buon Rinaldo e sanguinosa
la
sopravesta ed ogni arnese aperto.
Tosto si sparse (e chi potria
tal cosa
tener celata?) un romor vario e incerto.
Corre il
vulgo dolente a le novelle
del guerriero e de l'arme, e vuol
vedelle.
Vede, e
conosce ben l'immensa mole
del grand'usbergo e 'l folgorar del
lume,
e l'arme tutte ove è l'augel ch'al sole
prova i
suoi figli e mal crede a le piume;
ché di vederle già
primiere o sole
ne le imprese piú grandi ebbe in
costume,
ed or non senza alta pietate ed ira
rotte e sanguigne
ivi giacer le mira.
Mentre
bisbiglia il campo, e la cagione
de la morte di lui varia si
crede,
a sé chiama Aliprando il pio Buglione,
duce di
quei che ne portàr le prede,
uom di libera mente e di
sermone
veracissimo e schietto, ed a lui chiede:
"Di' come
e donde tu rechi quest'arme,
e di buono o di reo nulla celarme."
Gli rispose
colui: "Di qui lontano
quanto in duo giorni un messaggiero
andria,
verso il confin di Gaza un picciol piano
chiuso tra
colli alquanto è fuor di via;
e in lui d'alto deriva e
lento e piano
tra pianta e pianta un fiumicel s'invia,
e
d'arbori e di macchie ombroso e folto
opportuno a l'insidie il
loco è molto.
Qui
greggia alcuna cercavam che fosse
venuta a i paschi de l'erbose
sponde,
e in su l'erbe miriam di sangue rosse
giacerne un
guerrier morto in riva a l'onde.
A l'arme ed a l'insegne ogn'uom
si mosse,
che furon conosciute ancor che immonde.
Io
m'appressai per discoprirgli il viso,
ma trovai ch'era il capo
indi reciso.
Mancava
ancor la destra, e 'l busto grande
molte ferite avea dal tergo al
petto;
e non lontan, con l'aquila che spande
le candide ali,
giacea il vòto elmetto.
Mentre cerco d'alcuno a cui
dimande,
un villanel sopragiungea soletto
che 'ndietro il passo
per fuggirne torse
subitamente che di noi s'accorse.
Ma
seguitato e preso, a la richiesta
che noi gli facevamo, al fin
rispose
che 'l giorno inanti uscir de la foresta
scorse molti
guerrieri, onde ei s'ascose;
e ch'un d'essi tenea recisa testa
per
le sue chiome bionde e sanguinose,
la qual gli parve, rimirando
intento,
d'uom giovenetto e senza peli al mento;
e
che 'l medesmo poco poi l'avolse
in un zendado da l'arcion
pendente.
Soggiunse ancor ch'a l'abito raccolse
ch'erano i
cavalier di nostra gente.
Io spogliar feci il corpo, e sí
me 'n dolse
che piansi nel sospetto amaramente,
e portai meco
l'arme e lasciai cura
ch'avesse degno onor di sepoltura.
Ma se quel nobil
tronco è quel ch'io credo,
altra tomba, altra pompa egli
ben merta."
Cosí detto, Aliprando ebbe congedo,
però
che cosa non avea piú certa.
Rimase grave e sospirò
Goffredo;
pur nel tristo pensier non si raccerta,
e con piú
chiari segni il monco busto
conoscer vuole e l'omicida ingiusto.
Sorgea la notte
intanto, e sotto l'ali
ricopriva del cielo i campi immensi;
e
'l sonno, ozio de l'alme, oblio de' mali,
lusingando sopia le cure
e i sensi.
Tu sol punto, Argillan, d'acuti strali
d'aspro
dolor, volgi gran cose e pensi,
né l'agitato sen né
gli occhi ponno
la quiete raccòrre o 'l molle sonno.
Costui pronto di
man, di lingua ardito,
impetuoso e fervido d'ingegno,
nacque in
riva del Tronto e fu nutrito
ne le risse civil d'odio e di
sdegno;
poscia in essiglio spinto, i colli e 'l lito
empié
di sangue e depredò quel regno,
sin che ne l'Asia a
guerreggiar se 'n venne
e per fama miglior chiaro divenne.
Al fin questi su
l'alba i lumi chiuse;
né già fu sonno il suo queto e
soave,
ma fu stupor ch'Aletto al cor gl'infuse,
non men che
morte sia profondo e grave.
Sono le interne sue virtú
deluse
e riposo dormendo anco non have,
ché la furia
crudel gli s'appresenta
sotto orribili larve e lo sgomenta.
Gli figura un
gran busto, ond'è diviso
il capo e de la destra il braccio
è mozzo,
e sostien con la manca il teschio inciso,
di
sangue e di pallor livido e sozzo.
Spira e parla spirando il morto
viso,
e 'l parlar vien co 'l sangue e co 'l singhiozzo:
"Fuggi,
Argillan; non vedi omai la luce?
Fuggi le tende infami e l'empio
duce.
Chi dal
fero Goffredo e da la frode
ch'uccise me, voi, cari amici,
affida?
D'astio dentro il fellon tutto si rode,
e pensa sol
come voi meco uccida.
Pur, se cotesta mano a nobil lode
aspira,
e in sua virtú tanto si fida,
non fuggir, no; plachi il
tiranno essangue
lo spirto mio co 'l suo maligno sangue.
Io sarò
teco, ombra di ferro e d'ira
ministra, e t'armerò la destra
e 'l seno."
Cosí gli parla, e nel parlar gli
spira
spirito novo di furor ripieno.
Si rompe il sonno, e
sbigottito ei gira
gli occhi gonfi di rabbia e di veneno;
ed
armato ch'egli è, con importuna
fretta i guerrier d'Italia
insieme aduna.
Gli
aduna là dove sospese stanno
l'arme del buon Rinaldo, e con
superba
voce il furore e 'l conceputo affanno
in tai detti
divulga e disacerba:
"Dunque un popolo barbaro e tiranno,
che
non prezza ragion, che fé non serba,
che non fu mai di
sangue e d'or satollo,
ne terrà 'l freno in bocca e 'l
giogo al collo?
Ciò
che sofferto abbiam d'aspro e d'indegno
sette anni omai sotto sí
iniqua soma,
è tal ch'arder di scorno, arder di
sdegno
potrà da qui a mill'anni Italia e Roma.
Taccio
che fu da l'arme e da l'ingegno
del buon Tancredi la Cilicia
doma,
e ch'ora il Franco a tradigion la gode,
e i premi usurpa
del valor la frode.
Taccio
ch'ove il bisogno e 'l tempo chiede
pronta man, pensier fermo,
animo audace,
alcuno ivi di noi primo si vede
portar fra mille
morti o ferro o face;
quando le palme poi, quando le prede
si
dispensan ne l'ozio e ne la pace,
nostri in parte non son, ma
tutti loro
i trionfi, gli onor, le terre e l'oro.
Tempo
forse già fu che gravi e strane
ne potevan parer sí
fatte offese;
quasi lievi or le passo: orrenda, immane
ferità
leggierissime l'ha rese.
Hanno ucciso Rinaldo, e con
l'umane
l'alte leggi divine han vilipese.
E non fulmina il
Cielo? e non l'inghiotte
la terra entro la sua perpetua notte?
Rinaldo han
morto, il qual fu spada e scudo
di nostra fede; ed ancor giace
inulto?
inulto giace e su 'l terreno ignudo
lacerato il
lasciaro ed insepulto.
Ricercate saper chi fosse il crudo?
A
chi pote, o compagni, esser occulto?
Deh! chi non sa quanto al
valor latino
portin Goffredo invidia e Baldovino?
Ma
che cerco argomenti? Il Cielo io giuro
(il Ciel che n'ode e
ch'ingannar non lice),
ch'allor che si rischiara il mondo
oscuro,
spirito errante il vidi ed infelice.
Che spettacolo,
oimè, crudele e duro!
Quai frode di Goffredo a noi
predice!
Io 'l vidi, e non fu sogno; e ovunque or miri,
par che
dinanzi a gli occhi miei s'aggiri.
Or
che faremo noi? dée quella mano,
che di morte sí
ingiusta è ancora immonda,
reggerci sempre? o pur vorrem
lontano
girne da lei, dove l'Eufrate inonda,
dove a popolo
imbelle in fertil piano
tante ville e città nutre e
feconda,
anzi a noi pur? Nostre saranno, io spero,
né
co' Franchi comune avrem l'impero.
Andianne,
e resti invendicato il sangue
(se cosí parvi) illustre ed
innocente,
benché, se la virtú che fredda
langue
fosse ora in voi quanto dovrebbe ardente,
questo che
divorò, pestifero angue,
il pregio e 'l fior de la latina
gente,
daria con la sua morte e con lo scempio
a gli altri
mostri memorando essempio.
Io,
io vorrei, se 'l vostro alto valore,
quanto egli può, tanto
voler osasse,
ch'oggi per questa man ne l'empio core,
nido di
tradigion, la pena entrasse."
Cosí parla agitato, e
nel furore
e ne l'impeto suo ciascuno ei trasse.
"Arme!
arme!" freme il forsennato, e insieme
la gioventú
superba "Arme! arme!" freme.
Rota
Aletto fra lor la destra armata,
e co 'l foco il venen ne' petti
mesce.
Lo sdegno, la follia, la scelerata
sete del sangue ognor
piú infuria e cresce;
e serpe quella peste e si dilata,
e
de gli alberghi italici fuor n'esce,
e passa fra gli Elvezi, e vi
s'apprende,
e di là poscia a gli Inghilesi tende.
Né sol
l'estrane genti avien che mova
il duro caso e 'l gran publico
danno,
ma l'antiche cagioni a l'ira nova
materia insieme e
nutrimento danno.
Ogni sopito sdegno or si rinova:
chiamano il
popol franco empio e tiranno,
e in superbe minaccie esce
diffuso
l'odio che non può starne omai piú chiuso.
Cosí nel
cavo rame umor che bolle
per troppo foco, entro gorgoglia e
fuma;
né capendo in se stesso, al fin s'estolle
sovra
gli orli del vaso, e inonda e spuma.
Non bastano a frenare il
vulgo folle
que' pochi a cui la mente il vero alluma;
e
Tancredi e Camillo eran lontani,
Guglielmo e gli altri in podestà
soprani.
Corrono
già precipitosi a l'armi
confusamente i popoli feroci,
e
già s'odon cantar bellici carmi
sediziose trombe in fere
voci.
Gridano intanto al pio Buglion che s'armi
molti di qua di
là nunzi veloci,
e Baldovin inanzi a tutti armato
gli
s'appresenta e gli si pone a lato.
Egli,
ch'ode l'accusa, i lumi al cielo
drizza e pur come suole a Dio
ricorre:
"Signor, tu che sai ben con quanto zelo
la destra
mia del civil sangue aborre,
tu squarcia a questi de la mente il
velo,
e reprimi il furor che sí trascorre;
e l'innocenza
mia, che costà sopra
è nota, al mondo cieco anco si
scopra."
Tacque,
e dal Cielo infuso ir fra le vene
sentissi un novo inusitato
caldo.
Colmo d'alto vigor, d'ardita spene
che nel volto si
sparge e 'l fa piú baldo,
e da' suoi circondato, oltre se
'n viene
contra chi vendicar credea Rinaldo;
né, perché
d'arme e di minaccie ei senta
fremito d'ogni intorno, il passo
allenta.
Ha la
corazza indosso, e nobil veste
riccamente l'adorna oltra 'l
costume.
Nudo è le mani e 'l volto, e di celeste
maestà
vi risplende un novo lume:
scote l'aurato scettro, e sol con
queste
arme acquetar quegli impeti presume.
Tal si mostra a
coloro e tal ragiona,
né come d'uom mortal la voce suona:
"Quali
stolte minaccie e quale or odo
vano strepito d'arme? e chi il
commove?
Cosí qui riverito e in questo modo
noto son io,
dopo sí lunghe prove,
ch'ancor v'è chi sospetti e
chi di frodo
Goffredo accusi? e chi l'accuse approve?
Forse
aspettate ancor ch'a voi mi pieghi,
e ragioni v'adduca e porga
preghi?
Ah non
sia ver che tanta indignitate
la terra piena del mio nome
intenda.
Me questo scettro, me de l'onorate
opre mie la memoria
e 'l ver difenda;
e per or la giustizia a la pietate
ceda, né
sovra i rei la pena scenda.
A gli altri merti or questo error
perdono,
ed al vostro Rinaldo anco vi dono.
Co
'l sangue suo lavi il comun difetto
solo Argillan, di tante colpe
autore,
che, mosso a leggierissimo sospetto,
sospinti gli altri
ha nel medesmo errore."
Lampi e folgori ardean nel regio
aspetto,
mentre ei parlò, di maestà, d'onore;
tal
ch'Argillano attonito e conquiso
teme (chi 'l crederia?) l'ira
d'un viso.
E 'l
vulgo, ch'anzi irriverente, audace,
tutto fremer s'udia d'orgogli
e d'onte,
e ch'ebbe al ferro, a l'aste ed a la face
che 'l
furor ministrò, le man sí pronte,
non osa (e i detti
alteri ascolta, e tace)
fra timor e vergogna alzar la fronte,
e
sostien ch'Argillano, ancor che cinto
de l'arme lor, sia da'
ministri avinto.
Cosí
leon, ch'anzi l'orribil coma
con muggito scotea superbo e fero,
se
poi vede il maestro onde fu doma
la natia ferità del core
altero,
può del giogo soffrir l'ignobil soma
e teme le
minaccie e 'l duro impero,
né i gran velli, i gran denti e
l'ugne c'hanno
tanta in sé forza, insuperbire il fanno.
È fama che
fu visto in volto crudo
ed in atto feroce e minacciante
un
alato guerrier tener lo scudo
de la difesa al pio Buglion
davante,
e vibrar fulminando il ferro ignudo
che di sangue
vedeasi ancor stillante:
sangue era forse di città, di
regni,
che provocàr del Cielo i tardi sdegni.
Cosí,
cheto il tumulto, ognun depone
l'arme, e molti con l'arme il mal
talento;
e ritorna Goffredo al padiglione,
a varie cose, a nove
imprese intento,
ch'assalir la cittate egli dispone
pria che 'l
secondo o 'l terzo dí sia spento;
e rivedendo va l'incise
travi,
già in machine conteste orrende e gravi.
Argomento
Trova la Furia Solimano, e 'l move
A far a' Franchi aspra notturna
guerra.
Il giusto Dio che l'infernali prove
Mira dal Ciel,
manda Michele in terra.
Così, poiché il soccorso si
rimove
Dell'Inferno ai Pagani, e si disserra
A lor danni il
drappel che seguì Armida,
Fugge, e di vincer Soliman
diffida.
Ma
il gran mostro infernal, che vede queti
que' già torbidi
cori e l'ire spente,
e cozzar contra 'l fato e i gran
decreti
svolger non può de l'immutabil Mente,
si parte,
e dove passa i campi lieti
secca, e pallido il sol si fa
repente;
e d'altre furie ancora e d'altri mali
ministra, a nova
impresa affretta l'ali.
Ella,
che dall'essercito cristiano
per industria sapea de' suoi
consorti
il figliuol di Bertoldo esser lontano,
Tancredi e gli
altri piú temuti e forti,
disse: "Che piú
s'aspetta? or Solimano
inaspettato venga e guerra porti.
Certo
(o ch'io spero) alta vittoria avremo
di campo mal concorde e in
parte scemo."
Ciò
detto, vola ove fra squadre erranti,
fattosen duce, Soliman
dimora,
quel Soliman di cui non fu tra quanti
ha Dio rubelli,
uom piú feroce allora
né se per nova ingiuria i suoi
giganti
rinovasse la terra, anco vi fòra.
Questi fu re
de' Turchi ed in Nicea
la sede de l'imperio aver solea,
e
distendeva incontra a i greci lidi
dal Sangario al Meandro il suo
confine,
ove albergàr già Misi e Frigi e Lidi,
e
le genti di Ponto e le bitine;
ma poi che contra i Turchi e gli
altri infidi
passàr ne l'Asia l'arme peregrine,
fur sue
terre espugnate, ed ei sconfitto
ben fu due fiate in general
conflitto.
Ma
riprovata avendo in van la sorte
e spinto a forza dal natio
paese,
ricoverò del re d'Egitto in corte,
ch'oste gli fu
magnanimo e cortese;
ed ebbe a grado che guerrier sí
forte
gli s'offrisse compagno a l'alte imprese,
proposto avendo
già vietar l'acquisto
di Palestina a i cavalier di Cristo.
Ma prima ch'egli
apertamente loro
la destinata guerra annunziasse,
volle che
Solimano, a cui molto oro
diè per tal uso, gli Arabi
assoldasse.
Or mentre ei d'Asia e dal paese moro
l'oste
accogliea, Soliman venne e trasse
agevolmente a sé gli
Arabi avari,
ladroni in ogni tempo o mercenari.
Cosí
fatto lor duce, or d'ogni intorno
la Giudea scorre, e fa prede e
rapine
sí che 'l venire è chiuso e 'l far ritorno
da
l'essercito franco a le marine;
e rimembrando ognor l'antico
scorno
e de l'imperio suo l'alte ruine,
cose maggior nel petto
acceso volve,
ma non ben s'assecura o si risolve.
A
costui viene Aletto, e da lei tolto
è 'l sembiante d'un uom
d'antica etade:
vòta di sangue, empie di crespe il
volto,
lascia barbuto il labro e 'l mento rade,
dimostra il
capo in lunghe tele avolto,
la veste oltra 'l ginocchio al piè
gli cade,
la scimitarra al fianco, e 'l tergo carco
de la
faretra, e ne le mani ha l'arco.
"Noi"
gli dice ella "or trascorriam le vòte
piaggie e
l'arene sterili e deserte,
ove né far rapina omai si
pote,
né vittoria acquistar che loda merte.
Goffredo
intanto la città percote,
e già le mura ha con le
torri aperte;
e già vedrem, s'ancor si tarda un poco,
insin
di qua le sue ruine e 'l foco.
Dunque
accesi tuguri e greggie e buoi
gli alti trofei di Soliman
saranno?
Cosí racquisti il regno? e cosí i
tuoi
oltraggi vendicar ti credi e 'l danno?
Ardisci, ardisci;
entro a i ripari suoi
di notte opprimi il barbaro tiranno.
Credi
al tuo vecchio Araspe, il cui consiglio
e nel regno provasti e ne
l'essiglio.
Non
ci aspetta egli e non ci teme, e sprezza
gli Arabi ignudi in vero
e timorosi,
né creder mai potrà che gente avezza
a
le prede, a le fughe, or cotanto osi;
ma feri li farà la
tua fierezza
contra un campo che giaccia inerme e posi."
Cosí
gli disse, e le sue furie ardenti
spirogli al seno, e si mischiò
tra' venti.
Grida
il guerrier, levando al ciel la mano:
"O tu, che furor tanto
al cor m'irriti
(ned uom sei già, se ben sembiante
umano
mostrasti), ecco io ti seguo ove m'inviti.
Verrò,
farò là monti ov'ora è piano,
monti d'uomini
estinti e di feriti,
farò fiumi di sangue. Or tu sia
meco,
e tratta l'armi mie per l'aer cieco."
Tace,
e senza indugiar le turbe accoglie
e rincora parlando il vile e 'l
lento,
e ne l'ardor de le sue stesse voglie
accende il campo a
seguitarlo intento.
Dà il segno Aletto de la tromba, e
scioglie
di sua man propria il gran vessillo al vento.
Marcia
il campo veloce, anzi sí corre
che de la fama il volo anco
precorre.
Va seco
Aletto, e poscia il lascia e veste,
d'uom che rechi novelle, abito
e viso;
e ne l'ora che par che il mondo reste
fra la notte e
fra 'l dí dubbio e diviso,
entra in Gierusalemme, e tra le
meste
turbe passando al re dà l'alto aviso
del gran
campo che giunge e del disegno,
e del notturno assalto e l'ora e
'l segno.
Ma già
distendon l'ombre orrido velo
che di rossi vapor si sparge e
tigne;
la terra in vece del notturno gelo
bagnan rugiade tepide
e sanguigne;
s'empie di mostri e di prodigi il cielo,
s'odon
fremendo errar larve maligne:
votò Pluton gli abissi, e la
sua notte
tutta versò da le tartaree grotte.
Per
sí profondo orror verso le tende
de gli inimici il fer
Soldan camina;
ma quando a mezzo dal suo corso ascende
la
notte, onde poi rapida dechina,
a men d'un miglio, ove riposo
prende
il securo Francese, ei s'avicina.
Qui fe' cibar le
genti, e poscia d'alto
parlando confortolle al crudo assalto:
"Vedete là
di mille furti pieno
un campo piú famoso assai che
forte,
che quasi un mar nel suo vorace seno
tutte de l'Asia ha
le ricchezze absorte?
Questo ora a voi (né già
potria con meno
vostro periglio) espon benigna sorte:
l'arme e
i destrier d'ostro guerniti e d'oro
preda fian vostra, e non
difesa loro.
Né
questa è già quell'oste onde la persa
gente e la
gente di Nicea fu vinta,
perché in guerra sí lunga e
sí diversa
rimasa n'è la maggior parte estinta;
e
s'anco integra fosse, or tutta immersa
in profonda quiete e d'arme
è scinta.
Tosto s'opprime chi di sonno è carco,
ché
dal sonno a la morte è un picciol varco.
Su,
su, venite: io primo aprir la strada
vuo' su i corpi languenti
entro a i ripari;
ferir da questa mia ciascuna spada,
e l'arti
usar di crudeltate impari.
Oggi fia che di Cristo il regno
cada,
oggi libera l'Asia, oggi voi chiari."
Cosí
gli infiamma a le vicine prove,
indi tacitamente oltre lor move.
Ecco tra via le
sentinelle ei vede
per l'ombra mista d'una incerta luce,
né
ritrovar, come secura fede
avea, pote improviso il saggio
duce.
Volgon quelle gridando indietro il piede,
scorto che sí
gran turba egli conduce,
sí che la prima guardia è
da lor desta,
e com' può meglio a guerreggiar s'appresta.
Dan fiato allora
a i barbari metalli
gli Arabi, certi omai d'essere sentiti.
Van
gridi orrendi al cielo, e de' cavalli
co 'l suon del calpestio
misti i nitriti.
Gli alti monti muggír, muggír le
valli,
e risposer gli abissi a i lor muggiti,
e la face inalzò
di Flegetonte
Aletto, e 'l segno diede a quei del monte.
Corre inanzi il
Soldano, e giunge a quella
confusa ancora e inordinata
guarda
rapido sí che torbida procella
da' cavernosi
monti esce piú tarda.
Fiume ch'arbori insieme e case
svella,
folgore che le torri abbatta ed arda,
terremoto che 'l
mondo empia d'orrore,
son picciole sembianze al suo furore.
Non cala il ferro
mai ch'a pien non colga,
né coglie a pien che piaga anco
non faccia,
né piaga fa che l'alma altrui non tolga;
e
piú direi, ma il ver di falso ha faccia.
E par ch'egli o
s'infinga o non se 'n dolga
o non senta il ferir de l'altrui
braccia,
se ben l'elmo percosso in suon di squilla
rimbomba e
orribilmente arde e sfavilla.
Or
quando ei solo ha quasi in fuga vòlto
quel primo stuol de
le francesche genti,
giungono in guisa d'un diluvio accolto
di
mille rivi gli Arabi correnti.
Fuggono i Franchi allora a freno
sciolto,
e misto il vincitor va tra' fuggenti,
e con lor entra
ne' ripari, e 'l tutto
di ruine e d'orror s'empie e di lutto.
Porta il Soldan
su l'elmo orrido e grande
serpe che si dilunga e il collo
snoda,
su le zampe s'inalza e l'ali spande
e piega in arco la
forcuta coda.
Par che tre lingue vibri e che fuor mande
livida
spuma, e che 'l suo fischio s'oda.
Ed or ch'arde la pugna, anch'ei
s'infiamma
nel moto, e fumo versa insieme e fiamma.
E
si mostra in quel lume a i riguardanti
formidabil cosí
l'empio Soldano,
come veggion ne l'ombra i naviganti
fra mille
lampi il torbido oceano.
Altri danno a la fuga i piè
tremanti,
danno altri al ferro intrepida la mano;
e la notte i
tumulti ognor piú mesce,
ed occultando i rischi, i rischi
accresce.
Fra
color che mostraro il cor piú franco,
Latin, su 'l Tebro
nato, allor si mosse,
a cui né le fatiche il corpo
stanco,
né gli anni dome aveano ancor le posse.
Cinque
suoi figli quasi eguali al fianco
gli erano sempre, ovunque in
guerra ei fosse,
d'arme gravando, anzi il tor tempo molto,
le
membra ancor crescenti e 'l molle volto.
Ed
eccitati dal paterno essempio
aguzzavano al sangue il ferro e
l'ire.
Dice egli loro: "Andianne ove quell'empio
veggiam
ne' fuggitivi insuperbire,
né già ritardi il
sanguinoso scempio,
ch'ei fa de gli altri, in voi l'usato
ardire,
però che quello, o figli, è vile onore
cui
non adorni alcun passato orrore."
Cosí
feroce leonessa i figli,
cui dal collo la coma anco non pende
né
con gli anni lor sono i feri artigli
cresciuti e l'arme de la
bocca orrende,
mena seco a la preda ed a i perigli,
e con
l'essempio a incrudelir gli accende
nel cacciator che le natie lor
selve
turba e fuggir fa le men forti belve.
Segue
il buon genitor l'incauto stuolo
de' cinque, e Solimano assale e
cinge;
e in un sol punto un sol consiglio, e un solo
spirito
quasi, sei lunghe aste spinge.
Ma troppo audace il suo maggior
figliuolo
l'asta abbandona e con quel fer si stringe,
e tenta
in van con la pungente spada
che sotto il corridor morto gli cada.
Ma come a le
procelle esposto monte,
che percosso da i flutti al mar
sovraste,
sostien fermo in se stesso i tuoni e l'onte
del ciel
irato e i venti e l'onde vaste,
cosí il fero Soldan
l'audace fronte
tien salda incontra a i ferri e incontra a
l'aste,
ed a colui che il suo destrier percote
tra i cigli
parte il capo e tra le gote.
Aramante
al fratel che giú ruina
porge pietoso il braccio, e lo
sostiene.
Vana e folle pietà! ch'a la ruina
altrui la
sua medesma a giunger viene,
ché 'l pagan su quel braccio
il ferro inchina
ed atterra con lui chi lui s'attiene.
Caggiono
entrambi, e l'un su l'altro langue
mescolando i sospiri ultimi e
'l sangue.
Quinci
egli di Sabin l'asta recisa,
onde il fanciullo di lontan
l'infesta,
gli urta il cavallo addosso e 'l coglie in guisa
che
giú tremante il batte, indi il calpesta.
Dal giovenetto
corpo uscí divisa
con gran contrasto l'alma, e lasciò
mesta
l'aure soavi de la vita e i giorni
de la tenera età
lieti ed adorni.
Rimanean
vivi ancor Pico e Laurente,
onde arricchí un sol parto il
genitore:
similissima coppia e che sovente
esser solea cagion
di dolce errore.
Ma se lei fe' natura indifferente,
differente
or la fa l'ostil furore:
dura distinzion ch'a l'un divide
dal
busto il collo, a l'altro il petto incide.
Il
padre, ah non piú padre! (ahi fera sorte,
ch'orbo di tanti
figli a un punto il face!),
rimira in cinque morti or la sua
morte
e de la stirpe sua che tutta giace.
Né so come
vecchiezza abbia sí forte
ne l'atroci miserie e sí
vivace
che spiri e pugni ancor; ma gli atti e i visi
non mirò
forse de' figliuoli uccisi,
e
di sí acerbo lutto a gli occhi sui
parte l'amiche tenebre
celaro.
Con tutto ciò nulla sarebbe a lui,
senza perder
se stesso, il vincer caro.
Prodigo del suo sangue, e de
l'altrui
avidissimamente è fatto avaro;
né si
conosce ben qual suo desire
paia maggior, l'uccidere o 'l morire.
Ma grida al suo
nemico: "È dunque frale
sí questa mano, e in
guisa ella si sprezza,
che con ogni suo sforzo ancor non vale
a
provocar in me la tua fierezza?"
Tace, e percossa tira aspra
e mortale
che le piastre e le maglie insieme spezza,
e su 'l
fianco gli cala e vi fa grande
piaga onde il sangue tepido si
spande.
A quel
grido, a quel colpo, in lui converse
il barbaro crudel la spada e
l'ira.
Gli aprí l'usbergo, e pria lo scudo aperse
cui
sette volte un duro cuoio aggira,
e 'l ferro ne le viscere gli
immerse.
Il misero Latin singhiozza e spira,
e con vomito
alterno or gli trabocca
il sangue per la piaga, or per la bocca.
Come ne
l'Appennin robusta pianta
che sprezzò d'Euro e d'Aquilon la
guerra,
se turbo inusitato al fin la schianta,
gli alberi
intorno ruinando atterra,
cosí cade egli, e la sua furia è
tanta
che piú d'un seco tragge a cui s'afferra;
e ben
d'uom sí feroce è degno fine
che faccia ancor
morendo alte ruine.
Mentre
il Soldan sfogando l'odio interno
pasce un lungo digiun ne' corpi
umani,
gli Arabi inanimiti aspro governo
anch'essi fanno de'
guerrier cristiani:
l'inglese Enrico e 'l bavaro Oliferno
moiono,
o fer Dragutte, a le tue mani;
a Gilberto, a Filippo,
Ariadeno
toglie la vita, i quai nacquer su 'l Reno;
Albazàr
con la mazza abbatte Ernesto,
cade sotto Algazelle Otton di
spada.
Ma chi narrar potria quel modo o questo
di morte, e
quanta plebe ignobil cada?
Sin da quei primi gridi erasi
desto
Goffredo, e non istava intanto a bada;
già tutto è
armato, e già raccolto un grosso
drapello ha seco, e già
con lor s'è mosso.
Egli,
che dopo il grido udí il tumulto
che par che sempre piú
terribil suoni,
avisò ben che repentino insulto
esser
dovea de gli Arabi ladroni;
ché già non era al
capitano occulto
ch'essi intorno scorrean le regioni,
benché
non istimò che sí fugace
vulgo mai fosse d'assalirlo
audace.
Or mentre
egli ne viene, ode repente
"Arme! arme!" replicar da
l'altro lato,
ed in un tempo il cielo orribilmente
intonar di
barbarico ululato.
Questa è Clorinda che del re la
gente
guida l'assalto, ed have Argante a lato.
Al nobil Guelfo,
che sostien sua vice,
allor si volge il capitano e dice:
"Odi qual
novo strepito di Marte
di verso il colle e la città ne
viene;
d'uopo là fia che 'l tuo valore e l'arte
i primi
assalti de' nemici affrene.
Vanne tu dunque e là provedi, e
parte
vuo' che di questi miei teco ne mene;
con gli altri io me
n'andrò da l'altro canto
a sostener l'impeto ostile
intanto."
Cosí
fra lor concluso, ambo gli move
per diverso sentiero egual
fortuna.
Al colle Guelfo, e 'l capitan va dove
gli Arabi omai
non han contesa alcuna.
Ma questi andando acquista forza, e
nove
genti di passo in passo ognor raguna,
tal che già
fatto poderoso e grande
giunge ove il fero turco il sangue spande.
Cosí
scendendo dal natio suo monte
non empie umile il Po l'angusta
sponda,
ma sempre piú, quanto è piú lunge al
fonte,
di nove forze insuperbito abonda;
sovra i rotti confini
alza la fronte
di tauro, e vincitor d'intorno inonda,
e con piú
corna Adria respinge e pare
che guerra porti e non tributo al
mare.
Goffredo,
ove fuggir l'impaurite
sue genti vede, accorre e le
minaccia:
"Qual timor" grida "è questo? ove
fuggite?
Guardate almen chi sia quel che vi caccia.
Vi caccia
un vile stuol, che le ferite
né ricever né dar sa ne
la faccia;
e se 'l vedranno incontra sé rivolto,
temeran
l'arme lor del vostro volto."
Punge
il destrier, ciò detto, e là si volve
ove di Soliman
gli incendi ha scorti.
Va per mezzo del sangue e de la polve
e
de' ferri e de' rischi e de le morti;
con la spada e con gli urti
apre e dissolve
le vie piú chiuse e gli ordini piú
forti,
e sossopra cader fa d'ambo i lati
cavalieri e cavalli,
arme ed armati.
Sovra
i confusi monti a salto a salto
de la profonda strage oltre
camina.
L'intrepido Soldan che 'l fero assalto
sente venir, no
'l fugge e no 'l declina;
ma se gli spinge incontra, e 'l ferro in
alto
levando per ferir gli s'avicina.
Oh quai duo cavalier or
la fortuna
da gli estremi del mondo in prova aduna!
Furor
contra virtute or qui combatte
d'Asia in un picciol cerchio il
grande impero.
Chi può dir come gravi e come ratte
le
spade son? quanto il duello è fero?
Passo qui cose orribili
che fatte
furon, ma le coprí quell'aer nero,
d'un
chiarissimo sol degne e che tutti
siano i mortali a riguardar
ridutti.
Il popol
di Giesú, dietro a tal guida
audace or divenuto, oltre si
spinge,
e de' suoi meglio armati a l'omicida
Soldano intorno un
denso stuol si stringe.
Né la gente fedel piú che
l'infida,
né piú questa che quella il campo
tinge,
ma gli uni e gli altri, e vincitori e vinti,
egualmente
dan morte e sono estinti.
Come
pari d'ardir, con forza pare
quinci Austro in guerra vien, quindi
Aquilone,
non ei fra lor, non cede il cielo o 'l mare,
ma nube
a nube e flutto a flutto oppone;
cosí né ceder qua,
né là piegare
si vede l'ostinata aspra
tenzone:
s'affronta insieme orribilmente urtando
scudo a scudo,
elmo a elmo e brando a brando.
Non
meno intanto son feri i litigi
da l'altra parte, e i guerrier
folti e densi.
Mille nuvole e piú d'angeli stigi
tutti
han pieni de l'aria i campi immensi,
e dan forza a i pagani, onde
i vestigi
non è chi indietro di rivolger pensi;
e la
face d'inferno Argante infiamma,
acceso ancor de la sua propria
fiamma.
Egli
ancor dal suo lato in fuga mosse
le guardie, e ne' ripari entrò
d'un salto;
di lacerate membra empié le fosse,
appianò
il calle, agevolò l'assalto,
sí che gli altri il
seguiro e fèr poi rosse
le prime tende di sanguigno
smalto.
E seco a par Clorinda o dietro poco
se 'n gio, sdegnosa
del secondo loco.
E
già fuggiano i Franchi allor che quivi
giunse Guelfo
opportuno e 'l suo drapello,
e volger fe' la fronte a i
fuggitivi
e sostenne il furor del popol fello.
Cosí si
combatteva, e 'l sangue in rivi
correa egualmente in questo lato e
in quello.
Gli occhi fra tanto a la battaglia rea
dal suo gran
seggio il Re del Ciel volgea.
Sedea
colà dond'Egli e buono e giusto
dà legge al tutto e
'l tutto orna e produce
sovra i bassi confin del mondo
angusto,
ove senso o ragion non si conduce;
e de l'Eternità
nel trono augusto
risplendea con tre lumi in una luce.
Ha sotto
i piedi il Fato e la Natura,
ministri umili, e 'l Moto e Chi 'l
misura,
e 'l Loco
e Quella che, qual fumo o polve,
la gloria di qua giuso e l'oro e
i regni,
come piace là su, disperde e volve,
né,
diva, cura i nostri umani sdegni.
Quivi ei cosí nel suo
splendor s'involve,
che v'abbaglian la vista anco i piú
degni:
d'intorno ha innumerabili immortali,
disegualmente in
lor letizia eguali.
Al
gran concento de' beati carmi
lieta risuona la celeste
reggia.
Chiama Egli a sé Michele, il qual ne l'armi
di
lucido adamante arde e lampeggia,
e dice lui: "Non vedi or
come s'armi
contra la mia fedel diletta greggia
l'empia schiera
d'Averno, e insin dal fondo
de le sue morti a turbar sorga il
mondo?
Va', dille
tu che lasci omai le cure
de la guerra a i guerrier, cui ciò
conviene,
né il regno de' viventi, né le
pure
piaggie del ciel conturbi ed avenene.
Torni a le notti
d'Acheronte oscure,
suo degno albergo, a le sue giuste pene;
quivi
se stessa e l'anime d'abisso
crucii. Cosí commando e cosí
ho fisso."
Qui
tacque, e 'l duce de' guerrieri alati
s'inchinò riverente
al divin piede;
indi spiega al gran volo i vanni aurati,
rapido
sí ch'anco il pensiero eccede.
Passa il foco e la luce, ove
i beati
hanno lor gloriosa immobil sede,
poscia il puro
cristallo e 'l cerchio mira
che di stelle gemmato incontra gira;
quinci, d'opre
diversi e di sembianti,
da sinistra rotar Saturno e Giove
e gli
altri, i quali esser non ponno erranti
s'angelica virtú gli
informa e move;
vien poi da' campi lieti e fiammeggianti
d'eterno
dí là donde tuona e piove,
ove se stesso il mondo
strugge e pasce,
e ne le guerre sue more e rinasce.
Venia
scotendo con l'eterne piume
la caligine densa e i cupi
orrori;
s'indorava la notte al divin lume
che spargea
scintillando il volto fuori.
Tale il sol ne le nubi ha per
costume
spiegar dopo la pioggia i bei colori;
tal suol,
fendendo il liquido sereno,
stella cader de la gran madre in seno.
Ma giunto ove la
schiera empia infernale
il furor de' pagani accende e sprona,
si
ferma in aria in su 'l vigor de l'ale,
e vibra l'asta, e lor cosí
ragiona:
"Pur voi dovreste omai saper con quale
folgore
orrendo il Re del mondo tuona,
o nel disprezzo e ne' tormenti
acerbi
de l'estrema miseria anco superbi.
Fisso
è nel Ciel ch'al venerabil segno
chini le mura, apra Sion
le porte.
A che pugnar co 'l fato? a che lo sdegno
dunque
irritar de la celeste corte?
Itene, maledetti, al vostro
regno,
regno di pene e di perpetua morte;
e siano in quegli a
voi dovuti chiostri
le vostre guerre ed i trionfi vostri.
Là
incrudelite, là sovra i nocenti
tutte adoprate pur le
vostre posse
fra i gridi eterni e lo stridor de' denti,
e 'l
suon del ferro e le catene scosse."
Disse, e quei ch'egli
vide al partir lenti
con la lancia fatal pinse e percosse;
essi
gemendo abbandonàr le belle
region de la luce e l'auree
stelle,
e
dispiegàr verso gli abissi il volo
ad inasprir ne' rei
l'usate doglie.
Non passa il mar d'augei sí grande
stuolo
quando a i soli piú tepidi s'accoglie,
né
tante vede mai l'autunno al suolo
cader co' primi freddi aride
foglie.
Liberato da lor, quella sí negra
faccia depone
il mondo e si rallegra.
Ma
non perciò nel disdegnoso petto
d'Argante vien l'ardire o
'l furor manco,
benché suo foco in lui non spiri Aletto,
né
flagello infernal gli sferzi il fianco.
Rota il ferro crudel ove è
piú stretto
e piú calcato insieme il popol
franco;
miete i vili e i potenti, e i piú sublimi
e piú
superbi capi adegua a gli imi.
Non
lontana è Clorinda, e già non meno
par che di
tronche membra il campo asperga.
Caccia la spada a Berlinghier nel
seno
per mezzo il cor, dove la vita alberga,
e quel colpo a
trovarlo andò sí pieno
che sanguinosa uscí
fuor de le terga;
poi fère Albin là 've primier
s'apprende
nostro alimento, e 'l viso a Gallo fende.
La
destra di Gerniero, onde ferita
ella fu già, manda recisa
al piano:
tratta anco il ferro, e con tremanti dita
semiviva
nel suol guizza la mano.
Coda di serpe è tal, ch'indi
partita
cerca d'unirsi al suo principio invano.
Cosí mal
concio la guerriera il lassa,
poi si volge ad Achille e 'l ferro
abbassa,
e tra 'l
collo e la nuca il colpo assesta;
e tronchi i nervi e 'l
gorgozzuol reciso,
gío rotando a cader prima la
testa,
prima bruttò di polve immonda il viso,
che giú
cadesse il tronco; il tronco resta
(miserabile mostro) in sella
assiso,
ma libero del fren con mille rote
calcitrando il
destrier da sé lo scote.
Mentre
cosí l'indomita guerriera
le squadre d'Occidente apre e
flagella,
non fa d'incontra a lei Gildippe altera
de' saracini
suoi strage men fella.
Era il sesso il medesmo, e simil
era
l'ardimento e 'l valore in questa e in quella.
Ma far prova
di lor non è lor dato,
ch'a nemico maggior le serba il
fato.
Quinci una
e quindi l'altra urta e sospinge,
né può la turba
aprir calcata e spessa;
ma 'l generoso Guelfo allora
stringe
contra Clorinda il ferro e le s'appressa,
e calando un
fendente alquanto tinge
la fera spada nel bel fianco, ed essa
fa
d'una punta a lui cruda risposta
ch'a ferirlo ne va tra costa e
costa.
Doppia
allor Guelfo il colpo e lei non coglie,
ch'a caso passa il
palestino Osmida
e la piaga non sua sopra sé toglie,
la
qual vien che la fronte a lui recida.
Ma intorno a Guelfo omai
molta s'accoglie
di quella gente ch'ei conduce e guida;
e
d'altra parte ancor la turba cresce,
sí che la pugna si
confonde e mesce.
L'aurora
intanto il bel purpureo volto
già dimostrava dal sovran
balcone,
e in quei tumulti già s'era disciolto
il feroce
Argillan di sua prigione;
e d'arme incerte il frettoloso
avolto,
quali il caso gli offerse o triste o buone,
già
se 'n venia per emendar gli errori
novi con novi merti e novi
onori.
Come
destrier che da le regie stalle,
ove a l'uso de l'arme si
riserba,
fugge, e libero al fin per largo calle
va tra gli
armenti o al fiume usato o a l'erba:
scherzan su 'l collo i crini,
e su le spalle
si scote la cervice alta e superba,
suonano i
pié nel corso e par ch'avampi,
di sonori nitriti empiendo i
campi;
tal ne
viene Argillano: arde il feroce
sguardo, ha la fronte intrepida e
sublime;
leve è ne' salti e sovra i pié veloce,
sí
che d'orme la polve a pena imprime,
e giunto fra nemici alza la
voce
pur com'uom che tutto osi e nulla stime:
"O vil
feccia del mondo, Arabi inetti,
ond'è ch'or tanto ardire in
voi s'alletti?
Non
regger voi de gli elmi e de gli scudi
sète atti il peso, o
'l petto armarvi e il dorso,
ma commettete paventosi e nudi
i
colpi al vento e la salute al corso.
L'opere vostre e i vostri
egregi studi
notturni son; dà l'ombra a voi soccorso.
Or
ch'ella fugge, chi fia vostro schermo?
D'arme è ben d'uopo
e di valor piú fermo."
Cosí
parlando ancor diè per la gola
ad Algazèl di sí
crudel percossa
che gli secò le fauci, e la parola
troncò
ch'a la risposta era già mossa.
A quel meschin súbito
orror invola
il lume, e scorre un duro gel per l'ossa:
cade, e
co' denti l'odiosa terra
pieno di rabbia in su 'l morire afferra.
Quinci per vari
casi e Saladino
ed Agricalte e Muleasse uccide,
e da l'un
fianco a l'altro a lor vicino
con esso un colpo Aldiazíl
divide;
trafitto a sommo il petto Ariadino
atterra, e con
parole aspre il deride.
Ei, gli occhi gravi alzando a
l'orgogliose
parole, in su 'l morir cosí rispose:
"Non tu,
chiunque sia, di questa morte
vincitor lieto avrai gran tempo il
vanto;
pari destin t'aspetta, e da piú forte
destra a
giacer mi sarai steso a canto."
Rise egli amaramente e: "Di
mia sorte
curi il Ciel," disse "or tu qui mori
intanto
d'augei pasto e di cani"; indi lui preme
co 'l
piede, e ne trae l'alma e 'l ferro insieme.
Un
paggio del Soldan misto era in quella
turba di sagittari e
lanciatori,
a cui non anco la stagion novella
il bel mento
spargea de' primi fiori.
Paion perle e rugiade in su la
bella
guancia irrigando i tepidi sudori,
giunge grazia la polve
al crine incolto
e sdegnoso rigor dolce è in quel volto.
Sotto ha un
destrier che di candore agguaglia
pur or ne l'Apennin caduta
neve;
turbo o fiamma non è che roti o saglia
rapido sí
come è quel pronto e leve.
Vibra ei, presa nel mezzo, una
zagaglia,
la spada al fianco tien ritorta e breve,
e con
barbara pompa in un lavoro
di porpora risplende intesta e d'oro.
Mentre il
fanciullo, a cui novel piacere
di gloria il petto giovenil
lusinga,
di qua turba e di là tutte le schiere,
e lui
non è chi tanto o quanto stringa,
cauto osserva Argillan
tra le leggiere
sue rote il tempo in che l'asta sospinga;
e,
colto il punto, il suo destrier di furto
gli uccide e sovra gli è,
ch'a pena è surto,
ed
al supplice volto, il qual in vano
con l'arme di pietà fea
sue difese,
drizzò, crudel!, l'inessorabil mano,
e di
natura il piú bel pregio offese.
Senso aver parve e fu de
l'uom piú umano
il ferro, che si volse e piatto scese.
Ma
che pro, se doppiando il colpo fero
di punta colse ove egli errò
primiero?
Soliman,
che di là non molto lunge
da Goffredo in battaglia è
trattenuto,
lascia la zuffa, e 'l destrier volve e punge
tosto
che 'l rischio ha del garzon veduto;
e i chiusi passi apre co 'l
ferro, e giunge
a la vendetta sí, non a l'aiuto,
perché
vede, ahi dolor!, giacerne ucciso
il suo Lesbin, quasi bel fior
succiso.
E in
atto sí gentil languir tremanti
gli occhi e cader su 'l
tergo il collo mira;
cosí vago è il pallore, e da'
sembianti
di morte una pietà sí dolce
spira,
ch'ammollí il cor che fu dur marmo inanti,
e il
pianto scaturí di mezzo a l'ira.
Tu piangi, Soliman? tu,
che destrutto
mirasti il regno tuo co 'l ciglio asciutto?
Ma come vede il
ferro ostil che molle
fuma del sangue ancor del giovenetto,
la
pietà cede, e l'ira avampa e bolle,
e le lagrime sue stagna
nel petto.
Corre sovra Argillano e 'l ferro estolle,
parte lo
scudo opposto, indi l'elmetto,
indi il capo e la gola; e de lo
sdegno
di Soliman ben quel gran colpo è degno.
Né
di ciò ben contento, al corpo morto
smontato del destriero
anco fa guerra,
quasi mastin che 'l sasso, ond'a lui porto
fu
duro colpo, infellonito afferra.
Oh d'immenso dolor vano
conforto
incrudelir ne l'insensibil terra!
Ma fra tanto de'
Franchi il capitano
non spendea l'ire e le percosse invano.
Mille Turchi avea
qui che di loriche
e d'elmetti e di scudi eran coperti,
indomiti
di corpo a le fatiche,
di spirto audaci e in tutti i casi
esperti;
e furon già de le milizie antiche
di Solimano,
e seco ne' deserti
seguír d'Arabia i suoi errori
infelici,
ne le fortune averse ancora amici.
Questi
ristretti insieme in ordin folto
poco cedeano o nulla al valor
franco.
In questi urtò Goffredo, e ferí il volto
al
fier Corcutte ed a Rosteno il fianco,
a Selin da le spalle il capo
ha sciolto,
troncò a Rossano il destro braccio e 'l
manco;
né già soli costor, ma in altre guise
molti
piagò di loro e molti uccise.
Mentre
ei cosí la gente saracina
percote, e lor percosse anco
sostiene,
e in nulla parte al precipizio inchina
la fortuna de'
barbari e la spene,
nova nube di polve ecco vicina
che folgori
di guerra in grembo tiene,
ecco d'arme improvise uscirne un
lampo
che sbigottí de gli infedeli il campo.
Son
cinquanta guerrier che 'n puro argento
spiegan la trionfal
purpurea Croce.
Non io, se cento bocche e lingue cento
avessi,
e ferrea lena e ferrea voce,
narrar potrei quel numero che
spento
ne' primi assalti ha quel drapel feroce.
Cade l'Arabo
imbelle, e 'l Turco invitto
resistendo e pugnando anco è
trafitto.
L'orror,
la crudeltà, la tema, il lutto,
van d'intorno scorrendo, e
in varia imago
vincitrice la Morte errar per tutto
vedresti ed
ondeggiar di sangue un lago.
Già con parte de' suoi s'era
condutto
fuor d'una porta il re, quasi presago
di fortunoso
evento; e quindi d'alto
mirava il pian soggetto e 'l dubbio
assalto.
Ma come
prima egli ha veduto in piega
l'essercito maggior, suona a
raccolta,
e con messi iterati instando prega
ed Argante e
Clorinda a dar di volta.
La fera coppia d'esseguir ciò
nega,
ebra di sangue e cieca d'ira e stolta;
pur cede al fine,
e unite almen raccòrre
tenta le turbe e freno a i passi
imporre.
Ma chi
dà legge al vulgo ed ammaestra
la viltade e 'l timor? La
fuga è presa.
Altri gitta lo scudo, altri la
destra
disarma; impaccio è il ferro, e non difesa.
Valle
è tra il piano e la città, ch'alpestra
da
l'occidente al mezzogiorno è stesa;
qui fuggon essi, e si
rivolge oscura
caligine di polve invèr le mura.
Mentre ne van
precipitosi al chino,
strage d'essi i cristiani orribil fanno;
ma
poscia che salendo omai vicino
l'aiuto avean del barbaro
tiranno,
non vuol Guelfo d'alpestro erto camino
con tanto suo
svantaggio esporsi al danno.
Ferma le genti; e 'l re le sue
riserra,
non poco avanzo d'infelice guerra.
Fatto
intanto ha il Soldan ciò che è concesso
fare a
terrena forza, or piú non pote;
tutto è sangue e
sudore, e un grave e spesso
anelar gli ange il petto e i fianchi
scote.
Langue sotto lo scudo il braccio oppresso,
gira la
destra il ferro in pigre rote:
spezza, e non taglia; e divenendo
ottuso
perduto il brando omai di brando ha l'uso.
Come
sentissi tal, ristette in atto
d'uom che fra due sia dubbio, e in
sé discorre
se morir debba, e di sí illustre
fatto
con le sue mani altrui la gloria tòrre,
o pur,
sopravanzando al suo disfatto
campo, la vita in securezza
porre.
"Vinca" al fin disse "il fato, e questa
mia
fuga il trofeo di sua vittoria sia.
Veggia
il nemico le mie spalle, e scherna
di novo ancora il nostro
essiglio indegno,
pur che di novo armato indi mi scerna
turbar
sua pace e 'l non mai stabil regno.
Non cedo io, no; fia con
memoria eterna
de le mie offese eterno anco il mio
sdegno.
Risorgerò nemico ognor piú crudo,
cenere
anco sepolto e spirto ignudo."
Argomento
Al Soldan che dormìa, si mostra Ismeno,
E occultamente
entro a Sion l'ha posto.
Quivi il vigor dell'animo, che meno
Nel
Re venia, costui rinfranca tosto.
De' suoi Goffredo ode gli errori
appieno;
Ma poi che di Rinaldo ha ognun deposto,
Ch'ei sia
morto il timor, fa Piero aperto
De' nepoti di lui le lodi e 'l
merto.
Cosí
dicendo ancor vicino scorse
un destrier ch'a lui volse errante il
passo;
tosto al libero fren la mano ei porse
e su vi salse,
ancorch'afflitto e lasso.
Già caduto è il cimier
ch'orribil sorse,
fasciando l'elmo inonorato e basso;
rotta è
la sopravesta, e di superba
pompa regal vestigio alcun non serba.
Come dal chiuso
ovil cacciato viene
lupo talor che fugge e si nasconde,
che, se
ben del gran ventre omai ripiene
ha l'ingorde voragini
profonde,
avido pur di sangue anco fuor tiene
la lingua e 'l
sugge da le labra immonde,
tale ei se 'n gía dopo il
sanguigno strazio,
de la sua cupa fame anco non sazio.
E
come è sua ventura, a le sonanti
quadrella, ond'a lui
intorno un nembo vola,
a tante spade, a tante lancie, a
tanti
instrumenti di morte alfin s'invola,
e sconosciuto pur
camina inanti
per quella via ch'è piú deserta e
sola;
e rivolgendo in sé quel che far deggia,
in gran
tempesta di pensieri ondeggia.
Disponsi
alfin di girne ove raguna
oste sí poderosa il re
d'Egitto,
e giunger seco l'arme, e la fortuna
ritentar anco di
novel conflitto.
Ciò prefisso tra sé, dimora
alcuna
non pone in mezzo e prende il camin dritto,
ché
sa le vie, né d'uopo ha di chi il guidi
di Gaza antica a
gli arenosi lidi.
Né
perché senta inacerbir le doglie
de le sue piaghe, e grave
il corpo ed egro,
vien però che si posi e l'arme
spoglie,
ma travagliando il dí ne passa integro.
Poi
quando l'ombra oscura al mondo toglie
i vari aspetti e i color
tinge in negro,
smonta e fascia le piaghe, e come pote
meglio,
d'un'alta palma i frutti scote;
e
cibato di lor, su 'l terren nudo
cerca adagiare il travagliato
fianco,
e la testa appoggiando al duro scudo
quetar i moti del
pensier suo stanco.
Ma d'ora in ora a lui si fa piú
crudo
sentire il duol de le ferite, ed anco
roso gli è
il petto e lacerato il core
da gli interni avoltoi, sdegno e
dolore.
Alfin,
quando già tutto intorno chete
ne la piú alta notte
eran le cose,
vinto egli pur da la stanchezza, in Lete
sopí
le cure sue gravi e noiose,
e in una breve e languida
quiete
l'afllitte membra e gli occhi egri compose;
e mentre
ancor dormia, voce severa
gli intonò su l'orecchie in tal
maniera:
"Soliman,
Solimano, i tuoi sí lenti
riposi a miglior tempo omai
riserva,
ché sotto il giogo di straniere genti
la patria
ove regnasti ancor è serva.
In questa terra dormi, e non
rammenti
ch'insepolte de' tuoi l'ossa conserva?
ove sí
gran vestigio è del tuo scorno,
tu neghittoso aspetti il
novo giorno?"
Desto
il Soldan alza lo sguardo, e vede
uom che d'età gravissima
a i sembianti
co 'l ritorto baston del vecchio piede
ferma e
dirizza le vestigia erranti.
"E chi sei tu," sdegnoso a
lui richiede
"che fantasma importuno a i viandanti
rompi i
brevi lor sonni? e che s'aspetta
a te la mia vergngna o la
vendetta?"
