Il
mobbing è un fenomeno patologico che può essere
riguardato da molti punti di vista.
Tralasciamo, in questa sede, l'analisi della valenza
sociale del fenomeno, che peraltro bene è espressa
in una recente pronuncia del Tribunale di Torino
(sez. lavoro, 16 novembre 1999 (ud. 6/10/99), n.
5050 - Est. Ciocchetti - Parti: Erriquez c. Ergom
Materie Plastiche S.p.A., ove si afferma che si
verifica una situazione di mobbing aziendale (1)
"allorché il dipendente è oggetto ripetuto
di soprusi da parte dei superiori e, in particolare,
vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche
dirette ad isolarlo dall'ambiente di lavoro e, nei
casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui
effetto è di intaccare gravemente l'equilibrio
psichico del prestatore, menomandone la capacità
lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando
catastrofe emotiva, depressione e talora persino
suicidio"), per soffermarci sulle
considerazioni inerenti al rilievo che, in ambito
giuridico penale, possono assumere le condotte di
mobbing.
Se, in termini civilistici, l'incidenza del mobbing
sul contratto di lavoro deriva dalla violazione di
quella norma -l'art. 2087 c.c.- che si assume
contrattualizzata indipendentemente da una specifica
previsione delle parti, e che genera una
responsabilità, in capo al datore di lavoro, di
risarcire il danno sia al patrimonio professionale
(c.d. danno da dequalificazione), sia alla
personalità morale e alla salute latamente intesa
(cosiddetto danno biologico e neurobiologico) subiti
dal lavoratore, essendo indubbio che l'obbligo
previsto dalla disposizione contenuta nell'art. 2087
c.c. "non è circoscritto al rispetto della
legislazione tipica della prevenzione, bensì (come
emerge dall'interpretazione della norma in aderenza
ai principi costituzionali e comunitari) implica
altresì il dovere di astenersi da comportamenti
lesivi dell'integrità psicofisica del lavoratore"
(Cass. civ., sez. lav., 17 luglio 1995, n. 7768,
Rossi e altro c. Felici), resta nondimeno il
problema di come -ed in che termini- qualificare
l'eventuale disvalore e rilevanza penale del mobbing.
Una prima riflessione sembrerebbe indurre ad una
risposta certa e lapidaria: fino a che il lavoratore
mobbizzato non si ammali di mobbing, la tutela di
ambito penalistico non ha una concreta praticabilità:
ciò in quanto la legislazione vigente non prevede
alcuna ipotesi contravvenzionale a carico del datore
di lavoro, per le condotte di vessazione morale e di
dequalificazione professionale da lui tenute
nell'ambiente di lavoro in danno del lavoratore.
Ciò nonostante, si possono anche svolgere
considerazioni diverse. Si valuti infatti, come dato
acquisito dalla letteratura scientifica
sull'argomento, che il lavoratore mobbizzato perde
gradatamente la stima professionale di sé e la
motivazione al lavoro nel contesto socio-ambientale
di riferimento: egli dunque, anche se non traduce
l'aggressione alla sfera psichica in una menomazione
della propria integrità psicofisica, vede in ogni
caso compromessa la sua capacità di autoprotezione
personale, che è una delle componenti essenziali
per dar vita ad un efficace sistema di sicurezza sul
lavoro.
Del resto, secondo la condivisibile valutazione
espressa dall'11° Commissione permanente del Senato
(Commissione SMURAGLIA), nell'indagine conoscitiva
sulla sicurezza e l'igiene del lavoro depositata in
data 22 luglio 1997, la tutela della sicurezza e
della salute dei lavoratori dipende "dal
coincidere di due condizioni indispensabili ma di
per sè non sufficienti: "che l'ambiente, le
macchine e gli impianti siano sicuri e che il
comportamento dei lavoratori sia conforme alle
esigenze di sicurezza"".
