Il Cile dell’Allende
(Vero e inventato)
di Antonio Stanca
Come
per molte opere precedenti, generalmente romanzi e racconti,
“La casa degli spiriti” (1982), “Eva
Luna” (1987), “Eva Luna racconta” (1990), “Paula” (1995), “La figlia
della fortuna” (1999), anche per il recente “Il mio paese inventato”
(pagg. 186, euro 13,00) la scrittrice Isabel Allende, nata a Lima nel
1942 e vissuta a lungo in Cile prima di trasferirsi in Venezuela e poi
definitivamente negli Stati Uniti, ha affidato l’edizione italiana alla
Feltrinelli. Giunta a sessantadue anni l’Allende ha pensato di
ripercorrere la propria vita ed opera, di dire di sé, della sua
esperienza in Cile. Ma anche se nelle intenzioni questo libro sarebbe
dovuto essere una ricostruzione del passato esso si snoda come un lungo
racconto, attira e coinvolge chi legge per la sua atmosfera da favola,
per quanto d’indeterminato e vago contiene, per le “zone d’ombra” che
ricorrono e impediscono la precisione, il rigore richiesti da una
ricostruzione.
“La memoria è condizionata
dall’emozione; ricordiamo meglio e più chiaramente gli eventi che ci
commuovono, come la gioia di una nascita, il piacere di una notte
d’amore, il dolore di una perdita, il trauma di una ferita. Quando
raccontiamo il passato ci riferiamo ai momenti salienti- belli o brutti-
e omettiamo l’immensa zona grigia del quotidiano.” Così dice l’Allende
nell’opera volendo chiarire che a ricordare, in essa, non è la mente ma
l’anima, non la ragione ma il sentimento e questo fino a farle “mettere
e togliere a suo piacere cose, personaggi, situazioni… a farle
trasformare la realtà, inventare la memoria…”
Non completamente vero perchè anche
“inventato”, come si dice nel titolo, è, dunque, il Cile del quale parla
l’Allende mostrando, così, di non sapersi né volersi liberare, nemmeno
quando dovrebbe essere vera, fare storia, di quella che finora è stata
la sua maniera di scrivere, di quel “realismo magico” riconosciuto come
il carattere essenziale della sua opera narrativa.
Tuttavia rispetto alle altre
narrazioni ne “Il mio paese inventato” i richiami, i riferimenti a
determinate realtà, a precise situazioni della vita privata della
scrittrice e pubblica del suo paese sono maggiori e più frequenti. Non
mancano collegamenti con quanto, contemporaneamente alle vicende
politiche, economiche, culturali del Cile dei tempi moderni, avveniva
in altri paesi del mondo occidentale ed orientale, con avvenimenti del
passato più remoto o del presente più prossimo. Ma come da scrittrice
anche da storica l’Allende traspone tutto in un’atmosfera di fantasia,
in situazioni d’immaginazione, procura a tutto il tono della favola: nel
libro l’esterno non viene riportato per quello o per quanto è stato ma
per come ha inciso nell’animo della scrittrice, per le impressioni, le
emozioni che le ha procurato, per come lei lo ha vissuto. Pertanto,
leggendo, non si assiste ad un percorso regolare, ordinato ma possibile
di continue deviazioni o diverse direzioni. Così avviene quando chi
scrive segue la propria interiorità, intende dire soprattutto come essa
è stata segnata dai tempi e dagli eventi. In ogni luogo, in qualunque
circostanza è sempre presente la scrittrice, bambina polemica,
adolescente irrequieta, giovane giornalista, moglie e madre, separata e
risposata, addolorata per la perdita della figlia, scrittrice agli
esordi e poi affermata: attraverso la sua storia l’Allende fa scorrere
la storia del Cile al punto da identificarle!
Sembra di assistere all’espressione di
un’emozione continua, prolungata, estesa, immensa, di una passione per
la propria terra che supera i limiti del tempo e dello spazio perché
soprattutto interiore. Più volte, nel libro, l’Allende dice che deve al
Cile il suo essere scrittrice e il suo modo di esserlo, sospeso, cioè,
tra realtà e invenzione. Grazie al Cile, alla suggestione dei suoi
paesaggi, all’incanto dei suoi colori si era formata una donna che
sarebbe divenuta una scrittrice senza rinunciare ad essere donna: nel
corpo e nell’anima, nella vita e nell’arte si sente l’Allende in debito
con questa terra. Scrivere, per lei, significa tradurre quanto le è
pervenuto dal Cile, dai suoi posti, dalla sua gente, dai suoi usi e
costumi, significa voler essere l’interprete fedele di una storia, di
una vita perennemente sospese tra verità e sogno e per questo assunte
come proprie, sentite come uniche.
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