"Io
mi son un" risponde il vecchio "al quale
in parte è
noto il tuo novel disegno,
e sí come uomo a cui di te piú
cale
che tu forse non pensi, a te ne vegno;
né il
mordace parlare indarno è tale,
perché de la virtú
cote è lo sdegno.
Prendi in grado, signor, che 'l mio
sermone
al tuo pronto valor sia sferza e sprone.
Or
perché, s'io m'appongo, esser dée vòlto
al
gran re de l'Egitto il tuo camino,
che inutilmente aspro viaggio
tolto
avrai, s'inanzi segui, io m'indovino;
ché, se ben
tu non vai, fia tosto accolto
e tosto mosso il campo saracino,
né
loco è là dove s'impieghi e mostri
la tua virtú
contra i nemici nostri.
Ma
se 'n duce me prendi, entro quel muro,
che da l'arme latine è
intorno astretto,
nel piú chiaro del dí pórti
securo,
senza che spada impugni, io ti prometto.
Quivi con
l'arme e co' disagi un duro
contrasto aver ti fia gloria e
diletto;
difenderai la terra insin che giugna
l'oste d'Egitto a
rinovar la pugna."
Mentre
ei ragiona ancor, gli occhi e la voce
de l'uomo antico il fero
turco ammira,
e dal volto e da l'animo feroce
tutto depone omai
l'orgoglio e l'ira.
"Padre," risponde "io già
pronto e veloce
sono a seguirti: ove tu vuoi mi gira.
A me
sempre miglior parrà il consiglio
ove ha piú di
fatica e di periglio."
Loda
il vecchio i suoi detti; e perché l'aura
notturna avea le
piaghe incrudelite,
un suo licor v'instilla, onde ristaura
le
forze e salda il sangue e le ferite.
Quinci veggendo omai
ch'Apollo inaura
le rose che l'aurora ha colorite:
"Tempo
è" disse "al partir, ché già ne
scopre
le strade il sol ch'altrui richiama a l'opre."
E sovra un carro
suo, che non lontano
quinci attendea, co 'l fer niceno ei
siede;
le briglie allenta, e con maestra mano
ambo i corsieri
alternamente fiede.
Quei vanno sí che 'l polveroso
piano
non ritien de la rota orma o del piede;
fumar li vedi ed
anelar nel corso,
e tutto biancheggiar di spuma il morso.
Maraviglie dirò:
s'aduna e stringe
l'aer d'intorno in nuvolo raccolto,
sí
che 'l gran carro ne ricopre e cinge,
ma non appar la nube o poco
o molto,
né sasso, che mural machina spinge,
penetraria
per lo suo chiuso e folto;
ben veder ponno i duo dal curvo seno
la
nebbia intorno e fuori il ciel sereno.
Stupido
il cavalier le ciglia inarca,
ed increspa la fronte, e mira
fiso
la nube e 'l carro ch'ogni intoppo varca
veloce sí
che di volar gli è aviso.
L'altro, che di stupor l'anima
carca
gli scorge a l'atto de l'immobil viso,
gli rompe quel
silenzio e lui rappella,
ond'ei si scote e poi cosí
favella:
"O
chiunque tu sia, che fuor d'ogni uso
pieghi natura ad opre altere
e strane,
e spiando i secreti, entro al piú chiuso
spazii
a tua voglia de le menti umane,
s'arrivi co 'l saper, ch'è
d'alto infuso,
a le cose remote anco e lontane,
deh! dimmi qual
riposo o qual ruina
ai gran moti de l'Asia il Ciel destina.
Ma pria dimmi il
tuo nome, e con qual arte
far cose tu sí inusitate
soglia,
ché se pria lo stupor da me non parte,
com'esser
può ch'io gli altri detti accoglia?"
Sorrise il
vecchio, e disse: "In una parte
mi sarà leve l'adempir
tua voglia.
Son detto Ismeno, e i Siri appellan mago
me che de
l'arti incognite son vago.
Ma
ch'io scopra il futuro e ch'io dispieghi
de l'occulto destin gli
eterni annali,
troppo è audace desio, troppo alti
preghi:
non è tanto concesso a noi mortali.
Ciascun qua
giú le forze e 'l senno impieghi
per avanzar fra le
sciagure e i mali,
ché sovente adivien che 'l saggio e 'l
forte
fabro a se stesso è di beata sorte.
Tu
questa destra invitta, a cui fia poco
scoter le forze del francese
impero,
non che munir, non che guardar il loco
che strettamente
oppugna il popol fero,
contra l'arme apparecchia e contra 'l
foco:
osa, soffri, confida; io bene spero.
Ma pur dirò,
perché piacer ti debbia,
ciò che oscuro vegg'io
quasi per nebbia.
Veggio
o parmi vedere, anzi che lustri
molti rivolga il gran pianeta
eterno,
uom che l'Asia ornerà co' fatti illustri,
e del
fecondo Egitto avrà il governo.
Taccio i pregi de l'ozio e
l'arti industri,
mille virtú che non ben tutte io
scerno;
basti sol questo a te, che da lui scosse
non pur
saranno le cristiane posse,
ma
insin dal fondo suo l'imperio ingiusto
svelto sarà ne
l'ultime contese,
e le afflitte reliquie entro uno angusto
giro
sospinte e sol dal mar difese.
Questi fia del tuo sangue." E
qui il vetusto
mago si tacque, e quegli a dir riprese:
"O
lui felice, eletto a tanta lode!"
e parte ne l'invidia e
parte gode.
Soggiunse
poi: "Girisi pur Fortuna
o buona o rea, come è là
su prescritto,
ché non ha sovra me ragione alcuna
e non
mi vedrà mai se non invitto.
Prima dal corso distornar la
luna
e le stelle potrà, che dal diritto
torcere un sol
mio passo." E in questo dire
sfavillò tutto di focoso
ardire.
Cosí
gír ragionando insin che furo
là 've presso vedean
le tende alzarse.
Che spettacolo fu crudele e duro!
E in quante
forme ivi la morte apparse!
Si fe' ne gli occhi allor torbido e
scuro,
e di doglia il Soldano il volto sparse.
Ahi con quanto
dispregio ivi le degne
mirò giacer sue già temute
insegne!
E
scorrer lieti i Franchi, e i petti e i volti
spesso calcar de'
suoi piú noti amici,
e con fasto superbo a gli
insepolti
l'arme spogliare e gli abiti infelici;
molti onorare
in lunga pompa accolti
gli amati corpi de gli estremi
uffici,
altri suppor le fiamme, e 'l vulgo misto
d'Arabi e
Turchi a un foco arder ha visto.
Sospirò
dal profondo, e 'l ferro trasse
e dal carro lanciossi e correr
volle,
ma il vecchio incantatore a sé il
ritrasse
sgridando, e raffrenò l'impeto folle;
e fatto
che di novo ei rimontasse,
drizzò il suo corso al piú
sublime colle.
Cosí alquanto n'andaro, insin ch'a
tergo
lasciàr de' Franchi il militare albergo.
Smontaro allor
del carro, e quel repente
sparve; e presono a piedi insieme il
calle
ne la solita nube occultamente
discendendo a sinistra in
una valle,
sin che giunsero là dove al ponente
l'alto
monte Siòn volge le spalle.
Quivi si ferma il mago e poi
s'accosta
quasi mirando, a la scoscesa costa.
Cava
grotta s'apria nel duro sasso,
di lunghissimi tempi avanti
fatta;
ma disusando, or riturato il passo
era tra i pruni e
l'erbe ove s'appiatta.
Sgombra il mago gli intoppi, e curvo e
basso
per l'angusto sentiero a gir s'adatta,
e l'una man
precede e il varco tenta,
l'altra per guida al principe
appresenta.
Dice
allora il Soldan: "Qual via furtiva
è questa tua, dove
convien ch'io vada?
Altra forse miglior io me n'apriva,
se 'l
concedevi tu, con la mia spada."
"Non sdegnar," gli
risponde "anima schiva,
premer co 'l forte piè la buia
strada,
ché già solea calcarla il grande Erode,
quel
c'ha ne l'arme ancor sí chiara lode.
Cavò
questa spelonca allor che porre
volse freno a i soggetti il re
ch'io dico,
e per essa potea da quella torre,
ch'egli Antonia
appellò dal chiaro amico,
invisibile a tutti il piè
raccòrre
dentro la soglia del gran tempio antico,
e
quindi occulto uscir de la cittate
e trarne genti ed introdur
celate.
Ma nota è
questa via solinga e bruna
or solo a me de gli uomini viventi.
Per
questa andremo al loco ove raguna
i piú saggi a conciglio e
i piú potenti
il re ch'al minacciar de la fortuna,
piú
forse che non dée, par che paventi.
Ben tu giungi a
grand'uopo: ascolta e taci,
poi movi a tempo le parole audaci."
Cosí gli
disse, e 'l cavaliero allotta
co 'l gran corpo ingombrò
l'umil caverna,
e per le vie dove mai sempre annotta
seguí
colui che 'l suo camin governa.
Chini pria se n'andàr, ma
quella grotta
piú si dilata quanto piú s'interna,
sí
ch'asceser con agio e tosto furo
a mezzo quasi di quell'antro
oscuro.
Apriva
allora un picciol uscio Ismeno,
e se ne gian per disusata scala
a
cui luce mal certo e mal sereno
l'aer che giú d'alto
spiraglio cala.
In sotterraneo chiostro al fin venieno,
e
salian quindi in chiara e nobil sala.
Qui con lo scettro e co 'l
diadema in testa
mesto sedeasi il re fra gente mesta.
Da
la concava nube il turco fero
non veduto rimira e spia
d'intorno,
e ode il re fra tanto, il qual primiero
incomincia
cosí dal seggio adorno:
"Veramente, o miei fidi, al
nostro impero
fu il trapassato assai dannoso giorno;
e caduti
d'altissima speranza,
sol l'aiuto d'Egitto omai n'avanza.
Ma ben vedete voi
quanto la speme
lontana sia da sí vicin periglio.
Dunque
voi tutti ho qui raccolti insieme
perch'ognun porti in mezzo il
suo consiglio."
Qui tace, e quasi in bosco aura che
freme
suona d'intorno un picciolo bisbiglio.
Ma con la faccia
baldanzosa e lieta
sorgendo Argante il mormorare accheta.
"O magnanimo
re," fu la risposta
del cavaliero indomito e feroce
"perché
ci tenti? e cosa a nullo ascosta
chiedi, ch'uopo non ha di nostra
voce?
Pur dirò: sia la speme in noi sol posta;
e s'egli
è ver che nulla a virtú noce,
di questa armiamci, a
lei chiediamo aita,
né piú ch'ella si voglia amiam
la vita.
Né
parlo io già cosí perch'io dispere
de l'aiuto
certissimo d'Egitto,
ché dubitar, se le promesse vere
fian
del mio re, non lece e non è dritto;
ma il dico sol perché
desio vedere
in alcuni di noi spirto piú
invitto,
ch'egualmente apprestato ad ogni sorte
si prometta
vittoria e sprezzi morte."
Tanto
sol disse il generoso Argante
quasi uom che parli di non dubbia
cosa.
Poi sorse in autorevole sembiante
Orcano, uom d'alta
nobiltà famosa,
e già ne l'arme d'alcun pregio
inante;
ma or congiunto a giovanetta sposa,
e lieto omai di
figli, era invilito
ne gli affetti di padre e di marito.
Disse questi: "O
signor, già non accuso
il fervor di magnifiche
parole,
quando nasce d'ardir che star rinchiuso
tra i confini
del cor non può né vòle;
però se 'l
buon circasso a te per uso
troppo in vero parlar fervido sòle,
ciò
si conceda a lui che poi ne l'opre
il medesmo fervor non meno
scopre.
Ma si
conviene a te, cui fatto il corso
de le cose e de' tempi han sí
prudente,
impor colà de' tuoi consigli il morso
dove
costui se ne trascorre ardente,
librar la speme del lontan
soccorso
co 'l periglio vicino, anzi presente,
e con l'arme e
con l'impeto nemico
i tuoi novi ripari e 'l muro antico.
Noi (se lece a me
dir quel ch'io ne sento)
siamo in forte città di sito e
d'arte,
ma di machine grande e violento
apparato si fa da
l'altra parte.
Quel che sarà, non so; spero e pavento
i
giudizi incertissimi di Marte,
e temo che s'a noi piú fia
ristretto
l'assedio, al fin di cibo avrem difetto.
Però
che quegli armenti e quelle biade
ch'ieri tu ricettasti entro le
mura,
mentre nel campo a insanguinar le spade
s'attendea solo,
e fu alta ventura,
picciol esca a gran fame, ampia cittade
nutrir
mal ponno se l'assedio dura;
e forza è pur che duri, ancor
che vegna
l'oste d'Egitto il dí ch'ella disegna.
Ma che fia, se
piú tarda? Or sú, concedo
che tua speme prevegna e
sue promesse;
la vittoria però, però non
vedo
liberate, o signor, le mura oppresse.
Combattremo, o buon
re, con quel Goffredo
e con que' duci e con le genti istesse
che
tante volte han già rotti e dispersi
gli Arabi, i Turchi, i
Soriani e i Persi.
E
quali sian, tu 'l sai, che lor cedesti
sí spesso il campo,
o valoroso Argante,
e sí spesso le spalle anco
volgesti
fidando assai ne le veloci piante;
e 'l sa Clorinda
teco ed io con questi
ch'un piú de l'altro non convien si
vante.
Né incolpo alcuno io già, ché vi fu
mostro
quanto potea maggiore il valor nostro.
E
dirò pur (benché costui di morte
bieco minacci e 'l
vero udir si sdegni):
veggio portar da inevitabil sorte
il
nemico fatale a certi segni,
né gente potrà mai, né
muro forte
impedirlo cosí ch'al fin non regni;
ciò
mi fa dir (sia testimonio il Cielo)
del signor, de la patria,
amore e zelo.
Oh
saggio il re di Tripoli, che pace
seppe impetrar da i Franchi e
regno insieme!
Ma il Soldano ostinato o morto or giace,
or pur
servil catena il piè gli preme,
o ne l'essiglio timido e
fugace
si va serbando a le miserie estreme;
e pur, cedendo
parte, avria potuto
parte salvar co' doni e co 'l tributo."
Cosí
diceva, e s'avolgea costui
con giro di parole obliquo e
incerto,
ch'a chieder pace, a farsi uom ligio altrui
già
non ardia di consigliarlo aperto.
Ma sdegnoso il Soldano i detti
sui
non potea omai piú sostener coperto,
quando il mago
gli disse: "Or vuoi tu darli
agio, signor, ch'in tal materia
parli?"
"Io
per me" gli risponde "or qui mi celo
contra mio grado, e
d'ira ardo e di scorno."
Ciò disse a pena, e
immantinente il velo
de la nube, che stesa è lor
d'intorno,
si fende e purga ne l'aperto cielo,
ed ei riman nel
luminoso giorno,
e magnanimamente in fero viso
rifulge in
mezzo, e lor parla improviso:
"Io,
di cui si ragiona, or son presente,
non fugace e non timido
Soldano,
ed a costui ch'egli è codardo e mente
m'offero
di provar con questa mano.
Io che sparsi di sangue ampio
torrente,
che montagne di strage alzai su 'l piano,
chiuso nel
vallo de' nemici e privo
al fin d'ogni compagno, io fuggitivo?
Ma se piú
questi o s'altri a lui simíle,
a la sua patria, a la sua
fede infido,
motto osa far d'accordo infame e vile,
buon re,
sia con tua pace, io qui l'uccido.
Gli agni e i lupi fian giunti
in un ovile
e le colombe e i serpi in un sol nido,
prima che
mai di non discorde voglia
noi co' Francesi alcuna terra
accoglia."
Tien
su la spada, mentre ei sí favella,
la fera destra in
minaccievol atto.
Riman ciascuno a quel parlar, a quella
orribil
faccia, muto e stupefatto.
Poscia con vista men turbata e
fella
cortesemente inverso il re s'è tratto:
"Spera,"
gli dice "alto signor, ch'io reco
non poco aiuto: or Solimano
è teco."
Aladin,
ch'a lui contra era già sorto,
risponde: "Oh come
lieto or qui ti veggio,
diletto amico! Or del mio stuol ch'è
morto
non sento il danno; assai temea di peggio.
Tu lo mio
stabilire e in tempo corto
puoi ridrizzar il tuo caduto seggio,
se
'l Ciel no 'l vieta." Indi le braccia al collo,
cosí
detto, gli stese e circondollo.
Finita
l'accoglienza, il re concede
il suo medesmo soglio al gran
niceno.
Egli poscia a sinistra in nobil sede
si pone, ed al suo
fianco alluoga Ismeno,
e mentre seco parla ed a lui chiede
di
lor venuta, ed ei risponde a pieno,
l'alta donzella ad onorar in
pria
vien Solimano; ogn'altro indi seguia.
Seguí
fra gl'altri Ormusse, il qual la schiera
di quegli Arabi suoi a
guidar tolse;
e mentre la battaglia ardea piú fera,
per
disusate vie cosí s'avolse
ch'aiutando il silenzio e l'aria
nera
lei salva al fin nella città raccolse,
e con le
biade e con rapiti armenti
aita porse a l'affamate genti.
Sol con la faccia
torva e disdegnosa
tacito si rimase il fer circasso,
a guisa di
leon quando si posa,
girando gli occhi e non movendo il passo.
Ma
nel Soldan feroce alzar non osa
Orcano il volto, e 'l tien pensoso
e basso.
Cosí a conciglio il palestin tiranno
e 'l re
de' Turchi e i cavalier qui stanno.
Ma
il pio Goffredo la vittoria e i vinti
avea seguiti, e libere le
vie,
e fatto intanto a i suoi guerrieri estinti
l'ultimo onor
di sacre essequie e pie;
ed ora a gli altri impon che siano
accinti
a dar l'assalto nel secondo die,
e con maggiore e piú
terribil faccia
di guerra i chiusi barbari minaccia.
E
perché conosciuto avea il drapello,
ch'aiutò lui
contra la gente infida,
esser de' suoi piú cari ed esser
quello
che già seguí l'insidiosa guida,
e
Tancredi con lor, che nel castello
prigion restò de la
fallace Armida,
ne la presenza sol de l'Eremita
e d'alcuni piú
saggi a sé gli invita;
e
dice lor: "Prego ch'alcun racconti
de' vostri brevi errori il
dubbio corso,
e come poscia vi trovaste pronti
in sí
grand'uopo a dar sí gran soccorso."
Vergognando tenean
basse le fronti,
ch'era al cor picciol fallo amaro morso.
Al
fin del re britanno il chiaro figlio
ruppe il silenzio, e disse
alzando il ciglio:
"Partimmo
noi che fuor de l'urna a sorte
tratti non fummo, ognun per sé
nascoso,
d'Amor, no 'l nego, le fallaci scorte
seguendo e d'un
bel volto insidioso.
Per vie ne trasse disusate e torte
fra noi
discordi, e in sé ciascun geloso.
Nutrian gli amori e i
nostri sdegni (ah! tardi
troppo il conosco) or parolette, or
guardi.
Al fin
giungemmo al loco ove già scese
fiamma dal cielo in
dilatate falde,
e di natura vendicò l'offese
sovra le
genti in mal oprar sí salde.
Fu già terra feconda,
almo paese,
or acque son bituminose e calde
e steril lago; e
quanto ei torpe e gira,
compressa è l'aria e grave il puzzo
spira.
Questo è
lo stagno in cui nulla di greve
si getta mai che giunga insino al
basso,
ma in guisa pur d'abete o d'orno leve
l'uom vi sornuota
e 'l duro ferro e 'l sasso.
Siede in esso un castello, e stretto e
breve
ponte concede a' peregrini il passo.
Ivi n'accolse, e non
so con qual arte
vaga è là dentro e ride ogni sua
parte.
V'è
l'aura molle e 'l ciel sereno e lieti
gli alberi e i prati e pure
e dolci l'onde,
ove fra gli amenissimi mirteti
sorge una fonte
e un fiumicel diffonde:
piovono in grembo a l 'erbe i sonni
queti
con un soave mormorio di fronde,
cantan gli augelli: i
marmi io taccio e l'oro
meravigliosi d'arte e di lavoro.
Apprestar su
l'erbetta, ov'è piú densa
l'ombra e vicino al suon
de l'acque chiare,
fece di sculti vasi altera mensa
e ricca di
vivande elette e care.
Era qui ciò ch'ogni stagion
dispensa,
ciò che dona la terra o manda il mare,
ciò
che l'arte condisce; e cento belle
servivano al convito accorte
ancelle.
Ella
d'un parlar dolce e d'un bel riso
temprava altrui cibo mortale e
rio.
Or mentre ancor ciascuno a mensa assiso
beve con lungo
incendio un lungo oblio,
sorse e disse: `Or qui riedo.' E con un
viso
ritornò poi non sí tranquillo e pio.
Con una
man picciola verga scote,
tien l'altra un libro, e legge in basse
note.
Legge la
maga, ed io pensiero e voglia
sento mutar, mutar vita ed
albergo.
(Strana virtú) novo pensier m'invoglia:
salto
ne l'acqua, e mi vi tuffo e immergo.
Non so come ogni gamba entro
s'accoglia,
come l'un braccio e l'altro entri nel
tergo,
m'accorcio e stringo, e su la pelle cresce
squamoso il
cuoio; e d'uom son fatto un pesce.
Cosí
ciascun de gli altri anco fu vòlto
e guizzò meco in
quel vivace argento.
Quale allor mi foss'io, come di stolto
vano
e torbido sogno, or me 'n rammento.
Piacquele al fin tornarci il
proprio volto;
ma tra la meraviglia e lo spavento
muti eravam,
quando turbata in vista
in tal guisa ne parla e ne contrista:
`Ecco, a voi noto
è il mio poter' ne dice
`e quanto sopra voi l'imperio ho
pieno.
Pende dal mio voler ch'altri infelice
perda in prigione
eterna il ciel sereno,
altri divenga augello, altri radice
faccia
e germogli nel terrestre seno,
o che s'induri in scelce, o in
molle fonte
si liquefaccia, o vesta irsuta fronte.
Ben
potete schivar l'aspro mio sdegno,
quando servire al mio piacer
v'aggrade:
farvi pagani, e per lo nostro regno
contra l'empio
Buglion mover le spade.'
Ricusàr tutti ed aborrír
l'indegno
patto; solo a Rambaldo il persuade.
Noi (ché
non val difesa) entro una buca
di lacci avolse ove non è
che luca.
Poi nel
castello istesso a sorte venne
Tancredi, ed egli ancor fu
prigioniero.
Ma poco tempo in carcere ci tenne
la falsa maga; e
(s'io n'intesi il vero)
di seco trarne da quell'empia ottenne
del
signor di Damasco un messaggiero,
ch'al re d'Egitto in don fra
cento armati
ne conduceva inermi e incatenati.
Cosí
ce n'andavamo; e come l'alta
providenza del Cielo ordina e
move,
il buon Rinaldo, il qual piú sempre essalta
la
gloria sua con opre eccelse e nove,
in noi s'aviene, e i cavalieri
assalta
nostri custodi e fa l'usate prove:
gli uccide e vince,
e di quell'arme loro
fa noi vestir che nostre in prima foro.
Io 'l vidi, e 'l
vider questi; e da lui porta
ci fu la destra, e fu sua voce
udita.
Falso è il romor che qui risuona e porta
sí
rea novella, e salva è la sua vita;
ed oggi è il
terzo dí che con la scorta
d'un peregrin fece da noi
partita
per girne in Antiochia, e pria depose
l'arme che rotte
aveva e sanguinose."
Cosí
parlava, e l'Eremita intanto
volgeva al cielo l'una e l'altra
luce.
Non un color, non serba un volto: oh quanto
piú
sacro e venerabile or riluce!
Pieno di Dio, rapto dal zelo, a
canto
a l'angeliche menti ei si conduce;
gli si svela il
futuro, e ne l'eterna
serie de gli anni e de l'età
s'interna.
e la
bocca sciogliendo in maggior suono
scopre le cose altrui ch'indi
verranno.
Tutti conversi a le sembianze, al tuono
de l'insolita
voce attenti stanno.
"Vive" dice "Rinaldo, e
l'altre sono
arti e bugie di femminile inganno.
Vive, e la vita
giovanetta acerba
a piú mature glorie il Ciel riserba.
Presagi sono e
fanciulleschi affanni
questi ond'or l'Asia lui conosce e
noma.
Ecco chiaro vegg'io, correndo gli anni,
ch'egli s'oppone
a l'empio Augusto e 'l doma
e sotto l'ombra de gli argentei
vanni
l'aquila sua copre la Chiesa e Roma,
che de la fèra
avrà tolte a gli artigli;
e ben di lui nasceran degni i
figli.
De' figli
i figli, e chi verrà da quelli,
quinci avran chiari e
memorandi essempi;
e da' Cesari ingiusti e da' rubelli
difenderan
le mitre e i sacri tèmpi. Premer gli alteri e sollevar gli
imbelli,
difender gli innocenti e punir gli empi,
fian l'arti
lor: cosí verrà che vóle
l'aquila estense
oltra le vie del sole.
E
dritto è ben che, se 'l ver mira e 'l lume,
ministri a
Pietro i folgori mortali.
U' per Cristo si pugni, ivi le
piume
spiegar dée sempre invitte e trionfali,
ché
ciò per suo nativo alto costume
dielle il Cielo e per leggi
a lei fatali.
Onde piace là su che in questa degna
impresa,
onde partí, chiamato vegna."
Qui
dal soggetto vinto il saggio Piero
stupido tace, e 'l cor ne
l'alma faccia
troppo gran cose de l'estense altero
valor
ragiona, onde tutto altro spiaccia.
Sorge intanto la notte, e 'l
velo nero
per l'aria spiega e l'ampia terra abbraccia;
vansene
gli altri e dan le membra al sonno,
ma i suoi pensieri in lui
dormir non ponno.
.
Argomento
Con puro sacrificio e sacre note,
Il soccorso del Cielo invoca il
campo.
Poi dell'alta città le mura scote,
Ch'al suo
furore omai non avean scampo;
Quando Clorinda il Capitan
percote,
E 'l colpo è a lui d'alta vittoria inciampo.
Ben
dall'Angel sanato ei torna in guerra:
Ma già il diurno
raggio ito è sotterra.
Ma
'l capitan de le cristiane genti,
vòlto avendo a l'assalto
ogni pensiero,
giva apprestando i bellici instrumenti
quando a
lui venne il solitario Piero;
e trattolo in disparte, in tali
accenti
gli parlò venerabile e severo:
"Tu movi, o
capitan, l'armi terrene,
ma di là non cominci onde
conviene.
Sia dal
Cielo il principio; invoca inanti
ne le preghiere pubbliche e
devote
la milizia de gli angioli e de' santi,
che ne impetri
vittoria ella che puote.
Preceda il clero in sacre vesti, e
canti
con pietosa armonia supplici note;
e da voi, duci
gloriosi e magni,
pietate il vulgo apprenda e n'accompagni."
Cosí gli
parla il rigido romito,
e 'l buon Goffredo il saggio aviso
approva:
"Servo" risponde "di Giesú
gradito,
il tuo consiglio di seguir mi giova.
Or mentre i duci
a venir meco invito,
tu i Pastori de' popoli ritrova,
Guglielmo
ed Ademaro, e vostra sia
la cura de la pompa sacra e pia."
Nel seguente
mattino il vecchio accoglie
co' duo gran sacerdoti altri
minori,
ov'entro al vallo tra sacrate soglie
soleansi celebrar
divini onori.
Quivi gli altri vestír candide
spoglie,,
vestír dorato ammanto i duo Pastori
che
bipartito sovra i bianchi lini
s'affibbia al petto, e incoronaro i
crini.
Va Piero
solo inanzi e spiega al vento
il segno riverito in Paradiso,
e
segue il coro a passo grave e lento
in duo lunghissimi ordini
diviso.
Alternando facean doppio concento
in supplichevol canto
e in umil viso,
e chiudendo le schiere ivano a paro
i principi
Guglielmo ed Ademaro.
Venia
poscia il Buglion, pur come è l'uso
di capitan senza
compagno a lato;
seguiano a coppia i duci, e non confuso
seguiva
il campo in lor difesa armato.
Sí procedendo se n'uscia del
chiuso
de le trinciere il popolo adunato,
né s'udian
trombe o suoni altri feroci
ma di pietate e d'umiltà sol
voci.
Te Genitor,
te Figlio eguale al Padre,
e te che d'ambo uniti amando spiri,
e
te d'Uomo e di Dio vergine Madre
invocano propizia a i lor
desiri;
o Duci, e voi che le fulgenti squadre
del ciel movete
in triplicati giri,
o Divo, e te che de la diva fronte
la monda
umanità lavasti al fonte,
chiamano;
e te che sei pietra e sostegno
de la magion di Dio fondato e
forte,
ove ora il novo successor tuo degno
di grazia e di
perdono apre le porte,
e gli altri messi del celeste regno
che
divulgàr la vincitrice morte,
e quei che 'l vero a
confermar seguiro,
testimoni di sangue e di martiro;
quegli ancor la
cui penna o la favella
insegnata ha del Ciel la via smarrita,
e
la cara di Cristo e fida ancella
ch'elesse il ben de la piú
nobil vita;
e le vergini chiuse in casta cella
che Dio con alte
nozze a sé marita;
e quell'altre magnanime a i
tormenti,
sprezzatrici de' regi e de le genti.
Cosí
cantando, il popolo devoto
con larghi giri si dispiega e stende,
e
drizza a l'Oliveto il lento moto,
monte che da l'olive il nome
prende,
monte per sacra fama al mondo noto,
ch'oriental contra
le mura ascende,
e sol da quelle il parte e ne 'l discosta
la
cupa Giosafà ch'in mezzo è posta.
Colà
s'invia l'essercito canoro,
e ne suonan le valli ime e profonde
e
gli alti colli e le spelonche loro,
e da ben mille parti Ecco
risponde,
e quasi par che boscareccio coro
fra quegli antri si
celi e in quelle fronde,
sí chiaramente replicar s'udia
or
di Cristo il gran nome, or di Maria,
D'in
su le mura ad ammirar fra tanto
cheti si stanno e attoniti i
pagani
que' tardi avolgimenti e l'umil canto,
e l'insolite
pompe e i riti estrani.
Poi che cessò de lo spettacol
santo
la novitate, i miseri profani
alzàr le strida; e
di bestemmie e d'onte
muggí il torrente e la gran valle e
'l monte.
Ma da
la casta melodia soave
la gente di Giesú però non
tace,
né si volge a que' gridi o cura n'have
piú
che di stormo avria d'augei loquace;
né perché
strali aventino, ella pave
che giungano a turbar la santa pace
di
sí lontano, onde a suo fin ben pote
condur le sacre
incominciate note.
Poscia
in cima del colle ornan l'altare
che di gran cena al sacerdote è
mensa,
e d'ambo i lati luminosa appare
sublime lampa in
lucid'oro accensa.
Quivi altre spoglie, e pur dorate e
care,
prende Guglielmo, e pria tacito pensa,
indi con chiaro
suon la voce spiega,
se stesso accusa e Dio ringrazia e prega.
Umili intorno
ascoltano i primieri,
le viste i piú lontani almen v'han
fisse.
Ma poi che celebrò gli alti misteri
del puro
sacrificio: "Itene" ei disse;
e in fronte alzando a i
popoli guerrieri
la man sacerdotal, li benedisse.
Allor se 'n
ritornàr le squadre pie
per le dianzi da lor calcate vie.
Giunti nel vallo
e l'ordine disciolto,
si rivolge Goffredo a sua magione,
e
l'accompagna stuol calcato e folto
insino al limitar del
padiglione.
Quivi gli altri accommiata indietro vòlto,
ma
ritien seco i duci il pio Buglione,
e li raccoglie a mensa, e vuol
ch'a fronte
di Tolosa gli sieda il vecchio conte.
Poi
che de' cibi il natural amore
fu in lor ripresso e l'importuna
sete,
disse a i duci il gran duce: "Al novo albore
tutti a
l'assalto voi pronti sarete:
quel fia giorno di guerra e di
sudore,
questo sia d'apparecchio e di quiete.
Dunque ciascun
vada al riposo, e poi
se medesmo prepari e i guerrier suoi."
Tolser essi
congedo, e manifesto
quinci gli araldi a suon di trombe
fèro
ch'essere a l'arme apparecchiato e presto
dée
con la nova luce ogni guerriero.
Cosí in parte al ristoro e
in parte questo
giorno si diede a l'opre ed al pensiero,
sin
che fe' nova tregua a la fatica
la cheta notte, del riposo amica.
Ancor dubbia
l'aurora ed immaturo
ne l'oriente il parto era del giorno,
né
i terreni fendea l'aratro duro,
né fea il pastore a i prati
anco ritorno;
stava tra i rami ogni augellin securo,
e in selva
non s'udia latrato o corno,
quando a cantar la mattutina
tromba
comincia: "A l'arme!" " A l'arme!" il
ciel rimbomba.
"A
l'arme! a l'arme! " subito ripiglia
il grido universal di
cento schiere.
Sorge il forte Goffredo e già non piglia
la
gran corazza usata o le schiniere;
ne veste un'altra ed un pedon
somiglia
in arme speditissime e leggiere;
e indosso avea già
l'agevol pondo,
quando gli sovraggiunse il buon Raimondo.
Questi, veggendo
armato in cotal modo
il capitano, il suo pensier comprese:
"Ov'è"
gli disse "il grave usbergo e sodo?
ov'è, signor,
l'altro ferrato arnese?
perché sei parte inerme? Io già
non lodo
che vada con sí debili difese.
Or da tai segni
in te ben argomento
che sei di gloria ad umil mèta intento.
Deh! che ricerchi
tu? privata palma
di salitor di mura? Altri le saglia,
ed
esponga men degna ed util alma
(rischio debito a lui) ne la
battaglia;
tu riprendi, signor, l'usata salma
e di te stesso a
nostro pro ti caglia.
L'anima tua, mente del campo e
vita,
cautamente per Dio sia custodita."
Qui
tace, ed ei risponde: "Or ti sia noto
che quando in
Chiaramonte il grande Urbano
questa spada mi cinse, e me
devoto
fe' cavalier l'onnipotente mano,
tacitamente a Dio
promisi in voto
non pur l'opera qui di capitano,
ma
d'impiegarvi ancor, quando che fosse,
qual privato guerrier l'arme
e le posse.
Dunque,
poscia che fian contra i nemici
tutte le genti mie mosse e
disposte,
e ch'a pieno adempito avrò gli uffici
che son
dovuti al principe de l'oste,
ben è ragion (né tu,
credo, il disdici)
ch'a le mura pugnando anch'io m'accoste,
e
la fede promessa al Cielo osservi:
egli mi custodisca e mi
conservi."
Cosí
concluse, e i cavalier francesi
seguír l'essempio e i duo
minor Buglioni;
gli altri principi ancor men gravi arnesi
parte
vestiro e si mostràr pedoni.
Ma i pagani fra tanto erano
ascesi
là dove a i sette gelidi Trioni
si volge e piega
a l'occidente il muro,
che nel piú facil sito è men
securo.
Però
ch'altronde la città non teme
de l'assalto nemico offesa
alcuna,
quivi non pur l'empio tiranno insieme
il forte vulgo e
gli assoldati aduna,
ma chiama ancora a le fatiche
estreme
fanciulli e vecchi l'ultima fortuna;
e van questi
portando a i piú gagliardi
calce e zolfo e bitume e sassi e
dardi.
E di
macchine e d'arme han pieno inante
tutto quel muro a cui soggiace
il piano,
e quinci in forma d'orrido gigante
da la cintola in
su sorge il Soldano,
quindi tra' merli il minaccioso
Argante
torreggia, e discoperto è di lontano,
e in su la
torre altissima Angolare
sovra tutti Clorinda eccelsa appare.
A costei la
faretra e 'l grave incarco
de l'acute quadrella al tergo
pende.
Ella già ne le mani ha preso l'arco,
e già
lo stral v'ha su la corda e 'l tende;
e desiosa di ferire, al
varco
la bella arciera i suoi nemici attende.
Tal già
credean la vergine di Delo
tra l'alte nubi saettar dal cielo.
Scorre piú
sotto il re canuto a piede
da l'una a l'altra porta, e 'n su le
mura
ciò che prima ordinò cauto rivede
e i
difensor conforta e rassecura;
e qui genti rinforza e là
provede
di maggior copia d'arme, e 'l tutto cura.
Ma se ne van
l'afflitte madri al tempio
a ripregar nume bugiardo ed empio.
"Deh! spezza
tu del predator francese
l'asta, Signor, con la man giusta e
forte;
e lui, che tanto il tuo gran nome offese,
abbatti e
spargi sotto l'alte porte."
Cosí dicean, né fur
le voci intese
là giú tra 'l pianto de l'eterna
morte.
Or mentre la città s'appresta e prega,
le genti e
l'arme il pio Buglion dispiega.
Tragge
egli fuor l'essercito pedone
con molta providenza e con
bell'arte,
e contra il muro ch'assalir dispone
obliquamente in
duo lati il comparte.
Le baliste per dritto in mezzo pone
e gli
altri ordigni orribili di Marte,
onde in guisa di fulmini si
lancia
vèr le merlate cime or sasso, or lancia.
E
mette in guardia i cavalier de' fanti
da tergo, e manda intorno i
corridori.
Dà il segno poi de la battaglia, e tanti
i
sagittari sono e i frombatori
e l'arme da le machine volanti,
che
scemano fra i merli i difensori.
Altri v'è morto e 'l loco
altri abbandona;
già men folta del muro è la corona.
La gente franca
impetuosa e ratta
allor quanto piú puote affretta i
passi;
e parte scudo a scudo insieme adatta,
e di quegli un
coperchio al capo fassi,
e parte sotto machine s'appiatta
che
fan riparo al grandinar de' sassi;
ed arrivando al fosso, il cupo
e 'l vano
cercano empirne ed adeguarlo al piano.
Non
era il fosso di palustre limo
(ché no 'l consente il loco)
o d'acqua molle,
onde l'empieno, ancor che largo ed imo,
le
pietre e i fasci e gli arbori e le zolle.
L'audacissimo Alcasto
intanto il primo,
scopre la testa ed una scala estolle,
e no 'l
ritien dura gragnuola o pioggia
di fervidi bitumi, e su vi poggia.
Vedeasi in alto
il fier elvezio asceso
mezzo l'aereo calle aver fornito,
segno
a mille saette, e non offeso
d'alcuna sí che fermi il corso
ardito;
quando un sasso ritondo e di gran peso,
veloce come di
bombarda uscito,
ne l'elmo il coglie e il risospinge a basso;
e
'l colpo vien dal lanciator circasso.
Non
è mortal, ma grave il colpo e 'l salto
sí ch'ei
stordisce, e giace immobil pondo.
Argante allor in suon feroce ed
alto:
"Caduto è il primo, or chi verrà
secondo?
Ché non uscite a manifesto assalto,
appiattati
guerrier, s'io non m'ascondo?
Non gioveranvi le caverne
estrane,
ma vi morrete come belve in tane."
Cosí
dice egli, e per suo dir non cessa
la gente occulta, e tra i
ripari cavi
e sotto gli alti scudi unita e spessa
le saette
sostiene e i pesi gravi;
già gli arieti e la muraglia
appressa,
machine grandi e smisurate travi,
c'han testa di
monton ferrata e dura:
temon le porte il cozzo, e l'alte mura.
Gran mole intanto
è di là su rivolta
per cento mani al gran bisogno
pronte,
che sovra la testugine piú folta
ruina, e par
che vi trabocchi un monte;
e de gli scudi l'union disciolta,
piú
d'un elmo vi frange e d'una fronte,
e ne riman la terra sparsa e
rossa
d'arme, di sangue, di cervella e d'ossa.
L'assalitore
allor sotto al coperto
de le machine sue piú non ripara,
ma
da i ciechi perigli al rischio aperto
fuori se n'esce e sua virtú
dichiara.
Altri appoggia le scale e va per l'erto,
altri
percote i fondamenti a gara.
Ne crolla il muro, e ruinoso i
fianchi
già fesso mostra a l'impeto de' Franchi.
E
ben cadeva a le percosse orrende,
che doppia in lui l'espugnator
montone,
ma sin da' merli il popolo il difende
con usata di
guerra arte e ragione,
ch'ovunque la gran trave in lui si
stende
cala fasci di lana e li frapone;
prende in sé le
percosse e fa piú lente
la materia arrendevole e cedente.
Mentre con tal
valor s'erano strette
l'audaci schiere e la tenzon murale,
curvò
Clorinda sette volte, e sette
rallentò l'arco e n'aventò
lo strale;
e quante in giú se ne volàr saette,
tante
s'insanguinaro il ferro e l'ale,
non di sangue plebeo ma del piú
degno,
ché sprezza quell'altera ignobil segno.
Il
primo cavalier ch'ella piagasse
fu l'erede minor del rege
inglese.
Da' suoi ripari a pena il capo ei trasse
che la mortal
percossa in lui discese,
e che la destra man non gli trapasse
il
guanto de l'acciar nulla contese;
sí che inabile a l'arme
ei si ritira
fremendo, e meno di dolor che d'ira.
Il
buon conte d'Ambuosa in ripa al fosso,
e su la scala poi Clotareo
il franco:
quegli morí trafitto il petto e 'l dosso,
questi
da l'un passato a l'altro fianco.
Sospingeva il monton, quando è
percosso
al signor de' Fiamminghi il braccio manco,
sí
che tra via s'allenta, e vuol poi trarne
lo strale, e resta il
ferro entro la carne.
A
l'incauto Ademar, ch'era da lunge
la fera pugna a riguardar
rivolto,
la fatal canna arriva e in fronte il punge.
Stende ei
la destra al loco ove l'ha colto,
quando nova saetta ecco
sorgiunge
sovra la mano e la confige al volto;
onde egli cade,
e fa del sangue sacro
su l'arme feminili ampio lavacro.
Ma non lungi da'
merli a Palamede,
mentre ardito disprezza ogni periglio
e su
per gli erti gradi indrizza il piede,
cala il settimo ferro al
destro ciglio,
e trapassando per la cava sede
e tra i nervi de
l'occhio esce vermiglio
diretro per la nuca; egli trabocca
e
more a' piè de l'assalita rocca.
Tal
saetta costei. Goffredo intanto
con novo assalto i difensori
opprime.
Avea condotto ad una porta a canto
de le machine sue
la piú sublime.
Questa è torre di legno, e s'erge
tanto
che può del muro pareggiar le cime;
torre che
grave d'uomini ed armata,
mobile è su le rote e vien
tirata.
Viene
aventando la volubil mole
lancie e quadrella, e quanto può
s'accosta,
e come nave in guerra nave suole,
tenta d'unirsi a
la muraglia opposta;
ma chi lei guarda ed impedir ciò
vuole,
l'urta la fronte e l'una e l'altra costa,
la respinge
con l'aste e le percote
or con le pietre i merli ed or le rote.
Tanti di qua,
tanti di là fur mossi
e sassi e dardi ch'oscuronne il
cielo.
S'urtàr due nembi in aria, e là
tornossi
talor respinto, onde partiva, il telo.
Come di fronde
sono i rami scossi
da la pioggia indurata in freddo gelo
e ne
caggiono i pomi anco immaturi,
cosí cadeano i saracin da i
muri,
però
che scende in lor piú greve il danno,
che di ferro assai
meno eran guerniti.
Parte de' vivi ancora in fuga vanno,
de la
gran mole al fulminar smarriti.
Ma quel che già fu di Nicea
tiranno
vi resta, e fa restarvi i pochi arditi;
e 'l fero
Argante a contraporsi corre,
presa una trave, a la nemica torre,
e da sé la
respinge e tien lontana
quanto l'abete è lungo e 'l braccio
forte.
Vi scende ancor la vergine sovrana,
e de' perigli altrui
si fa consorte.
I Franchi intanto a la pendente lana
le funi
recideano e le ritorte
con lunghe falci, onde cadendo a
terra
lasciava il muro disarmato in guerra.
Cosí
la torre sovra, e piú di sotto
l'impetuoso il batte aspro
ariete,
onde comincia ormai forato e rotto
a discoprir le
interne vie secrete.
Essi non lunge il capitan condotto,
al
conquassato e tremulo parete,
nel suo scudo maggior tutto
rinchiuso
che rade volte ha di portar in uso.
E
quivi cauto rimirando spia,
e scender vede Solimano a basso
e
porsi a la difesa ove s'apria
tra le ruine il periglioso passo,
e
rimaner della sublime via
Clorinda in guardia e 'l cavalier
circasso.
Cosí guardava, e già sentiasi il
core
tutto avampar di generoso ardore.
Onde
rivolto dice al buon Sigiero,
che gli portava un altro scudo e
l'arco:
"Ora mi porgi, o fedel mio scudiero,
cotesto men
gravoso e grande incarco,
ché tenterò di trapassar
primiero
su i dirupati sassi il dubbio varco;
e tempo è
ben che qualche nobil opra
de la nostra virtute omai si scopra."
Cosí
mutato scudo a pena disse,
quando a lui venne una saetta a volo,
e
ne la gamba il colse e la trafisse
nel piú nervoso, ove è
piú acuto il duolo.
Che di tua man, Clorinda, il colpo
uscisse,
la fama il canta, e tuo l'onor n'è solo;
se
questo dí servaggio e morte schiva
la tua gente pagana, a
te s'ascriva.
Ma
il fortissimo eroe, quasi non senta
il mortifero duol de la
ferita,
dal cominciato corso il piè non lenta,
e monta
su i dirupi e gli altri invita.
Pur s'avede egli poi che no 'l
sostenta
la gamba, offesa troppo ed impedita,
e ch'inaspra
agitando ivi l'ambascia,
onde sforzato alfin l'assalto lascia.
E chiamando il
buon Guelfo a sé con mano,
a lui parlava: "Io me ne vo
constretto:
sostien persona tu di capitano
e di mia lontananza
empi il diffetto.
Ma picciol'ora io vi starò lontano:
vado
e ritorno." E si partia, ciò detto;
ed ascendendo in
un leggier cavallo,
giunger non può che non sia visto al
vallo.
Al
dipartir del capitan, si parte
e cede il campo la fortuna
franca.
Cresce il vigor ne la contraria parte,
sorge la speme e
gli animi rinfranca;
e l'ardimento co 'l favor di Marte
ne' cor
fedeli e l'impeto già manca:
già corre lento ogni
lor ferro al sangue,
e de le trombe istesse il suono langue.
E già tra'
merli a comparir non tarda
lo stuol fugace che 'l timor
caccionne,
e mirando la vergine gagliarda,
vero amor de la
patria arma le donne.
Correr le vedi e collocarsi in guarda
con
chiome sparse e con succinte gonne,
e lanciar dardi e non mostrar
paura
d'esporre il petto per l'amate mura.
E
quel ch'a i Franchi piú spavento porge,
e 'l toglie a i
difensor de la cittade,
è che 'l possente Guelfo (e se
n'accorge
questo popol e quel) percosso cade.
Tra mille il
trova sua fortuna e scòrge
d'un sasso il corso per lontane
strade;
e da sembiante colpo al tempo stesso
colto è
Raimondo, onde giú cade anch'esso.
Ed
aspramente allora anco fu punto
ne la proda del fosso Eustazio
ardito.
Né in questo a i Franchi fortunoso punto
contra
lor da' nemici è colpo uscito
(che n'uscír molti)
onde non sia disgiunto
corpo da l'alma o non sia almen ferito.
E
in tal prosperità via piú feroce
divenendo il
circasso, alza la voce:
"Non
è questa Antiochia, e non è questa
la notte amica a
le cristiane frodi.
Vedete il chiaro sol, la gente desta,
altra
forma di guerra ed altri modi.
Dunque favilla in voi nulla piú
resta
de l'amor de la preda e de le lodi,
che sí tosto
cessate e sète stanche
per breve assalto, o Franchi no, ma
Franche?"
Cosí
ragiona, e in guisa tal s'accende
ne le sue furie il cavaliero
audace
che quell'ampia città ch'egli difende
non gli par
campo del suo ardir capace,
e si lancia a gran salti ove si
fende
il muro e la fessura adito face;
ed ingombra l'uscita, e
grida intanto
a Soliman che si vedeva a canto:
"Soliman,
ecco il loco ed ecco l'ora
che del nostro valor giudice fia.
Che
cessi? o di che temi? or costà fora
cerchi il pregio sovran
chi piú 'l desia."
Cosí gli disse, e l'uno e
l'altro allora
precipitosamente a prova uscia;
l'un da furor,
l'altro da onor rapito
e stimolato dal feroce invito.
Giunsero
inaspettati ed improvisi
sovra i nemici, e in paragon mostràrsi;
e
da lor tanti furo uomini uccisi,
e scudi ed elmi dissipati e
sparsi,
e scale tronche ed arieti incisi,
che di lor parve
quasi un monte farsi,
e mescolati a le ruine alzaro,
in vece
del caduto, alto riparo.
La
gente che pur dianzi ardí salire
al pregio eccelso di mural
corona,
non ch'or d'entrar ne la cittate aspire,
ma sembra a le
difese anco mal buona;
e cede al nuovo assalto, e in preda a
l'ire
de' duo guerrier le machine abbandona,
ch'ad altra guerra
ormai saran mal atte
tanto è 'l furor che le percote e
batte.
L'uno e
l'altro pagan, come il trasporta
l'impeto suo, già piú
e piú trascorre;
già 'l foco chiede a i cittadini, e
porta
duo pini fiammeggianti invèr la torre.
Cotali
uscir da la tartarea porta
sogliono, e sottosopra il mondo
porre,
le ministre di Pluto empie sorelle,
lor ceraste scotendo
e lor facelle.
Ma
l'invitto Tancredi, il qual altrove
confortava a l'assalto i suoi
latini,
tosto che vide l'incredibil prove,
e la gemina fiamma e
i duo gran pini,
tronca in mezzo le voci, e presto move
a
frenar il furor de' saracini;
e tal del suo valor dà segno
orrendo
che chi vinse e fugò fugge or perdendo.
Cosí de la
battaglia or qui lo stato
co 'l variar de la fortuna è
vòlto,
e in questo mezzo il capitan piagato
ne la gran
tenda sua già s'è raccolto
co 'l buon Sigier, con
Baldovino a lato,
de i mesti amici in gran concorso e folto;
ei
che s'affretta e di tirar s'affanna
de la piaga lo stral, rompe la
canna,
e la via
piú vicina e piú spedita
a la cura di lui vuol che
si prenda,
scoprasi ogni latebra a la ferita
e largamente si
risechi e fenda.
"Rimandatemi in guerra, onde fornita
non
sia co 'l dí prima ch'a lei mi renda."
Cosí
dice; e premendo il lungo cerro
d'una gran lancia, offre la gamba
al ferro.
E già
l'antico Eròtimo, che nacque
in riva al Po, s'adopra in sua
salute,
il qual de l'erbe e de le nobil acque
ben conosceva
ogni uso, ogni virtute;
caro a le Muse ancor, ma si compiacque
ne
la gloria minor de l'arti mute,
sol curò tòrre a
morte i corpi frali,
e potea far i nomi anco immortali.
Stassi
appoggiato, e con secura faccia
freme immobile al pianto il
capitano.
Quegli in gonna succinto e da le braccia
ripiegato il
vestir, leggiero e piano
or con l'erbe potenti in van
procaccia
trarne lo strale, or con la dotta mano;
e con la
destra il tenta e co 'l tenace
ferro il va riprendendo, e nulla
face.
L'arte sue
non seconda ed al disegno
par che per nulla via fortuna arrida;
e
nel piagato eroe giunge a tal segno
l'aspro martír che n'è
quasi omicida.
Or qui l'angiol custode, al duol indegno
mosso
di lui, colse dittamo in Ida:
erba crinita di purpureo
fiore
c'have in giovani foglie alto valore.
E
ben mastra natura a le montane
capre n'insegna la virtú
celata,
qualor vengon percosse e lor rimane
nel fianco affissa
la saetta alata.
Ouesta, benché da parti assai lontane,
in
un momento l'angelo ha recata,
e non veduto entro le mediche
onde
de gli apprestati bagni il succo infonde,
e
del fonte di Lidia i sacri umori
e l'odorata panacea vi mesce.
Ne
sparge il vecchio la ferita, e fuori
volontario per sé lo
stral se 'n esce
e si ristagna il sangue; e già i
dolori
fuggono da la gamba e 'l vigor cresce.
Grida Eròtimo
allor: "L'arte maestra
te non risana o la mortal mia destra,
maggior virtú
ti salva: un angiol, credo,
medico per te fatto, è sceso in
terra,
ché di celeste mano i segni vedo:
prendi l'arme;
che tardi? e riedi in guerra."
Avido di battaglia il pio
Goffredo
già ne l'ostro le gambe avolge e serra,
e
l'asta crolla smisurata, e imbraccia
il già deposto scudo e
l'elmo allaccia.
Uscí
dal chiuso vallo, e si converse
con mille dietro a la città
percossa:
sopra di polve il ciel gli si coperse,
tremò
sotto la terra al moto scossa;
e lontano appressar le genti
averse
d'alto il miraro, e corse lor per l'ossa
un tremor
freddo e strinse il sangue in gelo.
Egli alzò tre fiate il
grido al cielo.
Conosce
il popol suo l'altera voce
e 'l grido eccitator de la battaglia,
e
riprendendo l'impeto veloce
di novo ancora a la tenzon si
scaglia.
Ma già la coppia de i pagan feroce
nel rotto
accolta s'è de la muraglia,
difendendo ostinata il varco
fesso
dal buon Tancredi e da chi vien con esso.
Qui
disdegnoso giunge e minacciante
chiuso ne l'arme il capitan di
Francia,
e 'n su la prima giunta al fero Argante
l'asta ferrata
fulminando lancia.
Nessuna mural machina si vante
d'aventar con
piú forza alcuna lancia.
Tuona per l'aria la nodosa
trave,
v'oppon lo scudo Argante e nulla pave.
S'apre
lo scudo al frassino pungente,
né la dura corazza anco il
sostiene,
ché rompe tutte l'arme, e finalmente
il sangue
saracino a sugger viene.
Ma si svelle il circasso (e il duol non
sente)
da l'arme il ferro affisso e da le vene,
e 'n Goffredo
il ritorce: "A te" dicendo
"rimando il tronco, e
l'armi tue ti rendo."
L'asta,
ch'offesa or porta ed or vendetta,
per lo noto sentier vola e
rivola,
ma già colui non fère ove è
diretta,
ch'egli si spiega e 'l capo al colpo invola;
coglie il
fedel Sigiero, il qual ricetta
profondamente il ferro entro la
gola,
né gli rincresce, del suo caro duce
morendo in
vece, abbandonar la luce.
Quasi
in quel punto Soliman percote
con una scelce il cavalier
normando;
e questi al colpo si contorce e scote
e cade in giú
come paleo rotando.
Or piú Goffredo sostener non pote
l'ira
di tante offese, e impugna il brando,
e sovra la confusa alta
ruina
ascende, e move omai guerra vicina.
E
ben ei vi facea mirabil cose,
e contrasti seguiano aspri e
mortali,
ma fuor uscí la notte e 'l mondo ascose
sotto
il caliginoso orror de l'ali;
e l'ombre sue pacifiche
interpose
fra tante ire de' miseri mortali,
sí che cessò
Goffredo e fe' ritorno.