Verificandosi una situazione di mobbing aziendale,
si potrebbe perciò determinare -ma in concreto ciò
deve essere naturalmente oggetto di accertamento,
non ponendosi in termini di automatica
conseguenzialità- una situazione in antitesi con la
previsione generale contenuta nell'art. 5, comma 1
del D.Lgs. n. 626/1994, la quale stabilisce che
"ciascun lavoratore deve prendersi cura
della propria sicurezza e della propria salute e di
quella delle altre persone presenti sul luogo di
lavoro, su cui possono ricadere gli effetti delle
sue azioni o omissioni, conformemente alla sua
formazione ed alle istruzioni e ai mezzi forniti dal
datore di lavoro".
Ciò tanto più considerando che, diversamente dalla
legislazione emanata negli anni '50 (il D.P.R. n.
547/1955, il D.P.R. n. 164/1956, il D.P.R. n.
303/1956, per citare i provvedimenti più
significativi), il D.Lgs. n. 626/1994, quale prima
normativa generale di derivazione comunitaria, ha
introdotto un nuovo modello di impresa sicura che
appare non solo di tipo compartecipativo, ma
modulato in chiave decisamente sinergica tra i
protagonisti del mondo del lavoro (datore di lavoro
e lavoratori), per il raggiungimento del fine
generale -comune ad entrambi- di migliorare la
sicurezza e l'igiene in un ambiente -quello di
lavoro- parimenti comune.
E' dunque difficile ipotizzare che il lavoratore
mobbizzato possa farsi parte diligente della propria
e dell'altrui sicurezza, svolgendo compiutamente
quel ruolo di garanzia attiva che il citato art. 5
del D.Lgs. n. 626/1994 assegna a ciascun lavoratore.
Infatti, se pur i lavoratori, nell'ambito
dell'azienda, sono gli unici soggetti creditori di
sicurezza e di salute, ciò nonostante, come dispone
l'art. 5, comma 2, lettera h) del D.Lgs. n.
626/1994, sono chiamati anch'essi a contribuire
"insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e
ai preposti, all'adempimento di tutti gli obblighi
imposti dall'autorità competente o comunque
necessari per tutelare la sicurezza e la salute dei
lavoratori durante il lavoro".
Si pensi inoltre al lavoro di squadra a fini
prevenzionistici (ad esempio, antincendio), o al
lavoro in staff, sempre più praticato per il
conseguimento di quel valore aggiunto, in termini
operativi, che deriva dalla condivisione delle
procedure e degli obiettivi di lavoro.
E -si badi- in tale prospettiva sinergica, il
contributo richiesto dal citato art. 5, comma 2,
lettera h) del D.Lgs. n. 626/1994 è sanzionato
penalmente in caso di omissione.
Ma -qui lo spunto di riflessione- sarebbe davvero
paradossale imputare sul piano giuridico, al
lavoratore mobbizzato, le conseguenze di ciò che
lui stesso subisce sul piano materiale, per effetto
della condotta di vessazione morale e psichica cui
è soggetto da parte delle gerarchie aziendali.
Peraltro, a fronte della qualificazione soggettiva
dell'agente ("lavoratore"),
delineata dalla norma dell'art. 5 del D.Lgs. n.
626/1994 qui all'esame, e dalla caratterizzazione
delle violazioni alla normativa prevenzionistica e
di igiene del lavoro quali reati propri, la
conseguenza che ne deve obbligatoriamente trarre
l'interprete è che nessuna contestazione, sul piano
del diritto penale contravvenzionale, è ascrivibile
al datore di lavoro.
Quid iuris, invece, nel caso in cui la
condotta di mobbing incida negativamente,
menomandola, sull'integrità psicofisica del
lavoratore? La risposta del giurista è perentoria:
non vi è dubbio che, nel caso in cui il lavoratore
mobbizzato veda compromessa -temporaneamente o con
postumi permanentemente invalidanti- la propria
salute, della lesione all'integrità psicofisica può
e deve essere chiamato a rispondere a pieno titolo,
nella sede penale, il datore di lavoro.
