ARTURO ONOFRI
un contemporaneo tra musica, mito e poesia
di Loredana Bulla
Onofri appartiene alla prima generazione
di poeti del Novecento che subisce e rielabora gli influssi del
simbolismo francese e che discute Bergson nel travaglio di una
ricerca linguistica che possa rinnovare la lirica italiana di quel
periodo, mediante il contributo di apporti europei.
L’attività onofriana si colloca in piena
età decadente tra i cui aspetti fondamentali annoveriamo, in
particolar modo, il lento distacco tra intellettuali e società che
si manifesta come atteggiamento di cupa stanchezza e come coscienza
di vivere il tramonto di una cultura e l’agonia di una civiltà.
Tutto questo si palesa con la
fuga dell’intellettuale dalla realtà sentendo di aver perduto
definitivamente la certezza di conoscerla, avvertendola anzi come un
mistero.
E’ nell’arco di questo
periodo, inoltre, che si attua la crisi della parola poetica ovvero
del linguaggio, inteso nella sua « globalità d’espressione
artistica » scisso, ormai, nelle due opposte polarità di forma e
contenuto.
Questa scomposizione è
giudicata inaccettabile poiché il linguaggio è ritenuto un impegno
vitale dell’uomo e del poeta che esprime, mediante la prerogativa
linguistica, il centro del proprio essere in un mondo che sente
ormai distante perché intrappolato nel vortice della distruzione.
In Italia, in particolare, tale
“decadenza” si manifesta come frattura dell’unità culturale e
letteraria sviluppatasi all’interno delle varie province nel secolo
decimonono, con la conseguente adesione alle principali correnti
culturali europee, introdotte subito quali elementi essenziali ed
innovatori di un ambito bisognoso di essere rinnovato e quindi
migliorato.
Onofri vive pienamente la crisi
culturale del suo tempo, constatazione che nasce da un esame delle
sue prime raccolte poetiche, in particolare di Liriche
(1903-1906), Poemi tragici (1906-1907), e Canti delle
oasi (1907-190 ), in cui si propone di sfibrare qualsiasi
immagine che possa derivare dalla tradizione, impegnandosi a portare
avanti un suo progetto di rinnovamento della forma che dia una
ridefinizione unitaria all’immagine poetica.
Per giungere a tale progetto
Onofri si propone di instaurare una stretta relazione tra le varie
componenti interne alla poesia stessa, quali ad esempio la « ritmica
e la coloristica », che le permettano di assumere una vera e propria
consistenza organica liberandola da ogni traccia di frammentarietà o
scomposizione.
Onofri, in questo suo
tentativo di riunificazione, si serve della costante misticoorfica
che erompe con forza e, contemporaneamente, con un tocco di estrema
delicatezza fra i versi delle sue poesie.
Il mito di Orfeo
(1) viene rivalutato
come principio in grado di unificare scienza e poesia, natura e
arte, individuo e società, difatti Onofri utilizza l’artificio della
leggenda, in questo caso quella di Orfeo, al fine di immettersi in
un contesto fantastico, fuori da ogni realtà ed in particolare da
quella in cui vive e nella quale non si riconosce.
Il mito di Orfeo, quindi, permette al
poeta di immergersi nel mondo del sogno, del mistero, della notte,
così come è toccato di fare ad Orfeo nella ricerca della sua
Euridice entrando nel regno della notte perenne, a metà tra il sogno
e l’irrealtà, per riportare la sua amata in vita sulla terra
sfidando addirittura le potenze infernali.
Se volessimo fare un confronto tra la
vita di Onofri e le vicende raccontate nel mito di Orfeo potremo
paragonare la ricerca di Euridice da parte di Orfeo con l’ansia del
poeta di ritrovare l’unità poetica, le potenze infernali con gli
ostacoli che la società pone nella ricerca di questa unità ed infine
la scomparsa di Euridice si potrebbe equiparare alla ricaduta
dell’uomo nell’oscurità della notte dopo aver scoperto che la sua
ricerca è un inutile sforzo di ritrovare qualcosa che ormai è perso
per sempre.