Cotal fine ebbe il sanguinoso giorno.
Ma pria che 'l
pio Buglione il campo ceda,
fa indietro riportar gli egri e i
languenti,
e già non lascia a' suoi nemici in
preda
l'avanzo de' suoi bellici tormenti;
pur salva la gran
torre avien che rieda,
primo terror de le nemiche genti,
come
che sia da l'orrida tempesta
sdruscita anch'essa in alcun loco e
pesta.
Da' gran
perigli uscita ella se 'n viene
giungendo a loco omai di
sicurezza.
Ma qual nave talor ch'a vele piene
corre il mar
procelloso e l'onde sprezza,
poscia in vista del porto o su
l'arene
o su i fallaci scogli un fianco spezza;
o qual destrier
passa le dubbie strade
e presso al dolce albergo incespa e cade;
tale inciampa la
torre, e tal da quella
parte che volse a l'impeto de' sassi
frange
due rote debili, sí ch'ella
ruinosa pendendo arresta i
passi.
Ma le suppone appoggi e la puntella
lo stuol che la
conduce e seco stassi,
insin che i pronti fabri intorno
vanno
saldando in lei d'ogni sua piaga il danno,
Cosí
Goffredo impone, il qual desia
che si racconci inanzi al novo
sole,
ed occupando questa e quella via
dispon le guardie
intorno a l'alta mole;
ma 'l suon ne la città chiaro
s'udia
di fabrili instrumenti e di parole,
e mille si vedean
fiaccole accese,
onde seppesi il tutto o si comprese.
Argomento
Prima da un suo fedel Clorinda ascolta
Del suo natal l'istoria, e
poi sen viene
Ignota al campo, a grand'impresa volta.
Questa
tragge ella a fine, indi s'avviene
In Tancredi, da cui l'alma l'è
tolta;
Ma ben, anzi 'l morir, battesmo ottiene.
Piange
l'estinta il Prenze. Argante giura
Di dar a chi l'uccise aspra
ventura.
Era
la notte, e non prendean ristoro
co 'l sonno ancor le faticose
genti:
ma qui vegghiando nel fabril lavoro
stavano i Franchi a
la custodia intenti,
e là i pagani le difese loro
gian
rinforzando tremule e cadenti
e reintegrando le già rotte
mura,
e de' feriti era comun la cura.
Curate
al fin le piaghe, e già fornita
de l'opere notturne era
qualcuna;
e rallentando l'altre, al sonno invita
l'ombra omai
fatta piú tacita e bruna.
Pur non accheta la guerriera
ardita
l'alma d'onor famelica e digiuna,
e sollecita l'opre ove
altri cessa.
Va seco Argante, e dice ella a se stessa:
"Ben oggi il
re de' Turchi e 'l buon Argante
fèr meraviglie inusitate e
strane,
ché soli uscír fra tante schiere e tante
e
vi spezzàr le machine cristiane.
Io (questo è il
sommo pregio onde mi vante)
d'alto rinchiusa oprai l'arme
lontane,
sagittaria, no 'l nego, assai felice.
Dunque sol tanto
a donna e piú non lice?
Quanto
me' fòra in monte od in foresta
a le fère aventar
dardi e quadrella,
ch'ove il maschio valor si manifesta
mostrarmi
qui tra cavalier donzella!
Ché non riprendo la feminea
vesta,
s'io ne son degna e non mi chiudo in cella?"
Cosí
parla tra sé; pensa e risolve
al fin gran cose ed al
guerrier si volve:
"Buona
pezza è, signor, che in sé raggira
un non so che
d'insolito e d'audace
la mia mente inquieta: o Dio l'inspira,
o
l'uom del suo voler suo Dio si face.
Fuor del vallo nemico accesi
mira
i lumi; io là n'andrò con ferro e face
e la
torre arderò: vogl'io che questo
effetto segua, il Ciel poi
curi il resto.
Ma
s'egli averrà pur che mia ventura
nel mio ritorno mi
rinchiuda il passo,
d'uom che 'n amor m'è padre a te la
cura
e de le care mie donzelle io lasso.
Tu ne l'Egitto
rimandar procura
le donne sconsolate e 'l vecchio lasso.
Fallo
per Dio, signor, ché di pietate
ben è degno quel
sesso e quella etate."
Stupisce
Argante, e ripercosso il petto
da stimoli di gloria acuti
sente.
"Tu là n'andrai," rispose "e me
negletto
qui lascierai tra la vulgare gente?
E da secura parte
avrò diletto
mirar il fumo e la favilla ardente?
No, no;
se fui ne l'arme a te consorte,
esser vo' ne la gloria e ne la
morte.
Ho core
anch'io che morte sprezza e crede
che ben si cambi con l'onor la
vita."
"Ben ne fèsti" diss'ella "eterna
fede
con quella tua sí generosa uscita.
Pure io femina
sono, e nulla riede
mia morte in danno a la città
smarrita;
ma se tu cadi (tolga il Ciel gli augúri),
or
chi sarà che piú difenda i muri?"
Replicò
il cavaliero: "Indarno adduci
al mio fermo voler fallaci
scuse.
Seguirò l'orme tue, se mi conduci;
ma le
precorrerò, se mi ricuse."
Concordi al re ne vanno, il
qual fra i duci
e fra i piú saggi suoi gli accolse e
chiuse.
Incominciò Clorinda: "O sire, attendi
a ciò
che dir voglianti, e in grado il prendi.
Argante
qui (né sarà vano il vanto)
quella macchina eccelsa
arder promette.
Io sarò seco, ed aspettiam sol tanto
che
stanchezza maggiore il sonno allette."
Sollevò il re
le palme, e un lieto pianto
giú per le crespe guancie a lui
cadette;
e: "Lodato sia tu," disse "che a i
servi
tuoi volgi gli occhi e 'l regno anco mi servi.
Né
già sí tosto caderà, se tali
animi forti in
sua difesa or sono.
Ma qual poss'io, coppia onorata, eguali
dar
a i meriti vostri o laude o dono?
Laudi la fama voi con
immortali
voci di gloria, e 'l mondo empia del suono.
Premio
v'è l'opra stessa, e premio in parte
vi fia del regno mio
non poca parte."
Sí
parla il re canuto, e si ristringe
or questa or quel teneramente
al seno.
Il Soldan, ch'è presente e non infinge
la
generosa invidia onde egli è pieno,
disse: "Né
questa spada in van si cinge;
verravvi a paro o poco dietro
almeno."
"Ah!" rispose Clorinda "andremo a
questa
impresa tutti? e se tu vien, chi resta?"
Cosí
gli disse, e con rifiuto altero
già s'apprestava a
ricusarlo Argante;
ma 'l re il prevenne, e ragionò
primiero
a Soliman con placido sembiante:
"Ben sempre tu,
magnanimo guerriero,
ne ti mostrasti a te stesso sembiante,
cui
nulla faccia di periglio unquanco
sgomentò, né mai
fosti in guerra stanco.
E
so che fuora andando opre faresti
degne di te; ma sconvenevol
parmi
che tutti usciate, e dentro alcun non resti
di voi che
sète i piú famosi in armi.
Né men consentirei
ch'andasser questi
(ché degno è il sangue lor che si
risparmi),
s'o men util tal opra o mi paresse
che fornita per
altri esser potesse.
Ma
poi che la gran torre in sua difesa
d'ogni intorno le guardie ha
cosí folte
che da poche mie genti esser offesa
non pote,
e inopportuno è uscir con molte,
la coppia che s'offerse a
l'alta impresa,
e 'n simil rischio si trovò piú
volte,
vada felice pur, ch'ella è ben tale
che sola piú
che mille insieme vale.
Tu,
come al regio onor piú si conviene,
con gli altri, prego,
in su le porte attendi;
e quando poi (ché n'ho secura
spene)
ritornino essi e desti abbian gli incendi,
se stuol
nemico seguitando viene,
lui risospingi e lor salva e
difendi."
Cosí l'un re diceva, e l'altro
cheto
rimaneva al suo dir, ma non già lieto.
Soggiunse allora
Ismeno: "Attender piaccia
a voi, ch'uscir dovete, ora piú
tarda,
sin che di varie tempre un misto i' faccia
ch'a la
machina ostil s'appigli e l'arda.
Forse allora averrà che
parte giaccia
di quello stuol che la circonda e guarda."
Ciò
fu concluso, e in sua magion ciascuno
aspetta il tempo al gran
fatto opportuno.
Depon
Clorinda le sue spoglie inteste
d'argento e l'elmo adorno e l'arme
altere,
e senza piuma o fregio altre ne veste
(infausto
annunzio!) ruginose e nere,
però che stima agevolmente in
queste
occulta andar fra le nemiche schiere.
È quivi
Arsete eunuco, il qual fanciulla
la nudrí da le fasce e da
la culla,
e per
l'orme di lei l'antico fianco
d'ogni intorno traendo, or la
seguia.
Vede costui l'arme cangiate, ed anco
del gran rischio
s'accorge ove ella gía,
e se n'affligge, e per lo crin che
bianco
in lei servendo ha fatto e per la pia
memoria de' suo'
uffici instando prega
che da l'impresa cessi; ed ella il nega.
Onde ei le disse
alfin: "Poi che ritrosa
sí la tua mente nel suo mal
s'indura
che né la stanca età, né la
pietosa
voglia, né i preghi miei, né il pianto
cura,
ti spiegherò piú oltre, e saprai cosa
di
tua condizion che t'era oscura;
poi tuo desir ti guidi o mio
consiglio."
Ei segue, ed ella inalza attenta il ciglio.
"Resse già
l'Etiopia, e forse regge
Senapo ancor con fortunato impero,
il
qual del figlio di Maria la legge
osserva, e l'osserva anco il
popol nero.
Quivi io pagan fui servo e fui tra gregge
d'ancelle
avolto in feminil mestiero,
ministro fatto de la regia moglie
che
bruna è sí, ma il bruno il bel non toglie.
N'arde il marito,
e de l'amore al foco
ben de la gelosia s'agguaglia il gelo.
Si
va in guisa avanzando a poco a poco
nel tormentoso petto il folle
zelo
che da ogn'uom la nasconde, e in chiuso loco
vorria
celarla a i tanti occhi del cielo.
Ella, saggia ed umil, di ciò
che piace
al suo signor fa suo diletto e pace.
D'una
pietosa istoria e di devote
figure la sua stanza era
dipinta.
Vergine, bianca il bel volto e le gote
vermiglia, è
quivi presso un drago avinta.
Con l'asta il mostro un cavalier
percote:
giace la fèra nel suo sangue estinta.
Quivi
sovente ella s'atterra, e spiega
le sue tacite colpe e piange e
prega.
Ingravida
fra tanto, ed espon fuori
(e tu fosti colei) candida figlia.
Si
turba; e de gli insoliti colori,
quasi d'un novo mostro, ha
meraviglia.
Ma perché il re conosce e i suoi
furori,
celargli il parto alfin si riconsiglia,
ch'egli avria
dal candor che in te si vede
argomentato in lei non bianca fede.
Ed in tua vece
una fanciulla nera
pensa mostrargli, poco inanzi nata.
E perché
fu la torre, ove chius'era,
da le donne e da me solo abitata,
a
me, che le fui servo e con sincera
mente l'amai, ti diè non
battezzata;
né già poteva allor battesmo darti,
ché
l'uso no 'l sostien di quelle parti.
Piangendo
a me ti porse, e mi commise
ch'io lontana a nudrir ti
conducessi.
Chi può dire il suo affanno, e in quante
guise
lagnossi e raddoppiò gli ultimi amplessi?
Bagnò
i baci di pianto, e fur divise
le sue querele da i singulti
spessi.
Levò alfin gli occhi, e disse: "O Dio, che
scerni
l'opre piú occulte, e nel mio cor t'interni,
s'immaculato è
questo cor, s'intatte
son queste membra e 'l marital mio
letto,
per me non prego, che mille altre ho fatte
malvagità:
son vile al tuo cospetto;
salva il parto innocente, al qual il
latte
nega la madre del materno petto.
Viva, e sol d'onestate a
me somigli;
l'essempio di fortuna altronde pigli.
Tu,
celeste guerrier, che la donzella
togliesti del serpente a gli
empi morsi,
s'accesi ne' tuo' altari umil facella,
s'auro o
incenso odorato unqua ti porsi,
tu per lei prega, sí che
fida ancella
possa in ogni fortuna a te raccòrsi."
Qui
tacque; e 'l cor le si rinchiuse e strinse,
e di pallida morte si
dipinse.
Io
piangendo ti presi, e in breve cesta
fuor ti portai, tra fiori e
frondi ascosa;
ti celai da ciascun, che né di questa
diedi
sospizion né d'altra cosa.
Me n'andai sconosciuto; e per
foresta
caminando di piante orride ombrosa,
vidi una tigre, che
minaccie ed ire
avea ne gli occhi, incontr'a me venire.
Sovra un arbore
i' salsi e te su l'erba
lasciai, tanta paura il cor mi
prese.
Giunse l'orribil fèra, e la superba
testa
volgendo, in te lo sguardo intese.
Mansuefece e raddolcio
l'acerba
vista con atto placido e cortese;
lenta poi s'avicina
e ti fa vezzi
con la lingua, e tu ridi e l'accarezzi;
ed
ischerzando seco, al fero muso
la pargoletta man secura stendi.
Ti
porge ella le mamme e, come è l'uso
di nutrice, s'adatta, e
tu le prendi.
Intanto io miro timido e confuso,
come uom faria
novi prodigi orrendi.
Poi che sazia ti vede omai la belva
del
suo latte, ella parte e si rinselva;
ed
io giú scendo e ti ricolgo, e torno
là 've prima fur
vòlti i passi miei,
e preso in picciol borgo alfin
soggiorno,
celatamente ivi nutrir ti fei.
Vi stetti insin che
'l sol correndo intorno
portò a i mortali e diece mesi e
sei.
Tu con lingua di latte anco snodavi
voci indistinte, e
incerte orme segnavi.
Ma
sendo io colà giunto ove dechina
l'etate omai cadente a la
vecchiezza,
ricco e sazio de l'or che la regina
nel partir
diemmi con regale ampiezza,
da quella vita errante e peregrina
ne
la patria ridurmi ebbi vaghezza,
e tra gli antichi amici in caro
loco
viver, temprando il verno al proprio foco.
Partomi,
e vèr l'Egitto onde son nato,
te conducendo meco, il corso
invio,
e giungo ad un torrente, e riserrato
quinci da i ladri
son, quindi dal rio.
Che debbo far? te, dolce peso amato,
lasciar
non voglio, e di campar desio.
Mi gitto a nuoto, ed una man ne
viene
rompendo l'onda e te l'altra sostiene.
Rapidissimo
è il corso, e in mezzo l'onda
in se medesma si ripiega e
gira;
ma, giunto ove piú volge e si profonda,
in cerchio
ella mi torce e giú mi tira.
Ti lascio allor, ma t'alza e
ti seconda
l'acqua, e secondo a l'acqua il vento spira,
e
t'espon salva in su la molle arena;
stanco, anelando, io poi vi
giungo a pena.
Lieto
ti prendo; e poi la notte, quando
tutte in alto silenzio eran le
cose,
vidi in sogno un guerrier che minacciando
a me su 'l
volto il ferro ignudo pose.
Imperioso disse: 'Io ti comando
ciò
che la madre sua primier t'impose:
che battezzi l'infante; ella è
diletta
del Cielo, e la sua cura a me s'aspetta.
Io
la guardo e difendo, io spirto diedi
di pietate a le fère e
mente a l'acque.
Misero te s'al sogno tuo non credi,
ch'è
del Ciel messaggiero.' E qui si tacque.
Svegliaimi e sorsi, e di
là mossi i piedi
come del giorno il primo raggio nacque;
ma
perché mia fé vera e l'ombre false
stimai, di tuo
battesmo non mi calse,
né
de i preghi materni; onde nudrita
pagana fosti, e 'l vero a te
celai.
Crescesti, e in arme valorosa e ardita
vincesti il sesso
e la natura assai:
fama e terre acquistasti, e qual tua vita
sia
stata poscia tu medesma il sai;
e sai non men che servo insieme e
padre
io t'ho seguita fra guerriere squadre.
Ier
poi su l'alba, a la mia mente oppressa
d'alta quiete e simile a la
morte,
nel sonno s'offerí l'imago stessa,
ma in piú
turbata vista e in suon piú forte:
'Ecco,' dicea 'fellon,
l'ora s'appressa
che dée cangiar Clorinda e vita e
sorte:
mia sarà mal tuo grado, e tuo fia il duolo.'
Ciò
disse, e poi n'andò per l'aria a volo.
Or
odi dunque tu che 'l Ciel minaccia
a te, diletta mia, strani
accidenti.
Io non so; forse a lui vien che dispiaccia
ch'altri
impugni la fé de' suoi parenti.
Forse è la vera
fede. Ah! giú ti piaccia
depor quest'arme e questi spirti
ardenti."
Qui tace e piagne; ed ella pensa e teme,
ch'un
altro simil sogno il cor le preme.
Rasserenando
il volto, al fin gli dice:
"Quella fé seguirò
che vera or parmi,
che tu co 'l latte già de la
nutrice
sugger mi fèsti e che vuoi dubbia or farmi;
né
per temenza lascierò, né lice
a magnanimo cor,
l'impresa e l'armi,
non se la morte nel piú fer
sembiante
che sgomenti i mortali avessi inante."
Poscia il
consola; e perché il tempo giunge
ch'ella deve ad effetto
il vanto porre,
parte e con quel guerrier si ricongiunge
che si
vuol seco al gran periglio esporre.
Con lor s'aduna Ismeno, e
instiga e punge
quella virtú che per se stessa corre;
e
lor porge di zolfo e di bitumi
due palle, e 'n cavo rame ascosi
lumi.
Escon
notturni e piani, e per lo colle
uniti vanno a passo lungo e
spesso,
tanto che a quella parte ove s'estolle
la machina
nemica omai son presso.
Lor s'infiamman gli spirti, e 'l cor ne
bolle
né può tutto capir dentro se stesso:
gli
invita al foco, al sangue, un fero sdegno.
Grida la guardia, e lor
dimanda il segno.
Essi
van cheti inanzi, onde la guarda
"A l'arme! a l'arme!"
in alto suon raddoppia;
ma piú non si nasconde e non è
tarda
al corso allor la generosa coppia.
In quel modo che
fulmine o bombarda
co 'l lampeggiar tuona in un punto e
scoppia,
movere ed arrivar, ferir lo stuolo,
aprirlo e
penetrar, fu un punto solo.
E
forza è pur che fra mill'arme e mille
percosse il lor
disegno al fin riesca.
Scopriro i chiusi lumi, e le
faville
s'appreser tosto a l'accensibil esca,
ch'a i legni poi
l'avolse e compartille.
Chi può dir come serpa e come
cresca
già da piú lati il foco? e come folto
turbi
il fumo a le stelle il puro volto?
Vedi
globi di fiamme oscure e miste
fra le rote del fumo in ciel
girarsi.
Il vento soffia, e vigor fa ch'acquiste
l'incendio e
in un raccolga i fochi sparsi.
Fère il gran lume con terror
le viste
de' Franchi, e tutti son presti ad armarsi.
La mole
immensa, e sí temuta in guerra,
cade, e breve ora opre sí
lunghe atterra.
Due
squadre de' cristiani intanto al loco
dove sorge l'incendio
accorron pronte.
Minaccia Argante: "Io spegnerò quel
foco
co 'l vostro sangue", e volge lor la fronte.
Pur
ristretto a Clorinda, a poco a poco
cede, e raccoglie i passi a
sommo il monte.
Cresce piú che torrente a lunga pioggia
la
turba, e li rincalza e con lor poggia.
Aperta
è l'Aurea porta, e quivi tratto
è il re, ch'armato
il popol suo circonda,
per raccòrre i guerrier da sí
gran fatto,
quando al tornar fortuna abbian seconda.
Saltano i
due su 'l limitare, e ratto
diretro ad essi il franco stuol
v'inonda,
ma l'urta e scaccia Solimano; e chiusa
è poi
la porta, e sol Clorinda esclusa.
Sola
esclusa ne fu perché in quell'ora
ch'altri serrò le
porte ella si mosse,
e corse ardente e incrudelita fora
a punir
Arimon che la percosse.
Punillo; e 'l fero Argante avisto
ancora
non s'era ch'ella sí trascorsa fosse,
ché
la pugna e la calca e l'aer denso
a i cor togliea la cura, a gli
occhi il senso.
Ma
poi che intepidí la mente irata
nel sangue del nemico e in
sé rivenne,
vide chiuse le porte e intorniata
sé
da' nemici, e morta allor si tenne.
Pur veggendo ch'alcuno in lei
non guata,
nov'arte di salvarsi le sovenne.
Di lor gente
s'infinge, e fra gli ignoti
cheta s'avolge; e non è chi la
noti.
Poi, come
lupo tacito s'imbosca
dopo occulto misfatto, e si desvia,
da la
confusion, da l'aura fosca
favorita e nascosa, ella se 'n
gía.
Solo Tancredi avien che lei conosca;
egli quivi è
sorgiunto alquanto pria;
vi giunse allor ch'essa Arimon
uccise:
vide e segnolla, e dietro a lei si mise.
Vuol
ne l'armi provarla: un uom la stima
degno a cui sua virtú
si paragone.
Va girando colei l'alpestre cima
verso altra
porta, ove d'entrar dispone.
Segue egli impetuoso, onde assai
prima
che giunga, in guisa avien che d'armi suone,
ch'ella si
volge e grida: "O tu, che porte,
che corri sí?"
Risponde: "E guerra e morte."
"Guerra
e morte avrai;" disse "io non rifiuto
darlati, se la
cerchi", e ferma attende.
Non vuol Tancredi, che pedon
veduto
ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna
l'uno e l'altro il ferro acuto,
ed aguzza l'orgoglio e l'ire
accende;
e vansi a ritrovar non altrimenti
che duo tori gelosi
e d'ira ardenti.
Degne
d'un chiaro sol, degne d'un pieno
teatro, opre sarian sí
memorande.
Notte, che nel profondo oscuro seno
chiudesti e ne
l'oblio fatto sí grande,
piacciati ch'io ne 'l tragga e 'n
bel sereno
a le future età lo spieghi e mande.
Viva la
fama loro; e tra lor gloria
splenda del fosco tuo l'alta memoria.
Non schivar, non
parar, non ritirarsi
voglion costor, né qui destrezza ha
parte.
Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi:
toglie
l'ombra e 'l furor l'uso de l'arte.
Odi le spade orribilmente
urtarsi
a mezzo il ferro, il piè d'orma non parte;
sempre
è il piè fermo e la man sempre 'n moto,
né
scende taglio in van, né punta a vòto.
L'onta
irrita lo sdegno a la vendetta,
e la vendetta poi l'onta
rinova;
onde sempre al ferir, sempre a la fretta
stimol novo
s'aggiunge e cagion nova.
D'or in or piú si mesce e piú
ristretta
si fa la pugna, e spada oprar non giova:
dansi co'
pomi, e infelloniti e crudi
cozzan con gli elmi insieme e con gli
scudi.
Tre volte
il cavalier la donna stringe
con le robuste braccia, ed
altrettante
da que' nodi tenaci ella si scinge,
nodi di fer
nemico e non d'amante.
Tornano al ferro, e l'uno e l'altro il
tinge
con molte piaghe; e stanco ed anelante
e questi e quegli
al fin pur si ritira,
e dopo lungo faticar respira.
L'un
l'altro guarda, e del suo corpo essangue
su 'l pomo de la spada
appoggia il peso.
Già de l'ultima stella il raggio
langue
al primo albor ch'è in oriente acceso.
Vede
Tancredi in maggior copia il sangue
del suo nemico, e sé
non tanto offeso.
Ne gode e superbisce. Oh nostra folle
mente
ch'ogn'aura di fortuna estolle!
Misero,
di che godi? oh quanto mesti
fiano i trionfi ed infelice il
vanto!
Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti)
di quel
sangue ogni stilla un mar di pianto.
Cosí tacendo e
rimirando, questi
sanguinosi guerrier cessaro alquanto.
Ruppe
il silenzio al fin Tancredi e disse,
perché il suo nome a
lui l'altro scoprisse:
"Nostra
sventura è ben che qui s'impieghi
tanto valor, dove
silenzio il copra.
Ma poi che sorte rea vien che ci neghi
e
lode e testimon degno de l'opra,
pregoti (se fra l'arme han loco i
preghi)
che 'l tuo nome e 'l tuo stato a me tu scopra,
acciò
ch'io sappia, o vinto o vincitore,
chi la mia morte o la vittoria
onore."
Risponde
la feroce: "Indarno chiedi
quel c'ho per uso di non far
palese.
Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi
un di quei due
che la gran torre accese."
Arse di sdegno a quel parlar
Tancredi,
e: "In mal punto il dicesti"; indi riprese
"il
tuo dir e 'l tacer di par m'alletta,
barbaro discortese, a la
vendetta."
Torna
l'ira ne' cori, e li trasporta,
benché debili in guerra. Oh
fera pugna,
u' l'arte in bando, u' già la forza è
morta,
ove, in vece, d'entrambi il furor pugna!
Oh che
sanguigna e spaziosa porta
fa l'una e l'altra spada, ovunque
giugna,
ne l'arme e ne le carni! e se la vita
non esce, sdegno
tienla al petto unita.
Qual
l'alto Egeo, perché Aquilone o Noto
cessi, che tutto prima
il volse e scosse,
non s'accheta ei però, ma 'l suono e 'l
moto
ritien de l'onde anco agitate e grosse,
tal, se ben manca
in lor co 'l sangue vòto
quel vigor che le braccia a i
colpi mosse,
serbano ancor l'impeto primo, e vanno
da quel
sospinti a giunger danno a danno.
Ma
ecco omai l'ora fatale è giunta
che 'l viver di Clorinda al
suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
che vi
s'immerge e 'l sangue avido beve;
e la veste, che d'or vago
trapunta
le mammelle stringea tenera e leve,
l'empie d'un caldo
fiume. Ella già sente
morirsi, e 'l piè le manca
egro e languente.
Segue
egli la vittoria, e la trafitta
vergine minacciando incalza e
preme.
Ella, mentre cadea, la voce afflitta
movendo, disse le
parole estreme;
parole ch'a lei novo un spirto ditta,
spirto di
fé, di carità, di speme:
virtú ch'or Dio le
infonde, e se rubella
in vita fu, la vuole in morte ancella.
"Amico, hai
vinto: io ti perdon... perdona
tu ancora, al corpo no, che nulla
pave,
a l'alma sí; deh! per lei prega, e dona
battesmo a
me ch'ogni mia colpa lave."
In queste voci languide
risuona
un non so che di flebile e soave
ch'al cor gli scende
ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lagrimar gli invoglia e
sforza.
Poco
quindi lontan nel sen del monte
scaturia mormorando un picciol
rio.
Egli v'accorse e l'elmo empié nel fonte,
e tornò
mesto al grande ufficio e pio.
Tremar sentí la man, mentre
la fronte
non conosciuta ancor sciolse e scoprio.
La vide, la
conobbe, e restò senza
e voce e moto. Ahi vista! ahi
conoscenza!
Non
morí già, ché sue virtuti accolse
tutte in
quel punto e in guardia al cor le mise,
e premendo il suo affanno
a dar si volse
vita con l'acqua a chi co 'l ferro uccise.
Mentre
egli il suon de' sacri detti sciolse,
colei di gioia trasmutossi,
e rise;
e in atto di morir lieto e vivace,
dir parea: "S'apre
il cielo; io vado in pace."
D'un
bel pallore ha il bianco volto asperso,
come a' gigli sarian miste
viole,
e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso
sembra
per la pietate il cielo e 'l sole;
e la man nuda e fredda alzando
verso
il cavaliero in vece di parole
gli dà pegno di
pace. In questa forma
passa la bella donna, e par che dorma.
Come l'alma
gentile uscita ei vede,
rallenta quel vigor ch'avea raccolto;
e
l'imperio di sé libero cede
al duol già fatto
impetuoso e stolto,
ch'al cor si stringe e, chiusa in breve
sede
la vita, empie di morte i sensi e 'l volto.
Già
simile a l'estinto il vivo langue
al colore, al silenzio, a gli
atti, al sangue.
E
ben la vita sua sdegnosa e schiva,
spezzando a forza il suo
ritegno frale,
la bella anima sciolta al fin seguiva,
che poco
inanzi a lei spiegava l'ale;
ma quivi stuol de' Franchi a caso
arriva,
cui trae bisogno d'acqua o d'altro tale,
e con la donna
il cavalier ne porta,
in sé mal vivo e morto in lei ch'è
morta.
Però
che 'l duce loro ancor discosto
conosce a l'arme il principe
cristiano,
onde v'accorre, e poi ravisa tosto
la vaga estinta,
e duolsi al caso strano.
E già lasciar non volle a i lupi
esposto
il bel corpo che stima ancor pagano,
ma sovra l'altrui
braccia ambi li pone,
e ne vien di Tancredi al padiglione.
A fatto ancor nel
piano e lento moto
non si risente il cavalier ferito;
pur
fievolmente geme, e quinci è noto
che 'l suo corso vital
non è fornito.
Ma l'altro corpo tacito ed immoto
dimostra
ben che n'è lo spirto uscito.
Cosí portati, è
l'uno e l'altro appresso;
ma in differente stanza al fine è
messo.
I pietosi
scudier già sono intorno
con vari uffici al cavalier
giacente,
e già se 'n riede a i languidi occhi il giorno,
e
le mediche mani e i detti ei sente;
ma pur dubbiosa ancor del suo
ritorno,
non s'assecura attonita la mente.
Stupido intorno ei
guarda, e i servi e 'l loco
al fin conosce; e dice afflitto e
fioco:
"Io
vivo? io spiro ancora? e gli odiosi
rai miro ancor di questo
infausto die?
Dí testimon de' miei misfatti ascosi,
che
rimprovera a me le colpe mie!
Ahi! man timida e lenta, or ché
non osi,
tu che sai tutte del ferir le vie,
tu, ministra di
morte empia ed infame,
di questa vita rea troncar lo stame?
Passa pur questo
petto, e feri scempi
co 'l ferro tuo crudel fa' del mio core;
ma
forse, usata a' fatti atroci ed empi,
stimi pietà dar morte
al mio dolore.
Dunque i' vivrò tra memorandi essempi
misero
mostro d'infelice amore:
misero mostro, a cui sol pena è
degna
de l'immensa impietà la vita indegna.
Vivrò
fra i miei tormenti e le mie cure,
mie giuste furie, forsennato,
errante;
paventarò l'ombre solinghe e scure
che 'l primo
error mi recheranno inante,
e del sol che scoprí le mie
sventure,
a schivo ed in orrore avrò il sembiante.
Temerò
me medesmo; e da me stesso
sempre fuggendo, avrò me sempre
appresso.
Ma
dove, oh lasso me!, dove restaro
le reliquie del corpo e bello e
casto?
Ciò ch'in lui sano i miei furor lasciaro,
dal
furor de le fère è forse guasto.
Ahi troppo nobil
preda! ahi dolce e caro
troppo e pur troppo prezioso pasto!
ahi
sfortunato! in cui l'ombre e le selve
irritaron me prima e poi le
belve.
Io pur
verrò là dove sète; e voi
meco avrò,
s'anco sète, amate spoglie.
Ma s'egli avien che i vaghi
membri suoi
stati sian cibo di ferine voglie,
vuo' che la bocca
stessa anco me ingoi,
e 'l ventre chiuda me che lor
raccoglie:
onorata per me tomba e felice,
ovunque sia, s'esser
con lor mi lice."
Cosí
parla quel misero, e gli è detto
ch'ivi quel corpo avean
per cui si dole:
rischiarar parve il tenebroso aspetto,
qual le
nube un balen che passe e vóle;
e da i riposi sollevò
del letto
l'inferma de le membra e tarda mole;
e traendo a gran
pena il fianco lasso,
colà rivolse vacillando il passo.
Ma come giunse, e
vide in quel bel seno,
opera di sua man, l'empia ferita,
e
quasi un ciel notturno anco sereno
senza splendor la faccia
scolorita,
tremò cosí che ne cadea, se meno
era
vicina la fedele aita.
Poi disse: "Oh viso che poi far la
morte
dolce, ma raddolcir non puoi mia sorte!
Oh
bella destra che 'l soave pegno
d'amicizia e di pace a me
porgesti!
quali or, lasso!, vi trovo? e qual ne vegno?
E voi,
leggiadre membra, or non son questi
del mio ferino e scelerato
sdegno
vestigi miserabili e funesti?
Oh di par con la man luci
spietate:
essa le piaghe fe', voi le mirate.
Asciutte
le mirate? or corra, dove
nega d'andare il pianto, il sangue
mio."
Qui tronca le parole, e come il move
suo disperato
di morir desio,
squarcia le fasce e le ferite, e piove
da le
sue piaghe essacerbate un rio;
e s'uccidea, ma quella doglia
acerba,
co 'l trarlo di se stesso, in vita il serba.
Posto su 'l
letto, e l'anima fugace
fu richiamata a gli odiosi uffici.
Ma
la garrula fama omai non tace
l'aspre sue angoscie e i suoi casi
infelici.
Vi tragge il pio Goffredo, e la verace
turba
v'accorre de' piú degni amici.
Ma né grave ammonir,
né pregar dolce
l'ostinato de l'alma affanno molce.
Qual in membro
gentil piaga mortale
tocca s'inaspra e in lei cresce il
dolore,
tal da i dolci conforti in sí gran male
piú
inacerbisce medicato il core.
Ma il venerabil Piero, a cui ne
cale
come d'agnella inferma al buon pastore,
con parole
gravissime ripiglia
il vaneggiar suo lungo, e lui consiglia:
"O Tancredi,
Tancredi, o da te stesso
troppo diverso e da i princípi
tuoi,
chi sí t'assorda? e qual nuvol sí spesso
di
cecità fa che veder non puoi?
Questa sciagura tua del Cielo
è un messo;
non vedi lui? non odi i detti suoi?
che ti
sgrida, e richiama a la smarrita
strada che pria segnasti e te
l'addita?
A gli
atti del primiero ufficio degno
di cavalier di Cristo ei ti
rappella,
che lasciasti per farti (ahi cambio indegno!)
drudo
d'una fanciuila a Dio rubella.
Seconda aversità, pietoso
sdegno
con leve sferza di là su flagella
tua folle
colpa, e fa di tua salute
te medesmo ministro; e tu 'l rifiute?
Rifiuti dunque,
ahi sconoscente!, il dono
del Ciel salubre e 'ncontra lui
t'adiri?
Misero, dove corri in abbandono
a i tuoi sfrenati e
rapidi martíri?
Sei giunto, e pendi già cadente e
prono
su 'l precipizio eterno; e tu no 'l miri?
Miralo, prego,
e te raccogli, e frena
quel dolor ch'a morir doppio ti mena."
Tace, e in colui
de l'un morir la tema
poté de l'altro intepidir la
voglia.
Nel cor dà loco a que' conforti, e scema
l'impeto
interno de l'interna doglia,
ma non cosí che ad or ad or
non gema
e che la lingua a lamentar non scioglia,
ora seco
parlando, or con la sciolta
anima che dal Ciel forse l'ascolta.
Lei nel partir,
lei nel tornar del sole
chiama con voce stanca, e prega e
plora,
come usignuol cui 'l villan duro invole
dal nido i figli
non pennuti ancora,
che in miserabil canto afflitte e sole
piange
le notti, e n'empie i boschi e l'òra.
Al fin co 'l novo dí
rinchiude alquanto
i lumi, e 'l sonno in lor serpe fra 'l pianto.
Ed ecco in sogno
di stellata veste
cinta gli appar la sospirata amica:
bella
assai piú, ma lo splendor celeste
orna e non toglie la
notizia antica;
e con dolce atto di pietà le meste
luci
par che gli asciughi, e cosí dica:
"Mira come son
bella e come lieta,
fedel mio caro, e in me tuo duolo acqueta.
Tale i' son, tua
mercé: tu me da i vivi
del mortal mondo, per error,
togliesti;
tu in grembo a Dio fra gli immortali e divi,
per
pietà, di salir degna mi fèsti.
Quivi io beata
amando godo, e quivi
spero che per te loco anco s'appresti,
ove
al gran Sole e ne l'eterno die
vagheggiarai le sue bellezze e mie.
Se tu medesmo non
t'invidii il Cielo
e non travii co 'l vaneggiar de' sensi,
vivi
e sappi ch'io t'amo, e non te 'l celo,
quanto piú creatura
amar conviensi."
Cosí dicendo, fiammeggiò di
zelo
per gli occhi, fuor del mortal uso accensi;
poi nel
profondo de' suoi rai si chiuse
e sparve, e novo in lui conforto
infuse.
Consolato
ei si desta e si rimette
de' medicanti a la discreta aita,
e
intanto sepellir fa le dilette
membra ch'informò già
la nobil vita.
E se non fu di ricche pietre elette
la tomba e
da man dedala scolpita,
fu scelto almeno il sasso, e chi gli
diede
figura, quanto il tempo ivi concede.
Quivi
da faci in lungo ordine accese
con nobil pompa accompagnar la
feo,
e le sue arme, a un nudo pin sospese,
vi spiegò
sovra in forma di trofeo.
Ma come prima alzar le membra offese
nel
dí seguente il cavalier poteo,
di riverenza pieno e di
pietate
visitò le sepolte ossa onorate.
Giunto
a la tomba, ove al suo spirto vivo
dolorosa prigione il Ciel
prescrisse,
pallido, freddo, muto, e quasi privo
di movimento,
al marmo gli occhi affisse.
Al fin, sgorgando un lagrimoso
rivo,
in un languido: "oimè!" proruppe, e
disse:
"O sasso amato ed onorato tanto,
che dentro hai le
mie fiamme e fuori il pianto,
non
di morte sei tu, ma di vivaci
ceneri albergo, ove è riposto
Amore;
e ben sento io da te l'usate faci,
men dolci sí,
ma non men calde al core.
Deh! prendi i miei sospiri, e questi
baci
prendi ch'io bagno di doglioso umore;
e dalli tu, poi
ch'io non posso, almeno
a le amate reliquie c'hai nel seno.
Dalli lor tu, ché
se mai gli occhi gira
l'anima bella a le sue belle spoglie,
tua
pietate e mio ardir non avrà in ira,
ch'odio o sdegno là
su non si raccoglie.
Perdona ella il mio fallo, e sol respira
in
questa speme il cor fra tante doglie.
Sa ch'empia è sol la
mano; e non l'è noia
che, s'amando lei vissi, amando moia.
Ed amando morrò:
felice giorno,
quando che sia; ma piú felice molto
se
come errando or vado a te d'intorno,
allor sarò dentro al
tuo grembo accolto.
Faccian l'anime amiche in Ciel soggiorno,
sia
l'un cenere e l'altro in un sepolto;
ciò che 'l viver non
ebbe, abbia la morte.
Oh se sperar ciò lice, altera sorte!"
Confusamente si
bisbiglia intanto
del caso reo ne la rinchiusa terra.
Poi
s'accerta e divulga, e in ogni canto
de la città smarrita
il romor erra
misto di gridi e di femineo pianto;
non
altramente che se presa in guerra
tutta ruini, e 'l foco e i
nemici empi
volino per le case e per li tèmpi.
Ma
tutti gli occhi Arsete in sé rivolve,
miserabil di gemito e
d'aspetto.
Ei come gli altri in lagrime non solve
il duol, ché
troppo è d'indurato affetto;
ma i bianchi crini suoi
d'immonda polve
si sparge e brutta, e fiede il volto e 'l
petto.
Or mentre in lui vòlte le turbe sono,
va in mezzo
Argante e parla in cotal suono:
"Ben
volev'io, quando primier m'accorsi
che fuor si rimanea la donna
forte,
seguirla immantinente; e ratto corsi
per correr seco una
medesma sorte.
Che non feci o non dissi? o quai non
porsi
preghiere al re che fèsse aprir le porte?
Ei me
pregante, e contendente invano,
con l'imperio affrenò c'ha
qui soprano,
Ahi!
che s'io allora usciva, o dal periglio
qui ricondotta la guerriera
avrei,
o chiusi, ov'ella il terren fe' vermiglio,
con memorabil
fine i giorni miei.
Ma che potevo io piú? parve al
consiglio
de gli uomini altramente e de gli dèi:
ella
morí di fatal morte, ed io
quant'or conviensi a me già
non oblio.
Odi,
Gierusalem, ciò che prometta
Argante; odi 'l tu, Cielo; e
se in ciò manco,
fulmina su 'l mio capo: io la
vendetta
giuro di far ne l'omicida franco,
che per la costei
morte a me s'aspetta,
né questa spada mai depor dal
fianco
insin ch'ella a Tancredi il cor non passi
e 'l cadavero
infame a i corvi lassi."
Cosí
disse egli, e l'aure popolari
con applauso seguír le voci
estreme;
e imaginando sol, temprò gli amari
l'aspettata
vendetta in quel che geme.
Oh vani giuramenti! ecco
contrari
seguir tosto gli effetti a l'alta speme,
e cader
questi in tenzon pari estinto
sotto colui ch'ei fa già
preso e vinto.
Argomento
A
custodir la selva Ismeno caccia
Gli empi demoni; e questi in
strani mostri
Conversi, sol l'aspetto lor discaccia
Quei che
van per tagliar gli ombrosi chiostri.
Vavvi Tancredi che secura
faccia;
Ma pietà il tien, che 'l suo valor non mostri.
Il
campo cui soverchia arsura offende,
Copiosa pioggia vigoroso
rende.
Ma
cadde a pena in cenere l'immensa
machina espugnatrice de la
mura,
che 'n sé novi argomenti Ismen ripensa
perché
piú resti la città secura;
onde a i Franchi impedir
ciò che dispensa
lor di materia il bosco egli procura,
onde
contra Sion battuta e scossa
torre nova rifarsi indi non possa.
Sorge non lunge a
le cristiane tende
tra solitarie valli alta foresta,
foltissima
di piante antiche, orrende,
che spargon d'ogni intorno ombra
funesta.
Qui, ne l'ora che 'l sol piú chiaro splende,
è
luce incerta e scolorita e mesta,
quale in nubilo ciel dubbia si
vede
se 'l dí a la notte o s'ella a lui succede.
Ma quando parte
il sol, qui tosto adombra
notte, nube, caligine ed orrore
che
rassembra infernal, che gli occhi ingombra
di cecità,
ch'empie di tema il core;
né qui gregge od armenti a'
paschi, a l'ombra
guida bifolco mai, guida pastore,
né
v'entra peregrin, se non smarrito,
ma lunge passa e la dimostra a
dito.
Qui
s'adunan le streghe, ed il suo vago
con ciascuna di lor notturno
viene;
vien sovra i nembi, e chi d'un fero drago,
e chi forma
d'un irco informe tiene:
concilio infame, che fallace imago
suol
allettar di desiato bene
a celebrar con pompe immonde e sozze
i
profani conviti e l'empie nozze.
Cosí
credeasi, ed abitante alcuno
dal fero bosco mai ramo non
svelse;
ma i Franchi il violàr, perch'ei sol
uno
somministrava lor machine eccelse.
Or qui se 'n venne il
mago, e l'opportuno
alto silenzio de la notte scelse,
de la
notte che prossima successe,
e suo cerchio formovvi e i segni
impresse.
E
scinto e nudo un piè nel cerchio accolto,
mormorò
potentissime parole.
Girò tre volte a l'oriente il
volto,
tre volte a i regni ove dechina il sole,
e tre scosse la
verga ond'uom sepolto
trar de la tomba e dargli il moto sòle,
e
tre co 'l piede scalzo il suol percosse;
poi con terribil grido il
parlar mosse:
"Udite,
udite, o voi che da le stelle
precipitàr giú i
folgori tonanti:
sí voi che le tempeste e le
procelle
movete, abitator de l'aria erranti,
come voi che a le
inique anime felle
ministri sète de li eterni
pianti;
cittadini d'Averno, or qui v'invoco,
e te, signor de'
regni empi del foco.
Prendete
in guardia questa selva, e queste
piante che numerate a voi
consegno.
Come il corpo è de l'alma albergo e veste,
cosí
d'alcun di voi sia ciascun legno,
onde il Franco ne fugga o almen
s'arreste
ne' primi colpi, e tema il vostro sdegno."
Disse,
e quelle ch'aggiunse orribil note,
lingua, s'empia non è,
ridir non pote.
A
quel parlar le faci, onde s'adorna
il seren de la notte, egli
scolora;
e la luna si turba e le sue corna
di nube avolge, e
non appar piú fora.
Irato i gridi a raddoppiar ei
torna:
"Spirti invocati, or non venite ancora?
onde tanto
indugiar? forse attendete
voci ancor piú potenti o piú
secrete?
Per
lungo disusar già non si scorda
de l'arti crude il píú
efficace aiuto;
e so con lingua anch'io di sangue lorda
quel
nome proferir grande e temuto,
a cui né Dite mai ritrosa o
sorda
né trascurato in ubidir fu Pluto.
Che sí?...
che sí?..." Volea piú dir, ma intanto
conobbe
ch'esseguito era lo 'ncanto.
Venieno
innumerabili, infiniti
spirti, parte che 'n aria alberga ed
erra,
parte di quei che son dal fondo usciti
caliginoso e tetro
de la terra;
lenti e del gran divieto anco smarriti,
ch'impedí
loro il trattar l'arme in guerra,
ma già venirne qui lor
non si toglie
e ne' tronchi albergare e tra le foglie.
Il
mago, poi ch'omai nulla piú manca
al suo disegno, al re
lieto se 'n riede:
"Signor, lascia ogni dubbio e 'l cor
rinfranca
ch'omai secura è la regal tua sede,
né
potrà rinovar piú l'oste franca
l'alte machine sue
come ella crede."
Cosí gli dice, e poi di parte in
parte
narra i successi de la magica arte.
Soggiunse
appresso: "Or cosa aggiungo a queste
fatte da me ch'a me non
meno aggrada.
Sappi che tosto nel Leon celeste
Marte co 'l sol
fia ch'ad unir si vada,
né tempreran le fiamme lor
moleste
aure, o nembi di pioggia o di rugiada,
ché
quanto in cielo appar, tutto predice
aridissima arsura ed
infelice;
onde
qui caldo avrem qual l'hanno a pena
gli adusti Nasamoni o i
Garamanti.
Pur a noi fia men grave in città piena
d'acque
e d'ombre sí fresche e d'agi tanti,
ma i Franchi in terra
asciutta e non amena
già non saranlo a tolerar bastanti;
e
pria dómi dal cielo, agevolmente
fian poi sconfitti da
l'egizia gente.
Tu
vincerai sedendo, e la fortuna
non cred'io che tentar piú
ti convegna.
Ma se 'l circasso alter che posa alcuna
non vuole
e, benché onesta, anco la sdegna,
t'affretta come sòle
e t'importuna,
trova modo pur tu ch'a freno il tegna,
ché
molto non andrà che 'l Cielo amico
a te pace darà,
guerra al nemico."
Or
questo udendo il re, ben s'assecura,
sí che non teme le
nemiche posse.
Già riparate in parte avea le mura
che
de' montoni l'impeto percosse;
con tutto ciò non rallentò
la cura
di ristorarle, ove sian rotte o smosse.
Le turbe tutte,
e cittadine e serve,
s'impiegan qui: l'opra continua ferve.
Ma in questo
mezzo il pio Buglion non vòle
che la forte cittade in van
si batta,
se non è prima la maggior sua mole
ed alcuna
altra machina rifatta.
E i fabri al bosco invia che porger sòle
ad
uso tal pronta materia ed atta.
Vanno costor su l'alba a la
foresta,
ma timor novo al suo apparir gli arresta.
Qual
semplice bambin mirar non osa
dove insolite larve abbia
presenti,
o come pave ne la notte ombrosa,
imaginando pur
mostri e portenti,
cosí temean, senza saper qual cosa
siasi
quella però che gli sgomenti,
se non che 'l timor forse a i
sensi finge
maggior prodigi di Chimera o Sfinge.
Torna
la turba, e misera e smarrita
varia e confonde sí le cose e
i detti
ch'ella nel riferir n'è poi schernita,
né
son creduti i mostruosi effetti.
Allor vi manda il capitano
ardita
e forte squadra di guerrieri eletti,
perché sia
scorta a l'altra e 'n esseguire
i magisteri suoi le porga ardire.
Questi,
appressando ove lor seggio han posto
gli empi demoni in quel
selvaggio orrore,
non rimiràr le nere ombre sí
tosto,
che lor si scosse e tornò ghiaccio il core.
Pur
oltra ancor se 'n gian, tenendo ascosto
sotto audaci sembianti il
vil timore;
e tanto s'avanzàr che lunge poco
erano omai
da l'incantato loco.
Esce
allor de la selva un suon repente
che par rimbombo di terren che
treme,
e 'l mormorar de gli Austri in lui si sente
e 'l pianto
d'onda che fra scogli geme.
Come rugge il leon, fischia il
serpente,
come urla il lupo e come l'orso freme
v'odi, e v'odi
le trombe, e v'odi il tuono:
tanti e sí fatti suoni esprime
un suono.
In
tutti allor s'impallidír le gote
e la temenza a mille segni
apparse,
né disciplina tanto o ragion pote
ch'osin di
gire inanzi o di fermarse,
ch'a l'occulta virtú che gli
percote
son le difese loro anguste e scarse.
Fuggono al fine; e
un d'essi, in cotal guisa
scusando il fatto, il pio Buglion
n'avisa:
"Signor,
non è di noi chi piú si vante
troncar la selva,
ch'ella è sí guardata
ch'io credo (e 'l giurerei)
che in quelle piante
abbia la reggia sua Pluton traslata.
Ben
ha tre volte e piú d'aspro diamante
ricinto il cor chi
intrepido la guata;
né senso v'ha colui ch'udir
s'arrischia
come tonando insieme rugge e fischia."
Cosí
costui parlava. Alcasto v'era
fra molti che l'udian presente a
sorte:
l'uom di temerità stupida e fera,
sprezzator de'
mortali e de la morte;
che non avria temuto orribil fèra,
né
mostro formidabile ad uom forte,
né tremoto, né
folgore, né vento,
né s'altro ha il mondo piú
di violento.
Crollava
il capo e sorridea dicendo:
"Dove costui non osa, io gir
confido;
io sol quel bosco di troncar intendo
che di torbidi
sogni è fatto nido.
Già no 'l mi vieterà
fantasma orrendo
né di selva o d'augei fremito o grido,
o
pur tra quei sí spaventosi chiostri
d'ir ne l'inferno il
varco a me si mostri."
Cotal
si vanta al capitano, e tolta
da lui licenza il cavalier
s'invia;
e rimira la selva, e poscia ascolta
quel che da lei
novo rimbombo uscia,
né però il piede audace
indietro volta
ma securo e sprezzante è come pria;
e già
calcato avrebbe il suol difeso,
ma gli s'oppone (o pargli) un foco
acceso.
Cresce il
gran foco, e 'n forma d'alte mura
stende le fiamme torbide e
fumanti;
e ne cinge quel bosco, e l'assecura
ch'altri gli
arbori suoi non tronchi e schianti.
Le maggiori sue fiamme hanno
figura
di castelli superbi e torreggianti,
e di tormenti
bellici ha munite
le rocche sue questa novella Dite.
Oh
quanti appaion mostri armati in guardia
de gli alti merli e in che
terribil faccia!
De' quai con occhi biechi altri il riguarda,
e
dibattendo l'arme altri il minaccia.
Fugge egli al fine, e ben la
fuga è tarda,
qual di leon che si ritiri in caccia,
ma
pure è fuga; e pur gli scote il petto
timor, sin a quel
punto ignoto affetto.
Non
s'avide esso allor d'aver temuto,
ma fatto poi lontan ben se
n'accorse;
e stupor n'ebbe e sdegno, e dente acuto
d'amaro
pentimento il cor gli morse.
E, di trista vergogna acceso e
muto,
attonito in disparte i passi torse,
ché quella
faccia alzar, già sí orgogliosa,
ne la luce de gli
uomini non osa.
Chiamato
da Goffredo, indugia e scuse
trova a l'indugio, e di restarsi
agogna.
Pur va, ma lento; e tien le labra chiuse
o gli ragiona
in guisa d'uom che sogna.
Diffetto e fuga il capitan concluse
in
lui da quella insolita vergogna,
poi disse: "Or ciò
che fia? forse prestigi
son questi o di natura alti prodigi?
Ma s'alcun v'è
cui nobil voglia accenda
di cercar que' salvatichi
soggiorni,
vadane pure, e la ventura imprenda
e nunzio almen
piú certo a noi ritorni."
Cosí disse egli, e la
gran selva orrenda
tentata fu ne' tre seguenti giorni
da i piú
famosi; e pur alcun non fue
che non fuggisse a le minaccie sue.
Era il prence
Tancredi intanto sorto
a sepellir la sua diletta amica,
e
benché in volto sia languido e smorto
e mal atto a portar
elmo o lorica,
nulla di men, poi che 'l bisogno ha scorto,
ei
non ricusa il rischio o la fatica,
ché 'l cor vivace il suo
vigor trasfonde
al corpo sí che par ch'esso n'abbonde.
Vassene il
valoroso in sé ristretto,
e tacito e guardingo, al rischio
ignoto,
e sostien de la selva il fero aspetto
e 'l gran romor
del tuono e del tremoto;
e nulla sbigottisce, e sol nel
petto
sente, ma tosto il seda, un picciol moto.
Trapassa, ed
ecco in quel silvestre loco
sorge improvisa la città del
foco.
Allor
s'arretra, e dubbio alquanto resta
fra sé dicendo: "Or
qui che vaglion l'armi?
Ne le fauci de' mostri, e 'n gola a
questa
devoratrice fiamma andrò a gettarmi?
Non mai la
vita, ove cagione onesta
del comun pro la chieda, altri
risparmi,
ma né prodigo sia d'anima grande
uom degno; e
tale è ben chi qui la spande.
Pur
l'oste che dirà, s'indarno i' riedo?
qual altra selva ha di
troncar speranza?
Né intentato lasciar vorrà
Goffredo
mai questo varco. Or s'oltre alcun s'avanza,
forse
l'incendio che qui sorto i' vedo
fia d'effetto minor che di
sembianza;
ma seguane che pote." E in questo dire,
dentro
saltovvi. Oh memorando ardire!
Né
sotto l'arme già sentir gli parve
caldo o fervor come di
foco intenso;
ma pur, se fosser vere fiamme o larve,
mal poté
giudicar sí tosto il senso,
perché repente a pena
tocco sparve
quel simulacro, e giunse un nuvol denso
che portò
notte e verno; e 'l verno ancora
e l'ombra dileguossi in picciol
ora.
Stupido sí,
ma intrepido rimane
Tancredi; e poi che vede il tutto cheto,
mette
securo il piè ne le profane
soglie e spia de la selva ogni
secreto.
Né piú apparenze inusitate e strane,
né
trova alcun fra via scontro o divieto,
se non quanto per sé
ritarda il bosco
la vista e i passi inviluppato e fosco.
Al fine un largo
spazio in forma scorge
d'anfiteatro, e non è pianta in
esso,
salvo che nel suo mezzo altero sorge,
quasi eccelsa
piramide, un cipresso.