Ma quale, in questo caso, la norma giuridica di
riferimento? Per poter rispondere a questo
interrogativo occorre valutare, caso per caso, quale
sia stata l'intenzione del datore di lavoro. E, a
questo riguardo, non si può prescindere da una
operazione preliminare sul piano del metodo: quella
di diversificare l'analisi in relazione al profilo
soggettivo di imputazione del fatto.
Infatti, per la sussistenza di un reato, non è
sufficiente la positiva verifica dell'elemento
oggettivo (nei suoi aspetti di condotta, evento,
nesso di causalità), ma è altresì necessario
analizzare il modo con cui si è espressa la volontà
del soggetto che ha agito, elemento questo che si
definisce quale elemento soggettivo, e che consiste
sempre in un atteggiamento della volontà in
contrasto con la previsione di una norma giuridica.
In relazione alla valutazione dell'elemento
soggettivo (o psicologico), i reati si suddividono
in due aree principali: reati colposi e reati
dolosi. E la necessità di distinguere l'area delle
condotte colpose dall'area delle condotte
ascrivibili a titolo di dolo si pone sempre per quei
reati che sono puniti indifferentemente sia a titolo
di dolo, che a titolo di colpa. E' questo proprio il
caso dei reati di lesioni personali e di omicidio,
puniti rispettivamente a titolo di dolo dagli artt.
582 e 575 del Codice penale, e a titolo di colpa
dagli artt. 590 e 589 stesso Codice.
Se il dolo, quale forma tipica della volontà
colpevole, presuppone nell'agente la coscienza e la
volontà sia della condotta che dell'evento (il
soggetto attivo del reato deve dunque rappresentarsi
(prevedere) e volere l'evento come scopo e
conseguenza della sua condotta), nella colpa la
coscienza e volontà del reo sono limitate alla
condotta, non all'evento. Il soggetto che agisce,
quand'anche possa in alcuni casi prevedere l'evento
(ad esempio il lanciatore di coltelli rispetto alla
morte o al ferimento della sua partner), non lo
vuole assolutamente (e se lo prevede confida
comunque che esso non si verificherà in virtù
delle proprie capacità personali), e questo dunque
si verifica o per negligenza, imprudenza, imperizia
(cosiddetta colpa generica), ovvero per
l'inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o
discipline (cosiddetta colpa specifica).
Trasponendo questi principi di diritto penale al
mobbing aziendale, si tratta conseguenzialmente di
valutare (cosiddetto solving problem) se la
compromissione dell'integrità psicofisica del
lavoratore sia riconducibile ad una condotta colposa
del datore di lavoro, ovvero ad una condotta dolosa,
intenzionalmente e consapevolmente orientata a
produrre quel danno in capo al prestatore di lavoro.
In che modo dunque orientare l'accertamento della
responsabilità; e in base a quali criteri
sciogliere il nodo valutativo inerente
all'imputazione soggettiva (colposa o dolosa) del
fatto di reato?
In base alle indicazioni della Giurisprudenza (Cass.
pen., sez. I, 28 gennaio 1991, Caporaso), il
criterio di imputazione della responsabilità non può
prescindere dall'analisi delle modalità estrinseche
di concreta manifestazione della condotta criminosa,
e da un'attenta valutazione di ogni profilo
circostanziale del fatto. La prova della natura
dolosa o colposa del reato deve dunque trarsi
complessivamente sia dalla condotta dell'imputato,
sia dalle circostanze di fatto che concorrono a
costituire l'azione criminosa, e nelle quali si
riverbera la coscienza e l'atteggiamento della
volontà dell'agente.
