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L’ultimo Camus

di Antonio Stanca

E’ apparso da tempo, presso Bompiani, il romanzo “Il primo uomo” di Albert Camus (Mondovi, Algeria, 1913 – Villeblevin Yonne, 1960) con traduzione di Ettore Capriolo. In Francia, la casa editrice Gallimard ne aveva già curato la pubblicazione dopo che la figlia dello scrittore, Catherine, s’era interessata ad ordinare il manoscritto ritrovato nell’automobile che conduceva il padre il giorno del tragico incidente.

Con quest’opera Camus intendeva dare inizio, come generalmente usava, ad un’altra fase della sua attività di scrittore dopo quelle dell’”assurdo” e della “rivolta” espresse con romanzi, saggi filosofici e opere di teatro. Anche stavolta sarebbero stati lavori di diverso genere a raccogliere il suo pensiero e l’intero ciclo si sarebbe intitolato “Némésis” con riferimento alla dea greca della misura. Questo sarebbe stato seguito da un altro dedicato all’amore e il libro-saggio “Déjanire” ne sarebbe stata la prima opera. Tali programmi non avrebbero trovato attuazione ma da qualche cenno o abbozzo rinvenuto si può dedurre come essi, insieme al suddetto romanzo, riflettano un momento particolare della vita dell’autore, quando  egli tendeva a sollevarsi dalla condizione di grave sconforto procuratagli dalle violente polemiche, sorte in seguito alla pubblicazione de “L’uomo in rivolta”, e dalla definitiva rottura con Sartre avvenuta nella stessa circostanza. Tale disagio aveva trovato espressione nelle novelle de “L’esilio e il regno” e nel breve romanzo “La caduta”, che rappresentano gli  scritti di Camus prima de “Il primo uomo”.

Questo è un romanzo di carattere autobiografico e mostra l’autore-protagonista, il quarantenne francese Jacques Coormery, che ritorna in Algeria, suo luogo di nascita e  giovinezza, dopo aver visitato, nella Manica, la tomba del padre morto durante la prima guerra mondiale, quando egli era molto piccolo. Tali eventi modificano il suo atteggiamento iniziale di uomo che si sentiva privato di un passato, di una storia, “caduto”, finito, e lo inducono a guardare in se stesso, a ritrovarsi, a ricostruirsi. “Ricerca del padre” si chiama, appunto, la prima parte dell’opera e nella seconda Jacques scoprirà che la sua condizione di francese d’oltremare, di estraneo alla patria, è comune a tanti altri, ad un’intera generazione e ne farà la storia.

Da una situazione di crisi il romanzo perviene ad una svolta, da privato, autobiografico, diventa sociale, storico, esistenziale. Partito dall’uomo solo e senza storia esso giunge all’uomo ampliandone la figura e l’ambientazione, mosso da un sentimento isolato di sfiducia ottiene una speranza, una fede collettiva, da una vita passa alla vita: così sempre in Camus giacché unica, uguale è l’interiorità che anima l’uomo e lo scrittore. Questa volta a muoverlo verso il concepimento di altri cicli di opere e la composizione della prima era stata la sofferenza di autore incompreso, discusso, respinto, violentato negli intenti e desideroso di rifarsi, di ritrovare  quell’equilibrio, quella misura umana e intellettuale, personale e sociale, che erano  le acquisizioni raggiunte in seguito alla “rivolta” intrapresa dal suo “uomo” contro la vita perché ritenuta un’esperienza “assurda” e simile alla pena di “Sisifo”. Ora l’uomo di Camus  aveva superato l’iniziale condizione di “straniero” agli altri, alla vita, si era cercato e trovato nel mito, nella storia, aveva ricomposto le sue membra e si avvertiva come totalità di passato e presente, corpo e anima, materia e spirito. Era un uomo chiamato ad interpretare e vivere una dimensione più ampia perché comprensiva di ogni aspetto dell’umanità, ad assumere e svolgere un compito più esteso, quello di contenere e spiegare più che respingere e negare, a stabilire una regola, una misura più vasta, aperta alla complessità dell’essere, alle sue infinite manifestazioni.

Era “l’uomo mediterraneo” l’uomo totale di Camus, quello presentato nell’ultima parte de “L’uomo in rivolta” che, come l’antico modello, avrebbe dovuto saper vivere anche ciò che lo dissipava, lo devastava considerandolo uno dei tanti suoi aspetti e impegnandosi a combatterlo, correggerlo, proiettarlo in una concezione o visione che lo comprendesse e superasse. Soltanto così il suo “primo uomo” sarebbe potuto uscire dallo stato iniziale di angoscia nel quale si era mostrato, soltanto acquisendo coscienza del dramma e impegnandosi a superarlo per sé e per gli altri. E soltanto un amore come quello della mitica Dejanira, che è forza e lotta oltre che sentimento, ragione oltre che passione, avrebbe potuto sostenere l’uomo moderno nel suo compito di rinnovarsi e rinnovare.

E’ evidente come in Camus, nonostante le diverse fasi nelle quali egli amava distinguere la sua attività, sia possibile individuare un filo conduttore unico, come esse rappresentino le sequenze sempre collegabili di un solo processo, i modi di una sola disposizione sentimentale e spirituale, quella dell’uomo che anela a rifarsi dei danni, delle violenze subite dalla vita, dalla storia, di quanto è stato sottratto alla sua antica umanità e scopre che potrà farlo solo acquisendo una coscienza nuova, diversa, capace di avvertire l’esistenza nella sua vastità, di viverla come esperienza totale,  di non concedersi alle sue parti, differenze o contrasti ma contenerli ed emergere su di essi.

E’ una concezione che sa d’istintivo, di vitalistico e che era venuta a Camus dal suo sentirsi un artista più che un filosofo, un “greco” nel senso di orientale più che occidentale. Essa sarà fondamentale nello scrittore e risalterà, in modo particolare, ne “Il primo uomo” poiché qui verrà riconosciuta come tipica di chi è nato e vissuto fuori del continente europeo, in questo caso un francese d’Algeria, ed avvierà a soluzione, mediante la ricerca della suddetta misura o “Némésis”, anche lo storico contrasto tra la libera spiritualità degli “orientali” e il rigore del pensiero occidentale trasponendo il problema nelle situazioni e figure richieste da un romanzo.


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