Colà si drizza, e nel mirar
s'accorge
ch'era di vari segni il tronco impresso,
simili a
quei che in vece usò di scritto
l'antico già
misterioso Egitto.
Fra
i segni ignoti alcune note ha scorte
del sermon di Soria ch'ei ben
possede:
"O tu che dentro a i chiostri de la morte
osasti
por, guerriero audace, il piede,
deh! se non sei crudel quanto sei
forte,
deh! non turbar questa secreta sede.
Perdona a l'alme
omai di luce prive:
non dée guerra co' morti aver chi
vive."
Cosí
dicea quel motto. Egli era intento
de le brevi parole a i sensi
occulti:
fremere intanto udia continuo il vento
tra le frondi
del bosco e tra i virguiti,
e trarne un suon che flebile
concento
par d'umani sospiri e di singulti,
e un non so che
confuso instilla al core
di pietà, di spavento e di dolore.
Pur tragge al fin
la spada, e con gran forza
percote l'alta pianta. Oh
meraviglia!
manda fuor sangue la recisa scorza,
e fa la terra
intorno a sé vermiglia.
Tutto si raccapriccia, e pur
rinforza
il colpo e 'l fin vederne ei si consiglia.
Allor,
quasi di tomba, uscir ne sente
un indistinto gemito dolente,
che poi distinto
in voci: "Ahi! troppo" disse
"m'hai tu, Tancredi,
offeso; or tanto basti.
Tu dal corpo che meco e per me
visse,
felice albergo già, mi discacciasti:
perché
il misero tronco, a cui m'affisse
il mio duro destino, anco mi
guasti?
Dopo la morte gli aversari tuoi,
crudel, ne' lor
sepolcri offender vuoi?
Clorinda
fui, né sol qui spirto umano
albergo in questa pianta rozza
e dura,
ma ciascun altro ancor, franco o pagano,
che lassi i
membri a piè de l'alte mura,
astretto è qui da novo
incanto e strano,
non so s'io dica in corpo o in sepoltura.
Son
di sensi animati i rami e i tronchi,
e micidial sei tu, se legno
tronchi."
Qual
l'infermo talor ch'in sogno scorge
drago o cinta di fiamme alta
Chimera,
se ben sospetta o in parte anco s'accorge
che 'l
simulacro sia non forma vera,
pur desia di fuggir, tanto gli
porge
spavento la sembianza orrida e fera,
tal il timido amante
a pien non crede
a i falsi inganni, e pur ne teme e cede.
E, dentro, il cor
gli è in modo tal conquiso
da vari affetti che s'agghiaccia
e trema,
e nel moto potente ed improviso
gli cade il ferro, e
'l manco è in lui la tema.
Va fuor di sé: presente
aver gli è aviso
l'offesa donna sua che plori e gema,
né
può soffrir di rimirar quel sangue,
né quei gemiti
udir d'egro che langue.
Cosí
quel contra morte audace core
nulla forma turbò d'alto
spavento,
ma lui che solo è fievole in amore
falsa imago
deluse e van lamento.
Il suo caduto ferro intanto fore
portò
del bosco impetuoso vento,
sí che vinto partissi; e in su
la strada
ritrovò poscia e ripigliò la spada.
Pur non tornò,
né ritentando ardio
spiar di novo le cagioni ascose.
E
poi che giunto al sommo duce unio
gli spirti alquanto e l'animo
compose,
incominciò: "Signor, nunzio son io
di non
credute e non credibil cose.
Ciò che dicean de lo spettacol
fero
e del suon paventoso, è tutto vero.
Meraviglioso foco
indi m'apparse,
senza materia in un istante appreso,
che sorse
e dilatando un muro farse
parve, e d'armati mostri esser
difeso.
Pur vi passai, ché né l'incendio m'arse,
né
dal ferro mi fu l'andar conteso.
Vernò in quel punto ed
annottò; fe' il giorno
e la serenità poscia ritorno.
Di piú
dirò: ch'a gli alberi dà vita
spirito uman che sente
e che ragiona.
Per prova sollo; io n'ho la voce udita
che nel
cor flebilmente anco mi suona.
Stilla sangue de' tronchi ogni
ferita,
quasi di molle carne abbian persona.
No, no, piú
non potrei (vinto mi chiamo)
né corteccia scorzar, né
sveller ramo."
Cosí
dice egli, e 'l capitano ondeggia
in gran tempesta di pensieri
intanto.
Pensa s'egli medesmo andar là deggia
(che tal
lo stima) a ritentar l'incanto,
o se pur di materia altra
proveggia
lontana piú, ma non difficil tanto.
Ma dal
profondo de' pensieri suoi
l'Eremita il rappella, e dice poi:
"Lascia il
pensier audace: altri conviene
che de le piante sue la selva
spoglie.
Già già la fatal nave a l'erme arene
la
prora accosta e l'auree vele accoglie;
già, rotte
l'indegnissime catene,
l'aspettato guerrier dal lido scioglie;
non
è lontana omai l'ora prescritta
che sia presa Sion, l'oste
sconfitta."
Parla
ei cosí, fatto di fiamma in volto,
e risuona piú
ch'uomo in sue parole.
E 'l pio Goffredo a pensier novi è
vòlto,
ché neghittoso già cessar non vòle.
Ma
nel Cancro celeste omai raccolto
apporta arsura inusitata il
sole,
ch'a i suoi disegni, a i suoi guerrier nemica,
insopportabil
rende ogni fatica.
Spenta
è del cielo ogni benigna lampa;
signoreggiano in lui
crudeli stelle,
onde piove virtú ch'informa e stampa
l'aria
d'impression maligne e felle.
Cresce l'ardor nocivo, e sempre
avampa
piú mortalmente in queste parti e in quelle;
a
giorno reo notte piú rea succede,
e dí peggior di
lei dopo lei vede.
Non
esce il sol giamai, ch'asperso e cinto
di sanguigni vapori entro e
d'intorno
non mostri ne la fronte assai distinto
mesto presagio
d'infelice giorno;
non parte mai che in rosse macchie tinto
non
minacci egual noia al suo ritorno,
e non inaspri i già
sofferti danni
con certa tema di futuri affanni.
Mentre
li raggi poi d'alto diffonde,
quanto d'intorno occhio mortal si
gira,
seccarsi i fiori e impallidir le fronde,
assetate languir
l'erbe rimira,
e fendersi la terra e scemar l'onde,
ogni cosa
del ciel soggetta a l'ira,
e le sterili nubi in aria sparse
in
sembianza di fiamme altrui mostrarse.
Sembra
il ciel ne l'aspetto atra fornace
né cosa appar che gli
occhi almen ristaure:
ne le spelonche sue Zefiro tace,
e 'n
tutto è fermo il vaneggiar de l'aure;
solo vi soffia (e par
vampa di face)
vento che move da l'arene maure,
che, gravoso e
spiacente, e seno e gote
co' densi fiati ad or ad or percote.
Non ha poscia la
notte ombre piú liete,
ma del caldo del sol paiono
impresse,
e di travi di foco e di comete
e d'altri fregi
ardenti il velo intesse.
Né pur misera terra, a la tua
sete
son da l'avara luna almen concesse
sue rugiadose stille, e
l'erbe e i fiori
bramano indarno i lor vitali umori.
Da
le notti inquiete il dolce sonno
bandito fugge, e i languidi
mortali
lusingando ritrarlo a sé no 'l ponno;
ma pur la
sete è il pessimo de' mali,
però che di Giudea
l'iniquo donno
con veneni e con succhi aspri e mortali
piú
de l'inferna Stige e d'Acheronte
torbido fece e livido ogni fonte.
E il picciol
Siloè, che puro e mondo
offria cortese a i Franchi il suo
tesoro,
or di tepide linfe a pena il fondo
arido copre e dà
scarso ristoro;
né il Po, qualor di maggio è piú
profondo,
parria soverchio a i desideri loro,
né 'l
Gange o 'l Nilo, allor che non s'appaga
de' sette alberghi, e 'l
verde Egitto allaga.
S'alcun
giamai tra frondeggianti rive
puro vide stagnar liquido argento,
o
giú precipitose ir acque vive
per alpe o 'n piaggia erbosa
a passo lento,
quelle al vago desio forma e descrive
e ministra
materia al suo tormento,
ché l'imagine lor gelida e
molle
l'asciuga e scalda e nel pensier ribolle.
Vedi
le membra de' guerrier robuste,
cui né camin per aspra
terra preso,
né ferrea salma onde gír sempre
onuste,
né domò ferro a la lor morte inteso,
ch'or
risolute e dal calore aduste
giacciono a se medesme inutil peso;
e
vive ne le vene occulto foco
che pascendo le strugge a poco a
poco.
Langue il
corsier già sí feroce, e l'erba
che fu suo caro cibo
a schifo prende,
vacilla il piede infermo, e la superba
cervice
dianzi or giú dimessa pende;
memoria di sue palme or piú
non serba,
né piú nobil di gloria amor l'accende:
le
vincitrici spoglie e i ricchi fregi
par che quasi vil soma odii e
dispregi.
Languisce
il fido cane, ed ogni cura
del caro albergo e del signor
oblia,
giace disteso ed a l'interna arsura
sempre anelando aure
novelle invia;
ma s'altrui diede il respirar natura
perché
il caldo del cor temprato sia,
or nulla o poco refrigerio
n'have,
sí quello onde si spira è denso e grave.
Cosí
languia la terra, e 'n tale stato
egri giaceansi i miseri
mortali,
e 'l buon popol fedel, già disperato
di
vittoria, temea gli ultimi mali;
e risonar s'udia per ogni
lato
universal lamento in voci tali:
"Che piú spera
Goffredo o che piú bada,
sí che tutto il suo campo a
morte cada?"
Deh!
con quai forze superar si crede
gli alti ripari de' nemici
nostri?
onde machine attende? ei sol non vede
l'ira del Cielo a
tanti segni mostri?
de la sua mente aversa a noi fan fede
mille
novi prodigi e mille mostri,
ed arde a noi cosí che minore
uopo
di refrigerio ha l'Indo e l'Etiopo.
Dunque
stima costui che nulla importe
che n'andiam noi, turba negletta,
indegna,
vili ed inutil alme, a dura morte,
perch'ei lo scettro
imperial mantegna?
Cotanto dunque fortunata sorte
rassembra
quella di colui che regna,
che ritener si cerca avidamente
a
danno ancor de la soggetta gente?
Or
mira d'uom c'ha il titolo di pio
providenza pietosa, animo
umano:
la salute de' suoi porre in oblio
per conservarsi onor
dannoso e vano;
e veggendo a noi secchi i fonti e 'l rio,
per
sé l'acque condur fa dal Giordano,
e fra pochi sedendo a
mensa lieta,
mescolar l'onde fresche al vin di Creta."
Cosí i
Franchi dicean; ma 'l duce greco,
che 'l lor vessillo è di
seguir già stanco,
"Perché morir qui?"
disse "e perché meco
far che la schiera mia ne vegna
manco?
Se ne la sua follia Goffredo è cieco,
siasi in
suo danno e del suo popol franco;
a noi che noce?" E senza
tòr licenza,
notturna fece e tacita partenza.
Mosse l'essempio
assai, come al dí chiaro
fu noto; e d'imitarlo alcun
risolve.
Quei che seguír Clotareo ed Ademaro
e gli altri
duci ch'or son ossa e polve,
poi che la fede che a color
giuraro
ha disciolto colei che tutto solve,
già trattano
di fuga, e già qualcuno
parte furtivamente a l'aer bruno.
Ben se l'ode
Goffredo e ben se 'l vede,
e i piú aspri rimedi avria ben
pronti,
ma gli schiva ed aborre; e con la fede
che faria stare
i fiumi e gir i monti,
devotamente al Re del mondo chiede
che
gli apra omai de la sua grazia i fonti:
giunge le palme, e
fiammeggianti in zelo
gli occhi rivolge e le parole al Cielo:
"Padre e
Signor, s'al popol tuo piovesti
già le dolci rugiade entro
al deserto,
s'a mortal mano già virtú
porgesti
romper le pietre e trar del monte aperto
un vivo
fiume, or rinnovella in questi
gli stessi essempi; e s'ineguale è
il merto,
adempi di tua grazia i lor difetti,
e giovi lor che
tuoi guerrier sian detti."
Tarde
non furon già queste preghiere
che derivàr da giusto
umil desio,
ma se 'n volaro al Ciel pronte e leggiere
come
pennuti augelli inanzi a Dio.
Le accolse il Padre eterno, ed a le
schiere
fedeli sue rivolse il guardo pio;
e di sí gravi
lor rischi e fatiche
gli increbbe, e disse con parole amiche:
"Abbia sin
qui sue dure e perigliose
aversità sofferte il campo
amato,
e contra lui con armi ed arti ascose
siasi l'inferno e
siasi il mondo armato.
Or cominci novello ordin di cose,
e gli
si volga prospero e beato.
Piova; e ritorni il suo guerriero
invitto,
e venga a gloria sua l'oste d'Egitto."
Cosí
dicendo, il capo mosse; e gli ampi
cieli tremaro e i lumi erranti
e i fissi,
e tremò l'aria riverente, e i campi
de
l'oceano, e i monti e i ciechi abissi.
Fiammeggiare a sinistra
accesi lampi
fur visti, e chiaro tuono insieme udissi.
Accompagnan
le genti il lampo e 'l tuono
con allegro di voci ed alto suono.
Ecco súbite
nubi, e non di terra
già per virtú del sole in alto
ascese,
ma giú del ciel, che tutte apre e disserra
le
porte sue, veloci in giú discese:
ecco notte improvisa il
giorno serra
ne l'ombre sue, che d'ogni intorno ha stese.
Segue
la pioggia impetuosa, e cresce
il rio cosí che fuor del
letto n'esce.
Come
talor ne la stagione estiva,
se dal ciel pioggia desiata
scende,
stuol d'anitre loquaci in secca riva
con rauco mormorar
lieto l'attende,
e spiega l'ali al freddo umor, né
schiva
alcuna di bagnarsi in lui si rende,
e là 've in
maggior fondo ei si raccoglia,
si tuffa e spegne l'assetata
voglia;
cosí
gridando, la cadente piova
che la destra del Ciel pietosa
versa,
lieti salutan questi; a ciascun giova
la chioma averne
non che il manto aspersa:
chi bee ne' vetri e chi ne gli elmi a
prova,
chi tien la man ne la fresca onda immersa,
chi se ne
spruzza il volto e chi le tempie,
chi scaltro a miglior uso i vasi
n'empie.
Né
pur l'umana gente or si rallegra
e dei suoi danni a ristorar si
viene,
ma la terra, che dianzi afflitta ed egra
di fessure le
membra avea ripiene,
la pioggia in sé raccoglie e si
rintegra,
e la comparte a le piú interne vene,
e
largamente i nutritivi umori
a le piante ministra, a l'erbe, a i
fiori;
ed inferma
somiglia a cui vitale
succo le interne parti arse rinfresca,
e
disgombrando la cagion del male,
a cui le membra sue fur cibo ed
esca,
la rinfranca e ristora e rende quale
fu ne la sua stagion
piú verde e fresca;
tal ch'obliando i suoi passati
affanni
le ghirlande ripiglia i lieti panni.
Cessa
la pioggia al fine e torna il sole,
ma dolce spiega e temperato il
raggio,
pien di maschio valor, sí come sòle
tra
'l fin d'aprile e 'l cominciar di maggio.
Oh fidanza gentil, chi
Dio ben cole,
l'aria sgombrar d'ogni mortale oltraggio,
cangiare
a le stagioni ordine e stato,
vincer la rabbia de le stelle e 'l
fato.
Argomento
Intende in sogno il Capitan Franzese,
Come Dio vuol che si
richiami all'oste
Il buon Rinaldo: ond'egli poi cortese
De'
principi risponde alle proposte.
Ma Piero che già prima il
tutto intese,
I messi invia là dov'han cortese oste
Un
mago; il qual lor pria d'Armia scopre
Gli occulti inganni indi gli
aiuta all'opre.
Usciva
omai dal molle e fresco grembo
de la gran madre sua la notte
oscura,
aure lievi portando e largo nembo
di sua rugiada
preziosa e pura;
e scotendo del vel l'umido lembo,
ne spargeva
i fioretti e la verdura,
e i venticelli, dibattendo
l'ali,
lusingavano il sonno de' mortali.
Ed
essi ogni pensier che 'l dí conduce
tuffato aveano in dolce
oblio profondo.
Ma vigilando ne l'eterna luce
sedeva al suo
governo il Re del mondo,
e rivolgea dal Cielo al franco duce
lo
sguardo favorevole e giocondo;
quinci a lui ne inviava un sogno
cheto
perché gli rivelasse alto decreto.
Non
lunge a l'auree porte ond'esce il sole
è cristallina porta
in oriente,
che per costume inanti aprir si sòle
che si
dischiuda l'uscio al dí nascente.
Da questa escono i sogni,
i quai Dio vòle
mandar per grazia a pura e casta mente;
da
questa or quel ch'al pio Buglion discende
l'ali dorate inverso lui
distende.
Nulla
mai vision nel sonno offerse
altrui sí vaghe imagini o sí
belle
come ora questa a lui, la qual gli aperse
i secreti del
cielo e de le stelle;
onde, sí come entro uno speglio, ei
scerse
ciò che là suso è veramente in
elle.
Pareagli esser traslato in un sereno
candido e d'auree
fiamme adorno e pieno;
e
mentre ammira in quell'eccelso loco
l'ampiezza, i moti, i lumi e
l'armonia,
ecco cinto di rai, cinto di foco,
un cavaliero
incontra a lui venia,
e 'n suono, a lato a cui sarebbe roco
qual
piú dolce è qua giú, parlar l'udia:
"Goffredo,
non m'accogli? e non ragione
al fido amico? or non conosci Ugone?"
Ed ei gli
rispondea: "Quel novo aspetto
che par d'un sol mirabilmente
adorno,
da l'antica notizia il mio intelletto
sviat' ha sí
che tardi a lui ritorno."
Gli stendea poi con dolce amico
affetto
tre fiate le braccia al collo intorno,
e tre fiate
invan cinta l'imago
fuggia, qual leve sogno od aer vago.
Sorridea
quegli, e: "Non già, come credi,"
dicea "son
cinto di terrena veste:
semplice forma e nudo spirto vedi
qui
cittadin de la città celeste.
Questo è tempio di
Dio: qui son le sedi
de' suoi guerrieri, e tu avrai loco in
queste."
"Quando ciò fia?" rispose "il
mortal laccio
sciolgasi omai, s'al restar qui m'è
impaccio."
"Ben"
replicogli Ugon "tosto raccolto
ne la gloria sarai de'
trionfanti;
pur militando converrà che molto
sangue e
sudor là giú tu versi inanti.
Da te prima a i pagani
esser ritolto
deve l'imperio de' paesi santi,
e stabilirsi in
lor cristiana reggia
in cui regnare il tuo fratel poi deggia.
Ma perché
piú lo tuo desir s'avvive
ne l'amor di qua su, piú
fiso or mira
questi lucidi alberghi e queste vive
fiamme che
mente eterna informa e gira,
e 'n angeliche tempre odi le
dive
sirene e 'l suon di lor celeste lira.
China" poi
disse (e gli additò la terra)
"gli occhi a ciò
che quel globo ultimo serra.
Quanto
è vil la cagion ch'a la virtude
umana è colà
giú premio e contrasto!
in che picciolo cerchio e fra che
nude
solitudini è stretto il vostro fasto!
Lei come
isola il mare intorno chiude,
e lui, ch'or ocean chiamat'è
or vasto,
nulla eguale a tai nomi ha in sé di magno,
ma
è bassa palude e breve stagno."
Cosí
l'un disse; e l'altro in giuso i lumi
volse, quasi sdegnando, e ne
sorrise,
ché vide un punto sol, mar, terre e fiumi,
che
qui paion distinti in tante guise,
ed ammirò che pur a
l'ombre, a i fumi,
la nostra folle umanità s'affise,
servo
imperio cercando e muta fama,
né miri il ciel ch'a sé
n'invita e chiama.
Onde
rispose: "Poi ch'a Dio non piace
del mio carcer terreno anco
disciorme,
prego che del camin, ch'è men fallace
fra gli
errori del mondo, or tu m'informe."
"È"
replicogli Ugon "la via verace
questa che tieni; indi non
torcer l'orme:
sol che richiami dal lontano essiglio
il
figliuol di Bertoldo io ti consiglio.
Perché
se l'alta Providenza elesse
te de l'impresa sommo
capitano,
destinò insieme ch'egli esser dovesse
de' tuoi
consigli essecutor soprano.
A te le prime parti, a lui
concesse
son le seconde: tu sei capo, ei mano
di questo campo;
e sostener sua vece
altrui non pote, e farlo a te non lece.
A lui sol
di troncar non fia disdetto
il bosco c'ha gli incanti in sua
difesa;
e da lui il campo tuo che, per difetto
di gente, inabil
sembra a tanta impresa,
e par che sia di ritirarsi
astretto,
prenderà maggior forza a nova impresa;
e i
rinforzati muri e d'Oriente
supererà l'essercito possente."
Tacque, e
'l Buglion rispose: "Oh quanto grato
fòra a me che
tornasse il cavaliero!
Voi che vedete ogni pensier celato,
sapete
s'amo lui, se dico il vero.
Ma di', con quai proposte od in qual
lato
si deve a lui mandarne il messaggiero?
Vuoi ch'io preghi o
comandi? e come questo
atto sarà legitimo ed onesto?"
Allor
ripigliò l'altro: "Il Rege eterno,
che te di tante
somme grazie onora,
vuol che da quegli onde ti diè il
governo
tu sia onorato e riverito ancora.
Però non
chieder tu (né senza scherno
forse del sommo imperio il
chieder fòra),
ma richiesto concedi; ed al perdono
scendi
degli altrui preghi al primo suono.
Guelfo
ti pregherà (Dio sí l'inspira)
ch'assolva il fer
garzon di quell'errore
in cui trascose per soverchio d'ira,
sí
che al campo egli torni ed al suo onore.
E bench'or lunge il
giovene delira
e vaneggia ne l'ozio e ne l'amore,
non dubitar
però che 'n pochi giorni
opportuno a grand'uopo ei non
ritorni;
ché
'l vostro Piero, a cui lo Ciel comparte
l'alta notizia de' secreti
sui,
saprà drizzare i messaggieri in parte
ove certe
novelle avran di lui,
e sarà lor dimostro il modo e
l'arte
di liberarlo e di condurlo a vui.
Cosí al fin
tutti i tuoi compagni erranti
ridurrà il Ciel sotto i tuoi
segni santi.
Or
chiuderò il mio dir con una breve
conclusion che so ch'a te
fia cara:
sarà il tuo sangue al suo commisto, e
deve
progenie uscirne gloriosa e chiara."
Qui tacque, e
sparve come fumo leve
al vento o nebbia al sole arida e rara;
e
sgombrò il sonno, e gli lasciò nel petto
di gioia e
di stupor confuso affetto.
Apre
allora le luci il pio Buglione
e nato vede e già cresciuto
il giorno,
onde lascia i riposi, e sovrapone
l'arme a le membra
faticose intorno.
E poco stante a lui nel padiglione
venieno i
duci al solito soggiorno,
ove a consiglio siedono, e per uso
ciò
ch'altrove si fa quivi è concluso.
Quivi
il buon Guelfo, che 'l novel pensiero
infuso avea ne l'inspirata
mente,
incominciando a ragionar primiero
disse a Goffredo: "O
principe clemente,
perdono a chieder ne vegn'io, ch'in vero
è
perdon di peccato anco recente,
onde potrà parer per
aventura
frettolosa dimanda ed immatura;
ma
pensando che chiesto al pio Goffredo
per lo forte Rinaldo è
tal perdono,
e riguardando a me che in grazia il chiedo
che
vile a fatto intercessor non sono,
agevolmente d'impetrar mi
credo
questo ch'a tutti fia giovevol dono.
Deh! consenti ch'ei
rieda e che, in ammenda
del fallo, in pro comune il sangue spenda.
E chi sarà,
s'egli non è, quel forte
ch'osi troncar le spaventose
piante?
chi girà incontra a i rischi de la morte
con piú
intrepido petto e piú costante?
Scoter le mura ed atterrar
le porte
vedrailo, e salir solo a tutti inante.
Rendi al tuo
campo omai, rendi per Dio
lui ch'è sua alta speme e suo
desio.
Rendi
il nipote a me, sí valoroso
e pronto essecutor rendi a te
stesso;
né soffrir ch'egli torpa in vil riposo,
ma rendi
insieme la sua gloria ad esso.
Segua il vessillo tuo
vittorioso,
sia testimonio a sua virtú concesso,
faccia
opre di sé degne in chiara luce
e rimirando te maestro e
duce."
Cosí
pregava, e ciascun altro i preghi
con favorevol fremito
seguia.
Onde Goffredo allor, quasi egli pieghi
la mente a cosa
non pensata in pria,
"Come esser può" dicea "che
grazia i' neghi
che da voi si dimanda e si desia?
Ceda il
rigore, e sia ragione e legge
ciò che 'l consenso
universale elegge.
Torni
Rinaldo, e da qui inanzi affrene
piú moderato l'impeto de
l'ire,
e risponda con l'opre a l'alta spene
di lui concetta ed
al comun desire.
Ma il richiamarlo, o Guelfo, a te
conviene:
frettoloso egli fia, credo, al venire;
tu scegli il
messo, e tu l'indrizza dove
pensi che 'l fero giovene si trove."
Tacque, e
disse sorgendo il guerrier dano:
"Esser io chieggio il
messaggier che vada,
né ricuso camin dubbio o lontano
per
far il don de l'onorata spada."
Questi è di cor
fortissimo e di mano,
onde al buon Guelfo assai l'offerta
aggrada:
vuol che sia l'un de' messi e che sia l'altro
Ubaldo,
uom cauto ed aveduto e scaltro.
Veduti
Ubaldo in giovenezza e cerchi
vari costumi avea, vari
paesi,
peregrinando da i piú freddi cerchi
del nostro
mondo a gli Etiopi accesi,
e come uom che virtute e senno
merchi,
le favelle, l'usanze e i riti appresi;
poscia in matura
età da Guelfo accolto
fu tra' compagni, e caro a lui fu
molto.
A
tai messaggi l'onorata cura
di richiamar l'alto campion si
diede;
e gli indrizzava Guelfo a quelle mura
tra cui Boemondo
ha la sua regia sede,
ché per publica fama, e per
secura
opinion, ch'egli vi sia si crede.
Ma 'l buon romito, che
lor mal diretti
conosce, entra fra loro e turba i detti,
e dice: "O
cavalier, seguendo il grido
de la fallace opinion vulgare,
duce
seguite temerario e infido
che vi fa gire indarno e traviare.
Or
d'Ascalona nel propinquo lido
itene, dove un fiume entra nel
mare.
Quivi fia che v'appaia uom nostro amico:
credete a lui;
ciò che diravvi, io 'l dico.
Ei
molto per sé vede, e molto intese
del preveduto vostro alto
viaggio
(già gran tempo ha) da me: so che
cortese
altrettanto vi fia quanto egli è saggio."
Cosí
lor disse: e piú da lui non chiese
Carlo o l'altro che seco
iva messaggio,
ma furo ubidienti a le parole
che spirito divin
dettar gli suole.
Preser
commiato, e sí il desio gli sprona
che, senza indugio alcun
posti in camino,
drizzano il lor corso ad Ascalona
dove a i
lidi si frange il mar vicino.
E non udian ancor come risuona
il
roco ed alto fremito marino,
quando giunsero a un fiume il qual di
nova
acqua accresciuto è per novella piova,
sí
che non può capir dentro al suo letto,
e se 'n va piú
che stral corrente e presto.
Mentre essi stan sospesi, a lor
d'aspetto
venerabile appare un vecchio onesto,
coronato di
faggio, in lungo e schietto
vestir che di lin candido è
contesto.
Scote questi una verga, e 'l fiume calca
co' piedi
asciutti e contra il corso il valca.
Sí
come soglion là vicino al polo,
s'avien che 'l verno i
fiumi agghiacci e indure,
correr su 'l Ren le villanelle a
stuolo
con lunghi strisci e sdrucciolar secure,
cosí ei
ne vien sovra l'instabil suolo
di queste acque non gelide e non
dure;
e tosto colà giunse onde in lui fisse
tenean le
luci i due guerrieri, e disse:
"Amici,
dura e faticosa inchiesta
seguite; e d'uopo è ben ch'altri
vi guidi,
ché 'l cercato guerrier lunge è da
questa
terra in paesi incogniti ed infidi.
Quanto, oh quanto de
l'opra anco vi resta!
quanti mar correrete e quanti lidi!
E
convien che si stenda il cercar vostro
oltre i confini ancor del
mondo nostro.
Ma
non vi spiaccia entrar ne le nascose
spelonche ov'ho la mia
secreta sede,
ch'ivi udrete da me non lievi cose
e ciò
ch'a voi saper piú si richiede."
Disse, e ch'a lor dia
loco a l'acqua impose;
ed ella tosto si ritira e cede,
e quinci
e quindi di montagna in guisa
curvata pende e 'n mezzo appar
divisa.
Ei,
presili per man, ne le piú interne
profondità sotto
del rio lor mena.
Debile e incerta luce ivi si scerne,
qual tra
boschi di Cinzia ancor non piena;
ma pur gravide d'acqua ampie
caverne
veggiono, onde tra noi sorge ogni vena
la qual rampilli
in fonte, o in fiume vago
discorra, o stagni o si dilati in lago.
E veder
ponno onde il Po nasca ed onde
Idaspe, Gange, Eufrate, Istro
derivi,
ond'esca pria la Tana, e non asconde
gli occulti suoi
princípi il Nilo quivi.
Trovano un rio piú sotto, il
qual diffonde
vivaci zolfi e vaghi argenti e vivi;
questi il
sol poi raffina, e 'l licor molle
stringe in candide masse e in
auree zolle.
E
miran d'ogni intorno il ricco fiume
di care pietre il margine
dipinto;
onde, come a piú fiaccole s'allume,
splende
quel loco, e 'l fosco orror n'è vinto.
Quivi scintilla con
ceruleo lume
il celeste zafiro ed il giacinto;
vi fiammeggia il
carbonchio, e luce il saldo
diamante, e lieto ride il bel
smeraldo.
Stupidi
i guerrier vanno e ne le nove
cose sí tutto il lor pensier
s'impiega
che non fanno alcun motto. Al fin pur move
la voce
Ubaldo e la sua scorta prega:
"Deh, padre, dinne ove noi
siamo ed ove
ci guidi, e tua condizion ne spiega,
ch'io non so
se 'l ver miri o sogno od ombra,
cosí alto stupore il cor
m'ingombra."
Risponde:
"Sète voi nel grembo immenso
de la terra, che tutto in
sé produce;
né già potreste penetrar nel
denso
de le viscere sue senza me duce.
Vi scòrgo al mio
palagio, il qual accenso
tosto vedrete di mirabil luce.
Nacqui
io pagan, ma poi ne le sant'acque
rigenerarmi a Dio per grazia
piacque.
Né
in virtú fatte son d'angioli stigi
l'opere mie meravigliose
e conte
(tolga Dio ch'usi note o suffumigi
per isforzar Cocito
e Flegetonte),
ma spiando me 'n vo' da' lor vestigi
qual in sé
virtú celi o l'erba o 'l fonte,
e gli altri arcani di
natura ignoti
contemplo, e de le stelle i vari moti.
Però
che non ognor lunge dal cielo
tra sotterranei chiostri è la
mia stanza,
ma su 'l Libano spesso e su 'l Carmelo
in aerea
magion fo dimoranza;
ivi spiegansi a me senza alcun velo
Venere
e Marte in ogni lor sembianza,
e veggio come ogn'altra o presto o
tardi
roti, o benigna o minaccievol guardi.
E
sotto i piè mi veggio or folte or rade
le nubi, or negre ed
or pinte da Iri;
e generar le pioggie e le rugiade
risguardo, e
come il vento obliquo spiri,
come il folgor s'infiammi e per quai
strade
tortuose in giú rispinto ei si raggiri;
scorgo
comete e fochi altri sí presso
che soleva invaghir già
di me stesso.
Di
me medesmo fui pago cotanto
ch'io stimai già che 'l mio
saper misura
certa fosse e infallibile di quanto
può far
l'alto Fattor de la natura;
ma quando il vostro Piero al fiume
santo
m'asperse il crine e lavò l'alma impura,
drizzò
piú su il mio guardo, e 'l fece accorto
ch'ei per se stesso
è tenebroso e corto.
Conobbi
allor ch'augel notturno al sole
è nostra mente a i rai del
primo Vero,
e di me stesso risi e de le fole
che già
cotanto insuperbir mi fèro;
ma pur seguito ancor, come egli
vòle,
le solite arti e l'uso mio primiero.
Ben son in
parte altr'uom da quel ch'io fui,
ch'or da lui pendo e mi rivolgo
a lui,
e in
lui m'acqueto. Egli comanda e insegna,
mastro insieme e signor
sommo e sovrano,
né già per nostro mezzo oprar
disdegna
cose degne talor de la sua mano.
Or sarà cura
mia ch'al campo vegna
l'invitto eroe dal suo carcer lontano,
ch'ei
la m'impose; e già gran tempo aspetto
il venir vostro, a me
per lui predetto."
Cosí
con lor parlando, al loco viene
ov'egli ha il suo soggiorno e 'l
suo riposo.
Questo è in forma di speco e in sé
contiene
camare e sale, grande e spazioso.
E ciò che
nudre entro le ricche vene
di piú chiaro la terra e
prezioso,
splende ivi tutto; ed ei n'è in guisa
ornato
ch'ogni suo fregio è non fatto, ma nato.
Non mancàr
qui cento ministri e cento
che accorti e pronti a servir gli osti
foro,
né poi in mensa magnifica d'argento
mancàr
gran vasi e di cristallo e d'oro;
ma quando sazio il natural
talento
fu de' cibi e la sete estinta in loro:
"Tempo è
ben" disse a i cavalieri il mago
"che 'l maggior desir
vostro omai sia pago."
Quivi
ricominciò: "L'opre e le frodi
note in parte a voi son
de l'empia Armida:
come ella al campo venne, e con quai modi
molti
guerrier ne trasse e lor fu guida.
Sapete ancor che di tenaci
nodi
gli avinse poscia, albergatrice infida,
e ch'indi a Gaza
gli inviò con molti
custodi, e che tra via furon disciolti.
Or vi
narrerò quel ch'appresso occorse,
vera istoria da voi non
anco intesa.
Poi che la maga rea vide ritòrse
la preda
sua, già con tant'arte presa,
ambe le mani per dolor si
morse
e fra sé disse di disdegno accesa:
"Ah! vero
unqua non fia che d'aver tanti
miei prigion liberati egli si
vanti.
Se
gli altri sciolse, ei serva ed ei sostegna
le pene altrui serbate
e 'l lungo affanno;
né questo anco mi basta: i' vo' che
vegna
su gli altri tutti universale il danno."
Cosí
tra sé dicendo, ordir disegna
questo ch'or udirete iniquo
inganno.
Viensene al loco ove Rinaldo vinse
in pugna i suoi
guerrieri, e parte estinse.
Quivi
egli avendo l'arme sue deposto,
indosso quelle d'un pagan si
pose;
forse perché bramava irsene ascosto
sotto insegne
men note e men famose.
Prese l'armi la maga, e in esse tosto
un
tronco busto avolse e poi l'espose;
l'espose in ripa a un fiume
ove doveva
stuol de' Franchi arrivar, e 'l prevedeva.
E
questo antiveder potea ben ella
che mandar mille spie solea
d'intorno,
onde spesso del campo avea novella
e s'altri indi
partiva o fea ritorno;
oltre che con gli spirti anco
favella
sovente, e fa con lor lungo soggiorno.
Collocò
dunque il corpo morto in parte
molto opportuna a sua ingannevol
arte.
Non
lunge un sagacissimo valletto
pose, di panni pastorai vestito,
e
impose lui ciò ch'esser fatto o detto
fintamente doveva; e
fu essequito.
Questi parlò co' vostri, e di sospetto
sparse
quel seme in lor ch'indi nutrito
fruttò risse e discordie,
e quasi al fine
sediziose guerre e cittadine.
Ché
fu, com'ella disegnò, creduto
per opra del Buglion Rinaldo
ucciso,
benché alfine il sospetto a torto avuto
del ver
si dileguasse al primo aviso.
Cotal d'Armida l'artificio
astuto
primieramente fu qual io diviso.
Or udirete ancor come
seguisse
poscia Rinaldo, e quel ch'indi avenisse.
Qual
cauta cacciatrice, Armida aspetta
Rinaldo al varco. Ei su l'Oronte
giunge,
ove un rio si dirama e, un'isoletta
formando, tosto a
lui si ricongiunge;
e 'n su la riva una colonna eretta
vede, e
un picciol battello indi non lunge.
Fisa egli tosto gli occhi al
bel lavoro
del bianco marmo e legge in lettre d'oro:
"O
chiunque tu sia, che voglia o caso
peregrinando adduce a queste
sponde,
meraviglie maggior l'orto o l'occaso
non ha di ciò
che l'isoletta asconde.
Passa, se vuoi vederla." È
persuaso
tosto l'incauto a girne oltra quell'onde;
e perché
mal capace era la barca,
gli scudieri abbandona ed ei sol varca.
Come è
là giunto, cupido e vagante
volge intorno lo sguardo, e
nulla vede
fuor ch'antri ed acque e fiori ed erbe e piante,
onde
quasi schernito esser si crede;
ma pur quel loco è cosí
lieto e in tante
guise l'alletta ch'ei si ferma e siede,
e
disarma la fronte e la ristaura
al soave spirar di placid'aura.
Il fiume
gorgogliar fra tanto udio
con novo suono, e là con gli
occhi corse,
e mover vide un'onda in mezzo al rio
che in se
stessa si volse e si ritorse;
e quinci alquanto d'un crin biondo
uscio,
e quinci di donzella un volto sorse,
e quinci il petto e
le mammelle, e de la
sua forma infin dove vergogna cela.
Cosí
dal palco di notturna scena
o ninfa o dea, tarda sorgendo,
appare.
Questa, benché non sia vera sirena
ma sia magica
larva, una ben pare
di quelle che già presso a la
tirrena
piaggia abitàr l'insidioso mare;
né men
ch'in viso bella, in suono è dolce,
e cosí canta, e
'l cielo e l'aure molce:
`O
giovenetti, mentre aprile e maggio
v'ammantan di fiorite e verdi
spoglie,
di gloria e di virtú fallace raggio
la
tenerella mente ah non v'invoglie!
Solo chi segue ciò che
piace è saggio,
e in sua stagion de gli anni il frutto
coglie.
Questo grida natura. Or dunque voi
indurarete l'alma a
i detti suoi?
Folli,
perché gettate il caro dono,
che breve è sí,
di vostra età novella?
Nome, e senza soggetto idoli
sono
ciò che pregio e valore il mondo appella.
La fama
che invaghisce a un dolce suono
voi superbi mortali, e par sí
bella,
è un'ecco, un sogno, anzi del sogno un'ombra,
ch'ad
ogni vento si dilegua e sgombra.
Goda
il corpo sicuro, e in lieti oggetti
l'alma tranquilla appaghi i
sensi frali;
oblii le noie andate, e non affretti
le sue
miserie in aspettando i mali.
Nulla curi se 'l ciel tuoni o
saetti,
minacci egli a sua voglia e infiammi strali.
Questo è
saver, questa è felice vita:
sí l'insegna natura e
sí l'addita.'
Sí
canta l'empia, e 'l giovenetto al sonno
con note invoglia sí
soavi e scórte.
Quel serpe a poco a poco, e si fa
donno
sovra i sensi di lui possente e forte;
né i tuoni
omai destar, non ch'altri, il ponno
da quella queta imagine di
morte.
Esce d'aguato allor la falsa maga
e gli va sopra, di
vendetta vaga.
Ma
quando in lui fissò lo sguardo e vide
come placido in vista
egli respira,
e ne' begli occhi un dolce atto che ride,
benché
sian chiusi (or che fia s'ei li gira?),
pria s'arresta sospesa, e
gli s'asside
poscia vicina, e placar sente ogn'ira
mentre il
risguarda; e 'n su la vaga fronte
pende omai sí che par
Narciso al fonte.
E
quei ch'ivi sorgean vivi sudori
accoglie lievemente in un suo
velo,
e con un dolce ventillar gli ardori
gli va temprando de
l'estivo cielo.
Cosí (chi 'l crederia?) sopiti
ardori
d'occhi nascosi distempràr quel gelo
che
s'indurava al cor piú che diamante,
e di nemica ella
divenne amante.
Di
ligustri, di gigli e de le rose
le quai fiorian per quelle piaggie
amene,
con nov'arte congiunte, indi compose
lente ma
tenacissime catene.
Queste al collo, a le braccia, a i piè
gli pose:
cosí l'avinse e cosí preso il
tiene;
quinci, mentre egli dorme, il fa riporre
sovra un suo
carro, e ratta il ciel trascorre.
Né
già ritorna di Damasco al regno,
né dove ha il suo
castello in mezzo a l'onde;
ma ingelosita di sí caro
pegno,
e vergognosa del suo amor, s'asconde
ne l'oceano
immenso, ove alcun legno
rado, o non mai, va de le nostre
sponde,
fuor tutti i nostri lidi; e quivi eletta
per solinga
sua stanza è un'isoletta.
Un'isoletta
la qual nome prende
con le vicine sue da la Fortuna.
Quinci
ella in cima a una montagna ascende
disabitata e d'ombre oscura e
bruna,
e per incanto a lei nevose rende
le spalle e i fianchi,
e senza neve alcuna
gli lascia il capo verdeggiante e vago,
e
vi fonda un palagio appresso un lago,
ove
in perpetuo april molle amorosa
vita seco ne mena il suo
diletto.
Or da cosí lontana e cosí ascosa
prigion
trar voi dovete il giovenetto,
e vincer de la timida e gelosa
le
guardie, ond'è difeso il monte e 'l tetto;
e già non
mancherà chi là vi scòrga,
e chi per l'alta
impresa arme vi porga.
Trovarete,
del fiume a pena sorti,
donna giovin di viso, antica d'anni,
ch'a
i lunghi crini in su la fronte attorti
fia nota ed al color vario
de' panni.
Questa per l'alto mar fia che vi porti
piú
ratta che non spiega aquila i vanni,
piú che non vola il
folgore; né guida
la trovarete al ritornar men fida.
A piè
del monte ove la maga alberga,
sibilando strisciar novi pitoni
e
cinghiali arrizzar l'aspre lor terga
ed aprir la gran bocca orsi e
leoni
vedrete; ma scotendo una mia verga,
temeranno appressarsi
ove ella suoni.
Poi via maggior (se dritto il ver s'estima)
si
troverà il periglio in su la cima.
Un
fonte sorge in lei che vaghe e monde
ha l'acque sí che i
riguardanti asseta;
ma dentro a i freddi suoi cristalli asconde
di
tòsco estran malvagità secreta,
ch'un picciol sorso
di sue lucide onde
inebria l'alma tosto e la fa lieta,
indi a
rider uom move, e tanto il riso
s'avanza alfin ch'ei ne rimane
ucciso.
Lunge
la bocca disdegnosa e schiva
torcete voi da l'acque empie
omicide,
né le vivande poste in verde riva
v'allettin
poi, né le donzelle infide
che voce avran piacevole e
lasciva
e dolce aspetto che lusinga e ride;
ma voi, gli sguardi
e le parole accorte
sprezzando, entrate pur ne l'alte porte.
Dentro è
di muri inestricabil cinto
che mille torce in sé confusi
giri,
ma in breve foglio io ve 'l darò distinto,
sí
che nessun error fia che v'aggiri.
Siede in mezzo un giardin del
labirinto
che par che da ogni fronde amore spiri;
quivi in
grembo a la verde erba novella
giacerà il cavaliero e la
donzella.
Ma
come essa lasciando il caro amante
in altra parte il piede avrà
rivolto,
vuo' ch'a lui vi scopriate, e d'adamante
un scudo
ch'io darò gli alziate al volto,
sí ch'egli vi si
specchi, e 'l suo sembiante
veggia e l'abito molle onde fu
involto,
ch'a tal vista potrà vergogna e sdegno
scacciar
dal petto suo l'amor indegno.
Altro
che dirvi omai nulla m'avanza
se non ch'assai securi ir ne
potrete
e penetrar de l'intricata stanza
ne le piú
interne parti e piú secrete,
perché non fia che
magica possanza
a voi ritardi il corso o 'l passo viete;
né
potrà pur, cotal virtú vi guida,
il giunger vostro
antiveder Armida.
Né
men secura da gli alberghi suoi
l'uscita vi sarà poscia e
'l ritorno.
Ma giunge omai l'ora del sonno, e voi
sorger diman
dovete a par co 'l giorno."
Cosí lor disse, e li menò
dopoi
ove essi avean la notte a far soggiorno.
Ivi lasciando
lor lieti e pensosi,
si ritrasse il buon vecchio a i suoi riposi.
Argomento
Dal Mago instrutti i duo guerrier sen vanno,
Dove il pino fatal
gli attende in porto:
Spiegan la vela, e pria del gran
Tiranno
D'Egitto i legni e l'apparecchio han scorto:
Poi tale
il vento, e tale il nocchiero hanno,
Che ben lungo viaggio estiman
corto.
All'isola remota alfine spinti,
Da lor le forze sono, e
i vezzi vinti.
Già
richiamava il bel nascente raggio
a l'opre ogni animal ch'in terra
alberga,
quando venendo a i due guerrieri il saggio
portò
il foglio e lo scudo e l'aurea verga.
"Accingetevi"
disse "al gran viaggio
prima che 'l dí, che spunta,
omai piú s'erga.
Eccovi qui quanto ho promesso e quanto
può
de la maga superar l'incanto."
Erano
essi già sorti e l'arme intorno
a le robuste membra avean
già messe,
onde per vie che non rischiara il giorno
tosto
seguono il vecchio, e son l'istesse
vestigia ricalcate or nel
ritorno
che furon prima nel venire impresse;
ma giunti al letto
del suo fiume: "Amici,
io v'accommiato:" ei disse "ite
felici."
Gli
accoglie il rio ne l'alto seno, e l'onda
soavemente in su gli
spinge e porta,
come suol inalzar leggiera fronda
la qual da
violenza in giú fu torta,
e poi gli espon sovra la molle
sponda.
Quinci miràr la già promessa scorta,
vider
picciola nave e in poppa quella
che guidar li dovea fatal
donzella.
Crinita
fronte essa dimostra, e ciglia
cortesi e favorevoli e
tranquille;
e nel sembiante a gli angioli somiglia,
tanta luce
ivi par ch'arda e sfaville.
La sua gonna or azzurra ed or
vermiglia
diresti, e si colora in guise mille,
sí ch'uom
sempre diversa a sé la vede
quantunque volte a riguardarla
riede.
Cosí
piuma talor, che di gentile
amorosa colomba il collo cinge,
mai
non si scorge a se stessa simile,
ma in diversi colori al sol si
tinge.
Or d'accesi rubin sembra un monile,
or di verdi smeraldi
il lume finge,
or insieme gli mesce, e varia e vaga
in cento
modi i riguardanti appaga.
"Entrate,"
dice "o fortunati, in questa
nave ond'io l'ocean secura
varco,
cui destro è ciascun vento, ogni
tempesta
tranquilla, e lieve ogni gravoso incarco.
Per ministra
e per duce or me vi appresta
il mio signor, del favor suo non
parco."
Cosí parlò la donna, e piú
vicino
fece poscia a la sponda il curvo pino.
Come
la nobil coppia ha in sé raccolta,
spinge la ripa e gli
rallenta il morso,
ed avendo la vela a l'aure sciolta,
ella
siede al governo e regge il corso.
Gonfio è il torrente sí
ch'a questa volta
i navigli portar ben può su 'l dorso,
ma
questo è sí leggier che 'l sosterebbe
qual altro rio
per novo umor men crebbe.
Veloce
sovra il natural costume
spingon la vela inverso il lido i
venti:
biancheggian l'acque di canute spume,
e rotte dietro
mormorar le senti.
Ecco giungono omai là dove il
fiume
queta in letto maggior l'onde correnti,
e ne l'ampie
voragini del mare
disperso o divien nulla o nulla appare.
A pena ha
tocco la mirabil nave
de la marina allor turbata il lembo,
che
spariscon le nubi e cessa il grave
Noto che minacciava oscuro
nembo:
spiana i monti de l'onde aura soave
e solo increspa il
bel ceruleo grembo,
e d'un dolce seren diffuso ride
il ciel,
che sé piú chiaro unqua non vide.
Trascorse
oltre Ascalona ed a mancina
andò la navicella invèr
ponente,
e tosto a Gaza si trovò vicina
che fu porto di
Gaza anticamente,
ma poi, crescendo de l'altrui ruina,
città
divenne assai grande e possente;
ed eranvi le piagge allor
ripiene
quasi d'uomini sí come d'arene.
Volgendo
il guardo a terra i naviganti
scorgean di tende numero
infinito:
miravan cavalier, miravan fanti
ire e tornar da la
cittade al lito,
e da cameli onusti e da elefanti
l'arenoso
sentier calpesto e trito;
poi del porto vedean ne' fondi
cavi
sorte e legate a l'ancore le navi,
altre
spiegar le vele, e ne vedieno
altre i remi trattar veloci e
snelle,
e da essi e da' rostri il molle seno
spumar percosso in
queste parti e in quelle.
Disse la donna allor: "Benché
ripieno
il lido e 'l mar sia de le genti felle,
non ha insieme
però le schiere tutte
il potente tiranno anco ridutte.
Sol dal
regno d'Egitto e dal contorno
raccolte ha queste; or le lontane
attende,
ché verso l'oriente e 'l mezzogiorno
il vasto
imperio suo molto si stende.
Sí che sper'io che prima assai
ritorno
fatto avrem noi che mova egli le tende:
egli o quel
ch'in sua vece esser soprano
de l'essercito suo de' capitano."
Mentre ciò
dice, come aquila sòle
tra gli altri augelli trapassar
secura
e sorvolando ir tanto appresso il sole
che nulla vista
piú la raffigura,
cosí la nave sua sembra che
vóle
tra legno e legno, e non ha tema o cura
che vi sia
chi l'arresti o chi la segua;
e da lor s'allontana e si dilegua.
E 'n un
momento incontra Raffia arriva,
città la qual in Siria
appar primiera
a chi d'Egitto move; indi a la riva
sterilissima
vien di Rinocera.
Non lunge un monte poi le si scopriva
che
sporge sovra 'l mar la chioma altera
e i piè si lava ne
l'instabil onde,
che l'ossa di Pompeo nel grembo asconde.
Poi Damiata
scopre, e come porte
al mar tributo di celesti umori
per sette
il Nilo sue famose porte
e per cento altre ancor foci minori;
e
naviga oltre la città dal forte
greco fondata a i greci
abitatori,
ed oltra Faro, isola già che lunge
giacque
dal lido, al lido or si congiunge.
Rodi
e Creta lontane inverso al polo
non scerne, e pur lungo Africa se
'n viene,
su 'l mar culta e ferace, a dentro solo
fertil di
mostri e d'infeconde arene.
La Marmarica rade, e rade il
suolo
dove cinque cittadi ebbe Cirene.
Qui Tolomitta e poi con
l'onde chete
sorger si mira il fabuloso Lete.
La
maggior Sirte a' naviganti infesta,
trattasi in alto, invèr
le piaggie lassa,
e 'l capo di Giudeca indietro resta,
e la
foce di Magra indi trapassa.
Tripoli appar su 'l lido, e 'ncontra
a questa
giace Malta fra l'onde occulta e bassa;
e poi riman
con l'altre Sirti a tergo
Alzerbe, già de' Lotofagi
albergo.
Nel
curvo lido poi Tunisi vede
che d'ambo i lati del suo golfo ha un
monte.
Tunisi, ricca ed onorata sede
a par di quante n'ha Libia
piú conte.
A lui di costa la Sicilia siede,
ed il gran
Lilibeo gli inalza a fronte.
Or quivi addita la donzella a i
due
guerrieri il loco ove Cartagin fue.
Giace
l'alta Cartago: a pena i segni
de l'alte sue ruine il lido
serba.
Muoiono le città, muoiono i regni,
copre i fasti
e le pompe arena ed erba,
e l'uom d'esser mortal par che si
sdegni:
oh nostra mente cupida e superba!
Giungon quinci a
Biserta, e piú lontano
han l'isola de' Sardi a l'altra
mano.
Trascorser
poi le piaggie ove i Numidi
menàr gia vita pastorale
erranti.
Trovàr Bugia ed Algieri, infami nidi
di
corsari, ed Oràn trovàr piú inanti;
e
costeggiàr di Tingitana i lidi,
nutrice di leoni e
d'elefanti,
ch'or di Marocco è il regno, e quel di Fessa;
e
varcàr la Granata incontro ad essa.
Son
già là dove il mar fra terra inonda
per via ch'esser
d'Alcide opra si finse;
e forse è ver ch'una continua
sponda
fosse, ch'alta ruina in due distinse.
Passovvi a forza
l'oceano, e l'onda
Abila quinci e quindi Calpe spinse;
Spagna e
Libia partio con foce angusta:
tanto mutar può lunga età
vetusta!
Quattro
volte era apparso il sol ne l'orto
da che la nave si spiccò
dal lito,
né mai (ch'uopo non fu) s'accolse in porto,
e
tanto del camino ha già fornito.
Or entra ne lo stretto e
passa il corto
varco, e s'ingolla in pelago infinito.
Se 'l mar
qui è tanto ove il terreno il serra,
che fia colà
dov'egli ha in sen la terra?
Piú
non si mostra omai tra gli alti flutti
la fertil Gade e l'altre
due vicine.
Fuggite son le terre e i lidi tutti:
de l'onda il
ciel, del ciel l'onda è confine.
Diceva Ubaldo allor: "Tu
che condutti
n'hai, donna, in questo mar che non ha fine,
di'
s'altri mai qui giunse, o se piú inante
nel mondo ove
corriamo have abitante."
Risponde:
"Ercole, poi ch'uccisi i mostri
ebbe di Libia e del paese
ispano,
e tutti scòrsi e vinti i lidi vostri,
non osò
di tentar l'alto oceano:
segnò le mète, e 'n troppo
brevi chiostri
l'ardir ristrinse de l'ingegno umano;
ma quei
segni sprezzò ch'egli prescrisse.
di veder vago e di saper,
Ulisse.
Ei
passò le Colonne, e per l'aperto
mare spiegò de'
remi il volo audace;
ma non giovogli esser ne l'onde
esperto,
perché inghiottillo l'ocean vorace,
e giacque
co 'l suo corpo anco coperto
il suo gran caso, ch'or tra voi si
tace.
S'altri vi fu da' venti a forza spinto,
o non tornovvi o
vi rimase estinto;
sí
ch'ignoto è 'l gran mar che solchi: ignote
isole mille e
mille regni asconde;
né già d'abitator le terre han
vòte,
ma son come le vostre anco feconde:
son esse atte
al produr, né steril pote
esser quella virtú che 'l
sol n'infonde."