Per cui gli elementi del sogno, della
notte, del mistero si presentano agli occhi del poeta sia come unici
espedienti che gli permettano di non pensare alla vita fuori dal suo
fantasticare sia come elementi incontaminati dalla frammentarietà in
cui reputa smarrita la poesia del suo tempo, così come abbiamo
evidenziato sopra.
A tal proposito leggiamo la poesia
Grido Notturno:
«
Notte oceanica, brivido estasiante di stelle!
S’inabissa il mio spasimo; e il
livido
ciel che parea minacciare procelle
Si scioglie in un mare d’oblio.
Ma io o musiche, in voi mi
confondo,
se ancora la fievole ascolto mia
voce
che affiora dal fondo
silenzio, e ricorre alla tacita
foce,
a un tremulo oceano di sogno,
cui dolorando agogno
dal mio deserto atroce […]
Ma taci,mia anima, ascolta
le risonanze meste.
Il tuo spasimante grido improvviso
d’angoscia
rotolando echeggia lungo l’immensa
volta
della lucente cupola celeste,
e si rifrange e riscroscia
dentro i siderei silenzi
del tuo stesso pensiero.
E nel notturno abbandono
invano tu chiedi piangendo: Chi
sono? »
Questa poesia ed in particolare
l’ultima inquietante domanda finale, rispecchiano lo stato d’animo
angosciato di chi vorrebbe uscire da una situazione tormentata ed
opprimente ma ogni tentativo di liberazione risulta vano poiché,
alla fine, ci si rende conto che l’unica vera realtà è quella in cui
si vive, la stessa che rimane muta dinanzi alle grida disperate di
chi vorrebbe ribellarsi e dalla quale non ci si può distaccare se
non con il pensiero.
La constatazione finale, quindi,
porta ogni uomo a non riconoscersi più nemmeno in se stesso.
Rileviamo, inoltre, come nel richiamo
ad Orfeo, assumano un ruolo portante elementi quali il potere del
canto, il richiamo dell’Infinito, la veggenza, il furore profetico,
elementi notevolmente presenti in buona parte della produzione
onofriana e, a testimonianza di questo particolare, possiamo fare
riferimento alla poesia Il Cipresso :
«Agile,
rapido come un pensiero
balzante dall’anima dell’ Infinito
si spreme da terra il mistero
d’un cupo cipresso.Acuito
in un desiderio lo vidi
ch’è inesprimibile, quasi
un’ansia di morte; pur ricco di nidi
fiorito di parvole vite ».
In questa poesia Onofri pensa l’albero
del cipresso in senso metaforico per intendere un simbolo di morte,
cui si frappone l’immagine della vita rappresentata dai nidi fra i
rami dell’albero.
Il poeta, quindi, riesce a convogliare i
due poli opposti dell’esistenza, rappresentati dalla vita e dalla
morte, in un unico elemento, che in questo caso è appunto il
cipresso, come se fossero degli aspetti che, pur escludendosi a
vicenda, si compenetrano all’infinito lasciando intravedere un
margine di speranza anche dove tutto sembra ormai giunto alla sua
fine.
Sottolineiamo che, tuttavia, quello di
Onofri è soltanto un pensiero da lui stesso definito «rapido» per
cui il margine di speranza rappresentato dalla vita che c’è nei
nidi, svanisce nel momento stesso in cui quel pensiero lascia il
posto alla cupa immagine della morte.
Un influsso preponderante nella
poetica onofriana, deriva da D’Annunzio, la cui poesia divenne in
breve il modello di riferimento della generazione dei poeti a lui
contemporanei e successivi, oltre tutto la Roma in cui vive e agisce
l’appena ventenne Onofri è, dal punto di vista culturale, ancora
sotto il travolgente corso della stagione dannunziana dimostratasi
inimitabile e rapida nell’espansione a catena fra i vari circoli
letterari e culturali, tanto che «tutti erano dannunziani nella
capitale di fine secolo».
La presenza di D’Annunzio la
ritroviamo, in particolar modo, in Liriche e nei Poemi
tragici anche se sotto aspetti differenti.