Sono dunque essenzialmente gli elementi obiettivi
del fatto, e le espressioni concrete della condotta
dell'agente ad orientare nella valutazione
dell'elemento soggettivo del reato. A ciò possono
aggiungersi, con funzione meramente sussidiaria,
ulteriori elementi di carattere soggettivo, quali la
dichiarata motivazione della condotta dell'agente,
ovvero le sue stesse affermazioni che trovino
adeguata e convincente corrispondenza nelle
emergenze processuali (Cass. pen., 12 gennaio 1989,
Calò).
L'applicazione di questi criteri al contesto
situazionale che dà origine e contenuto al mobbing
aziendale, porta a ritenere che l'area della colpa
investa -in misura residuale- solo quelle situazioni
di aggressione alla sfera morale e psichica del
lavoratore cui si possa riconoscere una matrice
inconsapevole, nel senso che esse si devono
sostanziare in condotte in relazione alle quali il
datore di lavoro sia in grado di offrire una
giustificazione motivazionale compatibile con
profili gestionali del modello di organizzazione del
lavoro in azienda.
In ogni altra situazione in alcun modo connessa o
non ragionevolmente riconducibile, nelle intenzioni
e nelle motivazioni di chi l'ha determinata (datore
di lavoro, vertici aziendali o altri lavoratori), ad
ambiti gestionali ed organizzativi, il criterio di
imputazione soggettiva della responsabilità per le
lesioni dell'integrità psicofisica del lavoratore
dovrà essere quello del dolo:
-
sia
nella forma tipica diretta o intenzionale (nella
quale l'agente -datore di lavoro o altri- deve
essersi rappresentato l'evento del reato come
scopo e conseguenza della sua condotta);
-
sia
in quella residuale c.d. indiretta od eventuale
(la quale si configurerà ogniqualvolta
l'agente, ponendo in essere la condotta di
mobbing, seppur diretta ad altri scopi che non
quello di ledere l'integrità psicofisica del
lavoratore, si rappresenti la concreta
possibilità del verificarsi di tale
conseguenza, ulteriore rispetto alla propria
azione e, nonostante ciò, agisca accettando il
rischio di cagionarla: tra le tante si veda
Cass. pen., sez. I, 12 novembre 1997, n. 6358,
Tair).(2)
Con
riguardo poi a tutte quelle condotte che abbiano di
per se stesse autonomo rilievo penale (ad es.
molestie sessuali; reiterate ingiurie o minacce), e
che determinino la lesione anche solo della
personalità morale del lavoratore (la quale è
componente costitutiva dell'integrità psicofisica:
in tal senso, sia pure incidentalmente, Cass. sez.
lavoro, 8 gennaio 2000, n. 143, Ric. Filonardi c.
HENKEL S.p.A), il problema della valutazione
soggettiva dell'evento (mobbing doloso o colposo) si
pone negli stessi termini di cui sopra, con la sola
variante che, se il mobbing colposo deriva, quale
conseguenza non voluta dal colpevole, da "un
fatto preveduto come delitto doloso", è
previsto un aggravamento fino ad un terzo della pena
stabilita per i reati di lesioni colpose e di
omicidio colposo (art. 586 c.p.).
Al reato di lesioni (colpose o dolose) saranno poi
applicabili -nei limiti della loro compatibilità
con le caratteristiche del fenomeno- le circostanze
aggravanti di cui all'art. 583 del Codice penale (si
pensi all'ipotesi di un'esaurimento nervoso o di uno
stato depressivo prolungato nel tempo, finanche
cronicizzato).(3)
Quanto al caso in cui il datore di lavoro determini
o rafforzi per colpa nel lavoratore mobbizzato, con
la sua condotta reiteratamente vessatoria e/o
ingiustificatamente discriminatoria e di
emarginazione, una propensione suicidiaria, egli
potrebbe esserne chiamato a rispondere a titolo di
omicidio colposo (art. 589 CP).(4)
Parimenti contestabili saranno i profili di colpa
specifica derivanti dalla violazione di norme di
legge (ad es. l'art. 2103 c.c., in tema di divieto
di dequalificazione mansionale del lavoratore)(5);
la violazione di norme di tutela prevenzionistica
(ad es. l'art. 2087 c.c., o l'art. 3, comma 1, lett.
s) del D.Lgs. n. 626/94), comporterà inoltre la
contestazione delle specifiche aggravanti previste
dagli articoli 589, comma 2 e 590, comma 3 del
Codice penale.