Ripiglia Ubaldo allor: "Del mondo
occulto,
dimmi quai sian le leggi e quale il culto."
Gli
soggiunse colei: "Diverse bande
diversi han riti ed abiti e
favelle:
altri adora le belve, altri la grande
comune madre, il
sole altri e le stelle;
v'è chi d'abominevoli vivande
le
mense ingombra scelerate e felle.
E 'n somma ognun che 'n qua da
Calpe siede
barbaro è di costume, empio di fede."
"Dunque"
a lei replicava il cavaliero
"quel Dio che scese a illuminar
le carte
vuol ogni raggio ricoprir del vero
a questa che del
mondo è sí gran parte?"
"No." rispose
ella "anzi la fé di Piero
fiavi introdotta ed ogni
civil arte;
né già sempre sarà che la via
lunga
questi da' vostri popoli disgiunga.
Tempo
verrà che fian d'Ercole i segni
favola vile a i naviganti
industri,
e i mar riposti, or senza nome, e i regni
ignoti
ancor tra voi saranno illustri.
Fia che 'l piú ardito allor
di tutti i legni
quanto circonda il mar circondi e lustri,
e la
terra misuri, immensa mole,
vittorioso ed emulo del sole.
Un uom de
la Liguria avrà ardimento
a l'incognito corso esporsi in
prima;
né 'l minaccievol fremito del vento,
né
l'inospito mar, né 'l dubbio clima,
né s'altro di
periglio e di spavento
piú grave e formidabile or si
stima,
faran che 'l generoso entro a i divieti
d'Abila angusti
l'alta mente accheti.
Tu
spiegherai, Colombo, a un novo polo
lontane sí le fortunate
antenne,
ch'a pena seguirà con gli occhi il volo
la fama
c'ha mille occhi e mille penne.
Canti ella Alcide e Bacco, e di te
solo
basti a i posteri tuoi ch'alquanto accenne,
ché
quel poco darà lunga memoria
di poema dignissima e
d'istoria."
Cosí
disse ella; e per l'ondose strade
corre al ponente e piega al
mezzogiorno
e vede come incontra il sol giú cade
e come
a tergo lor rinasce il giorno.
E quando a punto i raggi e le
rugiade
la bella aurora seminava intorno,
lor s'offrí di
lontano oscuro un monte
che tra le nubi nascondea la fronte.
E 'l vedean
poscia procedendo avante,
quando ogni nuvol già n'era
rimosso,
a l'acute piramidi sembiante,
sottile invèr la
cima e 'n mezzo grosso,
e mostrarsi talor cosí fumante
come
quel che d'Encelado è su 'l dosso,
che per propria natura
il giorno fuma
e poi la notte il ciel di fiamme alluma.
Ecco altre
isole insieme, altre pendici
scoprian alfin, men erte ed
elevate;
ed eran queste l'isole Felici,
cosí le nominò
la prisca etate,
a cui tanto stimava i cieli amici
che credea
volontarie e non arate
quivi produr le terre, e 'n piú
graditi
frutti non culte germogliar le viti.
Qui
non fallaci mai fiorir gli olivi
e 'l mèl dicea stillar da
l'elci cave,
e scender giú da lor montagne i rivi
con
acque dolci e mormorio soave,
e zefiri e rugiade i raggi
estivi
temprarvi sí che nullo ardor v'è grave;
e
qui gli elisi campi e le famose
stanze de le beate anime pose.
A queste or
vien la donna, ed: "Omai sète
dal fin del corso"
lor dicea "non lunge.
L'isole di Fortuna ora vedete,
di
cui gran fama a voi ma incerta giunge.
Ben son elle feconde e
vaghe e liete,
ma pur molto di falso al ver s'aggiunge."
Cosí
parlando, assai presso si fece
a quella che la prima è de
le diece.
Carlo
incomincia allor: "Se ciò concede,
donna, quell'alta
impresa ove ci guidi,
lasciami omai por ne la terra il piede
e
veder questi inconosciuti lidi,
veder le genti e 'l culto di lor
fede
e tutto quello ond'uom saggio m'invídi,
quando mi
gioverà narrar altrui
le novità vedute e dir: `Io
fui!'"
Gli
rispose colei: "Ben degna in vero
la domanda è di te,
ma che poss'io,
s'egli osta inviolabile e severo
il decreto de'
Cieli al bel desio?
ch'ancor vòlto non è lo spazio
intero
ch'al grande scoprimento ha fisso Dio,
né lece a
voi da l'ocean profondo
recar vera notizia al vostro mondo.
A voi per
grazia e sovra l'arte e l'uso
de' naviganti ir per quest'acque è
dato,
e scender là dove è il guerrier rinchiuso
e
ridurlo del mondo a l'altro lato.
Tanto vi basti, e l'aspirar piú
suso
superbir fòra e calcitrar co 'l fato."
Qui
tacque, e già parea piú bassa farsi
l'isola prima e
la seconda alzarsi.
Ella
mostrando gía ch'a l'oriente
tutte con ordin lungo eran
dirette,
e che largo è fra lor quasi egualmente
quello
spazio di mar che si framette.
Pònsi veder d'abitatrice
gente
case e culture ed altri segni in sette;
tre deserte ne
sono, e v'han le belve
securissima tana in monti e in selve.
Luogo è
in una de l'erme assai riposto,
ove si curva il lido e in fuori
stende
due larghe corna, e fra lor tiene ascosto
un ampio sen,
e porto un scoglio rende,
ch'a lui la fronte e 'l tergo a l'onda
ha opposto
che vien da l'alto e la respinge e fende.
S'inalzan
quinci e quindi, e torreggianti
fan due gran rupi segno a'
naviganti.
Tacciono
sotto i mar securi in pace
sovra ha di negre selve opaca scena,
e
'n mezzo d'esse una spelonca giace,
d'edera e d'ombre e di dolci
acque amena.
Fune non lega qui, né co 'l tenace
morso le
stanche navi ancora frena.
La donna in sí solinga e queta
parte
entrava, e raccogliea le vele sparte.
"Mirate"
disse poi "quell'alta mole
ch'a quel gran monte in su la cima
siede.
Quivi fra cibi ed ozio e scherzi e fole
torpe il campion
de la cristiana fede.
Voi con la guida del nascente sole
su per
quell'erto moverete il piede;
né vi gravi il tardar, però
che fòra,
se non la matutina, infausta ogn'ora.
Ben co 'l
lume del dí ch'anco riluce
insino al monte andar per voi
potrassi."
Essi al congedo de la nobil duce
poser nel lido
desiato i passi,
e ritrovàr la via ch'a lui conduce
agevol
sí ch'i piè non ne fur lassi;
ma quando v'arrivàr,
da l'oceano
era il carro di Febo anco lontano.
Veggion
che per dirupi e fra ruine
s'ascende a la sua cima alta e
superba,
e ch'è fin là di nevi e di pruine
sparsa
ogni strada: ivi ha poi fiori ed erba.
Presso al canuto mento il
verde crine
frondeggia, e 'l ghiaccio fede a i gigli serba
ed a
le rose tenere: cotanto
puote sovra natura arte d'incanto.
I duo
guerrier, in luogo ermo e selvaggio
chiuso d'ombre, fermàrsi
a piè del monte;
e come il ciel rigò co 'l novo
raggio
il sol, de l'aurea luce eterno fonte:
"Su su"
gridaro entrambi, e 'l lor viaggio
ricominciàr con voglie
ardite e pronte.
Ma esce non so donde, e s'attraversa
fèra
serpendo orribile e diversa.
Inalza
d'oro squallido squamose
le creste e 'l capo, e gonfia il collo
d'ira,
arde ne gli occhi, e le vie tutte ascose
tien sotto il
ventre, e tòsco e fumo spira;
or rientra in se stessa, or
le nodose
ruote distende, e sé dopo sé tira.
Tal
s'appresenta a la solita guarda,
né però de'
guerrieri i passi tarda.
Già
Carlo il ferro stringe e 'l serpe assale,
ma l'altro grida a lui:
"Che fai? che tente?
per isforzo di man, con arme tale
vincer
avisi il difensor serpente?"
Egli scote la verga aurea
immortale
sí che la belva il sibilar ne sente,
e
impaurita al suon, fuggendo ratta,
lascia quel varco libero e
s'appiatta.
Piú
suso alquanto il passo a lor contende
fero leon che rugge e torvo
guata,
e i velli arrizza, e le caverne orrende
de la bocca
vorace apre e dilata.
Si sferza con la coda e l'ire accende,
ma
non è pria la verga a lui mostrata
ch'un secreto spavento
al cor gli agghiaccia
l'ira e 'l nativo orgoglio, e 'n fuga il
caccia.
Segue
la coppia il suo camin veloce,
ma formidabile oste han già
davante
di guerrieri animai, vari di voce,
vari di moto, vari
di sembiante.
Ciò che di mostruoso e di feroce
erra fra
'l Nilo e i termini d'Atlante
par qui tutto raccolto, e quante
belve
l'Ercinia ha in sen, quante l'ircane selve.
Ma
pur sí fero essercito e sí grosso
non vien che lor
respinga o che resista,
anzi (miracol novo) in fuga è
mosso
da un picciol fischio e da una breve vista.
La coppia
omai vittoriosa il dosso
de la montagna senza intoppo acquista,
se
non se in quanto il gelido e l'alpino
de le rigide vie tarda il
camino.
Ma
poi che già le nevi ebber varcate
e superato il discosceso
e l'erto,
un bel tepido ciel di dolce state
trovaro, e 'l pian
su 'l monte ampio ed aperto.
Aure fresche mai sempre ed odorate
vi
spiran con tenor stabile e certo,
né i fiati lor, sí
come altrove sòle;
né,
come altrove suol, ghiacci ed ardori
nubi e sereni a quelle
piaggie alterna,
ma il ciel di candidissimi splendori
sempre
s'ammanta e non s'infiamma o verna,
e nudre a i prati l'erba, a
l'erba i fiori,
a i fior l'odor, l'ombra a le piante eterna.
Siede
su 'l lago e signoreggia intorno
i monti e i mari il bel palagio
adorno.
I
cavalier per l'alta aspra salita
sentiansi alquanto affaticati e
lassi,
onde ne gian per quella via fiorita
lenti or movendo ed
or fermando i passi.
Quando ecco un fonte, che a bagnar gli
invita
l'asciutte labbia, alto cader da' sassi
e da una larga
vena, e con ben mille
zampilletti spruzzar l'erbe di stille.
Ma tutta
insieme poi tra verdi sponde
in profondo canal l'acqua s'aduna,
e
sotto l'ombra di perpetue fronde
mormorando se 'n va gelida e
bruna,
ma trasparente sí che non asconde
de l'imo letto
suo vaghezza alcuna;
e sovra le sue rive alta s'estolle
l'erbetta,
e vi fa seggio fresco e molle.
"Ecco
il fonte del riso, ed ecco il rio
che mortali perigli in sé
contiene.
Or qui tener a fren nostro desio
ed esser cauti molto
a noi conviene:
chiudiam l'orecchie al dolce canto e rio
di
queste del piacer false sirene,
cosí n'andrem fin dove il
fiume vago
si spande in maggior letto e forma un lago."
Quivi de'
cibi preziosa e cara
apprestata è una mensa in su le
rive,
e scherzando se 'n van per l'acqua chiara
due donzellette
garrule e lascive,
ch'or si spruzzano il volto, or fanno a
gara
chi prima a un segno destinato arrive.
Si tuffano talor, e
'l capo e 'l dorso
scoprono alfin dopo il celato corso.
Mosser le
natatrici ignude e belle
de' duo guerrieri alquanto i duri
petti,
sí che fermàrsi a riguardarle; ed
elle
seguian pur i lor giochi e i lor diletti.
Una intanto
drizzossi, e le mammelle
e tutto ciò che piú la
vista alletti
mostrò dal seno in suso, aperto al cielo;
e
'l lago a l'altre membra era un bel velo.
Qual
matutina stella esce de l'onde
rugiadosa e stillante, o come
fuore
spuntò nascendo già da le feconde
spume de
l'ocean la dea d'amore,
tal apparve costei, tal le sue
bionde
chiome stillavan cristallino umore.
Poi girò gli
occhi, e pur allor s'infinse
que' duo vedere e in sé tutta
si strinse;
e
'l crin, ch'in cima al capo avea raccolto
in un sol nodo,
immantinente sciolse,
che lunghissimo in giú cadendo e
folto
d'un aureo manto i molli avori involse.
Oh che vago
spettacolo è lor tolto!
ma non men vago fu chi loro il
tolse.
Cosí da l'acque e da' capelli ascosa
a lor si
volse lieta e vergognosa.
Rideva
insieme e insieme ella arrossia,
ed era nel rossor piú
bello il riso
e nel riso il rossor che le copria
insino al
mento il delicato viso.
Mosse la voce poi sí dolce e
pia
che fòra ciascun altro indi conquiso:
"Oh
fortunati peregrin, cui lice
giungere in questa sede alma e
felice!
Questo
è il porto del mondo; e qui è il ristoro
de le sue
noie, e quel piacer si sente
che già sentí ne'
secoli de l'oro
l'antica e senza fren libera gente.
L'arme, che
sin a qui d'uopo vi foro,
potete omai depor securamente
e
sacrarle in quest'ombra a la quiete,
ché guerrier qui solo
d'Amor sarete,
e
dolce campo di battaglia il letto
fiavi e l'erbetta morbida de'
prati.
Noi menarenvi anzi il regale aspetto
di lei che qui fa i
servi suoi beati,
che v'accorrà nel bel numero eletto
di
quei ch'a le sue gioie ha destinati.
Ma pria la polve in queste
acque deporre
vi piaccia, e 'l cibo a quella mensa tòrre."
L'una disse
cosí, l'altra concorde
l'invito accompagnò d'atti e
di sguardi,
sí come al suon de le canore
corde
s'accompagnano i passi or presti or tardi.
Ma i cavalieri
hanno indurate e sorde
l'alme a que' vezzi perfidi e bugiardi,
e
'l lusinghiero aspetto e 'l parlar dolce
di fuor s'aggira e solo i
sensi molce.
E
se di tal dolcezza entro trasfusa
parte penètra onde il
desio germoglie,
tosto ragion ne l'arme sue rinchiusa
sterpa e
riseca le nascenti voglie.
L'una coppia riman vinta e
delusa,
l'altra se 'n va, né pur congedo toglie.
Essi
entràr nel palagio, esse ne l'acque
tuffàrsi: la
repulsa a lor sí spiacque.
Argomento
Entrano i duo guerrier nell'ampio tetto,
Ove in dolce prigion
Rinaldo stassi:
E fan sì, ch'ei, pien d'ira e di
dispetto,
Move al partir di là con loro i passi.
Per
ritenere il cavalier diletto,
Prega e piange la Maga; egli al fin
vassi.
Essa per vendicare il suo gran duolo,
Strugge il
palagio, e va per l'aria a volo.
Tondo
è il ricco edificio, e nel piú chiuso
grembo di lui,
ché quasi centro al giro,
un giardin v'ha ch'adorno è
sovra l'uso
di quanti piú famosi unqua fioriro.
D'intorno
inosservabile e confuso
ordin di loggie i demon fabri ordiro,
e
tra le oblique vie di quel fallace
ravolgimento impenetrabil
giace.
Per
l'entrata maggior (però che cento
l'ampio albergo n'avea)
passàr costoro.
Le porte qui d'effigiato argento
su i
cardini stridean di lucid'oro.
Fermàr ne le figure il
guardo intento,
ché vinta la materia è dal
lavoro:
manca il parlar, di vivo altro non chiedi;
né
manca questo ancor, s'a gli occhi credi.
Mirasi
qui fra le meonie ancelle
favoleggiar con le conocchia Alcide.
Se
l'inferno espugnò, resse le stelle,
or torce il fuso; Amor
se 'l guarda, e ride.
Mirasi Iole con la destra imbelle
per
ischerno trattar l'armi omicide;
e indosso ha il cuoio del leon,
che sembra
ruvido troppo a sí tenere membra.
D'incontra è
un mare, e di canuto flutto
vedi spumanti i suoi cerulei
campi.
Vedi nel mezzo un doppio ordine instrutto
di navi e
d'arme, e uscir da l'arme i lampi.
D'oro fiammeggia l'onda, e par
che tutto
d'incendio marzial Leucate avampi.
Quinci Augusto i
Romani, Antonio quindi
trae l'Oriente: Egizi, Arabi ed Indi.
Svelte notar le
Cicladi diresti
per l'onde, e i monti co i gran monti
urtarsi;
l'impeto è tanto, onde quei vanno e questi
co'
legni torreggianti ad incontrarsi.
Già volàr faci e
dardi, e già funesti
sono di nova strage i mari
sparsi.
Ecco (né punto ancor la pugna inchina)
ecco
fuggir la barbara reina.
E
fugge Antonio, e lasciar può la speme
de l'imperio del
mondo ov'egli aspira.
Non fugge no, non teme il fier, non teme,
ma
segue lei che fugge e seco il tira.
Vedresti lui, simile ad uom
che freme
d'amore a un tempo e di vergogna e d'ira,
mirar
alternamente or la crudele
pugna ch'è in dubbio, or le
fuggenti vele.
Ne
le latebre poi del Nilo accolto
attender par in grembo a lei la
morte,
e nel piacer d'un bel leggiadro volto
sembra che 'l duro
fato egli conforte.
Di cotai segni variato e scolto
era il
metallo de le regie porte.
I due guerrier, poi che dal vago
obietto
rivolser gli occhi, entràr nel dubbio tetto.
Qual Meandro fra
rive oblique e incerte
scherza e con dubbio corso or cala or
monta,
queste acque a i fonti e quelle al mar converte,
e
mentre ei vien, sé che ritorna affronta,
tali e piú
inestricabili conserte
son queste vie, ma il libro in sé le
impronta
(il libro, don del mago) e d'esse in modo
parla che le
risolve, e spiega il nodo.
Poi
che lasciàr gli aviluppati calli,
in lieto aspetto il bel
giardin s'aperse:
acque stagnanti, mobili cristalli,
fior vari
e varie piante, erbe diverse,
apriche collinette, ombrose
valli,
selve e spelonche in una vista offerse;
e quel che 'l
bello e 'l caro accresce a l'opre,
l'arte, che tutto fa, nulla si
scopre.
Stimi (sí
misto il culto è co 'l negletto)
sol naturali e gli
ornamenti e i siti.
Di natura arte par, che per
diletto
l'imitatrice sua scherzando imiti.
L'aura, non
ch'altro, è de la maga effetto,
l'aura che rende gli alberi
fioriti:
co' fiori eterni eterno il frutto dura,
e mentre
spunta l'un, l'altro matura.
Nel
tronco istesso e tra l'istessa foglia
sovra il nascente fico
invecchia il fico;
pendono a un ramo, un con dorata
spoglia,
l'altro con verde, il novo e 'l pomo
antico;
lussureggiante serpe alto e germoglia
la torta vite
ov'è piú l'orto aprico:
qui l'uva ha in fiori
acerba, e qui d'or l'have
e di piropo e già di nèttar
grave.
Vezzosi
augelli infra le verdi fronde
temprano a prova lascivette
note;
mormora l'aura, e fa le foglie e l'onde
garrir che
variamente ella percote.
Quando taccion gli augelli alto
risponde,
quando cantan gli augei piú lieve scote;
sia
caso od arte, or accompagna, ed ora
alterna i versi lor la musica
òra.
Vola
fra gli altri un che le piume ha sparte
di color vari ed ha
purpureo il rostro,
e lingua snoda in guisa larga, e parte
la
voce sí ch'assembra il sermon nostro.
Questi ivi allor
continovò con arte
tanta il parlar che fu mirabil
mostro.
Tacquero gli altri ad ascoltarlo intenti,
e fermaro i
susurri in aria i venti.
"Deh
mira" egli cantò "spuntar la rosa
dal verde suo
modesta e verginella,
che mezzo aperta ancora e mezzo
ascosa,
quanto si mostra men, tanto è piú
bella.
Ecco poi nudo il sen già baldanzosa
dispiega;
ecco poi langue e non par quella,
quella non par che desiata
inanti
fu da mille donzelle e mille amanti.
Cosí
trapassa al trapassar d'un giorno
de la vita mortale il fiore e 'l
verde;
né perché faccia indietro april ritorno,
si
rinfiora ella mai, né si rinverde.
Cogliam la rosa in su 'l
mattino adorno
di questo dí, che tosto il seren
perde;
cogliam d'amor la rosa: amiamo or quando
esser si puote
riamato amando."
Tacque,
e concorde de gli augelli il coro,
quasi approvando, il canto indi
ripiglia.
Raddoppian le colombe i baci loro,
ogni animal d'amar
si riconsiglia;
par che la dura quercia e 'l casto alloro
e
tutta la frondosa ampia famiglia,
par che la terra e l'acqua e
formi e spiri
dolcissimi d'amor sensi e sospiri.
Fra
melodia sí tenera, fra tante
vaghezze allettatrici e
lusinghiere,
va quella coppia, e rigida e costante
se stessa
indura a i vezzi del piacere.
Ecco tra fronde e fronde il guardo
inante
penetra e vede, o pargli di vedere,
vede pur certo il
vago e la diletta,
ch'egli è in grembo a la donna, essa a
l'erbetta.
Ella
dinanzi al petto ha il vel diviso,
e 'l crin sparge incomposto al
vento estivo;
langue per vezzo, e 'l suo infiammato viso
fan
biancheggiando i bei sudor piú vivo:
qual raggio in onda,
le scintilla un riso
ne gli umidi occhi tremulo e lascivo.
Sovra
lui pende; ed ei nel grembo molle
le posa il capo, e 'l volto al
volto attolle,
e
i famelici sguardi avidamente
in lei pascendo si consuma e
strugge.
S'inchina, e i dolci baci ella sovente
liba or da gli
occhi e da le labra or sugge,
ed in quel punto ei sospirar si
sente
profondo sí che pensi: "Or l'alma fugge
e 'n
lei trapassa peregrina." Ascosi
mirano i due guerrier gli
atti amorosi.
Dal
fianco de l'amante (estranio arnese)
un cristallo pendea lucido e
netto.
Sorse, e quel fra le mani a lui sospese
a i misteri
d'Amor ministro eletto.
Con luci ella ridenti, ei con
accese,
mirano in vari oggetti un solo oggetto:
ella del vetro
a sé fa specchio, ed egli
gli occhi di lei sereni a sé
fa spegli.
L'uno
di servitú, l'altra d'impero
si gloria, ella in se stessa
ed egli in lei.
"Volgi," dicea "deh volgi" il
cavaliero
"a me quegli occhi onde beata bèi,
ché
son, se tu no 'l sai, ritratto vero
de le bellezze tue gli incendi
miei;
la forma lor, la meraviglia a pieno
piú che il
cristallo tuo mostra il mio seno.
Deh!
poi che sdegni me, com'egli è vago
mirar tu almen potessi
il proprio volto;
ché il guardo tuo, ch'altrove non è
pago,
gioirebbe felice in sé rivolto.
Non può
specchio ritrar sí dolce imago,
né in picciol vetro
è un paradiso accolto:
specchio t'è degno il cielo,
e ne le stelle
puoi riguardar le tue sembianze belle."
Ride Armida a
quel dir, ma non che cesse
dal vagheggiarsi e da' suoi bei
lavori.
Poi che intrecciò le chiome e che ripresse
con
ordin vago i lor lascivi errori,
torse in anella i crin minuti e
in esse,
quasi smalto su l'or, cosparse i fiori;
e nel bel sen
le peregrine rose
giunse a i nativi gigli, e 'l vel compose.
Né 'l
superbo pavon sí vago in mostra
spiega la pompa de
l'occhiute piume,
né l'iride sí bella indora e
mostra
il curvo grembo e rugiadoso al lume.
Ma bel sovra ogni
fregio il cinto mostra
che né pur nuda ha di lasciar
costume.
Diè corpo a chi non l'ebbe, e quando il
fece
tempre mischiò ch'altrui mescer non lece.
Teneri sdegni, e
placide e tranquille
repulse, e cari vezzi, e liete paci,
sorrise
parolette, e dolci stille
di pianto, e sospir tronchi, e molli
baci:
fuse tai cose tutte, e poscia unille
ed al foco temprò
di lente faci,
e ne formò quel sí mirabil cinto
di
ch'ella aveva il bel fianco succinto.
Fine
alfin posto al vagheggiar, richiede
a lui commiato, e 'l bacia e
si diparte.
Ella per uso il dí n'esce e rivede
gli
affari suoi, le sue magiche carte.
Egli riman, ch'a lui non si
concede
por orma o trar momento in altra parte,
e tra le fère
spazia e tra le piante,
se non quanto è con lei, romito
amante.
Ma quando
l'ombra co i silenzi amici
rappella a i furti lor gli amanti
accorti
traggono le notturne ore felici
sotto un tetto medesmo
entro a quegli orti.
Ma poi che vòlta a piú severi
uffici
lasciò Armida il giardino e i suoi diporti,
i
duo, che tra i cespugli eran celati,
scoprirsi a lui pomposamente
armati.
Qual
feroce destrier ch'al faticoso
onor de l'arme vincitor sia
tolto,
e lascivo marito in vil riposo
fra gli armenti e ne'
paschi erri disciolto,
se 'l desta o suon di tromba o
luminoso
acciar, colà tosto annitrendo è vòlto,
già
già brama l'arringo e, l'uom su 'l dorso
portando, urtato
riurtar nel corso;
tal
si fece il garzon, quando repente
de l'arme il lampo gli occhi
suoi percosse.
Quel sí guerrier, quel sí feroce
ardente
suo spirto a quel fulgor tutto si scosse,
benché
tra gli agi morbidi languente,
e tra i piaceri ebro e sopito ei
fosse.
Intanto Ubaldo oltra ne viene, e 'l terso
adamantino
scudo ha in lui converso.
Egli
al lucido scudo il guardo gira,
onde si specchia in lui qual siasi
e quanto
con delicato culto adorno; spira
tutto odori e
lascivie il crine e 'l manto,
e 'l ferro, il ferro aver, non
ch'altro, mira
dal troppo lusso effeminato a canto:
guernito è
sí ch'inutile ornamento
sembra, non militar fero
instrumento.
Qual
uom da cupo e grave sonno oppresso
dopo vaneggiar lungo in sé
riviene,
tal ei tornò nel rimirar se stesso,
ma se
stesso mirar già non sostiene;
giú cade il guardo, e
timido e dimesso,
guardando a terra, la vergogna il tiene.
Si
chiuderebbe e sotto il mare e dentro
il foco per celarsi, e giú
nel centro.
Ubaldo
incominciò parlando allora:
"Va l'Asia tutta e va
l'Europa in guerra:
chiunque e pregio brama e Cristo
adora
travaglia in arme or ne la siria terra.
Te solo, o figlio
di Bertoldo, fuora
del mondo, in ozio, un breve angolo serra;
te
sol de l'universo il moto nulla
move, egregio campion d'una
fanciulla.
Qual
sonno o qual letargo ha sí sopita
la tua virtute? o qual
viltà l'alletta?
Su su; te il campo e te Goffredo
invita,
te la fortuna e la vittoria aspetta.
Vieni, o fatal
guerriero, e sia fornita
la ben comincia impresa; e l'empia
setta,
che già crollasti, a terra estinta cada
sotto
l'inevitabile tua spada."
Tacque,
e 'l nobil garzon restò per poco
spazio confuso e senza
moto e voce.
Ma poi che diè vergogna a sdegno loco,
sdegno
guerrier de la ragion feroce,
e ch'al rossor del volto un novo
foco
successe, che piú avampa e che piú
coce,
squarciossi i vani fregi e quelle indegne
pompe, di
servitú misera insegne;
ed
affrettò il partire, e de la torta
confusione uscí
del labirinto.
Intanto Armida de la regal porta
mirò
giacere il fier custode estinto.
Sospettò prima, e si fu
poscia accorta
ch'era il suo caro al dipartirsi accinto;
e 'l
vide (ahi fera vista!) al dolce albergo
dar, frettoloso, fuggitivo
il tergo.
Volea
gridar: "Dove, o crudel, me sola
lasci?", ma il varco al
suon chiuse il dolore,
sí che tornò la flebile
parola
piú amara indietro a rimbombar su 'l core.
Misera!
i suoi diletti ora le invola
forza e saper, del suo saper
maggiore.
Ella se 'l vede, e invan pur s'argomenta
di ritenerlo
e l'arti sue ritenta.
Quante
mormorò mai profane note
tessala maga con la bocca
immonda,
ciò ch'arrestar può le celesti rote
e
l'ombre trar de la prigion profonda,
sapea ben tutte, e pur oprar
non pote
ch'almen l'inferno al suo parlar risponda.
Lascia gli
incanti, e vuol provar se vaga
e supplice beltà sia miglior
maga.
Corre, e
non ha d'onor cura o ritegno.
Ahi! dove or sono i suoi trionfi e i
vanti?
Costei d'Amor, quanto egli è grande, il regno
volse
e rivolse sol co 'l cenno inanti,
e cosí pari al fasto ebbe
lo sdegno,
ch'amò d'essere amata, odiò gli
amanti;
sé gradí sola, e fuor di sé in
altrui
sol qualche effetto de' begli occhi sui.
Or
negletta e schernita in abbandono
rimase, segue pur chi fugge e
sprezza;
e procura adornar co' pianti il dono
rifiutato per sé
di sua bellezza.
Vassene, ed al piè tenero non sono
quel
gelo intoppo e quella alpina asprezza;
e invia per messaggieri
inanzi i gridi,
né giunge lui pria ch'ei sia giunto a i
lidi.
Forsennata
gridava: "O tu che porte
parte teco di me, parte ne lassi,
o
prendi l'una o rendi l'altra, o morte
dà insieme ad ambe:
arresta, arresta i passi,
sol che ti sian le voci ultime
porte;
non dico i baci, altra piú degna avrassi
quelli
da te. Che temi, empio, se resti?
Potrai negar, poi che fuggir
potesti."
Dissegli
Ubaldo allor: "Già non conviene
che d'aspettar costei,
signor, ricusi;
di beltà armata e de' suoi preghi or
viene,
dolcemente nel pianto amaro infusi.
Qual piú
forte di te, se le sirene
vedendo ed ascoltando a vincer
t'usi?
cosí ragion pacifica reina
de' sensi fassi, e se
medesma affina."
Allor
ristette il cavaliero, ed ella
sovragiunse anelante e
lagrimosa:
dolente sí che nulla piú, ma
bella
altrettanto però quanto dogliosa.
Lui guarda e in
lui s'affisa, e non favella,
o che sdegna o che pensa o che non
osa.
Ei lei non mira; e se pur mira, il guardo
furtivo volge e
vergognoso e tardo.
Qual
musico gentil, prima che chiara
altamente la voce al canto
snodi,
a l'armonia gli animi altrui prepara
con dolci ricercate
in bassi modi,
cosí costei, che ne la doglia amara
già
tutte non oblia l'arti e le frodi,
fa di sospir breve concento in
prima
per dispor l'alma in cui le voci imprima.
Poi
cominciò: "Non aspettar ch'io preghi,
crudel, te, come
amante amante deve.
Tai fummo un tempo; or se tal esser neghi,
e
di ciò la memoria anco t'è greve,
come nemico almeno
ascolta: i preghi
d'un nemico talor l'altro riceve.
Ben quel
ch'io chieggio è tal che darlo puoi
e integri conservar gli
sdegni tuoi.
Se
m'odii, e in ciò diletto alcun tu senti,
non te 'n vengo a
privar: godi pur d'esso.
Giusto a te pare, e siasi. Anch'io le
genti
cristiane odiai, no 'l nego, odiai te stesso.
Nacqui
pagana, usai vari argomenti
che per me fosse il vostro imperio
oppresso;
te perseguii, te presi, e te lontano
da l'arme trassi
in loco ignoto e strano.
Aggiungi
a questo ancor quel ch'a maggiore
onta tu rechi ed a maggior tuo
danno:
t'ingannai, t'allettai nel nostro amore;
empia lusinga
certo, iniquo inganno,
lasciarsi còrre il virginal suo
fiore,
far de le sue bellezze altrui tiranno,
quelle ch'a mille
antichi in premio sono
negate, offrire a novo amante in dono!
Sia questa pur
tra le mie frodi, e vaglia
sí di tante mie colpe in te il
difetto
che tu quinci ti parta e non ti caglia
di questo
albergo tuo già sí diletto.
Vattene, passa il mar,
pugna, travaglia,
struggi la fede nostra: anch'io t'affretto.
Che
dico nostra? ah non piú mia! fedele
sono a te solo, idolo
mio crudele.
Solo
ch'io segua te mi si conceda:
picciola fra nemici anco
richiesta.
Non lascia indietro il predator la preda;
va il
trionfante, il prigionier non resta.
Me fra l'altre tue spoglie il
campo veda
ed a l'altre tue lodi aggiunga questa,
che la tua
schernitrice abbia schernito
mostrando me sprezzata ancella a
dito.
Sprezzata
ancella, a chi fo piú conserva
di questa chioma, or ch'a te
fatta è vile?
Raccorcierolla: al titolo di serva
vuo'
portamento accompagnar servile.
Te seguirò, quando l'ardor
piú ferva
de la battaglia, entro la turba ostile.
Animo
ho bene, ho ben vigor che baste
a condurti i cavalli, a portar
l'aste.
Sarò
qual piú vorrai scudiero o scudo:
non fia ch'in tua difesa
io mi risparmi.
Per questo sen, per questo collo ignudo,
pria
che giungano a te, passeran l'armi.
Barbaro forse non sarà
sí crudo
che ti voglia ferir, per non piagarmi,
condonando
il piacer de la vendetta
a questa, qual si sia, beltà
negletta.
Misera!
ancor presumo? ancor mi vanto
di schernita beltà che nulla
impetra?"
Volea piú dir, ma l'interruppe il pianto
che
qual fonte sorgea d'alpina pietra.
Prendergli cerca allor la
destra o 'l manto,
supplichevole in atto, ed ei s'arretra,
resiste
e vince; e in lui trova impedita
Amor l'entrata, il lagrimar
l'uscita.
Non
entra Amor a rinovar nel seno,
che ragion congelò, la
fiamma antica;
v'entra pietate in quella vece almeno,
pur
compagna d'Amor, benché pudica
e lui commove in guisa tal
ch'a freno
può ritener le lagrime a fatica.
Pur quel
tenero affetto entro restringe,
e quanto può gli atti
compone e infinge.
Poi
le risponde: "Armida, assai mi pesa
di te; sí
potess'io, come il farei,
del mal concetto ardor l'anima
accesa
sgombrarti: odii non son, né sdegni i miei,
né
vuo' vendetta, né rammento offesa;
né serva tu, né
tu nemica sei.
Errasti, è vero, e trapassasti i modi,
ora
gli amori essercitando, or gli odi;
ma
che? son colpe umane e colpe usate:
scuso la natia legge, il sesso
e gli anni.
Anch'io parte fallii; s'a me pietate
negar non
vuo', non fia ch'io te condanni.
Fra le care memorie ed onorate
mi
sarai ne le gioie e ne gli affanni,
sarò tuo cavalier
quanto concede
la guerra d'Asia e con l'onor la fede.
Deh! che del
fallir nostro or qui sia il fine
e di nostre vergogne omai ti
spiaccia,
ed in questo del mondo ermo confine
la memoria di lor
sepolta giaccia.
Sola, in Europa e ne le due vicine
parti, fra
l'opre mie questa si taccia.
Deh! non voler che segni ignobil
fregio
tua beltà, tuo valor, tuo sangue regio.
Rimanti in pace,
i' vado; a te non lice
meco venir, chi mi conduce il
vieta.
Rimanti, o va per altra via felice,
e come saggia i tuoi
consigli acqueta."
Ella, mentre il guerrier cosí le
dice,
non trova loco, torbida, inquieta;
già buona pezza
in dispettosa fronte
torva riguarda, al fin prorompe a l'onte:
"Né
te Sofia produsse e non sei nato
de l'azio sangue tu; te l'onda
insana
del mar produsse e 'l Caucaso gelato,
e le mamme
allattàr di tigre ircana.
Che dissimulo io piú?
l'uomo spietato
pur un segno non diè di mente umana.
Forse
cambiò color? forse al mio duolo
bagnò almen gli
occhi o sparse un sospir solo?
Quali
cose tralascio o quai ridico?
S'offre per mio, mi fugge e
m'abbandona;
quasi buon vincitor, di reo nemico
oblia le
offese, i falli aspri perdona.
Odi come consiglia! odi il
pudico
Senocrate d'amor come ragiona!
O Cielo, o dèi,
perché soffrir questi empi
fulminar poi le torri e i vostri
tèmpi?
Vattene
pur, crudel, con quella pace
che lasci a me; vattene, iniquo,
omai.
Me tosto ignudo spirto, ombra seguace
indivisibilmente a
tergo avrai.
Nova furia, co' serpi e con la face
tanto
t'agiterò quanto t'amai.
E s'è destin ch'esca del
mar, che schivi
gli scogli e l'onde e che a la pugna arrivi,
là tra 'l
sangue e le morti egro giacente
mi pagherai le pene, empio
guerriero.
Per nome Armida chiamerai sovente
ne gli ultimi
singulti: udir ciò spero."
Or qui mancò lo
spirto a la dolente,
né quest'ultimo suono espresse
intero;
e cadde tramortita e si diffuse
di gelato sudore, e i
lumi chiuse.
Chiudesti
i lumi, Armida; il Cielo avaro
invidiò il conforto ai tuoi
martiri.
Apri, misera, gli occhi; il pianto amaro
ne gli occhi
al tuo nemico or ché non miri?
Oh s'udir tu 'l potessi, oh
come caro
t'addolcirebbe il suon de' suoi sospiri!
Dà
quanto ei pote, e prende (e tu no 'l credi!)
pietoso in vista gli
ultimi congedi.
Or
che farà? dée su l'ignuda arena
costei lasciar cosí
tra viva e morta?
Cortesia lo ritien, pietà l'affrena,
dura
necessità seco ne 'l porta.
Parte, e di lievi zefiri è
ripiena
la chioma di colei che gli fa scorta.
Vola per l'alto
mar l'aurata vela:
ei guarda il lido, e 'l lido ecco si cela.
Poi ch'ella in sé
tornò, deserto e muto
quanto mirar poté d'intorno
scorse.
"Ito se n'è pur," disse "ed ha
potuto
me qui lasciar de la mia vita in forse?
Né un
momento indugiò, né un breve aiuto
nel caso estremo
il traditor mi porse?
Ed io pur ancor l'amo, e in questo
lido
invendicata ancor piango e m'assido?
Che
fa piú meco il pianto? altr'arme, altr'arte
io non ho
dunque? Ahi! seguirò pur l'empio,
né l'abisso per
lui riposta parte,
né il ciel sarà per lui securo
tempio.
Già 'l giungo, e 'l prendo, e 'l cor gli svello, e
sparte
le membra appendo, a i dispietati essempio.
Mastro è
di ferità? vuo' superarlo
ne l'arti sue... Ma dove son? che
parlo?
Misera
Armida, allor dovevi, e degno
ben era, in quel crudele
incrudelire
che tu prigion l'avesti; or tardo sdegno
t'infiamma,
e movi neghittosa a l'ire.
Pur se beltà può nulla o
scaltro ingegno,
non fia vòto d'effetto il mio desire.
O
mia sprezzata forma, a te s'aspetta
(ché tua l'ingiuria fu)
l'alta vendetta.
Questa
bellezza mia sarà mercede
del troncator de l'essecrabil
testa.
O miei famosi amanti, ecco si chiede
difficil sí
da voi ma impresa onesta.
Io che sarò d'ampie ricchezze
erede,
d'una vendetta in guiderdon son presta.
S'esser compra a
tal prezzo indegna sono,
beltà, sei di natura inutil dono.
Dono infelice, io
ti rifiuto; e insieme
odio l'esser reina e l'esser viva,
e
l'esser nata mai; sol fa la speme
de la dolce vendetta ancor ch'io
viva."
Cosí in voci interrotte irata freme
e torce
il piè da la deserta riva,
mostrando ben quanto ha furor
raccolto,
sparsa il crin, bieca gli occhi, accesa il volto.
Giunta a gli
alberghi suoi chiamò trecento
con lingua orrenda deità
d'Averno.
S'empie il ciel d'atre nubi, e in un
momento
impallidisce il gran pianeta eterno,
e soffia e scote i
gioghi alpestri il vento.
Ecco già sotto i piè
mugghiar l'inferno:
quanto gira il palagio udresti irati
sibili
ed urli e fremiti e latrati.
Ombra
piú che di notte, in cui di luce
raggio misto non è,
tutto il circonda,
se non se in quanto un lampeggiar riluce
per
entro la caligine profonda.
Cessa al fin l'ombra, e i raggi il sol
riduce
pallidi; né ben l'aura anco è gioconda,
né
piú il palagio appar, né pur le sue
vestigia, né
dir puossi: "Egli qui fue."
Come
imagin talor d'immensa mole
forman nubi ne l'aria e poco dura,
ché
'l vento la disperde o solve il sole,
come sogno se 'n va ch'egro
figura,
cosí sparver gli alberghi, e restàr
sole
l'alpe e l'orror che fece ivi natura.
Ella su 'l carro
suo, che presto aveva,
s'assise, e come ha in uso al ciel si leva.
Calca le nubi e
tratta l'aure a volo,
cinta di nembi e turbini sonori,
passa i
lidi soggetti a l'altro polo
e le terre d'ignoti abitatori;
passa
d'Alcide i termini, né 'l suolo
appressa de gli Espèri
o quel de' Mori,
ma su i mari sospeso il corso tiene
insin che
a i lidi di Soria perviene.
Quinci
a Damasco non s'invia, ma schiva
il già sí caro de
la patria aspetto,
e drizza il carro a l'infecondo riva
ove è
tra l'onde il suo castello eretto.
Qui giunta, i servi e le
donzelle priva
di sua presenza e sceglie ermo ricetto;
e fra
vari pensier dubbia s'aggira,
ma tosto cede la vergogna a l'ira.
"Io n'andrò
pur," dice ella "anzi che l'armi
de l'Oriente il re
d'Egitto mova.
Ritentar ciascun'arte e trasmutarmi
in ogni
forma insolita mi giova,
trattar l'arco e la spada, e serva
farmi
de' piú potenti e concitargli a prova:
pur che le
mie vendette io veggia in parte,
il rispetto e l'onor stiasi in
disparte.
Non
accusi già me, biasmi se stesso
il mio custode e zio che
cosí volse.
Ei l'alma baldanzosa e 'l fragil sesso
a i
non debiti uffici in prima volse;
esso mi fé donna vagante,
ed esso
spronò l'ardire e la vergogna sciolse:
tutto si
rechi a lui ciò che d'indegno
fei per amore o che farò
per sdegno."
Cosí
risolse, e cavalieri e donne,
paggi e sergenti frettolosa aduna;
e
ne' superbi arnesi e ne le gonne
l'arte dispiega e la regal
fortuna,
e in via si pone; e non è mai ch'assonne
o che
si posi al sole od a la luna,
sin che non giunge ove le schiere
amiche
copria di Gaza le campagne apriche.
Argomento
Il
suo esercito immenso in mostra chiama
L'Egizio, e poi contra i
Cristian l'invia.
Armida che pur di Rinaldo brama
La morte, con
sua gente anco giungia;
E per meglio saziar sua crudel brama,
Se
in guiderdon della vendetta offria.
Ei vestia intanto arme fatali,
dove
Mira impresse degli avi illustri prove.
Gaza
è città de la Giudea nel fine,
su quella via
ch'invèr Pelusio mena,
posta in riva del mare, ed ha
vicine
immense solitudini d'arena,
le quai, come Austro suol
l'onde marine,
mesce il turbo spirante, onde a gran pena
ritrova
il peregrin riparo o scampo
ne le tempeste de l'instabil campo.
Del re d'Egitto è
la città frontiera,
da lui gran tempo inanzi a i Turchi
tolta,
e però ch'opportuna e prossima era
a l'alta
impresa ove la mente ha vòlta,
lasciando Egitto e la sua
regia altera
qui traslato il gran seggio e qui raccolta
già
da varie provincie insieme avea
l'innumerabil oste a l'assemblea.
Musa, quale
stagione e qual là fosse
stato di cose or tu mi reca a
mente:
qual arme il grande imperator, quai posse,
qual serva
avesse e qual compagna gente,
quando del Mezzogiorno in guerra
mosse
le forze e i regi e l'ultimo Oriente;
tu sol le schiere e
i duci e sotto l'arme
mezzo il mondo raccolto, or puoi dettarme.
Poscia che
ribellante al greco impero
si sottrasse l'Egitto e mutò
fede,
del sangue di Macon nato un guerriero
se 'n fe' tiranno e
vi fondò la sede.
Ei fu detto Califfo, e del primiero
chi
n'ha lo scettro al nome anco succede.
Cosí per ordin lungo
il Nilo i suoi
Faraon vide e i Tolomei dopoi.
Volgendo
gli anni, il regno è stabilito
ed accresciuto in guisa tal
che viene,
Asia e Libia ingombrando, al sirio lito
da'
marmarici fini e da Cirene,
e passa a dentro incontra a
l'infinito
corso del Nilo assai sovra Siene,
e quinci a le
campagne inabitate
va de la sabbia e quindi al grande Eufrate.
A destra ed a
sinistra in sé comprende
l'odorata maremma e 'l ricco
mare,
e fuor de l'Eritreo molto si stende
incontra al sol che
matutino appare.
L'imperio ha in sé gran forze, e piú
le rende
il re ch'or lo governa illustri e chiare,
ch'è
per sangue signor, ma piú per merto,
ne l'arti regie e
militari esperto.
Questi
or co' Turchi, or con le genti perse
piú guerre fe': le
mosse e le respinse;
fu perdente e vincente, e ne le
averse
fortune fu maggior che quando vinse.
Poi che la grave
età piú non sofferse
de l'armi il peso, alfin la
spada scinse;
ma non depose il suo guerriero ingegno,
e d'onor
il desio vasto e di regno.
Ancor
guerreggia per ministri, ed have
tanto vigor di mente e di
parole,
che de la monarchia la soma grave
non sembra a gli anni
suoi soverchia mole.
Sparsa in minuti regni Africa pave
tutta
al suo nome e 'l remoto Indo il cole,
e gli porge altri volontario
aiuto
d'armate genti ed altri d'or tributo.
Tanto
e sí fatto re l'arme raguna,
anzi pur adunate omai
l'affretta
contra il sorgente imperio e la fortuna
franca, ne
le vittorie omai sospetta.
Armida ultima vien: giunge opportuna
ne
l'ora a punto a la rassegna eletta.
Fuor de le mura in spazioso
campo
passa dinanzi a lui schierato il campo.
Egli
in sublime soglio, a cui per cento
gradi eburnei s'ascende, altero
siede;
e sotto l'ombra d'un gran ciel d'argento
porpora intesta
d'or preme co 'l piede,
e ricco di barbarico ornamento
in abito
regal splender si vede:
fan torti in mille fascie i bianchi
lini
alto diadema in nova forma a i crini.
Lo
scettro ha ne la destra e per canuta
barba appar venerabile e
severo;
e da gli occhi, ch'etade ancor non muta,
spira l'ardire
e 'l suo vigor primiero,
e ben da ciascun atto è
sostenuta
la maestà de gli anni e de l'impero.
Apelle
forse o Fidia in tal sembiante
Giove formò, ma Giove allor
tonante.
Stannogli,
a destra l'un, l'altro a sinistra,
due satrapi, i maggiori: alza
il piú degno
la nuda spada, del rigor ministra,
l'altro
il sigillo ha del suo ufficio in segno.
Custode un de' secreti, al
re ministra
opra civil ne' grandi affar del regno,
ma prence de
gli esserciti e con piena
possanza è l'altro ordinator di
pena.
Sotto,
folta corona al seggio fanno
con fedel guardia i suoi Circassi
astati,
ed oltre l'aste hanno corazze ed hanno
spade lunghe e
ricurve a l'un de' lati.
Cosí sedea, cosí scopria il
tiranno
d'eccelsa parte i popoli adunati;
tutte a' suoi piè
nel trapassar le schiere
chinan, quasi adorando, armi e bandiere.
Il popol de
l'Egitto in ordin primo
fa di sé mostra, e quattro i duci
sono:
duo de l'alto paese e duo de l'imo,
ch'è del
celeste Nilo opera e dono.
Al mare usurpò il letto il
fertil limo,
e rassodato al cultivar fu buono;
sí crebbe
Egitto: oh quanto a dentro è posto
quel che fu lido a i
naviganti esposto!
Nel
primiero squadron appar la gente
ch'abitò d'Alessandria il
ricco piano,
ch'abitò il lido vòlto a
l'occidente
ch'esser comincia omai lido africano.
Araspe è
il duce lor, duce potente
d'ingegno piú che di vigor di
mano:
ei di furtivi aguati è mastro egregio,
e
d'ogn'arte moresca in guerra ha il pregio.
Secondan
quei che posti invèr l'aurora
ne la costa asiatica
albergaro,
e li guida Arontèo cui nulla onora
pregio o
virtú, ma i titoli il fan chiaro.
Non sudò il molle
sotto l'elmo ancora,
né matutine trombe anco il destaro,
ma
da gli agi e da l'ombra a dura vita
intempestiva ambizion
l'invita.
Quella
che terza è poi, squadra non pare
ma un'oste immensa, e
campi e lidi tiene;
non crederai ch'Egitto mieta ed are
per
tanti, e pur da una città sua viene:
città, ch'a le
provincie emula e pare,
mille cittadinanze in sé
contiene.
Del Cairo i' parlo; indi il gran vulgo adduce,
vulgo
a l'arme restio, Campsone il duce.
Vengon
sotto Gazèl quei che le biade
segaron nel vicin campo
fecondo,
e piú suso insin là dove ricade
il fiume
al precipizio suo secondo.
La turba egizia avea sol archi e
spade,
né sosterria d'elmo o corazza il pondo:
d'abito è
ricca, onde altrui vien che porte
desio di preda e non timor di
morte.
Poi la
plebe di Barca, e nuda, e inerme
quasi, sotto Alarcon passar si
vede,
che la vita famelica ne l'erme
piaggie gran tempo
sostentò di prede.
Con istuol manco reo ma inetto a
ferme
battaglie, di Zumara il re succede;
quel di Tripoli
poscia: e l'uno e l'altro
nel pugnar volteggiando è dotto e
scaltro.
Diretro
ad essi apparvero i cultori
de l'Arabia Petrea, de la Felice,
che
'l soverchio del gelo e de gli ardori
non sente mai, se 'l ver la
fama dice;
ove nascon gl'incensi e gli altri odori,
ove rinasce
l'immortal fenice,
ch'in quella ricca fabrica ch'aduna
a
l'essequie, a i natali, ha tomba e cuna.
L'abito
di costoro è meno adorno,
ma l'armi a quei d'Egitto han
simiglianti.
Ecco altri Arabi poi, che di soggiorno
certo non
sono stabili abitanti:
peregrini perpetui usano intorno
trarne
gli alberghi e le cittadi erranti.
Han questi voce e femminil
statura,
crin lungo e negro, e negra faccia e scura.
E
gran canne indiane arman di corte
punte di ferro, e 'n su destrier
correnti
diresti ben che un turbine lor porte,
se pur han turbo
sí veloce i venti.
Da Siface le prime erano scòrte,
Aldino
in guardia ha le seconde genti,
le terze guida Albiazàr
ch'è fiero
omicida ladron, non cavaliero.
La
turba è appresso che lasciate avea
l'isole cinte da
l'arabiche onde,
da cui pescando già raccòr
solea
conche di perle gravide e feconde.
Sono i Negri con lor
su l'eritrea
marina posti a le sinistre sponde.
Quegli
Agricalte e questi Osmida regge,
che schernisce ogni fede ed ogni
legge.
Gli Etiòpi
di Mèroe indi seguiro:
Mèroe, che quindi il Nilo
isola face
ed Astrabora quinci, il cui gran giro
è di
tre regni e di due fé capace.
Li conducea Canario ed
Assimiro,
re l'uno e l'altro e di Macon seguace
e tributario al
Califé; ma tenne
santa credenza il terzo e qui non venne.
Poi due regi
soggetti anco venieno
con squadre d'arco armate e di
quadrella:
un, soldano è d'Ormús, che dal gran
seno
persico è cinta, nobil terra e bella;
l'altro, di
Boecan; questa è nel seno
del gran flusso marino isola
anch'ella,
ma quando poi scemando il mar s'abbassa,
co 'l piede
asciutto il peregrin vi passa.
Né
te, Altamoro, entro al pudico letto
potuto ha ritener la sposa
amata.
Pianse, percosse il biondo crine e 'l petto
per
distornar la tua fatale andata:
"Dunque," dicea "crudel,
piú che 'l mio aspetto,
del mar l'orrida faccia a te fia
grata?
fia l'arme al braccio tuo piú caro peso
che 'l
picciol figlio a i dolci scherzi inteso?"
È
questi re di Sarmacante; e 'l manco
ch'in lui si pregi, è
il libero diadema,
cosí dotto è ne l'arme, e cosí
franco
ardir congiunge a gagliardia suprema.
Saprallo ben
(l'annunzio) il popol franco,
ed è ragion che insino ad or
ne tema.
I suoi guerrieri indosso han la corazza,
la spada al
fianco ed a l'arcion la mazza.
Ecco
poi fin da gl'Indi e da l'albergo
de l'aurora venuto Adrasto il
fero,
che di serpenti indosso ha per usbergo
il cuoio verde e
maculato a nero,
e smisurato a un elefante il tergo
preme cosí
come si suol destriero.
Gente guida costui di qua dal Gange
che
si lava nel mar che l'Indo frange.
Ne
la squadra che segue è scelto il fiore
de la regal milizia,
e v'ha que' tutti
che con regal mercé, con degno onore,
e
per guerra e per pace eran condutti,
ch'armati a securezza ed a
terrore
vengono in su i destrier possenti instrutti;
e de'
purpurei manti e de la luce
de l'acciaio e de l'oro il ciel
riluce.
Fra
questi è il crudo Alarco ed Odemaro
ordinator di squadre ed
Idraorte,
e Rimedon che per l'audacia è chiaro,
sprezzator
de' mortali e de la morte;
e Tigrane e Rapoldo il gran
corsaro,
già de' mari tiranno; e Ormondo il forte,
e
Marlabusto arabico a chi il nome
l'Arabie dièr che
ribellanti ha dome.
Evvi
Orindo, Arimon, Pirga, Brimarte
espugnator de le città,
Sifante
domator de' cavalli; e tu de l'arte
de la lotta
maestro, Aridamante;
e Tisaferno, il folgore di Marte,
a cui
non è chi d'agguagliar si vante
o se in arcione o se pedon
contrasta,
o se rota la spada o corre l'asta.
Ma
duce è un prence armeno il qual tragitto
al paganesmo ne
l'età novella
fe' da la vera fede, ed ove ditto
fu già
Clemente, ora Emiren s'appella;
per altro, uom fido e caro al re
d'Egitto
sovra quanti per lui calcàr mai sella:
è
duce insieme e cavalier soprano
per cor, per senno e per valor di
mano.
Nessun piú
rimanea, quando improvisa
Armida apparve e dimostrò sua
schiera.