In Liriche riconosciamo
i netti e distinti tratti delle stilizzazioni dannunziane, la cui
poesia offre al lettore un insieme di trasfigurazioni che culminano
il più delle volte nell’elogio della donna e della sua bellezza,
esaltazione che ritroviamo, ad esempio, nella poesia
L’Amante nella quale Onofri scrive :« […]Per te forse
l’anima sempre si bèi/inespribilmente di morire! », nella quale
morire per una donna diventa una beatificazione dell’anima, qualcosa
che supera persino il potere delle parole diventando inesprimibile.
L’interesse onofriano per
D’Annunzio è riposto, però, anche su un altro aspetto fondamentale
del pensiero di quest’ultimo, vale a dire sul mito del superuomo che
nelle prime raccolte poetiche di Onofri e in particolare nei
Poemi tragici si esplica nel continuo rimarcare d’imprese
eroiche anche se l’eroe onofriano è isolato dal contesto sociale in
cui vive perché, secondo il poeta, il miglioramento dell’uomo si
realizza fuori dalle conquiste sociali e dal progresso tecnico.
Leggiamo, ad esempio, le due
ultime quartine della poesia Per il silenzio:
«
Ch’io non parli superbo alla
mia gente!
Io molto l’amo ed amo i suoi dolori.
Ma che
dal suo travaglio io resti fuori,
perch’io
lo senta in me più grandemente.
Ed io vi
prego, o uomini in tregenda
che mi lasciate alla
mia grande pace,
dove ogni vostro
strepito si tace…..
Ch’io nulla oda,
affinché tutto intenda».
In queste quartine se da un lato il poeta
chiede di diventare un’immagine isolata dal contesto sociale in cui
si ritrova a vivere, da un altro lato è proprio grazie a questo suo
isolamento che vuole ritrovare se stesso per sentire su di sé le
angosce ed i tormenti di una civiltà oppressa da una realtà sempre
più caotica.
Questo esalta l’eroico che vive
nell’intimo di ogni uomo poiché, facendosi carico dei problemi
altrui, si distacca da un vivere che non gli appartiene avvertendolo
come non suo, ma come estraneo alla sua realtà.
Tra la prima raccolta poetica e la
seconda, quindi tra Liriche e Poemi Tragici,
avvertiamo subito una notevole differenza.
Nella prima, infatti, a
scrivere è ancora un Onofri giovane ed inesperto, mentre nella
seconda assistiamo al rammarico del poeta di fronte alla fragilità
della condizione umana, soffocata da una realtà insensata di cui non
si riescono a captare le più profonde ragioni.
Le immagini principali del suo
pensiero diventano la nostalgia, l’ansia per ciò che non si possiede
e la noia che devasta gli animi degli uomini, teorie che si
riflettono nel richiamo all’ossessione della morte e nell’idea fissa
della tomba e da cui consegue la scelta del titolo: vengono definiti
“tragici” proprio perché mostrano l’incapacità dell’uomo a
conformarsi alle ambiguità della vita.
Parallelamente, però, ci
accorgiamo di quanto sia possente la forza di determinazione con cui
il poeta ricerca una legge etica capace di conciliare la propria
ansia di grandezza, fino a quando ben presto si accorge che la sua è
una ricerca vaga ed inutile perché la vita è come un irrisolvibile
enigma percorso solamente da profondi solchi dolorosi in cui ci si
ritrova soli a combattere.
A tal proposito leggiamo in Solo:
«
Promisi. E oggi son, fra
tutti, solo.
Di tale amore, di tal odio
umano
Non posso amar, né odiare.Sforzo
vano!
Son tutti in me.Io amo ed
odio un solo.»
In questo caso appare chiaro il
riferimento all’eroico nel costante richiamo al proprio io legato
con il tema della solitudine umana spunto, quest’ultimo, che
possiamo usare come anello di congiunzione con i Canti delle oasi
nelle quali la solitudine diviene paradigma di salvezza che si
modella non più su un tragico ed eroico destino ma nella ricerca
della pace interiore, rievocata dalla figura del fanciullino che
porta il poeta a riscoprire l’ingenuità puerile, quando tutto « era
nuovo e bello e meraviglioso ».