Analizzati i criteri per l'imputazione soggettiva
dei reati di lesioni e di omicidio a carico del
mobber (e di ogni eventuale altro soggetto con lui
concorrente nel reato, che cioè non si limiti a
rimanere -quale spettatore silenzioso- nell'area
penalmente indifferente del cosiddetto "side
mobbing"(6),
o ad eseguire ordini di lavoro non di per se stessi
penalmente perseguibili), va detto che i profili
contravvenzionali ordinari di violazione della
normativa prevenzionistica e di igiene del lavoro
(ad esempio, in tema di ergonomia, o di idoneità
del posto di lavoro, o di riduzione del lavoro
monotono e ripetitivo, ecc.) mantengono il loro
autonomo disvalore e rilevanza penale, e non possono
ritenersi in alcun modo assorbiti nella vicenda di
mobbing. Ad essi sarà applicabile, secondo i
principi, il meccanismo procedurale sanzionatorio
delineato dal D.Lgs. n. 758/94.
Da ultimo va segnalato che il mobbing, quale
fenomeno che investe la realtà dell'organizzazione
aziendale, e che tutela la personalità morale e il
patrimonio professionale del lavoratore, ancor prima
che la sua integrità psicofisica strettamente
intesa, può investire anche categorie di lavoratori
che non sono soggetti ad una subordinazione
tecnico-giuridica di tipo convenzionale (ad es. i
dirigenti).
Nè, al fine di escludere il nesso di causalità tra
mobbing e malattia (per la preesistenza di una causa
efficiente autonoma, capace da sola di generare
l'evento lesivo), possono assumere rilievo giuridico
eventuali fattori di ipersuscettibilità individuale
del lavoratore a situazioni di prolungato stress
emozionale, giacchè -correttamente rileva sul punto
il Tribunale di Torino(7).
"La Carta Costituzionale, nel suo art. 32, e
la legge ordinaria, nell'art. 2087 cc, tutelano
infatti tutti indistintamente i cittadini, siano
essi forti e capaci di resistere alle prevaricazioni
o siano viceversa più deboli e quindi destinati
anzitempo a soccombere"(8).
La "sindrome da mobbing" è un male
sociale sempre esistito, ma che solo da poco tempo
si è posto all'attenzione di sociologi, psicologi
del lavoro, psichiatri, e anche della Magistratura(9).
Essa nulla ha a che fare col cosiddetto "Fantozzismo",
giacchè spesso colpisce lavoratori preparati e
capaci, ma -ciò nonostante- vittime di
discriminazioni e di terrorismo psicologico sul
luogo di lavoro.
Malattia professionale è anche quella psicologica,
e l'esigenza di proteggere la persona sul luogo di
lavoro assume una dimensione sociale non solo in
termini solidaristici, ma anche sotto il profilo
etico e morale.
Al momento attuale cinque sono le proposte di legge
sul mobbing giacenti in Parlamento(10):
nel rimandare all'iniziativa del legislatore
l'aspettativa di un'efficace regolamentazione, è
certo che una progressiva crescente consapevolezza
dell'esistenza del fenomeno può contribuire a
ridurre la naturale propensione del lavoratore
mobbizzato ad autocolpevolizzarsi (inducendosi la
cosiddetta "mentalità da capro espiatorio");
e fungere al tempo stesso -più che l'opera di
repressione penale attuata dalla Magistratura- quale
volano di prevenzione, con efficacia dissuasiva, per
la categoria -affollattissima di presenze- dei
mobbers "potenziali".
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