Venia sublime in un gran carro assisa,
succinta in
gonna e faretrata arciera;
e mescolato il novo sdegno in guisa
co
'l natio dolce in quel bel volto s'era,
che vigor dàlle, e
cruda ed acerbetta
par che minacci e minacciando alletta.
Somiglia il carro
a quel che porta il giorno,
lucido di piropi e di giacinti;
e
frena il dotto auriga al giogo adorno
quattro unicorni a coppia a
coppia avinti.
Cento donzelle e cento paggi intorno
pur di
faretra gli omeri van cinti,
ed a i bianchi destrier premono il
dorso
che sono al giro pronti e lievi al corso.
Segue
il suo stuolo, ed Aradin con quello
ch'Idraote assoldò ne
la Soria.
Come allor che 'l rinato unico augello
i suo' Etiòpi
a visitar s'invia
vario e vago la piuma, e ricco e bello
di
monil, di corona aurea natia,
stupisce il mondo e va dietro ed a i
lati,
meravigliando, essercito d'alati,
cosí
passa costei, meravigliosa
d'abito, di maniere e di sembiante.
Non
è allor sí inumana o sí ritrosa
alma d'amor
che non divegna amante.
Veduta a pena e in gravità
sdegnosa,
invaghir può genti sí varie e tante;
che
sarà poi, quando in piú lieto viso
co' begli occhi
lusinghi e co 'l bel riso?
Ma
poi ch'ella è passata, il re de' regi
comanda ch'Emireno a
sé ne vegna,
ché lui preporre a tutti i duci
egregi
e duce farlo universal disegna.
Quel, già
presago, a i meritati pregi
con fronte vien che ben del grado è
degna:
la guardia de' Circassi in due si fende
e gli fa strada
al seggio, ed ei v'ascende;
e
chino il capo e le ginocchia, al petto
giunge la destra. Il re
cosí gli dice:
"Te' questo scettro; a te, Emiren,
commetto
le genti, e tu sostieni in lor mia vice,
e porta,
liberando il re soggetto,
su' Franchi l'ira mia vendicatrice.
Va',
vedi e vinci; e non lasciar de' vinti
avanzo, e mena presi i non
estinti."
Cosí
parlò il tiranno, e del soprano
imperio il cavalier la
verga prese:
"Prendo scettro, signor, d'invitta mano,"
disse
"e vo co' tuo' auspici a l'alte imprese,
e spero, in tua
virtú tuo capitano,
de l'Asia vendicar le gravi offese;
né
tornerò se vincitor non torno,
e la perdita avrà
morte, non scorno.
Ben
prego il Ciel che, s'ordinato male
(ch'io già no 'l credo)
di là su minaccia,
tutta su 'l capo mio quella
fatale
tempesta accolta di sfogar gli piaccia;
e salvo rieda il
campo, e 'n trionfale
piú che in funebre pompa il duce
giaccia."
Tacque, e seguí co' popolari accenti
misto
un gran suon de' barbari instrumenti.
E
fra le grida ei suoni in mezzo a densa
nobile turba il re de' re
si parte;
e giunto a la gran tenda, a lieta mensa
raccoglie i
duci e siede egli in disparte,
ond'or cibo, or parole altrui
dispensa,
né lascia inonorata alcuna parte.
Armida a
l'arte sue ben trova loco
quivi opportun fra l'allegrezza e 'l
gioco.
Ma già
tolte le mense, ella che vede
tutte le viste in sé fisse ed
intente,
e ch'a' segni ben noti omai s'avvede
che sparso è
il suo venen per ogni mente,
sorge e si volge al re da la sua
sede
con atto insieme altero e riverente,
e quanto può
magnanima e feroce
cerca parer nel volto e ne la voce.
"O
re supremo," dice "anch'io ne vegno
per la fé,
per la patria ad impiegarmi.
Donna son io, ma regal donna:
indegno
già di reina il guerreggiar non parmi.
Usi
ogn'arte regal chi vuol il regno,
dansi a l'istessa man lo scettro
e l'armi;
saprà la mia (né torpe al ferro o
langue)
ferir e trar da le ferite il sangue.
Né
creder che sia questo il dí primiero
ch'a ciò nobil
m'invoglia alta vaghezza,
ché in pro di nostra legge e del
tuo impero
son io già prima a militar avezza.
Ben
rammentar déi tu s'io dico il vero,
ché d'alcun'opra
nostra hai pur contezza,
e sai che molti de' maggior campioni
che
dispieghin la Croce io fèi prigioni.
Da
me presi ed avinti, e da me furo
in magnifico dono a te
mandati;
ed ancor si stariano in fondo oscuro
di perpetua
prigion per te guardati,
e saresti ora tu via piú securo
di
terminar vincendo i tuoi gran piati,
se non che 'l fier Rinaldo,
il qual uccise
i miei guerrieri, in libertà li mise.
Chi sia Rinaldo è
noto; e qui di lui
lunga istoria di cose anco si conta:
questo
è il crudel ond'aspramente fui
offesa poi, né
vendicata ho l'onta;
onde sdegno a ragione aggiunge i sui
stimoli,
e piú mi rende a l'arme pronta.
Ma qual sia la mia
ingiuria, a lungo detta
saravvi; or tanto basti: io vuo' vendetta.
E la procurerò,
che non invano
soglion portarne ogni saetta i venti,
e la
destra del Ciel di giusta mano
drizza l'arme talor contra i
nocenti;
ma s'alcun fia ch'al barbaro inumano
tronchi il capo
odioso e me 'l presenti,
a grado avrò questa vendetta
ancora,
benché fatta da me piú nobil fòra,
a grado sí
che gli sarà concessa
quella ch'io posso dar maggior
mercede:
me d'un tesor dotata e di me stessa
in moglie avrà,
s'in guiderdon mi chiede.
Cosí ne faccio qui stabil
promessa,
cosí ne giuro inviolabil fede.
Or s'alcun è
che stimi i premi nostri
degni del rischio, parli e si dimostri."
Mentre la donna
in guisa tal favella,
Adrasto affigge in lei cupidi gli
occhi:
"Tolga il Ciel" dice poi "che le
quadrella
nel barbaro omicida unqua tu scocchi,
ché non
è degno un cor villano, o bella
saettatrice, che tuo colpo
il tocchi.
Atto de l'ira tua ministro sono,
ed io del capo suo
ti farò dono.
Io
sterparogli il core, io darò in pasto
le membra lacerate a
gli avoltoi."
Cosí parlava l'indiano Adrasto,
né
soffrí Tisaferno i vanti suoi:
"E chi sei," disse
"tu, che sí gran fasto
mostri, presente il re,
presenti noi?
Forse è qui tal ch'ogni tuo vanto
audace
supererà co' fatti, e pur si tace."
Rispose l'indo
fero: "Io mi son uno
ch'appo l'opre il parlare ho scarso e
scemo.
Ma s'altrove che qui cosí importuno
parlavi, tu
parlavi il detto estremo."
Seguito avrian, ma raffrenò
ciascuno
dimostrando la destra il re supremo.
Disse ad Armida
poi: "Donna gentile,
ben hai tu cor magnanimo e virile;
e ben sei degna a
cui suoi sdegni ed ire
l'uno e l'altro di lor conceda e
done,
perché tu poscia a voglia tua le gire
contra quel
forte predator fellone.
Là fian meglio impiegate, e 'l
vostro ardire
là può chiaro mostrarsi in
paragone."
Tacque, ciò detto; e quegli offerta
nova
fecero a lei di vendicarla a prova.
Né
quelli pur, ma qual piú in guerra è chiaro
la lingua
al vanto ha baldanzosa e presta.
S'offerser tutti a lei, tutti
giuraro
vendetta far su l'essecrabil testa,
tante contra il
guerrier ch'ebbe sí caro
armi or costei commove e sdegni
desta.
Ma esso, poi ch'abbandonò la riva,
felicemente al
gran corso veniva.
Per
le medesme vie ch'in prima corse,
la navicella indietro si
raggira;
e l'aura, ch'a le vele il volo porse,
non men seconda
al ritornar vi spira.
Il giovenetto or guarda il polo e l'Orse
ed
or le stelle rilucenti mira,
via de l'opaca notte, or fiumi e
monti
che sporgono su 'l mar l'alpestre fronti;
or
lo stato del campo, or il costume
di varie genti investigando
intende.
E tanto van per le salate spume,
che lor da l'orto il
quarto sol risplende;
e quando omai n'è disparito il
lume,
la nave terra finalmente prende.
Disse la donna allor.
"Le palestine
piaggie son qui: qui del viaggio è il
fine."
Quinci
i tre cavalier su 'l lito spose,
e sparve in men che non si forma
un detto.
Sorgea la notte intanto, e de le cose
confondea i
vari aspetti un solo aspetto.
E in quelle solitudini arenose
essi
veder non ponno o muro o tetto,
né d'uomo o di destriero
appaion l'orme
o d'altro pur che del camin gli informe.
Poi che stati
sospesi alquanto foro,
mossero i passi e dièr le spalle al
mare.
Ed ecco di lontano a gli occhi loro
un non so che di
luminoso appare,
che con raggi d'argento e lampi d'oro
la notte
illustra e fa l'ombre piú rare.
Essi ne vanno allor contra
la luce,
e già veggion che sia quel che sí luce.
Veggiono a un
grosso tronco armi novelle
incontra i raggi de la luna appese,
e
fiammeggiar, piú che nel ciel le stelle,
gemme ne l'elmo
aurato e ne l'arnese;
e scoprono a quel lume imagin belle
nel
grande scudo in lungo ordine stese.
Presso, quasi custode, un
vecchio siede
che contra lor se 'n va, come li vede.
Ben
è da' due guerrier riconosciuto
di saggio amico il
venerabil volto.
Ma, poi che ricevé lieto saluto
e
ch'ebbe lor cortesemente accolto,
al giovenetto, il qual tacito e
muto
il riguardava, il ragionar rivolto:
"Signor, te sol"
gli disse "io qui soletto
in cotal ora desiando aspetto,
ché, se no
'l sai, ti sono amico; e quanto
curi le cose tue chiedilo a
questi,
ch'essi, scòrti da me, vinser l'incanto
ove tua
vita misera traesti.
Or odi i detti miei, contrari al canto
de
le sirene, e non ti sian molesti,
ma gli serba nel cor fin che
distingua
meglio a te il ver piú saggia e santa lingua.
Signor, non sotto
l'ombra in piaggia molle
tra fonti e fior, tra ninfe e tra
sirene,
ma in cima a l'erto e faticoso colle
de la virtú
riposto è il nostro bene.
Chi non gela e non suda e non
s'estolle
da le vie del piacer, là non perviene.
Or
vorrai tu lungi da l'alte cime
giacer, quasi tra valli augel
sublime?
T'alzò
natura inverso il ciel la fronte,
e ti diè spirti generosi
ed alti,
perché in su miri e con illustri e conte
opre
te stesso al sommo pregio essalti;
e ti diè l'ire ancor
veloci e pronte,
non perché l'usi ne' civili assalti
né
perché sian di desideri ingordi
elle ministre, ed a ragion
discordi,
ma
perché il tuo valore, armato d'esse,
piú fero
assalga gli aversari esterni,
e sian con maggior forza indi
ripresse
le cupidigie, empi nemici interni.
Dunque ne l'uso per
cui fur concesse
l'impieghi il saggio duce e le governi,
ed a
suo senno or tepide or ardenti
le faccia, ed or le affretti ed or
le allenti."
Cosí
parlava; e l'altro, attento e cheto
a le parole sue d'alto
consiglio,
fea de' detti conserva, e mansueto
volgeva a terra e
vergognoso il ciglio.
Ben vide il mago veglio il suo secreto,
e
gli soggiunse: "Alza la fronte, o figlio,
e in questo scudo
affissa gli occhi omai,
ch'ivi de' tuoi maggior l'opre vedrai.
Vedrai de gli avi
il divulgato onore,
lunge precorso in loco erto e solingo;
tu
dietro anco riman', lento cursore,
per questo de la gloria
illustre arringo.
Su su, te stesso incita: al tuo valore
sia
sferza e spron quel ch'io colà dipingo."
Cosí
diceva; e 'l cavalier affisse
lo sguardo là, mentre colui
sí disse.
Con
sottil magistero in campo angusto
forme infinite espresse il fabro
dotto,
del sangue d'Azio, glorioso, augusto
l'ordin vi si
vedea, nulla interrotto:
vedeasi dal roman fonte vetusto
i suoi
rivi dedur puro e incorrotto.
Stan coronati i principi
d'alloro,
mostra il vecchio le guerre e i pregi loro.
Mostragli Caio,
allor ch'a strane genti
va prima in preda il già inclinato
impero,
prendere il fren de' popoli volenti
e farsi d'Esti il
principe primiero,
ed a lui ricovrarsi i men potenti
vicini a
cui rettor facea mestiero.
Poscia, quando ripassa il varco noto,
a
gli inviti d'Onorio, il fero goto,
e
quando sembra che piú avampi e ferva
di barbarico incendio
Italia tutta,
e quando Roma, prigioniera e serva,
sin dal
profondo teme esser destrutta,
mostra ch'Aurelio in libertà
conserva
la gente sotto al suo scettro ridutta.
Mostragli poi
Foresto che s'oppone
a l'unno regnator de l'Aquilone.
Ben
si conosce al volto Attila il fello,
ché con occhi di drago
ei par che guati,
ed ha faccia di cane, ed a vedello
dirai che
ringhi e udir credi i latrati;
poi vinto il fero in singolar
duello
mirasi rifuggir fra gli altri armati,
e la difesa
d'Aquilea poi tòrre
il buon Foresto, de l'Italia Ettorre.
Altrove è
la sua morte, e 'l suo destino
è destin de la patria. Ecco
l'erede
del padre grande il gran figlio Acarino,
ch'a l'italico
onor campion succede.
Cedeva a i fati, e non a gli Unni,
Altino,
poi riparava in piú secura sede;
poi raccoglieva
una città di mille
in val di Po case disperse in ville.
Contra il gran
fiume ch'in diluvio ondeggia
muniasi, e quindi la città
sorgea
che ne' futuri secoli la reggia
de' magnanimi Estensi
esser dovea.
Par che rompa gli Alani e che si veggia
contra
Odoacro aver fortuna rea,
e morir per l'Italia: oh nobil
morte,
che de l'onor paterno il fa consorte!
Cader
seco Alforisio, ire in essiglio
Azzo si vede e 'l suo fratel con
esso,
e ritornar con l'arme e co 'l consiglio,
dapoi che fu il
tiranno erulo oppresso.
Trafitto di saetta il destro ciglio,
segue
l'estense Epaminonda oppresso;
e par lieto morir, poscia che 'l
crudo
Totila è vinto e salvo il caro scudo.
Di
Bonifacio parlo; e fanciulletto
premea Valerian l'orme del
padre:
già di destra viril, viril di petto,
cento no 'l
sostenean gotiche squadre.
Non lunge, ferocissimo in aspetto,
fea
contra Schiavi Ernesto opre leggiadre;
ma inanzi a lui l'intrepido
Aldoardo
da Monscelce escludeva il re lombardo.
Enrico
v'era e Berengario; e dove
spiega il gran Carlo la sua augusta
insegna
par ch'egli il primo feritor si trove,
ministro o
capitan d'impresa degna.
Poi segue Lodovico, e quegli il
move
contra il nipote ch'in Italia regna:
ecco in battaglia il
vince e 'l fa prigione;
eravi poi co' cinque figli Ottone.
V'era Almerico; e
si vedea già fatto
de la città, donna del Po,
marchese.
Devotamente il ciel riguarda, in atto
di
contemplante, il fondator di chiese.
D'incontra Azzo secondo avean
ritratto
far contra Berengario aspre contese;
e dopo un corso
di fortuna alterno
vinceva, e de l'Italia avea il governo.
Vedi Alberto il
figliuolo ir fra' Germani
e colà far le sue virtú sí
note,
che, vinti in giostra e vinti in guerra i Dani,
genero il
compra Otton con larga dote.
Vedigli a tergo Ugon, quel ch'a'
Romani
fiaccar le corna impetuoso pote,
e che marchese de
l'Italia fia
detto e Toscana tutta avrà in balia.
Poscia Tedaldo, e
Bonifacio a canto
di Beatrice sua poi v'era espresso.
Non si
vedea virile erede a tanto
retaggio a sí gran padre esser
successo.
Seguia Matelda, ed adempia ben quanto
difetto par nel
numero e nel sesso,
che può la saggia e valorosa
donna
sovra corone e scettri alzar la gonna.
Spira
spiriti maschi in nobil volto,
mostra vigor piú che viril
lo sguardo:
là configea i Normanni, e 'n fuga vòlto
si
dileguava il già invitto Guiscardo;
qui rompea Enrico il
quarto, ed a lui tolto
offriva al tempio imperial stendardo;
qui
riponea il pontefice soprano
nel gran soglio di Pietro in
Vaticano.
Poi
vedi, in guisa d'uom ch'onori ed ami,
ch'or l'è al fianco
Azzo il quinto, or la seconda.
Ma d'Azzo il quarto in piú
felici rami
germogliava la prole alma e feconda.
Va dove par
che la Germania il chiami
Guelfo il figliuol, figliuol di
Cunigonda;
e 'l buon germe roman con destro fato
è ne'
campi bavarici traslato.
Là
d'un gran ramo estense ei par ch'inesti
l'arbore di Guelfon, ch'è
per sé vieto;
quel ne' suoi Guelfi rinovar vedresti
scettri
e corone d'or, piú che mai lieto,
e co 'l favor de' bei
lumi celesti
andar poggiando, e non aver divieto:
già
confina co 'l ciel, già mezza ingombra
la gran Germania, e
tutta anco l'adombra.
Ma
ne' suoi rami italici fioriva
bella non men la regal pianta a
prova.
Bertoldo qui d'incontra a Guelfo usciva,
qui Azzo il
sesto i suoi prischi rinova.
Questa è la serie de gli eroi
che viva
nel metallo spirante par si mova.
Rinaldo sveglia, in
rimirando, mille
spirti d'onor da le natie faville,
e
d'emula virtú l'animo altero
commosso avampa, ed è
rapito in guisa
che ciò che imaginando ha nel
pensiero,
città abbattuta e presa e gente uccisa,
pur,
come sia presente e come vero,
dinanti agli occhi suoi vedere
avisa;
e s'arma frettoloso, e con la spene
già la
vittoria usurpa e la previene.
Ma
Carlo, il quale a lui del regio erede
di Dania già narrata
avea la morte,
la destinata spada allor gli diede:
"Prendila,"
disse "e sia con lieta sorte,
e solo in pro de la cristiana
fede
l'adopra, giusto e pio non men che forte;
e fa del primo
suo signor vendetta
che t'amò tanto, e ben a te s'aspetta."
Rispose egli al
guerriero: "A i cieli piaccia
che la man che la spada ora
riceve,
con lei del suo signor vendetta faccia:
paghi con lei
ciò che per lei si deve."
Carlo, rivolto a lui con
lieta faccia,
lunghe grazie ristrinse in sermon breve.
Ma lor
s'offriva il mago, ed al viaggio
notturno l'affrettava il nobil
saggio.
"Tempo
è" dicea "di girne ove t'attende
Goffredo e 'l
campo, e ben giungi opportuno.
Or n'andiam pur, ch'a le cristiane
tende
scorger ben vi saprò per l'aer bruno."
Cosí
dice egli, e poi su 'l carro ascende
e lor v'accoglie senza
indugio alcuno;
e rallentando a' suoi destrieri il morso
gli
sferza, e drizza a l'oriente il corso.
Taciti
se ne gian per l'aria nera,
quando al garzon si volge il veglio e
dice:
"Veduto hai tu de la tua stirpe altera
i rami e la
vetusta alta radice;
e se ben ella da l'età primiera
stata
è fertil d'eroi madre e felice,
non è né fia
di partorir mai stanca,
ché per vecchiezza in lei virtú
non manca.
E come
tratto ho fuor del fosco seno
de l'età prisca i primi padri
ignoti,
cosí potessi ancor scoprire a pieno
ne' secoli
avenire i tuoi nepoti,
e pria ch'essi apran gli occhi al bel
sereno
di questa luce, farli al mondo noti!
ché de'
futuri eroi già non vedresti
l'ordin men lungo, o pur men
chiari i gesti.
Ma
l'arte mia per sé dentro al futuro
non scorge il ver che
troppo occulto giace,
se non caliginoso e dubbio e scuro,
quasi
lunge, per nebbia, incerta face;
e se cosa qual certo io
m'assecuro
affermarti, non sono in questo audace,
ch'io
l'intesi da tal che senza velo
i secreti talor scopre del Cielo.
Quel ch'a lui
rivelò luce divina
e ch'egli a me scoperse, io a te
predico:
"Non fu mai greca o barbara o latina
progenie, in
questo o nel buon tempo antico,
ricca di tanti eroi quanti
destina
a te chiari nepoti il Cielo amico,
ch'agguaglieran qual
piú chiaro si noma
di Sparta, di Cartagine e di Roma.
Ma fra gli altri"
mi disse "Alfonso io sceglio
primo in virtú ma in
titolo secondo
che nascer dée quando, corrotto e
veglio,
povero fia d'uomini illustri il mondo;
questo fia tal
che non sarà chi meglio
la spada usi o lo scettro, o meglio
il pondo
o de l'arme sostegna o del diadema,
gloria del sangue
tuo, gemma suprema.
Darà,
fanciullo, in varie imagin fere
di guerra, i segni di valor
sublime:
fia terror de le selve e de le fère,
e ne gli
arringhi avrà le lodi prime;
poscia riporterà da
pugne vere
palme vittoriose e spoglie opime,
e sovente averrà
che 'l crin si cigna
or di lauro, or di quercia, or di gramigna.
De la matura età
pregi men degni
non fiano stabilir pace e quiete,
mantener sue
città fra l'arme e i regni
di possenti vicin tranquille e
chete,
nutrire e fecondar l'arti e gl'ingegni,
celebrar giochi
illustri e pompe liete,
librar con giusta lance e pene e
premi,
mirar da lunge e preveder gli estremi.
Oh
s'avenisse mai che contra gli empi
che tutte infesteran le terre e
i mari,
e de la pace in quei miseri tempi
daran le leggi a i
popoli piú chiari,
duce se 'n gisse a vendicare i tèmpi
da
lor distrutti e i violati altari,
qual ei giusta faria grave
vendetta
su 'l gran tiranno e su l'iniqua setta!
Indarno
a lui con mille schiere armate
quinci il Turco opporriasi e quindi
il Mauro,
ch'egli portar potrebbe oltre l'Eufrate,
ed oltre i
gioghi del nevoso Tauro
ed oltre i regni ov'è perpetua
state,
la Croce e 'l bianco augello e i gigli d'auro,
e per
battesmo de le nere fronti
del gran Nilo scoprir le ignote fonti."
Cosí
parlava il veglio, e le parole
lietamente accoglieva il
giovenetto,
che del pensier de la futura prole
un tacito piacer
sentia nel petto.
L'alba intanto sorgea nunzia del sole,
e 'l
ciel cangiava in oriente aspetto,
e su le tende già potean
vedere
da lunge il tremolar de le bandiere.
Ricominciò
di novo allora il saggio:
"Vedete il sol che vi riluce in
fronte,
e vi discopre con l'amico raggio
le tende e 'l piano e
la cittade e 'l monte.
Securi d'ogni intoppo e d'ogni oltraggio
io
scòrti v'ho fin qui per vie non conte;
potete senza guida
ir per voi stessi
omai; né lece a me che piú
m'appressi."
Cosí
tolse congedo, e fe' ritorno
lasciando i cavalier ivi pedoni;
ed
essi pur contra il nascente giorno
seguír lor strada e gír
a i padiglioni.
Portò la fama e divulgò
d'intorno
l'aspettato venir dei tre baroni,
e inanzi ad essi al
pio Goffredo corse
che per raccòrli dal suo seggio sorse.
Argomento
Prima
i suoi falli piange, e poi l'impresa
Del bosco tenta, e vince il
buon Rinaldo.
Del campo Egizio s'è novella intesa,
Ch'omai
s'appressa; però astuto e baldo
Va a spiarne Vafrino: aspra
contesa
Fassi intorno a Sion; ma tanto è saldo
l'ajuto
c'han dal Ciel l'arme Cristiane,
Ch'a nostri in preda la Città
rimane .
Giunto
Rinaldo ove Goffredo è sorto
ad incontrarlo, incominciò:
"Signore,
a vendicarmi del guerrier ch'è morto
cura
mi spinse di geloso onore;
e s'io n'offesi te, ben disconforto
ne
sentii poscia e penitenza al core.
Or vegno a' tuoi richiami, ed
ogni emenda
son pronto a far, che grato a te mi renda."
A lui ch'umil gli
s'inchinò, le braccia
stese al collo Goffredo e gli
rispose:
"Ogni trista memoria omai si taccia,
e pongansi
in oblio l'andate cose.
E per emenda io vorrò sol che
faccia
quai per uso faresti, opre famose;
e 'n danno de' nemici
e 'n pro de' nostri
vincer convienti de la selva i mostri.
L'antichissima
selva, onde fu inanti
de' nostri ordigni la materia tratta,
qual
si sia la cagione, ora è d'incanti
secreta stanza e
formidabil fatta,
né v'è chi legno di troncar si
vanti,
né vuol ragion che la città si batta
senza
tali instrumenti: or colà dove
paventan gli altri, il tuo
valor si prove."
Cosí
disse egli, e il cavalier s'offerse
con brevi detti al rischio, a
la fatica;
ma ne gli atti magnanimi si scerse
ch'assai farà,
benché non molto ei dica.
E verso gli altri poi lieto
converse
la destra e 'l volto a l'accoglienza amica:
qui
Guelfo, qui Tancredi, e qui già tutti
s'eran de l'oste i
principi ridutti.
Poi
che le dimostranze oneste e care
con que' soprani egli iterò
piú volte,
placido affabilmente e popolare
l'altre genti
minori ebbe raccolte.
Non saria già piú allegro il
militare
grido o le turbe intorno a lui piú folte
se,
vinto l'Oriente e 'l Mezzogiorno,
trionfando n'andasse in carro
adorno.
Cosí
ne va sino al suo albergo, e siede,
in cerchio quivi a i cari
amici a canto,
e molto lor risponde e molto chiede
or de la
guerra, or del silvestre incanto.
Ma quando ognun partendo agio
lor diede,
cosí gli disse l'Eremita santo:
"Ben
gran cose, signor, e lungo corso
(mirabil peregrino) errando hai
scorso.
Quanto
devi al gran Re che 'l mondo regge!
Tratto egli t'ha da
l'incantate soglie:
ei te smarrito agnel fra le sue gregge
or
riconduce e nel suo ovil accoglie,
e per la voce del Buglion
t'elegge
secondo essecutor de le sue voglie.
Ma non conviensi
già ch'ancor profano
ne' suoi gran magisteri armi la mano,
ché sei de
la caligine del mondo
e de la carne tu di modo asperso
che 'l
Nilo e 'l Gange o l'ocean profondo
non ti potrebbe far candido e
terso.
Sol la grazia del Ciel quanto hai d'immondo
può
render puro: al Ciel dunque converso,
riverente perdon richiedi e
spiega
le tue tacite colpe, e piangi e prega."
Cosí
gli disse; e quel prima in se stesso
pianse i superbi sdegni e i
folli amori,
poi chinato a' suoi piè mesto e dimesso
tutti
scoprigli i giovenili errori.
Il ministro del Ciel, dopo il
concesso
perdono, a lui dicea: "Co' novi albori
ad orar te
n'andrai là su quel monte
ch'al raggio matutin volge la
fronte.
Quivi al
bosco t'invia, dove cotanti
son fantasmi ingannevoli e
bugiardi.
Vincerai (questo so) mostri e giganti,
pur ch'altro
folle error non ti ritardi.
Deh! né voce che dolce o pianga
o canti,
né beltà che soave o rida o guardi,
con
tenere lusinghe il cor ti pieghi,
ma sprezza i finti aspetti e i
finti preghi."
Cosí
il consiglia; e 'l cavalier s'appresta,
desiando e sperando, a
l'alta lmpresa.
Passa pensoso il dí, pensosa e mesta
la
notte; e pria ch'in ciel sia l'alba accesa,
le belle arme si
cinge, e sopravesta
nova ed estrania di color s'ha presa,
e
tutto solo e tacito e pedone
lascia i compagni e lascia il
padiglione.
Era
ne la stagion ch'anco non cede
libero ogni confin la notte al
giorno,
ma l'oriente rosseggiar si vede
ed anco è il
ciel d'alcuna stella adorno;
quando ei drizzò vèr
l'Oliveto il piede,
con gli occhi alzati contemplando
intorno
quinci notturne e quindi mattutine
bellezze
incorrottibili e divine.
Fra
se stesso pensava: "O quante belle
luci il tempio celeste in
sé raguna!
Ha il suo gran carro il dí, l'aurate
stelle
spiega la notte e l'argentata luna;
ma non è chi
vagheggi o questa o quelle,
e miriam noi torbida luce e
bruna
ch'un girar d'occhi, un balenar di riso,
scopre in breve
confin di fragil viso."
Cosí
pensando, a le piú eccelse cime
ascese; e quivi, inchino e
riverente,
alzò il pensier sovra ogni ciel sublime
e le
luci fissò ne l'oriente:
"La prima vita e le mie colpe
prime
mira con occhio di pietà clemente,
Padre e Signor,
e in me tua grazia piovi,
sí che 'l mio vecchio Adam purghi
e rinovi."
Cosí
pregava, e gli sorgeva a fronte
fatta già d'auro la
vermiglia aurora
che l'elmo e l'arme e intorno a lui del monte
le
verdi cime illuminando indora;
e ventillar nel petto e ne la
fronte
sentia gli spirti di piacevol òra,
che sovra il
capo suo scotea dal grembo
de la bell'alba un rugiadoso nembo.
La rugiada del
ciel su le sue spoglie
cade, che parean cenere al colore,
e sí
l'asperge che 'l pallor ne toglie
e induce in esse un lucido
candore;
tal rabbellisce le smarrite foglie
a i matutini geli
arido fiore,
e tal di vaga gioventú ritorna
lieto il
serpente e di novo or s'adorna.
Il
bel candor de la mutata vesta
egli medesmo riguardando
ammira,
poscia verso l'antica alta foresta
con secura baldanza
i passi gira.
Era là giunto ove i men forti arresta
solo
il terror che di sua vista spira;
pur né spiacente a lui né
pauroso
il bosco par, ma lietamente ombroso.
Passa
piú oltre, e ode un suono intanto
che dolcissimamente si
diffonde.
Vi sente d'un ruscello il roco pianto
e 'l sospirar
de l'aura infra le fronde
e di musico cigno il flebil canto
e
l'usignol che plora e gli risponde,
organi e cetre e voci umane in
rime:
tanti e sí fatti suoni un suono esprime.
Il
cavalier, pur come a gli altri aviene,
n'attendeva un gran tuon
d'alto spavento,
e v'ode poi di ninfe e di sirene,
d'aure,
d'acque, d'augei dolce concento,
onde meravigliando il piè
ritiene,
e poi se 'n va tutto sospeso e lento;
e fra via non
ritrova altro divieto
che quel d'un fiume trapassante e cheto.
L'un margo e
l'altro del bel fiume, adorno
di vaghezze e d'odori, olezza e
ride.
Ei stende tanto il suo girevol corno
che tra 'l suo giro
il gran bosco s'asside,
né pur gli fa dolce ghirlanda
intorno,
ma un canaletto suo v'entra e 'l divide:
bagna egli il
bosco e 'l bosco il fiume adombra
con bel cambio fra lor d'umore e
d'ombra.
Mentre
mira il guerriero ove si guade,
ecco un ponte mirabile
appariva:
un ricco ponte d'or che larghe strade
su gli archi
stabilissimi gli offriva.
Passa il dorato varco, e quel giú
cade
tosto che 'l piè toccata ha l'altra riva;
e se ne
'l porta in giú l'acqua repente,
l'acqua ch'è d'un
bel rio fatta un torrente.
Ei
si rivolge e dilatato il mira
e gonfio assai quasi per nevi
sciolte,
che 'n se stesso volubil si raggira
con mille
rapidissime rivolte.
Ma pur desio di novitade il tira
a spiar
tra le piante antiche e folte,
e 'n quelle solitudini
selvagge
sempre a sé nova meraviglia il tragge.
Dove in passando
le vestigia ei posa,
par ch'ivi scaturisca o che germoglie:
là
s'apre il giglio e qui spunta la rosa,
qui sorge un fonte, ivi un
ruscel si scioglie,
e sovra e intorno a lui la selva annosa
tutte
parea ringiovenir le foglie;
s'ammolliscon le scorze e si
rinverde
piú lietamente in ogni pianta il verde.
Rugiadosa di
manna era ogni fronda,
e distillava de le scorze il mèle,
e
di novo s'udia quella gioconda
strana armonia di canto e di
querele;
ma il coro uman, ch'a i cigni, a l'aura, a l'onda
facea
tenor, non sa dove si cele:
non sa veder chi formi umani
accenti,
né dove siano i musici stromenti.
Mentre
riguarda, e fede il pensier nega
a quel che 'l senso gli offeria
per vero,
vede un mirto in disparte, e là si piega
ove
in gran piazza termina un sentiero.
L'estranio mirto i suoi gran
rami spiega,
piú del cipresso e de la palma altero,
e
sovra tutti gli arbori frondeggia;
ed ivi par del bosco esser la
reggia.
Fermo il
guerrier ne la gran piazza, affisa
a maggior novitate allor le
ciglia.
Quercia gli appar che per se stessa incisa
apre feconda
il cavo ventre e figlia,
e n'esce fuor vestita in strana
guisa
ninfa d'età cresciuta (oh meraviglia!);
e vede
insieme poi cento altre piante
cento ninfe produr dal sen
pregnante.
Quai
le mostra la scena o quai dipinte
tal volta rimiriam dèe
boscareccie,
nude le braccia e l'abito succinte,
con bei
coturni e con disciolte treccie,
tali in sembianza si vedean le
finte
figlie de le selvatiche corteccie;
se non che in vece
d'arco o di faretra,
chi tien leuto, e chi viola o cetra.
E cominciàr
costor danze e carole,
e di se stesse una corona ordiro
e
cinsero il guerrier, sí come sòle
esser punto
rinchiuso entro il suo giro.
Cinser la pianta ancora, e tai
parole
nel dolce canto lor da lui s'udiro:
"Ben caro
giungi in queste chiostre amene
o de la donna nostra amore e
spene.
Giungi
aspettato a dar salute a l'egra,
d'amoroso pensiero arsa e
ferita.
Questa selva che dianzi era sí negra,
stanza
conforme a la dolente vita,
vedi che tutta al tuo venir
s'allegra
e 'n piú leggiadre forme è
rivestita."
Tale era il canto; e poi dal mirto uscia
un
dolcissimo tuono, e quel s'apria.
Già
ne l'aprir d'un rustico sileno
meraviglie vedea l'antica etade,
ma
quel gran mirto da l'aperto seno
imagini mostrò piú
belle e rade:
donna mostrò ch'assomigliava a pieno
nel
falso aspetto angelica beltade.
Rinaldo guata, e di veder gli è
aviso
le sembianze d'Armida e il dolce viso.
Quella
lui mira in un lieta e dolente:
mille affetti in un guardo appaion
misti.
Poi dice: "Io pur ti veggio, e finalmente
pur
ritorni a colei da chi fuggisti.
A che ne vieni? a consolar
presente
le mie vedove notti e i giorni tristi?
o vieni a mover
guerra, a discacciarme,
che mi celi il bel volto e mostri l'arme?
giungi amante o
nemico? Il ricco ponte
io già non preparava ad uom
nemico,
né gli apriva i ruscelli, i fior, la
fonte,
sgombrando i dumi e ciò ch'a' passi è
intrico.
Togli questo elmo omai, scopri la fronte
e gli occhi a
gli occhi miei, s'arrivi amico;
giungi i labri a le labra, il seno
al seno,
porgi la destra a la mia destra almeno."
Seguia parlando,
e in bei pietosi giri
volgeva i lumi e scoloria i
sembianti,
falseggiando i dolcissimi sospiri
e i soavi singulti
e i vaghi pianti,
tal che incauta pietade a quei martíri
intenerir
potea gli aspri diamanti;
ma il cavaliero, accorto sí, non
crudo,
piú non v'attende, e stringe il ferro ignudo.
Vassene al mirto;
allor colei s'abbraccia
al caro tronco, e s'interpone e grida:
"Ah
non sarà mai ver che tu mi faccia
oltraggio tal, che
l'arbor mio recida!
Deponi il ferro, o dispietato, o il
caccia
pria ne le vene a l'infelice Armida:
per questo sen, per
questo cor la spada
solo al bel mirto mio trovar può
strada."
Egli
alza il ferro, e 'l suo pregar non cura;
ma colei si trasmuta (oh
novi mostri!)
sí come avien che d'una altra
figura,
trasformando repente, il sogno mostri.
Cosí
ingrossò le membra, e tornò oscura
la faccia e vi
sparír gli avori e gli ostri;
crebbe in gigante altissimo,
e si feo
con cento armate braccia un Briareo.
Cinquanta
spade impugna e con cinquanta
scudi risuona, e minacciando
freme.
Ogn'altra ninfa ancor d'arme s'ammanta,
fatta un ciclope
orrendo; ed ei non teme:
raddoppia i colpi e la difesa pianta
che
pur, come animata, a i colpi geme.
Sembran de l'aria i campi i
campi stigi,
tanti appaion in lor mostri e prodigi.
Sopra
il turbato ciel, sotto la terra
tuona: e fulmina quello, e trema
questa;
vengono i venti e le procelle in guerra,
e gli soffiano
al volto aspra tempesta.
Ma pur mai colpo il cavalier non erra,
né
per tanto furor punto s'arresta;
tronca la noce: è noce, e
mirto parve.
Qui l'incanto forní, sparír le larve.
Tornò
sereno il cielo e l'aura cheta,
tornò la selva al natural
suo stato:
non d'incanti terribile né lieta,
piena
d'orror ma de l'orror innato.
Ritenta il vincitor s'altro piú
vieta
ch'esser non possa il bosco omai troncato;
poscia
sorride, e fra sé dice: "Oh vane
sembianze! e folle
chi per voi rimane!"
Quincis'invia
verso le tende, e intanto
colà gridava il solitario
Piero:
"Già vinto è de la selva il fero
incanto,
già se 'n ritorna il vincitor guerriero:
vedilo."
Ed ei da lunge in bianco manto
comparia venerabile e severo,
e
de l'aquila sua l'argentee piume
splendeano al sol d'inusitato
lume.
Ei dal
campo gioioso alto saluto
ha con sonoro replicar di gridi;
e
poi con lieto onore è ricevuto
dal pio Buglione, e non è
chi l'invídi.
Disse al duce il guerriero: "A quel
temuto
bosco n'andai, come imponesti, e 'l vidi:
vidi, e vinsi
gli incanti; or vadan pure
le genti là, ché son le
vie secure."
Vassi
a l'antica selva, e quindi è tolta
materia tal qual buon
giudicio elesse;
e bench'oscuro fabro arte non molta
por ne le
prime machine sapesse,
pur artefice illustre a questa volta
è
colui ch'a le travi i vinchi intesse:
Guglielmo, il duce ligure,
che pria
signor del mare corseggiar solia,
poi
sforzato a ritrarsi ei cesse i regni
al gran navilio saracin de'
mari,
ed ora al campo conducea da i legni
e le maritime arme e
i marinari;
ed era questi infra i piú industri ingegni
ne'
mecanici ordigni uom senza pari,
e cento seco avea fabri
minori,
di ciò ch'egli disegna essecutori.
Costui
non solo incominciò a comporre
catapulte, balliste ed
arieti,
onde a le mura le difese tòrre
possa e spezzar
le sode alte pareti;
ma fece opra maggior: mirabil torre
ch'entro
di pin tessuta era e d'abeti,
e ne le cuoia avolto ha quel di
fuore
per ischermirsi da lanciato ardore.
Si
commette la mole e ricompone
con sottili giunture in un
congiunta,
e la trave che testa ha di montone
da l'ime parti
sue cozzando spunta;
lancia dal mezzo un ponte, e spesso il
pone
su l'opposta muraglia a prima giunta,
e fuor da lei su per
la cima n'esce
torre minor ch'in suso è spinta e cresce.
Per le facili vie
destra, e corrente
sovra ben cento sue volubil rote,
gravida
d'arme e gravida di gente,
senza molta fatica ella gir
pote.
Stanno le schiere in rimirando intente
la prestezza de'
fabri e l'arti ignote,
e due torri in quel punto anco son fatte
de
la prima ad imagine ritratte.
Ma
non eran fra tanto a i saracini
l'opre ch'ivi si fean del tutto
ascoste,
perché ne l'alte mura a i piú vicini
lochi
le guardie ad ispiar son poste.
Questi gran salmerie d'orni e di
pini
vedean dal bosco esser condotte a l'oste,
e machine
vedean; ma non a pieno
riconoscer la forma indi potieno.
Fan lor machine
anch'essi e con molt'arte
rinforzano le torri e la muraglia,
e
l'alzaron cosí da quella parte
ov'è men atta a
sostener battaglia,
ch'a lor credenza omai sforzo di Marte
esser
non può ch'ad espugnarla vaglia;
ma sovra ogni difesa Ismen
prepara
copia di fochi inusitata e rara.
Mesce
il mago fellon zolfi e bitume,
che dal lago di Sodoma ha
raccolto;
e fu' credo, in inferno, e dal gran fiume
che nove
volte il cerchia anco n'ha tolto.
Cosí fa che quel foco e
puta e fume,
e che s'aventi fiammeggiando al volto.
E ben co'
feri incendi egli s'avisa
di vendicar la cara selva incisa.
Mentre il campo e
l'assalto e la cittade
s'apparecchia in tal modo a le difese,
una
colomba per l'aeree strade
vista è passar sovra lo stuol
francese,
che non dimena i presti vanni e rade
quelle liquide
vie con l'ali tese;
e già la messaggiera peregrina
da
l'alte nubi a la città s'inchina,
quando
di non so donde esce un falcone
d'adunco rostro armato e di
grand'ugna
che fra 'l campo e le mura a lei s'oppone.
Non
aspetta ella del crudel la pugna;
quegli, d'alto volando, al
padiglione
maggior l'incalza e par ch'omai l'aggiugna,
ed al
tenero capo il piede ha sovra:
essa nel grembo al pio Buglion
ricovra.
La
raccoglie Goffredo, e la difende;
poi scorge, in lei guardando,
estrania cosa,
ché dal collo ad un filo avinta
pende
rinchiusa carta, e sotto un'ala ascosa.
La disserra e
dispiega, e bene intende
quella ch'in sé contien non lunga
prosa:
"Al signor di Giudea" dice lo scritto
"invia
salute il capitan d'Egitto.
Non
sbigottir, signor: resisti e dura
insino al quarto o insino al
giorno quinto,
ch'io vengo a liberar coteste mura,
e vedrai
tosto il tuo nemico vinto."
Questo il secreto fu che la
scrittura
in barbariche note avea distinto
dato in custodia al
portator volante,
ché tai messi in quel tempo usò il
Levante.
Libera
il prence la colomba; e quella,
che de' secreti fu
rivelatrice,
come esser creda al suo signor rubella,
non ardí
piú tornar nunzia infelice.
Ma il sopran duce i minor duci
appella,
e lor mostra la carta e cosí dice:
"Vedete
come il tutto a noi riveli
la providenza del Signor de' cieli.
Già piú
da ritardar tempo non parmi:
nova spianata or cominciar
potrassi,
e fatica e sudor non si risparmi
per superar
d'inverso l'Austro i sassi.
Duro fia sí far colà
strada a l'armi,
pur far si può: notato ho il loco e i
passi.
E ben quel muro che assecura il sito,
d'arme e d'opre
men deve esser munito.
Tu,
Raimondo, vogl'io che da quel lato
con le machine tue le mura
offenda,
vuo' che de l'arme mie l'alto apparato
contra la porta
Aquilonar si stenda
sí che il nemico il vegga ed
ingannato
indi il maggior impeto nostro attenda;
poi la gran
torre mia, ch'agevol move,
trascorra alquanto e porti guerra
altrove.
Tu
drizzarai, Camillo, al tempo stesso
non lontana da me la terza
torre."
Tacque; e Raimondo, che gli siede appresso
e che,
parlando lui, fra sé discorre,
disse: "Al consiglio da
Goffredo espresso
nulla giunger si pote e nulla tòrre.
Lodo
solo, oltra ciò, ch'alcun s'invii
nel campo ostil ch'i suoi
secreti spii,
e
ne ridica il numero e 'l pensiero,
quanto raccòr potrà,
certo e verace."
Sogiunge allor Tancredi: "Ho un mio
scudiero
che a questo uffizio di propor mi piace:
uom pronto e
destro e sovra i piè leggiero,
audace sí, ma
cautamente audace,
che parla in molte lingue, e varia il noto
suon
de la voce e 'l portamento e 'l moto."
Venne
colui, chiamato; e poi ch'intese
ciò che Goffredo e 'l suo
signor desia,
alzò ridendo il volto ed intraprese
la
cura e disse: "Or or mi pongo in via.
Tosto sarò dove
quel campo tese
le tende avrà, non conosciuta spia;
vuo'
penetrar di mezzodí nel vallo,
e numerarvi ogn'uomo, ogni
cavallo.
Quanta e
qual sia quell'oste, e ciò che pensi
il duce loro, a voi
ridir prometto:
vantomi in lui scoprir gli intimi sensi
e i
secreti pensier trargli del petto."
Cosí parla Vafrino
e non trattiensi,
ma cangia in lungo manto il suo farsetto,
e
mostra fa del nudo collo, e prende
d'intorno al capo attorcigliate
bende;
la faretra
s'adatta e l'arco siro,
e barbarico sembra ogni suo
gesto.
Stupiron quei che favellar l'udiro
ed in diverse lingue
esser sí presto
ch'egizio in Menfi o pur fenice in
Tiro
l'avria creduto e quel popolo e questo.
Egli se 'n va
sovra un destrier ch'a pena
segna nel corso la piú molle
arena.
Ma i
Franchi, pria che 'l terzo dí sia giunto,
appianaron le vie
scoscese e rotte,
e fornír gli instromenti anco in quel
punto,
ché non fur le fatiche unqua interrotte;
anzi a
l'opre de' giorni avean congiunto,
togliendola al riposo, anco la
notte,
né cosa è piú che ritardar li
possa
dal far l'estremo omai d'ogni lor possa.
Del
dí cui de l'assalto il dí successe,
gran parte
orando il pio Buglion dispensa;
e impon ch'ogn'altro i falli suoi
confesse
e pasca il pan de l'alme a la gran mensa.
Machine ed
arme poscia ivi piú spesse
dimostra ove adoprarle egli men
pensa;
e 'l deluso pagan si riconforta,
ch'oppor le vede a la
munita porta.
Co
'l buio de la notte è poi la vasta
agil machina sua colà
traslata
ove è men curvo il muro e men
contrasta,
ch'angulosa non fa parte e piegata.
E d'in su 'l
colle e la città sovrasta
Raimondo ancor con la sua torre
armata,
la sua Camillo a quel lato avicina
che dal Borea a
l'occaso alquanto inchina.
Ma
come furo in oriente apparsi
i matutini messaggier del
sole,
s'avidero i pagani (e ben turbàrsi)
che la torre
non è dove esser sòle;
e miràr quinci e
quindi anco inalzarsi
non piú veduta una ed un'altra
mole,
e in numero infinito anco son viste
catapulte, monton,
gatti e balliste.
Non
è la turba de' pagan già lenta
a trasportarne là
molte difese
ove il Buglion le machine appresenta,
da quella
parte ove primier l'attese.
Ma il capitan, ch'a tergo aver
rammenta
l'oste d'Egitto, ha quelle vie già prese;
e
Guelfo e i due Roberti a sé chiamati:
"State"
dice "a cavallo in sella armati,
e
procurate voi che, mentre ascendo
colà dove quel muro appar
men forte,
schiera non sia che súbita venendo
s'atterghi
a gli occupati e guerra porte."
Tacque, e già da tre
lati assalto orrendo
movon le tre sí valorose scorte;
e
da tre lati ha il re sue genti opposte,
che riprese quel dí
l'arme deposte.
Egli
medesmo al corpo omai tremante
per gli anni, e grave del suo
proprio pondo,
l'arme che disusò gran tempo
inante,
circonda, e se ne va contra Raimondo.
Solimano a
Goffredo e 'l fero Argante
al buon Camillo oppon, che di
Boemondo
seco ha il nipote; e lui fortuna or guida,
perché
'l nemico a sé dovuto uccida.
Incominciaro
a saettar gli arcieri
infette di veneno arme mortali,
ed
adombrato il ciel par che s'anneri
sotto un immenso nuvolo di
strali.
Ma con forza maggior colpi piú feri
ne venian da
le machine murali:
indi gran palle uscian marmoree e gravi,
e
con punta d'acciar ferrate travi.
Par
fulmine ogni sasso, e cosí trita
l'armatura e le membra a
chi n'è colto,
che gli toglie non pur l'alma e la vita,
ma
la forma del corpo anco e del volto.
Non si ferma la lancia a la
ferita;
dopo il colpo, del corso avanza molto:
entra da un lato
e fuor per l'altro passa
fuggendo, e nel fuggir la morte lassa.
Ma non togliea
però da la difesa
tanto furor le saracine genti:
contra
quelle percosse avean già tesa
pieghevol tela e cose altre
cedenti;
l'impeto, che 'n lor cade, ivi contesa
non trova, e
vien che vi si fiacchi e lenti;
essi, ove miran piú la
calca esposta,
fan con l'arme volanti aspra risposta.
Con
tutto ciò d'andarne oltre non cessa
l'assalitor, che
tripartito move;
e chi va sotto gatti, ove la spessa
gragnuola
di saette indarno piove,
e chi le torri a l'alto muro appressa
che
da sé loro a suo poter rimove:
tenta ogni torre omai
lanciare il ponte,
cozza il monton con la ferrata fronte.
Rinaldo intanto
irresoluto bada,
ché quel rischio di sé degno non
era,
e stima onor plebeo quand'egli vada
per le comuni vie co
'l vulgo in schiera.
E volge intorno gli occhi, e quella
strada
sol gli piace tentar ch'altri dispera.
Là dove il
muro piú munito ed alto
in pace stassi, ei vuol portar
assalto.
E
volgendosi a quegli, i quai già furo
guidati da Dudon,
guerrier famosi:
"Oh vergogna," dicea "che là
quel muro
fra cotant'arme in pace or si riposi!
Ogni rischio al
valor sempre è securo,
tutte le vie son piane a gli
animosi:
moviam là guerra, e contra a i colpi crudi
faciam
densa testugine di scudi."
Giunsersi
tutti seco a questo detto;
tutti gli scudi alzàr sovra la
testa,
e gli uniron cosí che ferreo tetto
facean contra
l'orribile tempesta.
Sotto il coperchio il fero stuol ristretto
va
di gran corso, e nulla il corso arresta,
ché la soda
testugine sostiene
ciò che di ruinoso in giú ne
viene.
Son già
sotto le mura: allor Rinaldo
scala drizzò di cento gradi e
cento,
e lei con braccio maneggiò sí saldo
ch'agile
è men picciola canna al vento.
Or lancia o trave, or gran
colonna o spaldo
d'alto discende: ei non va su piú
lento;
ma, intrepido ed invitto ad ogni scossa,
sprezzaria, se
cadesse, Olimpo ed Ossa.
Una
selva di strali e di ruine
sostien su 'l dosso, e su lo scudo un
monte:
scote una man le mura a sé vicine,
l'altra
sospesa in guardia è de la fronte.
L'essempio a l'opre
ardite e pellegrine
spinge i compagni: ei non è sol che
monte,
ché molti appoggian seco eccelse scale;
ma 'l
valore e la sorte è diseguale.
More
alcuno, altri cade: egli sublime
poggia, e questi conforta e quei
minaccia;
tanto è già in su che le merlate cime
pote
afferrar con le distese braccia.
Gran gente allor vi trae; l'urta,
il reprime,
cerca precipitarlo, e pur no 'l caccia.
Mirabil
vista! a un grande e fermo stuolo
resister può, sospeso in
aria, un solo.
E
resiste e s'avanza e si rinforza;
e come palma suol cui pondo
aggreva,
suo valor combattuto ha maggior forza
e ne la
oppression piú si solleva.
E vince alfin tutti i nemici, e
sforza
l'aste e gli intoppi che d'incontro aveva;
e sale il
muro e 'l signoreggia, e 'l rende
sgombro e securo a chi diretro
ascende.
Ed egli
stesso a l'ultimo germano
del pio Buglion, ch'è di cadere
in forse,
stesa la vincitrice amica mano,
di salirne secondo
aita porse.
Fra tanto erano altrove al capitano
varie fortune e
perigliose occorse;
ch'ivi non pur fra gli uomini si pugna,
ma
le machine insieme anco fan pugna.
Su
'l muro aveano i Siri un tronco alzato
ch'antenna un tempo esser
solea di nave,
e sovra lui co 'l capo aspro e ferrato
per
traverso sospesa è grossa trave;
e indietro quel da canapi
tirato,
poi torna inanti impetuoso e grave:
talor rientra nel
suo guscio, ed ora
la testugin rimanda il collo fora.
Urtò la
trave immensa, e cosí dure
ne la torre addoppiò le
sue percosse
che le ben teste in lei salde giunture
lentando
aperse, e la respinse e scosse.
La torre a quel bisogno armi
secure
avea già in punto, e due gran falci
mosse
ch'aventate con arte incontra al legno
quelle funi
tagliàr ch'eran sostegno.
Qual
gran sasso talor, ch'o la vecchiezza
solve da un monte o svelle
ira de' venti,
ruinoso dirupa, e porta e spezza
le selve e con
le case anco gli armenti,
tal giú traea da la sublime
altezza
l'orribil trave e merli ed arme e genti;
diè la
torre a quel moto uno e duo crolli,
tremàr le mura e
rimbombaro i colli.
Passa
il Buglion vittorioso inanti
e già le mura d'occupar si
crede,
ma fiamme allora fetide e fumanti
lanciarsi incontra
immantinente ei vede;
né dal sulfureo sen fochi mai
tanti
il cavernoso Mongibel fuor diede,
né mai cotanti
ne gli estivi ardori
piovve l'indico ciel caldi vapori.
Qui vasi e cerchi
ed aste ardenti sono,
qual fiamma nera e qual sanguigna
splende.
L'odore appuzza, assorda il bombo e 'l tuono
accieca
il fumo, il foco arde e s'apprende.
L'umido cuoio alfin saria mal
buono
schermo a la torre, a pena or la difende.
Già suda
e si rincrespa; e se piú tarda
il soccorso del Ciel, conven
pur ch'arda.
Il
magnanimo duce inanzi a tutti
stassi, e non muta né color
né loco;
e quei conforta che su i cuoi asciutti
versan
l'onde apprestate incontra al foco.
In tale stato eran costor
ridutti,
e già de l'acque rimanea lor poco,
quando ecco
un vento, ch'improviso spira,
contra gli autori suoi l'incendio
gira.