Considerata sotto tale
prospettiva, questa terza raccolta sembra affrontare l’impatto con
la vita in maniera più rasserenata perché tutto ciò che è passato si
presenta come esitante dinanzi ad una realtà che, vista con gli
occhi di un bambino, appare ancora come meta lontana ma tuttavia
raggiungibile.
Così come nel caso dei
Poemi tragici, anche nei Canti delle oasi Onofri opta per
un titolo emblematico, infatti il sole brucia meno proprio in
prossimità dell’oasi, metafora questa che indica la ritrovata pace
interiore identificata non più nella tematica della notte o del
mistero, ma nella luce del giorno così come ci dimostrano i Poemi
del sole:
«E allora tutto il giorno avremo
calma e sole,
e sempre potremo uscire;
e andremo a vedere
bruciare,
appena che il sole aggiorni,
sui monti le carbonare;
e a mezzogiorno, tornando,
faremo,
pei boschi giaggioli.»
Leggendo questa poesia notiamo subito
che ci viene offerta un’immagine rasserenata e tranquilla, diversa
da quella delle precedenti poesie i cui i motivi principali erano la
morte,l’angoscia e le varie incognite sul proprio destino.Adesso a
splendere è il sole che permette ad ogni uomo di uscire dalle ombre
della notte in cui è vissuto fino ad ora per paura del fantasmi del
giorno e a godere del calore di un giorno calmo e sereno.
Non trascuriamo, però, il fatto che
questo cambiamento di prospettiva è dovuto al fatto che a guardare
la realtà sono gli occhi di un fanciullino, inesperto di cosa sia
veramente la vita e delle sofferenze che riserva ad ogni uomo.Quindi
la pace e la tranquillità che vengono sottolineate in questa poesia
sono solamente apparenti e non reali perché, in fondo, esistono
ancora l’ansia e la paura della morte.
Ad accomunare tutte e tre le
raccolte poetiche onofriane interviene l’uso del “simbolo” ripreso
dalla tradizione mistico- romantica,
che si serviva di
metafore, analogie e rimandi alla realtà sensibile per esprimere
stati d'animo, emozioni e sentimenti,
e
che fa capo alle figure di
Novalis e di Baudelaire
conosciuti ed apprezzati dal
poeta tramite un percorso di letture sostenute dalla ricca
biblioteca paterna che permette al giovane Onofri di esplorare lo
sconfinato mondo che si apre al di fuori della capitale in cui vive.
Tra i simboli più usati,
ricorre frequentemente l’immagine della Tana adoperata
come metafora per indicare l’oscurità, una zona negatrice della
luce, della libertà, del sole, la ritroviamo leggendo infatti alcune
poesie della raccolta Liriche quali Esortazione
: «[…] Nell’oscura tana vi si annidò[…] »; oppure in
Dall’antro: «[…] Così dall’antro dove il mio destino
medita d’ogni semplice elemento della Terra feconda un suo portento
volubile salìa […] »; in Inanis flagrans ancora leggiamo :«
[…] Perché l’anima usata all’angusto abitacolo non sa cantar
dei ciel l’infinito miracolo? […] ».
Ritroviamo la stessa metafora
nella raccolta Canti delle Oasi ed in particolare, in
Elegia dell’amore dove il poeta scrive : «[…] Entra tu
nella bassa tana dov’io languisco, tu c’hai l’odore dei fieni
dentro i capelli fulvi […] »
L’incontro, in seguito, con le teorie antroposofiche steineriane e con
l’occultismo, conosciuti nelle conversazioni e nelle discussioni
romane in casa De Renzis, indirizzarono in senso decisamente mistico
– religioso la riflessione teorica di Onofri e la successiva poesia
orientandola in direzione filosofico-mistica, con l’ambizione di
giungere ad esprimere la ritrovata unità dell’io creatore in una
spiritualità cosmica liberata da ogni peso della materia.
Nasce da qui la poesia
costruita secondo le strutture metriche tradizionali, tesa al
consolidamento metafisico della parola.
Ad alcuni amici biografi
apparve singolarmente significativa, quasi prova di una
purificazione individuale, la data della morte
del poeta avvenuta il Natale del 1928.
BIBLIOGRAFIA