Vien contro
al foco il turbo; e indietro vòlto
il foco ove i pagan le
tele alzaro,
quella molle materia in sé raccolto
l'ha
immantinente, e n'arde ogni riparo.
Oh glorioso capitano! oh
molto
dal gran Dio custodito, al gran Dio caro!
A te guerreggia
il Cielo; ed ubidienti
vengon, chiamati a suon di trombe, i venti.
Ma l'empio Ismen,
che le sulfuree faci
vide da Borea incontra sé
converse,
ritentar volle l'arti sue fallaci
per sforzar la
natura e l'aure averse,
e fra due maghe, che di lui seguaci
si
fèr, su 'l muro a gli occhi altrui s'offerse;
e torvo e
nero e squallido e barbuto
fra due furie parea Caronte o Pluto.
Già il
mormorar s'udia de le parole
di cui teme Cocito e Flegetonte,
già
si vedea l'aria turbar e 'l sole
cinger d'oscuri nuvoli la
fronte,
quando aventato fu da l'alta mole
un gran sasso, che fu
parte d'un monte;
e tra lor colse sí ch'una percossa
sparse
di tutti insieme il sangue e l'ossa.
In
pezzi minutissimi e sanguigni
si disperser cosí l'inique
teste,
che di sotto a i pesanti aspri macigni
soglion poco le
biade uscir piú peste.
Lasciàr gemendo i tre spirti
maligni
l'aria serena e 'l bel raggio celeste,
e se 'n fuggìr
tra l'ombre empie infernali.
Apprendete pietà quinci, o
mortali.
In
questo mezzo, a la città la torre,
cui da l'incendio il
turbine assecura,
s'avicina cosí che può ben porre
e
fermare il suo ponte in su le mura;
ma Solimano intrepido
v'accorre,
e 'l passo angusto di tagliar procura,
e doppia i
colpi: e ben l'avria reciso;
ma un'altra torre apparse a
l'improviso.
La
gran mole crescente oltra i confini
de' piú alti edifici in
aria passa.
Attoniti a quel mostro i saracini
restàr,
vedendo la città piú bassa.
Ma il fero turco, ancor
ch'in lui ruini
di pietre un nembo, il loco suo non lassa;
né
di tagliar il ponte anco diffida,
e gli altri che temean rincora e
sgrida.
S'offerse
a gli occhi di Goffredo allora,
invisibile altrui, l'agnol
Michele
cinto d'armi celesti; e vinto fòra
il sol da
lui, cui nulla nube vele.
"Ecco," disse "Goffredo,
è giunta l'ora
ch'esca Siòn di servitú
crudele.
Non chinar, non chinar gli occhi smarriti;
mira con
quante forze il Ciel t'aiti.
Drizza
pur gli occhi a riguardar l'immenso
essercito immortal ch'è
in aria accolto,
ch'io dinanzi torrotti il nuvol denso
di
vostra umanità, ch'intorno avolto
adombrando t'appanna il
mortal senso,
sí che vedrai gli ignudi spirti in volto;
e
sostener per breve spazio i rai
de l'angeliche forme anco potrai.
Mira di quei che
fur campion di Cristo
l'anime fatte in Cielo or cittadine,
che
pugnan teco e di sí alto acquisto
si trovan teco al
glorioso fine.
Là 've ondeggiar la polve e 'l fumo
misto
vedi e di rotte moli alte ruine,
tra quella folta nebbia
Ugon combatte
e de le torri i fondamenti abbatte.
Ecco
poi là Dudon, che l'alta porta
Aquilonar con ferro e fiamma
assale:
ministra l'arme a i combattenti, essorta
ch'altrui su
monti, e drizza e tien le scale.
Quel ch'è su 'l colle, e
'l sacro abito porta
e la corona a i crin sacerdotale,
è
il pastore Ademaro, alma felice:
vedi ch'ancor vi segna e
benedice.
Leva
piú in su l'ardite luci, e tutta
la grande oste del ciel
congiunta guata."
Egli alzò il guardo, e vide in un
ridutta
milizia innumerabile ed alata.
Tre folte squadre, ed
ogni squadra instrutta
in tre ordini gira e si dilata;
ma si
dilata piú quanto piú in fòri
i cerchi son:
son gli intimi i minori.
Qui
chinò vinti i lumi e gli alzò poi,
né lo
spettacol grande ei piú rivide;
ma riguardando d'ogni parte
i suoi,
scorge che a tutti la vittoria arride.
Molti dietro a
Rinaldo illustri eroi
saliano; ei già salito i Siri
uccide.
Il capitan, che piú indugiar si sdegna,
toglie
di mano al fido alfier l'insegna,
e
passa primo il ponte, ed impedita
gli è a mezzo il corso
dal Soldan la via.
Un picciol ponte è campo ad
infinita
virtú, ch'in pochi colpi ivi apparia.
Grida il
fer Solimano: "A l'altrui vita
dono e consacro io la vita
mia.
Tagliate, amici, a le mie spalle or questo
ponte, ché
qui non facil preda i' resto."
Ma
venirne Rinaldo in volto orrendo
e fuggirne ciascun vedea
lontano:
"Or che farò? se qui la vita spendo,
la
spando" disse "e la disperdo invano."
E, in sé
nove difese anco volgendo,
cedea libero il passo al capitano,
che
minacciando il segue e de la santa
Croce il vessillo in su le mura
pianta.
La
vincitrice insegna in mille giri
alteramente si rivolge intorno;
e
par che in lei piú riverente spiri
l'aura, e che splenda in
lei piú chiaro il giorno;
ch'ogni dardo, ogni stral ch'in
lei si tiri,
o la declini, o faccia indi ritorno:
par che Siòn,
par che l'opposto monte
lieto l'adori, e inchini a lei la fronte.
Allor tutte le
squadre il grido alzaro
de la vittoria altissimo e festante,
e
risonaro i monti e replicaro
gli ultimi accenti; e quasi in quello
istante
ruppe e vinse Tancredi ogni riparo
che gli aveva a
l'incontro opposto Argante,
e lanciando il suo ponte anch'ei
veloce
passò nel muro e v'inalzò la Croce.
Ma verso il
mezzogiorno, ove il canuto
Raimondo pugna e 'l palestin tiranno,
i
guerrier di Guascogna anco potuto
giunger la torre a la città
non hanno,
ché 'l nerbo de le genti ha il re in aiuto
ed
ostinati a la difesa stanno;
e se ben quivi il muro era men
fermo,
di machine v'avea maggior lo schermo.
Oltra
che men ch'altrove in questo canto
la gran mole il sentier trovò
spedito,
né tanto arte poté che pur alquanto
di
sua natura non ritegna il sito.
Fu l'alto segno di vittoria
intanto
da i difensori e da i Guasconi udito,
ed avisò
il tiranno e 'l tolosano
che la città già presa è
verso il piano.
Onde
Raimondo a i suoi: "Da l'altra parte,"
grida "o
compagni, è la città già presa.
Vinta ancor
ne resiste? or soli a parte
non sarem noi di sí onorata
presa?"
Ma il re cedendo alfin di là si
parte
perch'ivi disperata è la difesa,
e se 'n rifugge
in loco forte ed alto
ove egli spera sostener l'assalto.
Entra allor
vincitore il campo tutto
per le mura non sol, ma per le
porte;
ch'è già aperto, abbattuto, arso e
destrutto
ciò che lor s'opponea rinchiuso e forte.
Spazia
l'ira del ferro; e va co 'l lutto
e con l'orror, compagni suoi, la
morte.
Ristagna il sangue in gorghi, e corre in rivi
pieni di
corpi estinti e di mal vivi.
Argomento
Intera
palma del famoso Argante
Tancredi ottiene in signolar
tenzone.
Salvo è il Re nella rocca. Erminia ha
innante
Vafrino; e questa a lui gran cose espone.
Riede
instrutto: ella è seco; e 'l caro amante
Di lei trovano
esangue in sul sabbione.
Piange ella, e 'l cura poi. Goffredo
intende
Quali insidie il Pagan contra gli tende.
Già
la morte o il consiglio o la paura
da le difese ogni pagano ha
tolto,
e sol non s'è da l'espugnate mura
il pertinace
Argante anco rivolto.
Mostra ei la faccia intrepida e secura
e
pugna pur fra gli inimici avolto,
piú che morir temendo
esser respinto;
e vuol morendo anco parer non vinto.
Ma
sovra ogn'altro feritore infesto
sovragiunge Tancredi e lui
percote.
Ben è il circasso a riconoscer presto
al
portamento, a gli atti, a l'arme note,
lui che pugnò già
seco, e 'l giorno sesto
tornar promise, e le promesse ír
vòte.
Onde gridò: "Cosí la fé,
Tancredi,
mi servi tu? cosí a la pugna or riedi?
Tardi riedi, e
non solo; io non rifiuto
però combatter teco e
riprovarmi,
benché non qual guerrier, ma qui venuto
quasi
inventor di machine tu parmi.
Fatti scudo de' tuoi, trova in
aiuto
novi ordigni di guerra e insolite armi,
ché non
potrai da le mie mani, o forte
de le donne uccisor, fuggir la
morte."
Sorrise
il buon Tancredi un cotal riso
di sdegno, e in detti alteri ebbe
risposto:
"Tardo è il ritorno mio, ma pur aviso
che
frettoloso ti parrà ben tosto,
e bramerai che te da me
diviso
o l'alpe avesse o fosse il mar fraposto;
e che del mio
indugiar non fu cagione
tema o viltà, vedrai co 'l
paragone.
Vienne
in disparte pur tu ch'omicida
sei de' giganti solo e de gli
eroi:
l'uccisor de le femine ti sfida."
Cosí gli
dice; indi si volge a i suoi
e fa ritrarli da l'offesa, e
grida:
"Cessate pur di molestarlo or voi,
ch'è
proprio mio piú che comun nemico
questi, ed a lui mi
stringe obligo antico."
"Or
discendine giú, solo o seguito
come piú vuoi";
ripiglia il fer circasso
"va' in frequentato loco od in
romito,
ché per dubbio o svantaggio io non ti lasso."
Sí
fatto ed accettato il fero invito,
movon concordi a la gran lite
il passo:
l'odio in un gli accompagna, e fa il rancore
l'un
nemico de l'altro or difensore.
Grande
è il zelo d'onor, grande il desire
che Tancredi del sangue
ha del pagano,
né la sete ammorzar crede de l'ire
se
n'esce stilla fuor per l'altrui mano;
e con lo scudo il copre, e:
"Non ferire"
grida a quanti rincontra anco lontano;
sí
che salvo il nimico infra gli amici
tragge da l'arme irate e
vincitrici.
Escon
de la cittade e dan le spalle
a i padiglion de le accampate
genti,
e se ne van dove un girevol calle
li porta per secreti
avolgimenti;
e ritrovano ombrosa angusta valle
tra piú
colli giacer, non altrimenti
che se fosse un teatro o fosse ad
uso
di battaglie e di caccie intorno chiuso.
Qui
si fermano entrambi, e pur sospeso
volgeasi Argante a la cittade
afflitta.
Vede Tancredi che 'l pagan difeso
non è di
scudo, e 'l suo lontano ei gitta.
Poscia lui dice: "Or qual
pensier t'ha preso?
pensi ch'è giunta l'ora a te
prescritta?
S'antivedendo ciò timido stai,
è 'l
tuo timore intempestivo omai."
"Penso"
risponde "a la città del regno
di Giudea antichissima
regina,
che vinta or cade, e indarno esser sostegno
io procurai
de la fatal ruina,
e ch'è poca vendetta al mio disdegno
il
capo tuo che 'l Cielo or mi destina."
Tacque, e incontra si
van con gran risguardo,
ché ben conosce l'un l'altro
gagliardo.
È
di corpo Tancredi agile e sciolto,
e di man velocissimo e di
piede;
sovrasta a lui con l'alto capo, e molto
di grossezza di
membra Argante eccede.
Girar Tancredi inchino in sé
raccolto
per aventarsi e sottentrar si vede;
e con la spada sua
la spada trova
nemica, e 'n disviarla usa ogni prova.
Ma
disteso ed eretto il fero Argante
dimostra arte simile, atto
diverso.
Quanto egli può, va co 'l gran braccio inante
e
cerca il ferro no, ma il corpo averso.
Quel tenta aditi novi in
ogni istante,
questi gli ha il ferro al volto ognor
converso:
minaccia, e intento a proibirgli stassi
furtive
entrate e súbiti trapassi.
Cosí
pugna naval, quando non spira
per lo piano del mare Africo o
Noto,
fra due legni ineguali egual si mira,
ch'un d'altezza
preval, l'altro di moto:
l'un con volte e rivolte assale e gira
da
prora a poppa, e si sta l'altro immoto;
e quando il piú
leggier se gli avicina.
d'alta parte minaccia alta ruina.
Mentre il latin
di sottentrar ritenta
sviando il ferro che si vede opporre,
vibra
Argante la spada e gli appresenta
la punta a gli occhi; egli al
riparo accorre,
ma lei sí presta allor, sí
violenta
cala il pagan che 'l difensor precorre
e 'l fère
al fianco; e visto il fianco infermo,
grida: "Lo schermitor
vinto è di schermo."
Fra
lo sdegno Tancredi e la vergogna
si rode, e lascia i soliti
riguardi,
e in cotal guisa la vendetta agogna
che sua perdita
stima il vincer tardi.
Sol risponde co 'l ferro a la rampogna
e
'l drizza a l'elmo. Ove apre il passo a i guardi.
Ribatte Argante
il colpo, e risoluto
Tancredi a mezza spada è già
venuto.
Passa
veloce allor co 'l piè sinestro
e con la manca al dritto
braccio il prende,
e con la destra intanto il lato destro
di
punte mortalissime gli offende.
"Questa" diceva "al
vincitor maestro
il vinto schermidor risposta rende."
Freme
il circasso e si contorce e scote,
ma il braccio prigionier ritrar
non pote.
Alfin
lasciò la spada a la catena
pendente, e sotto al buon latin
si spinse.
Fe' l'istesso Tancredi, e con gran lena
l'un calcò
l'altro e l'un l'altro recinse;
né con piú forza da
l'adusta arena
sospese Alcide il gran gigante e strinse,
di
quella onde facean tenaci nodi
le nerborute braccia in vari modi.
Tai fur gli
avolgimenti e tai le scosse
ch'ambi in un tempo il suol presser co
'l fianco.
Argante, od arte o sua ventura fosse,
sovra ha il
braccio migliore e sotto il manco.
Ma la man ch'è piú
atta a le percosse
sottogiace impedita al guerrier franco;
ond'ei,
che 'l suo svantaggio e 'l rischio vede,
si sviluppa da l'altro e
salta in piede.
Sorge
piú tardi e un gran fendente, in prima
che sorto ei sia,
vien sopra al saracino.
Ma come a l'Euro la frondosa cima
piega
e in un tempo la solleva il pino,
cosí lui sua virtute alza
e sublima
quando ei n'è già per ricader piú
chino.
Or ricomincian qui colpi a vicenda:
la pugna ha manco
d'arte ed è piú orrenda.
Esce
a Tancredi in piú d'un loco il sangue,
ma ne versa il pagan
quasi torrenti.
Già ne le sceme forze il furor langue,
sí
come fiamma in deboli alimenti.
Tancredi che 'l vedea co 'l
braccio essangue
girar i colpi ad or ad or piú lenti,
dal
magnanimo cor deposta l'ira,
placido gli ragiona e 'l piè
ritira:
"Cedimi,
uom forte, o riconoscer voglia
me per tuo vincitore o la
fortuna;
né ricerco da te trionfo o spoglia,
né
mi riserbo in te ragione alcuna."
Terribile il pagan piú
che mai soglia,
tutte le furie sue desta e raguna;
risponde:
"Or dunque il meglio aver ti vante
ed osi di viltà
tentare Argante?
Usa
la sorte tua, ché nulla io temo
né lascierò
la tua follia impunita."
Come face rinforza anzi l'estremo
le
fiamme, e luminosa esce di vita,
tal riempiendo ei d'ira il sangue
scemo
rinvigorí la gagliardia smarrita,
e l'ore de la
morte omai vicine
volse illustrar con generoso fine.
La
man sinistra a la compagna accosta,
e con ambe congiunte il ferro
abbassa;
cala un fendente, e benché trovi opposta
la
spada ostil, la sforza ed oltre passa,
scende a la spalla, e giú
di costa in costa
molte ferite in un sol punto lassa.
Se non
teme Tancredi, il petto audace
non fe' natura di timor capace.
Quel doppia il
colpo orribile, ed al vento
le forze e l'ire inutilmente ha
sparte,
perché Tancredi, a la percossa intento,
se ne
sottrasse e si lanciò in disparte.
Tu, dal tuo peso tratto,
in giú co 'l mento
n'andasti, Argante, e non potesti
aitarte:
per te cadesti, aventuroso in tanto
ch'altri non ha di
tua caduta il vanto.
Il
cader dilatò le piaghe aperte,
e 'l sangue espresso
dilagando scese.
Punta ei la manca in terra, e si converte
ritto
sovra un ginocchio a le difese.
"Renditi" grida, e gli
fa nove offerte,
senza noiarlo, il vincitor cortese.
Quegli di
furto intanto il ferro caccia
e su 'l tallone il fiede, indi il
minaccia.
Infuriossi
allor Tancredi, e disse:
"Cosí abusi, fellon, la pietà
mia?"
Poi la spada gli fisse e gli rifisse
ne la visiera,
ove accertò la via.
Moriva Argante, e tal moria qual
visse:
minacciava morendo e non languia.
Superbi, formidabili e
feroci
gli ultimi moti fur, l'ultime voci.
Ripon
Tancredi il ferro, e poi devoto
ringrazia Dio del trionfal
onore;
ma lasciato di forze ha quasi vòto
la sanguigna
vittoria il vincitore.
Teme egli assai che del viaggio al
moto
durar non possa il suo fievol vigore;
pur s'incamina, e
cosí passo passo
per le già corse vie move il piè
lasso.
Trar molto
il debil fianco oltra non pote
e quanto piú si sforza piú
s'affanna,
onde in terra s'asside e pon le gote
su la destra
che par tremula canna.
Ciò che vedea pargli veder che
rote,
e di tenebre il dí già gli s'appanna.
Al
fin isviene; e 'l vincitor dal vinto
non ben saria nel rimirar
distinto.
Mentre
qui segue la solinga guerra,
che privata cagion fe' cosí
ardente,
l'ira de' vincitor trascorre ed erra
per la città
su 'l popolo nocente.
Or chi giamai de l'espugnata terra
potrebbe
a pien l'imagine dolente
ritrarre in carte od adeguar parlando
lo
spettacolo atroce e miserando?
Ogni
cosa di strage era già pieno,
vedeansi in mucchi e in monti
i corpi avolti:
là i feriti su i morti, e qui
giacieno
sotto morti insepolti egri sepolti.
Fuggian premendo i
pargoletti al seno
le meste madri co' capegli sciolti,
e 'l
predator, di spoglie e di rapine
carco, stringea le vergini nel
crine.
Ma per le
vie ch'al piú sublime colle
saglion verso occidente, ond'è
il gran tempio,
tutto del sangue ostile orrido e molle
Rinaldo
corre e caccia il popolo empio.
La fera spada il generoso
estolle
sovra gli armati capi e ne fa scempio;
è schermo
frale ogn'elmo ed ogni scudo:
difesa è qui l'esser de
l'arme ignudo.
Sol
contra il ferro il nobil ferro adopra,
e sdegna ne gli inermi
esser feroce;
e que' ch'ardir non armi, arme non copra,
caccia
co l' guardo e con l'orribil voce.
Vedresti, di valor mirabil
opra,
come or disprezza, ora minaccia, or noce,
come con
rischio disegual fugati
sono egualmente pur nudi ed armati.
Già co 'l
piú imbelle vulgo anco ritratto
s'è non picciolo
stuol del piú guerriero
nel tempio che, piú volte
arso e disfatto,
si noma ancor, dal fondator primiero,
di
Salamone; e fu per lui già fatto
di cedri, d'oro e di bei
marmi altero.
Or non sí ricco già, pur saldo e
forte
è d'alte torri e di ferrate porte.
Giunto
il gran cavaliero ove raccolte
s'eran le turbe in loco ampio e
sublime,
trovò chiuse le porte e trovò molte
difese
apparecchiate in su le cime.
Alzò lo sguardo orribile e due
volte
tutto il mirò da l'alte parti a l'ime,
varco
angusto cercando, ed altrettante
il circondò con le veloci
piante.
Qual lupo
predatore a l'aer bruno
le chiuse mandre insidiando aggira,
secco
l'avide fauci, e nel digiuno
da nativo odio stimulato e
d'ira,
tale egli intorno spia s'adito alcuno
(piano od erto che
siasi) aprir si mira;
si ferma alfin ne la gran piazza, e
d'alto
stanno aspettando i miseri l'assalto.
In
disparte giacea (qual che si fosse
l'uso a cui si serbava) eccelsa
trave,
né cosí alte mai, né cosí
grosse
spiega l'antenne sue ligura nave.
Vèr la gran
porta il cavalier la mosse
con quella man cui nessun pondo è
grave,
e recandosi lei di lancia in modo
urtò d'incontro
impetuoso e sodo.
Restar
non può marmo o metallo inanti
al duro urtare, al riurtar
piú forte.
Svelse dal sasso i cardini sonanti,
ruppe i
serragli ed abbatté le porte.
Non l'ariete di far piú
si vanti,
non la bombarda, fulmine di morte.
Per la dischiusa
via la gente inonda
quasi un diluvio, e 'l vincitor seconda.
Rende misera
strage atra e funesta
l'alta magion che fu magion di Dio.
O
giustizia del Ciel, quanto men presta
tanto piú grave sovra
il popol rio!
Dal tuo secreto proveder fu desta
l'ira ne' cor
pietosi, e incrudelio.
Lavò co 'l sangue suo l'empio
pagano
quel tempio che già fatto avea profano.
Ma
intanto Soliman vèr la gran torre
ito se n'è che di
David s'appella,
e qui fa de' guerrier l'avanzo accòrre,
e
sbarra intorno a questa strada e quella;
e 'l tiranno Aladino anco
vi corre.
Come il Soldan lui vede, a lui favella:
"Vieni,
o famoso re, vieni; e là sovra
a la rocca fortissima
ricovra,
ché
dal furor de le nemiche spade
guardar vi puoi la tua salute e 'l
regno."
"Oimè," risponde "oimè,
che la cittade
strugge dal fondo suo barbaro sdegno,
e la mia
vita e 'l nostro imperio cade.
Vissi, e regnai; non vivo piú,
né regno.
Ben si può dir: `Noi fummo.' A tutti è
giunto
l'ultimo dí, l'inevitabil punto."
"Ov'è,
signor la tua virtute antica?"
disse il Soldan tutto
cruccioso allora.
"Tolgaci i regni pur sorte nemica,
ché
'l regal pregio è nostro e 'n noi dimora.
Ma colà
dentro omai da la fatica
le stanche e gravi tue membra
ristora."
Cosí gli parla, e fa che si raccoglia
il
vecchio re ne la guardata soglia.
Egli
ferrata mazza a due man prende
e si ripon la fida spada al
fianco,
e stassi al varco intrepido e difende
il chiuso de le
strade al popol franco.
Eran mortali le percosse orrende:
quella
che non uccide, atterra almanco.
Già fugge ognun da la
sbarrata piazza,
dove appressar vede l'orribil mazza.
Ecco da fera
compagnia seguito
sopragiungeva il tolosan Raimondo.
Al
periglioso passo il vecchio ardito
corse, e sprezzò di quei
gran colpi il pondo.
Primo ei ferí, ma invano ebbe
ferito;
non ferí invano il feritor secondo,
ch'in fronte
il colse, e l'atterrò co 'l peso
supin, tremante, a braccia
aperte e steso.
Finalmente
ritorna anco ne' vinti
la virtú che 'l timore avea
fugata,
e i Franchi vincitori o son respinti
o pur caggiono
uccisi in su l'entrata.
Ma il Soldan, che giacere infra gli
estinti
il tramortito duce a i piè si guata,
grida a i
suoi cavalier: "Costui sia tratto
dentro a le sbarre e
prigionier sia fatto."
Si
movon quegli ad esseguir l'effetto,
ma trovan dura e faticosa
impresa
perché non è d'alcun de' suoi
negletto
Raimondo, e corron tutti in sua difesa.
Quinci furor,
quindi pietoso affetto
pugna, né vil cagione è di
contesa:
di sí grand'uom la libertà, la vita,
questi
a guardar, quegli a rapir invita.
Pur
vinto avrebbe a lungo andar la prova
il Soldano ostinato a la
vendetta,
ch'a la fulminea mazza oppor non giova
o doppio scudo
o tempra d'elmo eletta;
ma grande aita a i suoi nemici e nova
di
qua di là vede arrivare in fretta,
ché da duo lati
opposti in un sol punto
il sopran duce e 'l gran guerriero è
giunto.
Come
pastor, quando fremendo intorno
il vento e i tuoni e balenando i
lampi
vede oscurar di mille nubi il giorno,
ritrae le greggie
da gli aperti campi,
e sollecito cerca alcun soggiorno
ove
l'ira del ciel securo scampi,
ei co 'l grido indrizzando e con la
verga
le mandre inanti, a gli ultimi s'atterga;
cosí
il pagan, che già venir sentia
l'irreparabil turbo e la
tempesta
che di fremiti orrendi il ciel feria
d'arme
ingombrando e quella parte e questa
le custodite genti inanzi
invia
ne la gran torre, ed egli ultimo resta:
ultimo parte, e
sí cede al periglio
ch'audace appare in provido consiglio.
Pur a fatica
avien che si ripari
dentro a le porte, e le riserra a pena
che
già, rotte le sbarre, a i limitari
Rinaldo vien, né
quivi anco s'affrena.
Desio di superar chi non ha pari
in opra
d'arme, e giuramento il mena;
ché non oblia che in voto
egli promise
di dar morte a colui che 'l dano uccise.
E
ben allor allor l'invitta mano
tentato avria l'inespugnabil
muro,
né forse colà dentro era il Soldano
dal
fatal suo nemico assai securo;
ma già suona a ritratta il
capitano,
già l'orizonte d'ogni intorno è
scuro.
Goffredo alloggia ne la terra, e vòle
rinovar poi
l'assalto al novo sole.
Diceva
a i suoi lietissimo in sembienza:
"Favorito ha il gran Dio
l'armi cristiane:
fatto è il sommo de' fatti, e poco
avanza
de l'opra e nulla del timor rimane.
La torre (estrema e
misera speranza
degli infedeli) espugnarem dimane.
Pietà
fra tanto a confortar v'inviti
con sollecito amor gli egri e i
feriti.
Ite, e
curate quei c'han fatto acquisto
di questa patria a noi co 'l
sangue loro.
Ciò piú conviensi a i cavalier di
Cristo,
che desio di vendetta o di tesoro.
Troppo, ahi! troppo
di strage oggi s'è visto,
troppa in alcuni avidità
de l'oro;
rapir piú oltra, e incrudelir i' vieto.
Or
divulghin le trombe il mio divieto."
Tacque,
e poi se n'andò là dove il conte
riavuto dal colpo
anco ne geme.
Né Soliman con meno ardita fronte
a i suoi
ragiona, e 'l duol ne l'alma preme:
"Siate, o compagni, di
fortuna a l'onte
invitti insin che verde è fior di
speme,
ché sotto alta apparenza di fallace
spavento oggi
men grave il danno giace.
Prese
i nemici han sol le mura e i tetti
e 'l vulgo umil, né la
cittade han presa,
ché nel capo del re, ne' vostri
petti,
ne le man vostre è la città compresa.
Veggio
il re salvo e salvi i suoi piú eletti,
veggio che ne
circonda alta difesa.
Vano trofeo d'abbandonata terra
abbiansi
i Franchi; alfin perdran la guerra.
E
certo i' son che perderanla alfine,
ché ne la sorte
prospera insolenti
fian vòlti a gli omicidi, a le rapine
ed
a gli ingiuriosi abbracciamenti;
e saran di leggier tra le
ruine,
tra gli stupri e le prede, oppressi e spenti,
se in
tanta tracotanza omai sorgiunge
l'oste d'Egitto, e non pote esser
lunge.
Intanto
noi signoreggiar co' sassi
potrem de la città gli alti
edifici,
ed ogni calle onde al Sepolcro vassi
torràn le
nostre machine a i nemici.
Cosí, vigor porgendo a i cor già
lassi,
la speme rinovò ne gli infelici.
Or mentre qui
tai cose eran passate,
errò Vafrin tra mille schiere
armate.
A
l'essercito avverso eletto in spia,
già dechinando il sol,
partí Vafrino;
e corse oscura e solitaria via
notturno e
sconosciuto peregrino.
Ascalona passò che non uscia
dal
balcon d'oriente anco il mattino;
poi quando è nel meriggio
il solar lampo,
a vista fu del poderoso campo.
Vide
tende infinite e ventillanti
stendardi in cima azzurri e persi e
gialli,
e tante udí lingue discordi e tanti
timpani e
corni e barbari metalli
e voci di cameli e d'elefanti,
tra 'l
nitrir de' magnanimi cavalli,
che fra sé disse: "Qui
l'Africa tutta
translata viene e qui l'Asia è condutta."
Mira egli
alquanto pria come sia forte
del campo il sito, e qual vallo il
circonde;
poscia non tenta vie furtive e torte,
né dal
frequente popolo s'asconde,
ma per dritto sentier tra regie
porte
trapassa, ed or dimanda ed or risponde.
A dimande, a
risposte astute e pronte
accoppia baldanzosa audace fronte.
Di qua di là
sollecito s'aggira
per le vie, per le piazze e per le tende.
I
guerrier, i destrier, l'arme rimira,
l'arti e gli ordini osserva e
i nomi apprende.
Né di ciò pago, a maggior cose
aspira:
spia gli occulti disegni e parte intende.
Tanto
s'avolge, e cosí destro e piano,
ch'adito s'apre al
padiglion soprano.
Vede,
mirando qui, sdruscita tela,
ond'ha varco la voce, onde si
scerne,
che là proprio risponde ove son de la
stanza
regal le ritirate interne,
sí che i secreti del signor mal
cela
ad uom ch'ascolti da le parti esterne.
Vafrin vi guata e
par ch'ad altro intenda,
come sia cura sua conciar la tenda.
Stavasi il
capitan la testa ignudo,
le membra armato e con purpureo
ammanto.
Lunge due paggi avean l'elmo e lo scudo:
preme egli
un'asta e vi s'appoggia alquanto.
Guardava un uom di torvo aspetto
e crudo,
membruto ed alto, il qual gli era da canto.
Vafrino è
attento e, di Goffredo a nome
parlar sentendo, alza gli orecchi al
nome.
Parla il
duce a colui: "Dunque securo
sei cosí tu di dar morte
a Goffredo?"
Risponde quegli: "Io sonne, e 'n corte
giuro
non tornar mai se vincitor non riedo.
Preverrò ben
color che meco furo
al congiurare; e premio altro non chiedo
se
non ch'io possa un bel trofeo de l'armi
drizzar nel Cairo, e
sottopor tai carmi:
`Queste
arme in guerra al capitan francese,
distruggitor de l'Asia,
Ormondo trasse
quando gli trasse l'alma, e le sospese
perché
memoria ad ogni età ne passe.'"
"Non fia"
l'altro dicea "che 'l re cortese
l'opera grande inonorata
lasse:
ben ei darà ciò che per te si chiede,
ma
congiunta l'avrai d'alta mercede.
Or
apparecchia pur l'arme mentite,
ché 'l giorno omai de la
battaglia è presso.
"Son" rispose "già
preste." E qui, fornite
queste parole, e 'l duce tacque ed
esso.
Restò Vafrino a le gran cose udite
sospeso e
dubbio, e rivolgea in se stesso
qual arti di congiura e quali
sieno
le mentite arme, e no 'l comprese a pieno.
Indi
partissi e quella notte intera
desto passò, ch'occhio
serrar non volse;
ma quando poi di novo ogni bandiera
a l'aure
matutine il campo sciolse,
anch'ei marciò con l'altra gente
in schiera,
fermossi anch'egli ov'ella albergo tolse,
e pur
anco tornò di tenda in tenda
per udir cosa onde il ver
meglio intenda.
Cercando,
trova in sede alta e pomposa
fra cavalieri Armida e fra
donzelle,
che stassi in sé romita e sospirosa:
fra sé
co' suoi pensier par che favelle.
Su la candida man la guancia
posa,
e china a terra l'amorose stelle.
Non sa se pianga o no:
ben può vederle
umidi gli occhi e gravidi di perle.
Vedele incontra
il fero Adrasto assiso
che par ch'occhio non batta e che non
spiri,
tanto da lei pendea, tanto in lei fiso
pasceva i suoi
famelici desiri.
Ma Tisaferno, or l'uno or l'altro in
viso
guardando, or vien che brami, or che s'adiri;
e segna il
nobil volto or di colore
di rabbioso disdegno ed or d'amore.
Scorge poscia
Altamor, ch'in cerchio accolto
fra le donzelle alquanto era in
disparte.
Non lascia il desir vago a freno sciolto,
ma gira gli
occhi cupidi con arte:
volge un guardo a la mano, uno al bel
volto,
talora insidia piú guardata parte,
e là
s'interna ove mal cauto apria
fra due mamme un bel vel secreta
via.
Alza alfin
gli occhi Armida, e pur alquanto
la bella fronte sua torna
serena;
e repente fra i nuvoli del pianto
un soave sorriso apre
e balena.
"Signor," dicea "membrando il vostro
vanto
l'anima mia pote scemar la pena,
ché d'esser
vendicata in breve aspetta,
e dolce è l'ira in aspettar
vendetta."
Risponde
l'indian: "La fronte mesta
deh, per Dio! rasserena, e 'l
duolo alleggia,
ch'assai tosto averrà che l'empia testa
di
quel Rinaldo a piè tronca ti veggia,
o menarolti prigionier
con questa
ultrice mano, ove prigion tu 'l chieggia.
Cosí
promisi in vòto." Or l'altro ch'ode,
moto non fa, ma
tra suo cor si rode.
Volgendo
in Tisaferno il dolce sguardo:
"Tu, che dici, signor?"
colei soggiunge.
Risponde egli infingendo: "Io che son
tardo
seguiterò il valor cosí da lunge
di questo
tuo terribile e gagliardo."
E con tai detti amaramente il
punge.
Ripiglia l'indo allor: "Ben è ragione
che
lunge segua e tema il paragone."
Crollando
Tisaferno il capo altero,
disse: "Oh foss'io signor del mio
talento!
libero avessi in questa spada impero!
ché tosto
ei si parria chi sia piú lento.
Non temo io te né
tuoi gran vanti, o fero;
ma il Cielo e l'inimico Amor
pavento."
Tacque; e sorgeva Adrasto a far disfida,
ma la
prevenne e s'interpose Armida.
Diss'ella:
"O cavalier, perché quel dono,
donatomi piú
volte, anco togliete?
Miei campion sète voi, pur esser
buono
dovria tal nome a por tra voi quiete.
Meco s'adira chi
s'adira: io sono
ne l'offese l'offesa, e voi 'l sapete."
Cosí
lor parla, e cosí avien che accordi
sotto giogo di ferro
alme discordi.
È
presente Vafrino e 'l tutto ascolta,
e sottrattone il vero indi si
toglie.
Spia de l'alta congiura, e lei ravvolta
trova in
silenzio e nulla ne raccoglie.
Chiedene improntamente anco tal
volta,
e la difficoltà cresce le voglie.
O qui lasciar
la vita egli è disposto,
o riportarne il gran secreto
ascosto.
Mille e
piú vie d'accorgimento ignote,
mille ripensa inusitate
frodi,
e pur con tutto ciò non gli son note
de l'occulta
congiura e l'arme e i modi.
Fortuna alfin (quel che per sé
non pote)
isviluppò d'ogni suo dubbio i nodi,
si ch'ei
distinto e manifesto intese
come l'insidie al pio Buglion sian
tese.
Era tornato
ov'è pur anco assisa
fra' suoi campioni la nemica
amante,
ch'ivi opportun l'investigarne avisa
ove traean genti
sí varie e tante.
Or qui s'accosta a una donzella, in
guisa
che par che v'abbia conoscenza inante;
par v'abbia
d'amistade antica usanza,
e ragiona in affabile sembianza.
Egli dicea, quasi
per gioco: " Anch'io
vorrei d'alcuna bella esser campione,
e
troncar pensarei co 'l ferro mio
il capo o di Rinaldo o del
Buglione.
Chiedila pure a me, se n'hai desio,
la testa d'alcun
barbaro barone."
Cosí comincia, e pensa a poco a
poco
a piú grave parlar ridur il gioco.
Ma
in questo dir sorrise, e fe' ridendo
un cotal atto suo nativo
usato.
Una de l'altre allor qui sorgiungendo
l'udí,
guardollo, e poi gli venne a lato;
disse: "Involarti a
ciascun'altra intendo,
né ti dorrai d'amor male
impiegato.
In mio campion t'eleggo; ed in disparte,
come a mio
cavalier, vuo' ragionarte."
Ritirollo,
e parlò: "Riconosciuto
ho te, Vafrin; tu me conoscer
déi."
Nel cor turbossi lo scudiero astuto,
pur si
rivolse sorridendo a lei:
"Non t'ho (che mi sovenga) unqua
veduto,
e degna pur d'esser mirata sei.
Questo so ben, ch'assai
vario da quello
che tu dicesti è il nome ond'io m'appello.
Me su la piaggia
di Biserta aprica
Lesbin produsse, e mi nomò
Almanzorre."
Tosto disse ella: "Ho conoscenza
antica
d'ogn'esser tuo, né già mi voglio
apporre.
Non ti celar da me, ch'io sono amica,
ed in tuo pro
vorrei la vita esporre.
Erminia son, già di re figlia, e
serva
poi di Tancredi un tempo, e tua conserva.
Ne
la dolce prigion due lieti mesi
pietoso prigionier m'avesti in
guarda,
e mi servisti in bei modi cortesi.
Ben dessa i' son,
ben dessa i' son; riguarda."
Lo scudier, come pria v'ha gli
occhi intesi,
la bella faccia a ravvisar non tarda.
"Vivi"
ella soggiungea "da me securo:
per questo ciel, per questo
sol te 'l giuro.
Anzi
pregar ti vo' che, quando torni,
mi riconduca a la prigion mia
cara.
Torbide notti e tenebrosi giorni,
misera, vivo in
libertate amara.
E se qui per ispia forse soggiorni,
ti si fa
incontro alta fortuna e rara:
saprai da me congiure, e ciò
ch'altrove
malagevol sarà che tu ritrove."
Cosí gli
parla, e intanto ei mira e tace;
pensa a l'essempio de la falsa
Armida.
"Femina è cosa garrula e fallace:
vòle
e disvòle; è folle uom che se 'n fida."
Sí
tra sé volge. "Or, se venir ti piace,"
alfin le
disse "io ne sarò tua guida.
Sia fermato tra noi
questo e conchiuso,
serbisi il parlar d'altro a miglior uso."
Gli ordini danno
di salire in sella
anzi il mover del campo allora allora.
Parte
Vafrin dal padiglione, ed ella
si torna a l'altre e alquanto ivi
dimora.
Di scherzar fa sembianza e pur favella
del campion
novo, e se ne vien poi fora;
viene al loco prescritto e
s'accompagna,
ed escon poi del campo a la campagna.
Già
eran giunti in parte assai romita
e già sparian le saracine
tende,
quando ei le disse: "Or di' come a la vita
del pio
Goffredo altri l'insidie tende."
Allor colei de la congiura
ordita
l'iniqua tela a lui dispiega e stende.
"Son"
gli divisa "otto guerrier di corte,
tra' quali il piú
famoso è Ormondo il forte.
Questi
(che che lor mova, odio o disegno)
han conspirato, e l'arte lor
fia tale:
quel dí ch'in lite verrà d'Asia il
regno
tra' due gran campi in gran pugna campale,
avran su
l'arme de la Croce il segno,
e l'arme avranno a la francesca; e
quale
la guardia di Goffredo ha bianco e d'oro
il suo vestir,
sarà l'abito loro.
Ma
ciascun terrà cosa in su l'elmetto
che noto a i suoi per
uom pagano il faccia.
Quando fia poi rimescolato e stretto
l'un
campo e l'altro, elli porransi in traccia,
e insidieranno al
valoroso petto
mostrando di custodi amica faccia;
e 'l ferro
armato di veneno avranno,
perché mortal sia d'ogni piaga il
danno.
E perché
fra' pagani anco risassi
ch'io so vostr'usi ed arme e
sopraveste,
fèr che le false insegne io divisassi;
e fui
costretta ad opere moleste.
Queste son le cagion che 'l campo io
lassi:
fuggo l'imperiose altrui richieste;
schivo ed aborro in
qual si voglia modo
contaminarmi in atto alcun di frodo.
Queste son le
cagion, ma non già sole."
E qui si tacque, e di rossor
si tinse
e chinò gli occhi, e l'ultime parole
ritener
volle e non ben le distinse.
Lo scudier, che da lei ritrar pur
vòle
ciò ch'ella vergognando in sé
ristrinse,
"Di poca fede," disse "or perché
cele
le piú vere cagioni al tuo fedele?"
Ella
dal petto un gran sospiro apriva,
e parlava con suon tremante e
roco:
"Mal guardata vergogna intempestiva,
vattene omai,
non hai tu qui piú loco;
a che pur tenti, o in van ritrosa,
o schiva,
celar co 'l fuoco tuo d'amor il foco?
Debiti fur
questi rispetti inante,
non or che fatta son donzella errante."
Soggiunse poi:
"La notte a me fatale
ed a la patria mia che giacque
oppressa,
perdei piú che non parve; e 'l mio gran male
non
ebbi in lei, ma derivò da essa.
Leve perdita è il
regno, io co 'l regale
mio alto stato anco perdei me stessa:
per
mai non ricovrarla, allor perdei
la mente, folle, e 'l core e i
sensi miei.
Vafrin,
tu sai che timidetta accorsi,
tanta strage vedendo e tante
prede,
al tuo signor e mio, che prima i' scorsi
armato por ne
la mia reggia il piede;
e chinandomi a lui tai voci
porsi:
`Invitto vincitor, pietà, mercede!
non prego io
te per la mia vita: il fiore
salvami sol del verginale onore.'
Egli, la sua
porgendo a la mia mano,
non aspettò che 'l mio pregar
fornisse:
`Vergine bella, non ricorri in vano,
io ne sarò
tuo difensor' mi disse.
Allor un non so che soave e piano
sentii
ch'al cor mi scese e vi s'affisse,
che serpendomi poi per l'alma
vaga,
non so come, divenne incendio e piaga.
Visitommi
poi spesso e 'n dolce suono
consolando il mio duol, meco si
dolse.
Dicea: `L'intera libertà ti dono'
e de le spoglie
mie spoglia non volse.
Oimè! che fu rapina e parve
dono,
ché rendendomi a me da me mi tolse.
Quel mi rendé
ch'è via men caro e degno,
ma s'usurpò del core a
forza il regno.
Mal
amor si nasconde. A te sovente
desiosa chiedea del mio
signore.
Veggendo i segni tu d'inferma mente:
`Erminia,' mi
dicesti `ardi d'amore.'
Io te 'l negai, ma un mio sospiro
ardente
fu piú verace testimon del core;
e 'n vece forse
della lingua, il guardo
manifestava il foco onde tutt'ardo.
Sfortunato
silenzio! avessi almeno
chiesta allor medicina al gran
martire,
s'esser poscia dovea lentato il freno,
quando non
giovarebbe, ai mio desire.
Partimmi in somma, e le mie piaghe in
seno
portai celate e ne credei morire.
Al fin cercando al viver
mio soccorso,
mi sciolse amor d'ogni rispetto il morso;
sí ch'a
trovarne il mio signor io mossi
ch'egra mi fece e mi potea far
sana.
Ma tra via fero intoppo attraversossi
di gente
inclementissima e villana.
Poco mancò che preda lor non
fossi,
pur in parte fuggimmi erma e lontana;
e colà
vissi in solitaria cella,
cittadina de' boschi e pastorella.
Ma poi che quel
desio che fu ripresso
molti dí per la tema anco
risorse,
tornarmi ritentando al loco stesso,
la medesma
sciagura anco m'occorse.
Fuggir non potei già, ch'era omai
presso
predatrice masnada e troppo corse.
Cosí fui
presa, e quei che mi rapiro
Egizi fur ch'a Gaza indi se 'n giro,
e 'n don menàrmi
al capitano, a cui
diedi di me contezza, e 'l persuasi
sí
ch'onorata e inviolata fui
quei dí che con Armida ivi
rimasi.
Cosí venni piú volte in forza altrui,
e
me 'n sottrassi. Ecco i miei duri casi.
Pur le prime catene anco
riserva
la tante volte liberata e serva.
Oh,
pur colui che circondolle intorno
a l'alma, sí che non fia
chi le scioglia,
non dica: `Errante ancella, altro
soggiorno
cércati pure,' e me seco non voglia;
ma
pietoso gradisca il mio ritorno
e ne l'antica mia prigion
m'accoglia!"
Cosí diceagli Erminia, e insieme
andaro
la notte e 'l giorno ragionando a paro.
Il
piú usato sentier lasciò Vafrino,
calle cercando o
piú securo o corto.
Giunsero in loco a la città
vicino
quando è il sol ne l'occaso e imbruna l'orto,
e
trovaron di sangue atro il camino;
e poi vider nel sangue un
guerrier morto
che le vie tutte ingombra, e la gran faccia
tien
volta ai cielo e morto anco minaccia.
L'uso
de l'arme e 'l portamento estrano
pagàn mostràrlo, e
lo scudier trascorse;
un altro alquanto ne giacea lontano
che
tosto a gli occhi di Vafrino occorse.
Egli disse fra sé:
"Questi è cristiano."
Piú il mise poscia
il vestir bruno in forse.
Salta di sella e gli discopre il
viso,
ed: "Oimè," grida "è qui
Tancredi ucciso."
A
riguardar sovra il guerrier feroce
la male aventurosa era
fermata,
quando dal suon de la dolente voce
per lo mezzo del
cor fu saettata.
Al nome di Tancredi ella veloce
accorse in
guisa d'ebra e forsennata.
Vista la faccia scolorita e bella,
non
scese no, precipitò di sella;
e
in lui versò d'inessicabil vena
lacrime e voce di sospiri
mista:
"In che misero punto or qui mi mena
fortuna? a che
veduta amara e trista?
Dopo gran tempo i' ti ritrovo a
pena,
Tancredi, e ti riveggio e non son vista:
vista non son da
te benché presente,
e trovando ti perdo eternamente.
Misera! non
credea ch'a gli occhi miei
potessi in alcun tempo esser noioso.
Or
cieca farmi volentier torrei
per non vederti, e riguardar non
oso.
Oimè, de' lumi già sí dolci e rei
ov'è
la fiamma? ov'è il bel raggio ascoso?
de le fiorite guancie
il bel vermiglio
ov'è fuggito? ov'è il seren del
ciglio?
Ma che?
squallido e scuro anco mi piaci.
Anima bella, se quinci entro
gire,
s'odi il mio pianto, a le mie voglie audaci
perdona il
furto e 'l temerario ardire:
da le pallide labra i freddi
baci,
che piú caldi sperai, vuo' pur rapire;
parte torrò
di sue ragioni a morte,
baciando queste labra essangui e smorte.
Pietosa bocca che
solevi in vita
consolar il mio duol di tue parole,
lecito sia
ch'anzi la mia partita
d'alcun tuo caro bacio io mi console;
e
forse allor, s'era a cercarlo ardita,
quel davi tu ch'ora conven
ch'invole.
Lecito sia ch'ora ti stringa e poi
versi lo spirto
mio fra i labri tuoi.
Raccogli
tu l'anima mia seguace,
drizzala tu dove la tua se 'n gio."
Cosí
parla gemendo, e si disface
quasi per gli occhi, e par conversa in
rio.
Rivenne quegli a quell'umor vivace
e le languide labra
alquanto aprio:
aprí le labra e con le luci chiuse
un
suo sospir con que' di lei confuse.
Sente
la donna il cavalier che geme,
e forza è pur che si
conforti alquanto:
"Apri gli occhi, Tancredi, a queste
estreme
essequie" grida "ch'io ti fo co 'l
pianto;
riguarda me che vuo' venirne insieme
la lunga strada e
vuo' morirti a canto.
Riguarda me, non te 'n fuggir sí
presto:
l'ultimo don ch'io ti dimando è questo."
Apre Tancredi gli
occhi e poi gli abbassa
torbidi e gravi, ed ella pur si
lagna.
Dice Vafrino a lei: "Questi non passa:
curisi
adunque prima, e poi si piagna."
Egli il disarma, ella
tremante e lassa
porge la mano a l'opere compagna,
mira e
tratta le piaghe e, di ferute
giudice esperta, spera indi salute.
Vede che 'l mal
da la stanchezza nasce
e da gli umori in troppa copia sparti.
Ma
non ha fuor ch'un velo onde gli fasce
le sue ferite, in sí
solinghe parti.
Amor le trova inusitate fasce,
e di pietà
le insegna insolite arti:
l'asciugò con le chiome e
rilegolle
pur con le chiome che troncar si volle,
però
che 'l velo suo bastar non pote
breve e sottile a le sí
spesse piaghe.
Dittamo e croco non avea, ma note
per uso tal
sapea potenti e maghe.
Già il mortifero sonno ei da sé
scote,
già può le luci alzar mobili e vaghe.
Vede
il suo servo, e la pietosa donna
sopra si mira in peregrina gonna.
Chiede: "O
Vafrin, qui come giungi e quando?
E tu chi sei, medica mia
pietosa?"
Ella, fra lieta e dubbia sospirando,
tinse il
bel volto di color di rosa:
"Saprai" rispose "il
tutto, or (te 'l comando
come medica tua) taci e riposa.
Salute
avrai, prepara il guiderdone."
Ed al suo capo il grembo indi
suppone.
Pensa
intanto Vafrin come a l'ostello
agiato il porti anzi piú
fosca sera,
ed ecco di guerrier giunge un drapello:
conosce ei
ben che di Tancredi è schiera.
Quando affrontò il
circasso e per appello
di battaglia chiamollo, insieme egli
era;
non seguí lui perché non volse allora,
poi
dubbioso il cercò de la dimora.
Seguian
molti altri la medesma inchiesta,
ma ritrovarlo avien che lor
succeda.
De le stesse lor braccia essi han contesta
quasi una
sede ov'ei s'appoggi e sieda.
Disse Tancredi allora: "Adunque
resta
il valoroso Argante a i corvi in preda?
Ah per Dio non si
lasci, e non si frodi
o de la sepoltura o de le lodi.
Nessuna a me co
'l busto essangue e muto
riman piú guerra; egli morí
qual forte,
onde a ragion gli è quell'onor devuto
che
solo in terra avanzo è de la morte."
Cosí da
molti ricevendo aiuto
fa che 'l nemico suo dietro si
porte.
Vafrino al fianco di colei si pose,
sí come uom
sòle a le guardate cose.
Soggiunse
il prence: "A la città regale,
non a le tende mie,
vuo' che si vada,
ché s'umano accidente a questa frale
vita
sovrasta, è ben ch'ivi m'accada;
ché 'l loco ove
morí l'Uomo immortale
può forse al Cielo agevolar la
strada,
e sarà pago un mio pensier devoto
d'aver
peregrinato al fin del voto."
Disse,
e colà portato egli fu posto
sovra le piume, e 'l prese un
sonno cheto.
Vafrino a la donzella, e non discosto,
ritrova
albergo assai chiuso e secreto.
Quinci s'invia dov'è
Goffredo, e tosto
entra, ché non gli è fatto alcun
divieto,
se ben allor de la futura impresa
in bilance i
consigli appende e pesa.
Del
letto, ove la stanca egra persona
posa Raimondo, il duce è
su la sponda,
e d'ogn'intorno nobile corona
de' piú
potenti e piú saggi il circonda.
Or, mentre lo scudiero a
lui ragiona,
non v'è chi d'altro chieda o chi
risponda.
"Signor," dicea "come imponesti,
andai
tra gli infedeli e 'l campo lor cercai.
Ma
non aspettar già che di quell'oste
l'innumerabil numero ti
conti.
I' vidi ch'al passar le valli ascoste
sotto e' teneva e
i piani tutti e i monti;
vidi che dove giunga, ove
s'accoste,
spoglia la terra e secca i fiumi e i fonti,
perché
non bastan l'acque a la lor sete,
e poco è lor ciò
che la Siria miete.
Ma
sí de' cavalier, sí de' pedoni
sono in gran parte
inutili le schiere:
gente che non intende ordini o suoni,
né
stringe ferro e di lontan sol fère.
Ben ve ne sono alquanti
eletti e buoni
che seguite di Persia han le bandiere,
e forse
squadra anco migliore è quella
che la squadra immortal del
re s'appella.
Ella
è detta immortal perché difetto
in quel numero mai
non fu pur d'uno,
ma empie il loco vòto e sempre
eletto
sottentra uom novo ove ne manchi alcuno.
Il capitan del
campo, Emiren detto,
pari ha in senno e valor pochi o nessuno,
e
gli commanda il re che provocarti
debba a pugna campal con tutte
l'arti.
Né
credo già ch'al dí secondo tardi
l'essercito nemico
a comparire.
Ma tu, Rinaldo, assai conven che guardi
il capo,
ond'è fra lor tanto desire,
ché i piú famosi
in arme e i piú gagliardi
gli hanno incontra arrotato il
ferro e l'ire;
perché Armida se stessa in guiderdone
a
qual di loro il troncherà propone.
Fra
questi è il valoroso e nobil perso:
dico Altamoro, il re di
Sarmacante,
Adrasto v'è, c'ha il regno suo là
verso
i confin de l'aurora ed è gigante,
uom d'ogni
umanità cosí diverso
che frena per cavallo un
elefante.
V'è Tisaferno, a cui ne l'esser prode
concorde
fama dà sovrana lode."
Cosí
dice egli, e 'l giovenetto in volto
tutto scintilla ed ha negli
occhi il foco.
Vorria già tra' nemici essere avolto,
né
cape in sé, né ritrovar può loco.
Quinci
Vafrino al capitan rivolto:
"Signor," soggiunse "il
sin qui detto è poco;
la somma de le cose or qui si
chiuda:
impugneransi in te l'arme di Giuda."
Di
parte in parte poi tutto gli espose
ciò che di fraudolente
in lui si tesse:
l'arme e 'l venen, l'insegne insidiose,
il
vanto udito, i premi e le promesse.
Molto chiesto gli fu, molto
rispose;
breve tra lor silenzio indi successe,
poscia inalzando
il capitano il ciglio
chiede a Raimondo: "Or qual è il
tuo consiglio?"
Ed
egli: "È mio parer ch'a i novi albori,
come concluso
fu, piú non s'assaglia,
ma si stringa la torre, onde uscir
fuori
quel ch'è là dentro a suo piacer non vaglia,
e
posi il nostro campo e si ristori
fra tanto ad uopo di maggior
battaglia.
Pensa poi tu s'è meglio usar la spada
con
forza aperta o 'l gir tenendo a bada.
Mio
giudizio è però che a te convegna
di te stesso curar
sovra ogni cura,
ché per te vince l'oste e per te
regna.
Chi senza te l'indrizza e l'assecura?
E perché i
traditor non celi insegna,
mutar l'insegne a' tuoi guerrier
procura.
Cosí la fraude a te palese fatta
sarà da
quel medesmo in chi s'appiatta."
Risponde
il capitan: "Come hai per uso,
mostri amico voler e saggia
mente;
ma quel che dubbio lasci, or fia conchiuso.
Uscirem
contra a la nemica gente,
né già star deve in muro o
'n vallo chiuso
il campo domator de l'Oriente.
Sia da quegli
empi il valor nostro esperto
ne la piú aperta luce, in loco
aperto.
Non
sosterran de le vittorie il nome,
non che de' vincitor l'aspetto
altero,
non che l'arme; e lor forze saran dome,
fermo
stabilimento al nostro impero.
La torre o tosto renderassi o,
come
altri no 'l vieti, il prenderla è leggiero."
Qui
il magnanimo tace e fa partita,
ché 'l cader de le stelle
al sonno invita.
CANTO
VENTESIMO
Argomento
Giunge
l'oste pagana, e crudel guerra
Fa col campo fedele. Il fier
Soldano
L'assediata rocca anco disserra,
Vago d'andare a
guerreggiar nel piano.
N'esce col Re; ma l'uno e l'altro a
terra
Estinto cade da famosa mano.
Placa rinaldo Armida. I
Cristian scempio
fan de' nemici, e poi van lieti al tempio.
Già
il sole avea desti i mortali a l'opre,
già diece ore del
giorno eran trascorse,
quando lo stuol ch'a la gran torre è
sopre
un non so che da lunge ombroso scorse,
quasi nebbia ch'a
sera il mondo copre,
e ch'era il campo amico al fin s'accorse,
che
tutto intorno il ciel di polve adombra
e i colli sotto e le
campagne ingombra.
Alzano
allor da l'alta cima i gridi
insino al ciel l'assediate genti,
con
quel romor con che da i traci nidi
vanno a stormi le gru ne'
giorni algenti
e tra le nubi a piú tepidi lidi
fuggon
stridendo inanzi a i freddi venti,
ch'or la giunta speranza in lor
fa pronte
la mano al saettar, la lingua a l'onte.
Ben
s'avisaro i Franchi onde de l'ire
l'impeto novo e 'l minacciar
procede,
e miran d'alta parte; ed apparire
il poderoso campo
indi si vede.
Súbito avampa il generoso ardire
in que'
petti feroci e pugna chiede.
La gioventute altera accolta
insieme:
"Dà" grida "il segno, invitto
duce," e freme.
Ma
nega il saggio offrir battaglia inante
a i novi albori e tien gli
audaci a freno,
né pur con pugna instabile e vagante
vuol
che si tentin gl'inimici almeno.
"Ben è ragion"
dicea "che dopo tante
fatiche un giorno io vi ristori a
pieno."
Forse ne' suoi nemici anco la folle
credenza di se
stessi ei nudrir volle.
Si
prepara ciascun, de la novella
luce aspettando cupido il
ritorno.
Non fu mai l'aria sí serena e bella
come a
l'uscir del memorabil giorno:
l'alba lieta rideva, e parea
ch'ella
tutti i raggi del sole avesse intorno;
e 'l lume usato
accrebbe, e senza velo
volse mirar l'opere grandi il cielo.
Come vide spuntar
l'aureo mattino,
mena fuori Goffredo il campo instrutto.
Ma pon
Raimondo intorno al palestino
tiranno e de' fedeli il popol
tutto
che dal paese di Soria vicino
a' suoi liberator s'era
condutto:
numero grande; e pur non questo solo,
ma di Guasconi
ancor lascia uno stuolo.
Vassene,
e tal è in vista il sommo duce
ch'altri certa vittoria indi
presume.
Novo favor del Cielo in lui riluce
e 'l fa grande ed
augusto oltra il costume:
gli empie d'onor la faccia e vi
riduce
di giovenezza il bel purpureo lume,
e ne l'atto de gli
occhi e de le membra
altro che mortal cosa egli rassembra.
Ma non lunge se
'n va che giunge a fronte
de l'attendato essercito pagano,
e
prender fa, ne l'arrivar, un monte
ch'egli ha da tergo e da
sinistra mano;
e l'ordinanza poi, larga di fronte,
di fianchi
angusta, spiega inverso il piano,
stringe in mezzo i pedoni e
rende alati
con l'ale de' cavalli entrambi i lati.
Nel
corno manco, il qual s'appressa a l'erto
de l'occupato colle e
s'assecura,
pon l'un e l'altro prencipe Roberto,
dà le
parti di mezzo al frate in cura.
Egli a destra s'alluoga, ove è
l'aperto
e 'l periglioso piú de la pianura,
ove il
nemico, che di gente avanza,
di circondarlo aver potea speranza.
E qui i suoi
Loteringhi e qui dispone
le meglio armate genti e le piú
elette,
qui tra cavalli arcieri alcun pedone
uso a pugnar tra'
cavalier framette.
Poscia d'aventurier forma un squadrone
e
d'altri altronde scelti, e presso il mette;
mette loro in disparte
al lato destro.
e Rinaldo ne fa duce e maestro.
Ed
a lui dice: "In te, signor, riposta
la vittoria e la somma è
de le cose.
Tieni tu la tua schiera alquanto ascosta
dietro a
queste ali grandi e spaziose.
Quando appressa il nemico, e tu di
costa
l'assali e rendi van quanto e' propose.
Proposto avrà,
se 'l mio pensier non falle,
girando a i fianchi urtarci ed a le
spalle."
Quindi
sovra un corsier di schiera in schiera
parea volar tra' cavalier,
tra' fanti.
Tutto il volto scopria per la visiera:
fulminava ne
gli occhi e ne' sembianti.
Confortò il dubbio e confermò
chi spera
ed a l'audace rammentò i suoi vanti
e le sue
prove al forte: a chi maggiori
gli stipendi promise, a chi gli
onori.
Al fin
colà fermossi ove le prime
e piú nobili squadre
erano accolte,
e cominciò da loco assai sublime
parlare,
ond'è rapito ogn'uom ch'ascolte.
Come in torrenti da
l'alpestri cime
soglion giú derivar le nevi sciolte,
cosí
correan volubili e veloci
da la sua bocca le canore voci.
"O de'
nemici di Giesú flagello,
campo mio, domator de
l'Oriente,
ecco l'ultimo giorno, ecco pur quello
che già
tanto bramaste omai presente.
Né senza alta cagion ch'il
suo rubello
popolo or si raccolga il Ciel consente:
ogni vostro
nimico ha qui congiunto
per fornir molte guerre in un sol punto.
Noi raccorrem
molte vittorie in una,
né fia maggiore il rischio o la
fatica.
Non sia, non sia tra voi temenza alcuna
in veder cosí
grande oste nimica,
ché discorde fra sé mai si
raguna
e ne gli ordini suoi se stessa intrica,
e di chi pugni
il numero fia poco:
mancherà il core a molti, a molti il
loco.
Quei che
incontra verranci, uomini ignudi
fian per lo piú senza
vigor, senz'arte,
che dal lor ozio o da i servili studi
sol
violenza or allontana e parte.
Le spade omai tremar, tremar gli
scudi,
tremar veggio l'insegne in quella parte,
conosco i suoni
incerti e i dubbi moti:
veggio la morte loro a i segni noti.
Quel capitan che
cinto d'ostro e d'oro
dispon le squadre, e par sí fero in
vista,
vinse forse talor l'Arabo o 'l Moro,
ma il suo valor non
fia ch'a noi resista.
Che farà, benché saggio, in
tanta loro
confusione e sí torbida e mista?
Mai noto è,
credo, e mai conosce i sui,
ed a pochi può dir: `Tu fosti,
io fui.'
Ma
capitano i' son di gente eletta:
pugnammo un tempo e trionfammo
insieme,
e poscia un tempo a mio voler l'ho retta.
Di chi di
voi non so la patria o 'l seme?
quale spada m'è ignota? o
qual saetta,
benché per l'aria ancor sospesa treme,
non
saprei dir se franca o se d'Irlanda,
e quale a punto il braccio è
che la manda?
Chiedo
solite cose: ognun qui sembri
quel medesmo ch'altrove i' l'ho già
visto;
e l'usato suo zelo abbia, e rimembri
l'onor suo, l'onor
mio, l'onor di Cristo.
Ite, abbattete gli empi; e i tronchi
membri
calcate, e stabilite il santo acquisto.
Ché piú
vi tengo a bada? assai distinto
ne gli occhi vostri il veggio:
avete vinto."
Parve
che nel fornir di tai parole
scendesse un lampo lucido e
sereno,
come tal volta estiva notte sòle
scoter dal
manto suo stella o baleno.
Ma questo creder si potea che 'l
sole
giuso il mandasse dal piú interno seno;
e parve al
capo irgli girando, e segno
alcun pensollo di futuro regno.
Forse (se deve
infra celesti arcani
prosuntuosa entrar lingua mortale)
agnol
custode fu che da i soprani
cori discese, e 'l circondò con
l'ale.
Mentre ordinò Goffredo i suoi cristiani
e parlò
fra le schiere in guisa tale,
l'egizio capitan lento non fue
ad
ordinare, a confortar le sue.
Trasse
le squadre fuor, come veduto
fu da lunge venirne il popol
franco,
e fece anch'ei l'essercito cornuto,
co' fanti in mezzo
e i cavalieri al fianco.
E per sé il corno destro ha
ritenuto,
e prepose Altamoro al lato manco;
Muleasse fra loro i
fanti guida,
e in mezzo è poi de la battaglia Armida.
Co 'l duce a
destra è il re de gli Indiani
e Tisaferno e tutto il regio
stuolo.
Ma dove stender può ne' larghi piani
l'ala
sinistra piú spedito il volo,
Altamoro ha i re persi e i re
africani
e i duo che manda il piú fervente suolo.
Quinci
le frombe e le balestre e gli archi
esser tutti dovean rotati e
scarchi.
Cosí
Emiren gli schiera, e corre anch'esso
per le parti di mezzo e per
gli estremi:
per interpreti or parla, or per se stesso,
mesce
lodi e rampogne e pene e premi.
Talor dice ad alcun: "Perché
dimesso
mostri, soldato, il volto? e di che temi?
che pote un
contra cento? io mi confido
sol con l'ombra fugarli e sol co 'l
grido."
Ad
altri: "O valoroso, or via con questa
faccia a ritòr
la preda a noi rapita."
L'imagine ad alcuno in mente
desta,
glie la figura quasi e glie l'addita,
de la pregante
patria e de la mesta
supplice famigliuola sbigottita.
"Credi"
dicea "che la tua patria spieghi
per la mia lingua in tai
parole i preghi:
`Guarda
tu le mie leggi e i sacri tèmpi
fa' ch'io del sangue mio
non bagni e lavi;
assecura le vergini da gli empi,
e i sepolcri
e le ceneri de gli avi.'
A te, piangendo i lor passati
tempi,
mostran la bianca chioma i vecchi gravi,
a te la moglie
le mammelle e 'l petto,
le cune e i figli e 'l marital suo letto."
A molti poi
dicea: "L'Asia campioni
vi fa de l'onor suo; da voi
s'aspetta
contra que' pochi barbari ladroni
acerba, ma
giustissima vendetta.
Cosí con arti varie, in vari suoni
le
varie genti a la battaglia alletta.
Ma già tacciono i duci,
e le vicine
schiere non parte omai largo confine.
Grande
e mirabil cosa era il vedere
quando quel campo e questo a fronte
venne
come, spiegate in ordine le schiere,
di mover già,
già d'assalire accenne;
sparse al vento ondeggiando ir le
bandiere
e ventolar su i gran cimier le penne:
abiti e fregi,
imprese, arme e colori,
d'oro e di ferro al sol lampi e fulgori.
Sembra d'alberi
densi alta foresta
l'un campo e l'altro, di tant'aste abbonda.
Son
tesi gli archi e son le lancie in resta,
vibransi i dardi e rotasi
ogni fionda;
ogni cavallo in guerra anco s'appresta;
gli odii e
'l furor del suo signor seconda,
raspa, batte, nitrisce e si
raggira,
gonfia le nari e fumo e foco spira.
Bello
in sí bella vista anco è l'orrore,
e di mezzo la
tema esce il diletto.
Né men le trombe orribili e
canore
sono a gli orecchi lieto e fero oggetto.
Pur il campo
fedel, benché minore,
par di suon piú mirabile e
d'aspetto,
e canta in piú guerriero e chiaro carme
ogni
sua tromba, e maggior luce han l'arme.
Fèr
le trombe cristiane il primo invito,
risposer l'altre ed accettàr
la guerra.
S'inginocchiaro i Franchi e riverito
da lor fu il
Cielo, indi baciàr la terra.
Decresce in mezzo il campo;
ecco è sparito:
l'un con l'altro nemico omai si serra.
Già
fera zuffa è ne le corna, e inanti
spingonsi già con
lor battaglia i fanti.
Or
chi fu il primo feritor cristiano
che facesse d'onor lodati
acquisti?
Fosti, Gildippe, tu che 'l grande ircano,
che regnava
in Ormús, prima feristi
(tanto di gloria a la feminea
mano
concesse il Cielo) e 'l petto a lui partisti.
Cade il
trafitto, e nel cadere egli ode
dar gridando i nemici al colpo
lode.
Con la
destra viril la donna stringe,
poi c'ha rotto il troncon, la buona
spada,
e contra i Persi il corridor sospinge
e 'l folto de le
schiere apre e dirada.
Coglie Zopiro là dove uom si cinge
e
fa che quasi bipartito ei cada,
poi fèr la gola e tronca al
crudo Alarco
de la voce e del cibo il doppio varco.
D'un
mandritto Artaserse, Argeo di punta,
l'uno atterra stordito e
l'altro uccide.
Poscia i pieghevol nodi, ond'è congiunta
la
manca al braccio, ad Ismael recide.
Lascia, cadendo, il fren la
man disgiunta,
su gli orecchi al destriero il colpo stride;
ei,
che si sente in suo poter la briglia,
fugge a traverso e gli
ordini scompiglia.
Questi
e molti altri, ch'in silenzio preme
l'età vetusta, ella di
vita toglie.
Stringonsi i Persi e vanle adosso insieme,
vaghi
d'aver le gloriose spoglie.
Ma lo sposo fedel, che di lei
teme,
corre in soccorso a la diletta moglie.
Cosí
congiunta, la concorde coppia
ne la fida union le forze addoppia.
Arte di schermo
nova e non piú udita
a i magnanimi amanti usar
vedresti:
oblia di sé la guardia, e l'altrui vita
difende
intentamente a quella e questi.
Ribatte i colpi la guerriera
ardita
che vengono al suo caro aspri e molesti;
egli a l'arme a
lei dritte oppon lo scudo,
v'opporria, s'uopo fosse, il capo
ignudo.
Propria
l'altrui difesa, e propria face
l'uno e l'altro di lor l'altrui
vendetta.
Egli dà morte ad Artabano audace,
per cui di
Boecàn l'isola è retta,
e per l'istessa mano Alvante
giace,
ch'osò pur di colpir la sua diletta.
Ella fra
ciglio e ciglio ad Arimonte,
che 'l suo fedel battea, partí
la fronte.
Tal
fean de' Persi strage, e via maggiore
la fea de' Franchi il re di
Sarmacante,
ch'ove il ferro volgeva o 'l corridore,
uccideva,
abbattea cavallo o fante.
Felice è qui colui che prima
more,
né geme poi sotto il destrier pesante,
perché
il destrier, se da la spada resta
alcun mal vivo avanzo, il morde
e pesta.
Riman da
i colpi d'Altamoro ucciso
Brunellone il membruto, Ardonio il
grande.
L'elmetto a l'uno e 'l capo è sí
diviso
ch'ei ne pende su gli omeri a due bande.
Trafitto è
l'altro insin là dove il riso
ha suo principio, e 'l cor
dilata e spande,
talché (strano spettacolo ed
orrendo!)
ridea sforzato e si moria ridendo.
Né
solamente discacciò costoro
la spada micidial dal dolce
mondo,
ma spinti insieme a crudel morte foro
Gentonio, Guasco,
Guido e 'l buon Rosmondo.
Or chi narrar potria quanti
Altamoro
n'abbatte, e frange il suo destrier co 'l pondo?
chi
dire i nomi de le genti uccise?
chi del ferir, chi del morir le
guise?
Non è
chi con quel fero omai s'affronte,
né chi pur lunge
d'assalirlo accenne.
Sol rivolse Gildippe in lui la fronte,
né
da quel dubbio paragon s'astenne.
Nulla Amazone mai su 'l
Termodonte
imbracciò scudo o maneggiò bipenne
audace
sí, com'ella audace inverso
al furor va del formidabil
perso.
Ferillo
ove splendea d'oro e di smalto
barbarico diadema in su
l'elmetto,
e 'l ruppe e sparse, onde il superbo ed alto
suo
capo a forza egli è chinar constretto.
Ben di robusta man
parve l'assalto
al re pagano, e n'ebbe onta e dispetto,
né
tardò in vendicar l'ingiurie sue,
ché l'onta e la
vendetta a un tempo fue.
Quasi
in quel punto in fronte egli percosse
la donna di percossa in modo
fella
che d'ogni senso e di vigor la scosse:
cadea, ma 'l suo
fedel la tenne in sella.
Fortuna loro o sua virtú pur
fosse,
tanto bastogli e non ferí piú in ella,
quasi
leon magnanimo che lassi,
sdegnando, uom che si giaccia, e guardi
e passi.
Ormondo
intanto, a le cui fere mani
era commessa la spietata cura,
misto
con false insegne è fra' cristiani,
e i compagni con lui di
sua congiura;
cosí lupi notturni, i quai di cani
mostrin
sembianza, per la nebbia oscura
vanno a le mandre e spian come in
lor s'entre,
la dubbia coda ristringendo al ventre.
Giansi
appressando, e non lontano al fianco
del pio Goffredo il fer pagan
si mise.
Ma come il capitan l'orato e 'l bianco
vide apparir de
le sospette assise:
"Ecco" gridò "quel
traditor che franco
cerca mostrarsi in simulate guise,
ecco i
suoi conguirati in me già mossi."
Cosí dicendo,
al perfido aventossi.
Mortalmente
piagollo, e quel fellone
non fère, non fa schermo e non
s'arretra;
ma, come inanzi a gli occhi abbia 'l Gorgone
(e fu
contanto audace), or gela e impètra.
Ogni spada ed ogn'asta
a lor s'oppone,
e si vòta in lor soli ogni faretra.
Va
in tanti pezzi Ormondo e i suoi consorti,
che 'l cadavero pur non
resta a i morti.
Poi
che di sangue ostil si vede asperso,
entra in guerra Goffredo, e
là si volve
ove appresso vedea che 'l duce perso
le piú
ristrette squadre apre e dissolve,
sí che 'l suo stuolo
omai n'andria disperso
come anzi l'Austro l'africana polve.
Vèr
lui si drizza, e i suoi sgrida e minaccia;
e fermando chi fugge,
assal chi caccia.
Comincian
qui le due feroci destre
pugna qual mai non vide Ida né
Xanto.
Ma segue altrove aspra tenzon pedestre
fra Baldovino e
Muleasse intanto,
né ferve men l'altra battaglia
equestre
appresso il colle, a l'altro estremo canto,
ove il
barbaro duce de le genti
pugna in persona e seco ha i duo potenti.
Il rettor de le
turbe e l'un Roberto
fan crudel zuffa, e lor virtú
s'agguaglia.
Ma l'indian de l'altro ha l'elmo aperto,
e l'arme
tuttavia gli fende e smaglia.
Tisaferno non ha nemico certo
che
gli sia paragon degno in battaglia,
ma scorre ove la calca appar
piú folta,
e mesce varia uccisione e molta.
Cosí
si combatteva, e 'n dubbia lance
co 'l timor le speranze eran
sospese.
Pien tutto il campo è di spezzate lance,
di
rotti scudi e di troncato arnese,
di spade a i petti, a le
squarciate pance
altre confitte, altre per terra stese,
di
corpi, altri supini, altri co' volti,
quasi mordendo il suolo, al
suo, rivolti.
Giace
il cavallo al suo signore appresso,
giace il compagno appo il
compagno estinto,
giace il nemico appo il nemico, e spesso
su
'l morto il vivo, il vincitor su 'l vinto.
Non v'è silenzio
e non v'è grido espresso,
ma odi un non so che roco e
indistinto:
fremiti di furor, mormori d'ira,
gemiti di chi
langue e di chi spira.
L'arme,
che già sí liete in vista foro,
faceano or mostra
paventosa e mesta:
perduti ha i lampi il ferro, i raggi
l'oro,
nulla vaghezza a i bei color piú resta.
Quanto
apparia d'adorno e di decoro
ne' cimieri e ne' fregi, or si
calpesta;
la polve ingombra ciò ch'al sangue avanza,
tanto
i campi mutata avean sembianza.
Gli
Arabi allora, e gli Etiòpi e i Mori,
che l'estremo tenean
del lato manco,
giansi spiegando e distendendo in fòri,
giravan
poi de gli inimici al fianco;
ed omai saggittari e
frombatori
molestavan da lunge il popol franco,
quando Rinaldo
e 'l suo drapel si mosse,
e parve che tremoto e tuono fosse.
Assimiro di Mèroe
infra l'adusto
stuol d'Etiopia era il primier de' forti.
Rinaldo
il colse ove s'annoda al busto
il nero collo, e 'l fe' cader tra'
morti.
Poich'eccitò de la vittoria il gusto
l'appetito
del sangue e de le morti
nel fero vincitore, egli fe'
cose
incredibili, orrende e monstruose.
Diè
piú morti che colpi, e pur frequente
de' suoi gran colpi la
tempesta cade.
Qual tre lingue vibrar sembra il serpente,
ché
la prestezza d'una il persuade,
tal credea lui la sbigottita
gente
con la rapida man girar tre spade.
L'occhio al moto
deluso il falso crede,
e 'l terrore a que' mostri accresce fede.
I libici tiranni
e i negri regi
l'un nel sangue de l'altro a morte stese.
Dièr
sovra gli altri i suoi compagni egregi,
che d'emulo furor
l'essempio accese.
Cadeane con orribili dispregi
l'infedel
plebe, e non facea difese.
Pugna questa non è, ma strage
sola,
ché quinci oprano il ferro, indi la gola.
Ma
non lunga stagion volgon la faccia,
ricevendo le piaghe in nobil
parte.
Fuggon le turbe, e sí il timor le caccia
ch'ogni
ordinanza lor scompagna e parte.
Ma segue pur senza lasciar la
traccia
sin che l'ha in tutto dissipate e sparte,
poi si
raccoglie il vincitor veloce
che sovra i piú fugaci è
men feroce.
Qual
vento, a cui s'oppone o selva o colle,
doppia ne la contesa i
soffi e l'ira,
ma con fiato piú placido e piú
molle
per le campagne libere poi spira;
come fra scogli il mar
spuma e ribolle,
e ne l'aperto onde piú chete aggira,
cosí
quanto contrasto avea men saldo,
tanto scemava il suo furor
Rinaldo.
Poi che
sdegnossi in fuggitivo dorso
le nobil ire ir consumando
invano,
verso la fanteria voltò il suo corso,
ch'ebbe
l'Arabo al fianco e l'Africano,
or nuda è da quel lato, e
chi soccorso
dar le doveva o giace od è lontano.
Vien da
traverso, e le pedestri schiere
la gente d'arme impetuosa fère.
Ruppe l'aste e
gli intoppi, il violento
impeto vinse e penetrò fra
esse,
le sparse e l'atterrò; tempesta o vento
men tosto
abbatte la pieghevol messe.
Lastricato co 'l sangue è il
pavimento
d'arme e di membra perforate e fesse;
e la cavalleria
correndo il calca
senza ritegno, e fera oltra se 'n valca.
Giunse Rinaldo
ove su 'l carro aurato
stavasi Armida in militar sembianti,
e
nobil guardia avea da ciascun lato
de' baroni seguaci e de gli
amanti.
Noto a piú segni, egli è da lei mirato
con
occhi d'ira e di desio tremanti:
ei si tramuta in volto un cotal
poco,
ella si fa di gel, divien poi foco.
Declina
il carro il cavaliero e passa,
e fa sembiante d'uom cui d'altro
cale;
ma senza pugna già passar non lassa
il drapel
congiurato il suo rivale.
Chi il ferro stringe in lui, chi l'asta
abbassa;
ella stessa in su l'arco ha già lo strale:
spingea
le mani, e incrudelia lo sdegno,
ma le placava e n'era amor
ritegno.
Sorse
amor contra l'ira, e fe' palese
che vive il foco suo ch'ascoso
tenne.
Le man tre volte a saettar distese,
tre volte essa
inchinolla, e si ritenne.
Pur vinse al fin lo sdegno, e l'arco
tese
e fe' volar del suo quadrel le penne.
Lo stral volò,
ma con lo strale un voto
súbito uscí, che vada il
colpo a vòto.
Torria
ben ella che il quadrel pungente
tornasse indietro, e le tornasse
al core;
tanto poteva in lei, benché perdente
(or che
potria vittorioso?), Amore.
Ma di tal suo pensier poi si
ripente,
e nel discorde sen cresce il furore.
Cosí or
paventa ed or desia che tocchi
a pieno il colpo, e 'l segue pur
con gli occhi.
Ma
non fu la percossa in van diretta
ch'al cavalier su 'l duro
usbergo è giunta,
duro ben troppo a feminil saetta,
che
di pungere in vece ivi si spunta.
Egli le volge il fianco; ella,
negletta
esser credendo, e d'ira arsa e compunta,
scocca l'arco
piú volte e non fa piaga:
e mentre ella saetta, Amor lei
piaga.
"Sí
dunque impenetrabile è costui,"
fra sé dicea
"che forza ostil non cura?
Vestirebbe mai forse i membri
sui
di quel diaspro ond'ei l'alma ha sí dura?
Colpo
d'occhio o di man non pote in lui,
di tai tempre è il rigor
che lo assecura;
e inerme io vinta sono, e vinta armata:
nemica,
amante, egualmente sprezzata.
Or
qual arte novella e qual m'avanza
nova forma in cui possa anco
mutarmi?
Misera! e nulla aver degg'io speranza
ne' cavalieri
miei, ché veder parmi,
anzi pur veggio, a la costui
possanza
tutte le forze frali e tutte l'armi."
E ben veda
de' suoi campioni estinti
altri giacerne, altri abbattuti e vinti.
Soletta a sua
difesa ella non basta,
e già le pare esser prigiona e
serva;
né s'assecura (e presso l'arco ha l'asta)
ne
l'arme di Diana o di Minerva.
Qual è il timido cigno a cui
sovrasta
co 'l fero artiglio l'aquila proterva,
ch'a terra si
rannicchia e china l'ali,
i suoi timidi moti eran cotali.
Ma il principe
Altamor, che sino allora
fermar de' Persi procurò lo
stuolo
(ch'era già in piega e 'n fuga ito se 'n fòra,
ma
'l ritenea, bench'a fatica, ei solo),
or tal veggendo lei
ch'amando adora,
là si volge di corso, anzi di volo,
e
'l suo onor abbandona e la sua schiera:
pur che costei si salvi,
il mondo pèra.
Al
mal difeso carro egli fa scorta
e co 'l ferro le vie gli sgombra
inante,
ma da Rinaldo e da Goffredo è morta
e fugata sua
schiera in quell'istante.
Il misero se 'l vede e se 'l
comporta
assai miglior che capitano, amante.
Scorge Armida in
securo, e torna poi,
intempestiva aita, a i vinti suoi,
ché da
quel lato de' pagani il campo
irreparabilmente è sparso e
sciolto;
ma da l'opposto, abbandonando il campo
a gli infedeli,
i nostri il tergo han vòlto.
Ebbe l'un de' Roberti a pena
scampo,
ferito dai nemico il petto e 'l volto,
l'altro è
prigion d'Adrasto. In cotal guisa
la sconfitta egualmente era
divisa.
Prende
Goffredo allor tempo opportuno:
riordina sue squadre e fa
ritorno
senza indugio a la pugna; e cosí l'uno
viene ad
urtar ne l'altro intero corno.
Tinto se 'n vien di sangue ostil
ciascuno,
ciascun di spoglie trionfali adorno.
La vittoria e
l'onor vien da ogni parte,
sta dubbia in mezzo la Fortuna e Marte.
Or mentre in
guisa tal fera tenzone
è tra 'l fedel essercito e 'l
pagano,
salse in cima a la torre ad un balcone
e mirò,
benché lunge, il fer Soldano;
mirò, quasi in teatro
od in agone,
l'aspra tragedia de lo stato umano:
i vari assalti
e 'l fero orror di morte,
e i gran giochi del caso e de la sorte.
Stette attonito
alquanto e stupefatto
a quelle prime viste; e poi s'accese,
e
desiò trovarsi anch'egli in atto
nel periglioso campo a
l'alte imprese.
Né pose indugio al suo desir, ma
ratto
d'elmo s'armò, ch'aveva ogn'altro arnese:
"Su
su," gridò "non piú, non piú
dimora:
convien ch'oggi si vinca o che si mora."
O
che sia forse il proveder divino
che spira in lui la furiosa
mente,
perché quel giorno sian del palestino
imperio le
reliquie in tutto spente;
o che sia ch'a la morte omai
vicino
d'andarle incontra stimolar si sente,
impetuoso e rapido
disserra
la porta, e porta inaspettata guerra.
E
non aspetta pur che i feri inviti
accettino i compagni; esce sol
esso,
e sfida sol mille nimici uniti,
e sol fra mille intrepido
s'è messo.
Ma da l'impeto suo quasi rapiti
seguon poi
gli altri ed Aladino stesso.
Chi fu vil, chi fu cauto, or nulla
teme:
opera di furor piú che di speme.
Quel
che prima ritrova il turco atroce
caggiono a i colpi orribili
improvisi,
e in condur loro a morte è sí
veloce
ch'uom non li vede uccidere, ma uccisi.
Da i primieri a
i sezzai, di voce in voce,
passa il terror, vanno i dolenti
avisi,
tal che 'l vulgo fedel de la Soria
tumultuando già
quasi fuggia.
Ma
con men di terrore e di scompiglio
l'ordine e 'l loco suo fu
ritenuto
dal Guascon, benché prossimo al periglio
a
l'improvviso ei sia colto e battuto.
Nessun dente giamai, nessun
artiglio
o di silvestre o d'animal pennuto
insanguinossi in
mandra o tra gli augelli,
come la spada del pagan tra quelli.
Sembra quasi
famelica e vorace
pasce le membra quasi e 'l sangue sugge.
Seco
Aladin, seco lo stuol seguace
gli assediatori suoi percote e
strugge.
Ma il buon Raimondo accorre ove disface
Soliman le sue
squadre e già no 'l fugge,
se ben la fera destra ei
riconosce
onde percosso ebbe mortali angosce.
Pur
di novo l'affronta e pur ricade,
pur ripercosso ove fu prima
offeso;
e colpa è sol de la soverchia etade,
a cui
soverchio è de' gran colpi il peso.
Da cento scudi fu, da
cento spade
oppugnato in quel tempo anco e difeso.
Ma trascorre
il Soldano, o che se 'l creda
morto del tutto, o 'l pensi agevol
preda.
Sovra gli
altri ferisce e tronca e svena,
e 'n poca piazza fa mirabil
prove;
ricerca poi, come furor il mena,
a nova uccision materia
altrove.
Qual da povera mensa a ricca cena
uom stimolato dal
digiun si move,
tal vanne a maggior guerra ov'egli sbrame
la
sua di sangue infuriata fame.
Scende
egli giú per le abbattute mura
e s'indirizza a la gran
pugna in fretta.
Ma 'l furor ne' compagni e la paura
riman ch'i
suoi nemici han già concetta;
e l'una schiera d'asseguir
procura
quella vittoria ch'ei lasciò imperfetta,
l'altra
resiste sí, ma non è senza
segno di fuga omai la
resistenza.
Il
Guascon ritirandosi cedeva,
ma se ne gía disperso il popoi
siro.
Eran presso a l'albergo ove giaceva
il buon Tancredi, e i
gridi entro s'udiro.
Dal letto il fianco infermo egli
solleva,
vien su la vetta e volge gli occhi in giro;
vede,
giacendo il conte, altri ritrarsi,
altri del tutto già
fugati e sparsi.
Virtú,
ch'à valorosi unqua non manca,
perché languisca il
corpo fral non langue,
ma le piagate membra in lui rinfranca
quasi
in vece di spirito e di sangue.
Del gravissimo scudo arma ei la
manca,
e non par grave il peso al braccio essangue.
Prende con
l'altra man l'ignuda spada
(tanto basta a l'uom forte) e piú
non bada,
ma giú
se 'n viene e grida: "Ove fuggite,
lasciando il signor vostro
in preda altrui?
dunque i barbari chiostri e le
meschite
spiegheran per trofeo l'arme di lui?
Or, tornando in
Guascogna, al figlio dite
che morí il padre onde fuggiste
vui."
Cosí lor parla, e 'l petto nudo e infermo
a
mille armati e vigorosi è schermo.
E
co 'l grave suo scudo, il qual di sette
dure cuoia di tauro era
composto
e che a le terga poi di tempre elette
un coperchio
d'acciaio ha sopraposto,
tien da le spade e tien da le
saette,
tien da tutte arme il buon Raimondo ascosto,
e co 'l
ferro i nemici intorno sgombra
sí che giace securo e quasi
a l'ombra.
Respirando
risorge in tempo poco
sotto il fido riparo il vecchio accolto,
e
si sente avampar di doppio foco,
di sdegno il core e di vergogna
il volto;
e drizza gli occhi accesi a ciascun loco
per riveder
quel fero onde fu colto,
ma no 'l vedendo freme, e far prepara
ne'
seguaci di lui vendetta amara.
Ritornan
gli Aquitani e tutti insieme
seguono il duce al vendicarsi
intento.
Lo stuol ch'inanzi osava tanto, or teme:
audacia passa
ov'era pria spavento.
Cede chi rincalzò; chi cesse, or
preme:
cosí varian le cose in un momento.
Ben fa
Raimondo or sua vendetta, e sconta
pur di sua man con cento morti
un'onta.
Mentre
Raimondo il vergognoso sdegno
ne' piú nobili capi sfogar
tenta,
vede l'usurpator del nobil regno,
che fra' primi
combatte, e gli s'aventa;
e 'l fère in fronte e nel medesmo
segno
tocca e ritocca, e 'l suo colpir non lenta,
onde il re
cade e con singulto orrendo
la terra ove regnò morde
morendo.
Poich'una
scorta è lunge e l'altra uccisa,
in color che restàr
vario è l'affetto:
alcun, di belva infuriata in
guisa,
disperato nel ferro urta co 'l petto;
altri, temendo, di
campar s'avisa,
e là rifugge ov'ebbe pria ricetto.
Ma
tra' fuggenti il vincitor commisto
entra, e fin pone al glorioso
acquisto.
Presa è
la rocca, e su per l'alte scale
chi fugge è morto o 'n su
le prime soglie;
e nel sommo di lei Raimondo sale
e ne la
destra il gran vessillo toglie,
e incontra a i due gran campi il
trionfale
segno de la vittoria al vento scioglie.
Ma non già
il guarda il fer Soldan che lunge
è di là fatto ed a
la pugna giunge.
Giunge
in campagna tepida e vermiglia
che d'ora in ora piú di
sangue ondeggia,
sí che il regno di morte omai
somiglia
ch'ivi i trionfi suoi spiega e passeggia.
Vede un
destrier che con pendente briglia,
senza rettor, trascorso è
fuor di greggia;
gli gitta al fren la mano e 'l vòto
dorso
montando preme e poi lo spinge al corso.
Grande
ma breve aita apportò questi
a i saracini impauriti e
lassi.
Grande ma breve fulmine il diresti
ch'inaspettato
sopragiunga e passi,
ma del suo corso momentaneo resti
vestigio
eterno in dirupati sassi.
Cento ei n'uccise e piú, pur di
due soli
non fia che la memoria il tempo involi.
Gildippe
ed Odoardo, i casi vostri
duri ed acerbi e i fatti onesti e
degni
(se tanto lice a i miei toscani inchiostri)
consacrerò
fra' peregrini ingegni,
sí ch'ogn'età quasi ben nati
mostri
di virtude e d'amor v'additi e segni,
e co 'l suo pianto
alcun servo d'Amore
la morte vostra e le mie rime onore.
La magnanima
donna il destrier volse
dove le genti distruggea quel crudo,
e
di due gran fendenti a pieno il colse:
ferigli il fianco e gli
partí lo scudo.
Grida il crudel, ch'a l'abito raccolse
chi
costei fosse: "Ecco la putta e 'l drudo:
meglio per te
s'avessi il fuso e l'ago,
ch'in tua difesa aver la spada e 'l
vago."
Qui
tacque, e di furor piú che mai pieno
drizzò percossa
temeraria e fera
ch'osò, rompendo ogn'arme, entrar nel
seno
che de' colpi d'Amor segno sol era.
Ella, repente
abbandonando il freno,
sembiante fa d'uom che languisca e pèra;
e
ben se 'l vede il misero Odoardo,
mal fortunato difensor, non
tardo.
Che far
dée nel gran caso? Ira e pietade
a varie parti in un tempo
l'affretta:
questa a l'appoggio del suo ben che cade,
quella a
pigliar del percussor vendetta.
Amore indifferente il persuade
che
non sia l'ira o la pietà negletta.
Con la sinistra man
corre al sostegno,
l'altra ministra ei fa del suo disdegno.
Ma voler e poter
che si divida
bastar non può contra il pagan sí
forte
tal che non sostien lei, né l'omicida
de la dolce
alma sua conduce a morte.
Anzi avien che 'l Soldano a lui
recida
il braccio, appoggio a la fedel consorte,
onde cader
lasciolla, ed egli presse
le membra a lei con le sue membra
stesse.
Come olmo
a cui la pampinosa pianta
cupida s'aviticchi e si marite,
se
ferro il tronca o turbine lo schianta
trae seco a terra la
compagna vite,
ed egli stesso il verde onde s'ammanta
le
sfronda e pesta l'uve sue gradite,
par che se 'n dolga, e piú
che 'l proprio fato
di lei gl'incresca che gli more a lato;
cosí cade
egli, e sol di lei gli duole
che 'l cielo eterna sua compagna
fece.
Vorrian formar né pòn formar parole,
forman
sospiri di parole in vece:
l'un mira l'altro, e l'un pur come
sòle
si stringe a l'altro, mentre ancor ciò lece:
e
si cela in un punto ad ambi il die,
e congiunte se 'n van l'anime
pie.
Allor
scioglie la Fama i vanni al volo,
le lingue al grido, e 'l duro
caso accerta;
né pur n'ode Rinaldo il romor solo,
ma
d'un messaggio ancor nova piú certa.
Sdegno, dover,
benivolenza e duolo
fan ch'a l'alta vendetta ei si converta,
ma
il sentier gli attraversa e fa contrasto
su gli occhi del Soldano
il grande Adrasto.
Gridava
il re feroce: "A i segni noti
tu sei pur quegli al fin ch'io
cerco e bramo:
scudo non è che non riguardi e noti,
ed a
nome tutt'oggi invan ti chiamo.
Or solverò de la vendetta i
voti
co 'l tuo capo al mio nume. Omai facciamo
di valor, di
furor qui paragone,
tu nemico d'Armida ed io campione."
Cosí lo
sfida, e di percosse orrende
pria su la tempia il fère,
indi nel collo.
L'elmo fatal (ché non si può) non
fende,
ma lo scote in arcion con piú d'un crollo.
Rinaldo
lui su 'l fianco in guisa offende
che vana vi saria l'arte
d'Apollo:
cade l'uom smisurato, il rege invitto,
e n'è
l'onore ad un sol colpo ascritto.
Lo
stupor, di spavento e d'orror misto,
il sangue e i cori a i
circostanti agghiaccia,
e Soliman, ch'estranio colpo ha visto,
nel
cor si turba e impallidisce in faccia,
e chiaramente il suo morir
previsto,
non si risolve e non sa quel che faccia;
cosa
insolita in lui, ma che non regge
de gli affari qua giú
l'eterna legge?
Come
vede talor torbidi sogni
ne' brevi sonni suoi l'egro o
l'insano,
pargli ch'al corso avidamente agogni
stender le
membra, e che s'affanni invano,
ché ne' maggiori sforzi a'
suoi bisogni
non corrisponde il piè stanco e la
mano,
scioglier talor la lingua e parlar vòle,
ma non
seguon la voce o le parole;
cosí
allora il Soldan vorria rapire
pur se stesso a l'assalto e se ne
sforza,
ma non conosce in sé le solite ire,
né sé
conosce a la scemata forza.
Quante scintille in lui sorgon
d'ardire,
tante un secreto suo terror n'ammorza:
volgonsi nel
suo cor diversi sensi,
non che fuggir, non che ritrarsi pensi.
Giunge
all'irresoluto il vincitore,
e in arrivando (o che gli pare)
avanza
e di velocitade e di furore
e di grandezza ogni mortal
sembianza.
Poco ripugna quel; pur mentre more,
già non
oblia la generosa usanza:
non fugge i colpi e gemito non
spande,
né atto fa se non se altero e grande.
Poi
che 'l Soldan, che spesso in lunga guerra
quasi novello Anteo
cadde e risorse
piú fero ognora, al fin calcò la
terra
per giacer sempre, intorno il suon ne corse;
e Fortuna,
che varia e instabil erra,
piú non osò por la
vittoria in forse,
ma fermò i giri, e sotto i duci
stessi
s'uní co' Franchi e militò con essi.
Fugge, non
ch'altri, omai la regia schiera
ov'è de l'Oriente accolto
il nerbo.
Già fu detta immortale, or vien che pèra
ad
onta di quel titolo superbo.
Emireno a colui c'ha la
bandiera
tronca la fuga e parla in modo acerbo:
"Or se' tu
quel ch'a sostener gli eccelsi
segni dei mio signor fra mille i'
scelsi?
Rimedon,
questa insegna a te non diedi
acciò che indietro tu la
riportassi.
Dunque, codardo, il capitan tuo vedi
in zuffa co'
nemici, e solo il lassi?
che brami? di salvarti? or meco
riedi,
ché per la strada presa a morte vassi.
Combatta
qui chi di campar desia:
la via d'onor de la salute è via."
Riede in guerra
colui ch'arde di scorno.
Usa ei con gli altri poi sermon piú
grave:
talor minaccia e fère, onde ritorno
fa contra il
ferro chi del ferro pave.
Cosí rintegra del fiaccato
corno
la miglior parte, e speme anco pur have.
E Tisaferno piú
ch'altri il rincora,
ch'orma non torse per ritrarsi ancora.
Meraviglie quel
dí fe' Tisaferno:
i Normandi per lui furon disfatti,
fe'
di Fiammenghi strano empio governo,
Gernier, Ruggier, Gherardo a
morte ha tratti.
Poi ch'a le mète de l'onor eterno
la
vita breve prolungò co' fatti,
quasi di viver piú
poco gli caglia,
cerca il rischio maggior de la battaglia.
Vide ei Rinaldo;
e benché omai vermigli
gli azzurri suoi color sian
divenuti,
e insanguinati l'aquila gli artigli
e 'l rostro
s'abbia, i segni ha conosciuti.
"Ecco" disse "i
grandissimi perigli;
qui prego il ciel che 'l mio ardimento
aiuti,
e veggia Armida il desiato scempio:
Macon, s'io vinco,
i' voto l'arme al tempio."
Cosí
pregava, e le preghiere ír vòte.
ché 'l sordo
suo Macon nulla n'udiva.
Qual il leon si sferza e si percote
per
isvegliar la ferità nativa,
tale ei suoi sdegni desta, ed a
la cote
d'amor gli aguzza ed a le fiamme avviva.
Tutte sue
forze aduna e si ristringe
sotto l'arme a l'assalto, e 'l destrier
spinge.
Spinse il
suo contra lui, che in atto scerse
d'assalitore, il cavalier
latino.
Fe' lor gran piazza in mezzo e si converse
a lo
spettacol fero ogni vicino.
Tante fur le percosse e sí
diverse
de l'italico eroe, del saracino,
ch'altri per
meraviglia obliò quasi
l'ire e gli affetti propri e i
propri casi.
Ma
l'un percote sol; percote e impiaga
l'altro, ch'ha maggior forza,
armi piú ferme.
Tisaferno di sangue il campo allaga,
con
l'elmo aperto e de lo scudo inerme.
Mira del suo campion la bella
maga
rotti gli arnesi, e piú le membra inferme,
e gli
altri tutti impauriti in modo
che frale omai gli stringe e debil
nodo.
Già
di tanti guerrier cinta e munita,
or rimasa nel carro era
soletta:
teme di servitute, odia la vita,
dispera la vittoria e
la vendetta.
Mezza tra furiosa e sbigottita
scende, ed ascende
un suo destriero in fretta;
vassene e fugge, e van seco pur
anco
Sdegno ed Amor quasi due veltri al fianco.
Tal
Cleopatra al secolo vetusto
sola fuggia da la tenzon
crudele
lasciando incontra al fortunato Augusto
ne' maritimi
rischi il suo fedele,
che per amor fatto a se stesso
ingiusto
tosto seguí le solitarie vele.
E ben la fuga di
costei secreta
Tisaferno seguia, ma l'altro il vieta.
Al
pagan, poi che sparve il suo conforto,
sembra ch'insieme il giorno
e 'l sol tramonte
ed a lui che 'l ritiene a sí gran
torto
disperato si volge e 'l fiede in fronte.
A fabricar il
fulmine ritorto
via piú leggier cade il martel di Bronte,
e
co 'l grave fendente in modo il carca
che 'l percosso la testa al
petto inarca.
Tosto
Rinaldo si dirizza ed erge
e vibra il ferro e, rotto il grosso
usbergo,
gli apre le coste e l'aspra punta immerge
in mezzo 'l
cor dove ha la vita albergo.
Tanto oltra va che piaga doppia
asperge
quinci al pagano il petto e quindi il tergo,
e
largamente a l'anima fugace
piú d'una via nel suo partir si
face.
Allor si
ferma a rimirar Rinaldo
ove drizzi gli assalti, ove gli aiuti
e
de' pagan non vede ordine saldo,
ma gli stendardi lor tutti
caduti.
Qui pon fine a le morti, e in lui quel caldo
disdegno
marzial par che s'attuti.
Placido è fatto, e gli si reca a
mente
la donna che fuggia sola e dolente.
Ben
rimirò la fuga; or da lui chiede
pietà che n'abbia
cura e cortesia,
e gli sovien che si promise in fede
suo
cavalier quando da lei partia.
Si drizza ov'ella fugge, ov'egli
vede
il piè del palafren segnar la via.
Giunge ella
intanto in chiusa opaca chiostra
ch'a solitaria morte atta si
mostra.
Piacquele
assai che 'n quelle valli ombrose
l'orme sue erranti il caso abbia
condutte.
Qui scese dal destriero e qui depose
e l'arco e la
faretra e l'armi tutte.
"Armi infelici" disse "e
vergognose,
ch'usciste fuor de la battaglia asciutte,
qui vi
depongo; e qui sepolte state
poiché l'ingiurie mie mal
vendicate.
Ah! ma
non fia che fra tant'armi e tante
una di sangue oggi si bagni
almeno?
S'ogn'altro petto a voi par di diamante,
osarete piagar
feminil seno?
In questo mio, che vi sta nudo avante,
i pregi
vostri e le vittorie sieno.
Tenero a i colpi è questo mio:
ben sallo
Amor che mai non vi saetta in fallo.
Dimostratevi in
me (ch'io vi perdono
la passata viltà) forti ed
acute.
Misera Armida, in qual fortuna or sono,
se sol da voi
posso sperar salute?
Poi ch'ogn'altro rimedio è in me non
buono
se non sol di ferute a le ferute,
sani piaga di stral
piaga d'amore,
e sia la morte medicina al core.
Felice
me, se nel morir non reco
questa mia peste ad infettar
l'inferno!
Restine Amor; venga sol Sdegno or meco
e sia de
l'ombra mia compagno eterno,
o ritorni con lui dal regno cieco
a
colui che di me fe' l'empio scherno,
e se gli mostri tal che 'n
fere notti
abbia riposi orribili e 'nterrotti."
Qui
tacque e, stabilito il suo pensiero,
strale sceglieva il piú
pungente e forte,
quando giunse e mirolla il cavaliero
tanto
vicina a l'estrema sua sorte,
già compostasi in atto atroce
e fero,
già tinta in viso di pallor di morte.
Da tergo
ei se le aventa e 'l braccio prende
che già la fera punta
al petto stende.
Si
volse Armida e 'l rimirò improviso,
ché no 'l sentí
quando da prima ei venne:
alzò le strida, e da l'amato
viso
torse le luci disdegnosa e svenne.
Ella cadea, quasi fior
mezzo inciso,
piegando il lento collo; ei la sostenne,
le fe'
d'un braccio al bel fianco colonna
e' ntanto al sen le rallentò
la gonna,
e 'l
bel volto e 'l bel seno a la meschina
bagnò d'alcuna
lagrima pietosa.
Qual a pioggia d'argento e matutina
si
rabbellisce scolorita rosa,
tal ella rivenendo alzò la
china
faccia, del non suo pianto or lagrimosa.
Tre volte alzò
le luci e tre chinolle
dal caro oggetto, e rimirar no 'l volle.
E con man
languidetta il forte braccio,
ch'era sostegno suo, schiva
respinse;
tentò piú volte e non uscí
d'impaccio,
ché via piú stretta ei rilegolla e
cinse.
Al fin raccolta entro quel caro laccio,
che le fu caro
forse e se n'infinse,
parlando incominciò di spander
fiumi,
senza mai dirizzargli al volto i lumi.
"O
sempre, e quando parti e quando torni
egualmente crudele, or chi
ti guida?
Gran meraviglia che 'l morir distorni
e di vita
cagion sia l'omicida.
Tu di salvarmi cerchi? a quali scorni,
a
quali pene è riservata Armida?
Conosco l'arti del fellone
ignote,
ma ben può nulla chi morir non pote.
Certo
è scorno al tuo onor, se non s'addita
incatenata al tuo
trionfo inanti
femina or presa a forza e pria tradita:
quest'è
'l maggior de' titoli e de' vanti.
Tempo fu ch'io ti chiesi e pace
e vita,
dolce or saria con morte uscir de' pianti;
ma non la
chiedo a te, ché non è cosa
ch'essendo dono tuo non
mi sia odiosa.
Per
me stessa, crudel, spero sottrarmi
a la tua feritade in alcun
modo.
E, s'a l'incatenata il tòsco e l'armi
pur
mancheranno e i precipizi e 'l nodo,
veggio secure vie che tu
vietarmi
il morir non potresti, e 'l ciel ne lodo.
Cessa omai
da' tuoi vezzi. Ah! par ch'ei finga:
deh, come le speranze egre
lusinga!"
Cosí
doleasi, e con le flebil onde,
ch'amor e sdegno da' begli occhi
stilla,
l'affettuoso pianto egli confonde
in cui pudica la
pietà sfavilla;
e con modi dolcissimi risponde:
"Armida,
il cor turbato omai tranquilla:
non a gli scherni, al regno io ti
riservo;
nemico no, ma tuo campione e servo.
Mira
ne gli occhi miei, s'al dir non vuoi
fede prestar, de la mia fede
il zelo.
Nel soglio, ove regnàr gli avoli tuoi,
riporti
giuro; ed oh piacesse al Cielo
ch'a la tua mente alcun de' raggi
suoi
del paganesmo dissolvesse il velo,
com'io farei che 'n
Oriente alcuna
non t'agguagliasse di regal fortuna."
Sí parla e
prega, e i preghi bagna e scalda
or di lagrime rare, or di
sospiri;
onde sí come suol nevosa falda
dov'arda il sole
o tepid'aura spiri,
cosí l'ira che 'n lei parea sí
salda
solvesi e restan sol gli altri desiri.
"Ecco
l'ancilla tua; d'essa a tuo senno
dispon," gli disse "e
le fia legge il cenno."
In
questo mezzo il capitan d'Egitto
a terra vede il suo regal
stendardo,
e vede a un colpo di Goffredo invitto
cadere insieme
Rimedon gagliardo
e l'altro popol suo morto e sconfitto;
né
vuol nel duro fin parer codardo,
ma va cercando (e non la cerca
invano)
illustre morte da famosa mano.
Contra
il maggior Buglione il destrier punge,
ché nemico veder non
sa piú degno,
e mostra, ove egli passa, ove egli giunge
di
valor disperato ultimo segno.
Ma pria ch'arrivi a lui, grida da
lunge:
"Ecco, per le tue mani a morir vegno;
ma tentarò
ne la caduta estrema
che la ruina mia ti colga e prema."
Cosí gli
disse, e in un medesmo punto
l'un verso l'altro per ferir si
lancia.
Rotto lo scudo, e disarmato e punto
è 'l manco
braccio al capitan di Francia;
l'altro da lui con sí gran
colpo è giunto
sovra i confin de la sinistra guancia
che
ne stordisce in su la sella, e mentre
risorger vuol, cade trafitto
il ventre.
Morto
il duce Emireno, omai sol resta
picciol avanzo del gran campo,
estinto.
Segue i vinti Goffredo e poi s'arresta,
ch'Altamor
vede a piè di sangue tinto,
con mezza spada e con mezzo
elmo in testa
da cento lancie ripercosso e cinto.
Grida egli a'
suoi: "Cessate; e tu, barone,
renditi, io son Goffredo, a me
prigione."
Colui
che sino allor l'animo grande
ad alcun atto d'umiltà non
torse,
ora ch'ode quel nome, onde si spande
sí chiaro il
suon da gli Etiòpi a l'Orse,
gli risponde: "Farò
quanto dimande,
ché ne sei degno:" e l'arme in man gli
porse
"ma la vittoria tua sovra Altamoro
né di
gloria fia povera, né d'oro.
Me
l'oro del mio regno e me le gemme
ricompreran de la pietosa
moglie."
Replica a lui Goffredo: "Il ciel non
diemme
animo tal che di tesor s'invoglie.
Ciò che ti
vien da l'indiche maremme
abbiti pure, e ciò che Persia
accoglie,
ché de la vita altrui prezzo non
cerco:
guerreggio in Asia, e non vi cambio o merco."
Tace, ed a' suoi
custodi in cura dallo
e segue il corso poi de' fuggitivi.
Fuggon
quegli a i ripari, ed intervallo
da la morte trovar non ponno
quivi.
Preso è repente e pien di strage il vallo,
corre
di tenda in tenda il sangue in rivi,
e vi macchia le prede e vi
corrompe
gli ornamenti barbarici e le pompe.
Cosí
vince Goffredo, ed a lui tanto
avanza ancor de la diurna luce
ch'a
la città già liberata, al santo
ostel di Cristo i
vincitor conduce.
Né pur deposto il sanguinoso manto,
viene
al tempio con gli altri il sommo duce;
e qui l'arme sospende, e
qui devoto
il gran Sepolcro adora e scioglie il voto.