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Il caso “Svevo”

di Antonio Stanca

Nel 1928, poco prima del grave incidente automobilistico che gli sarebbe costato la vita, Italo Svevo  (Trieste 1861-Treviso 1928) era stato pubblicamente riconosciuto e apprezzato da molti scrittori stranieri riuniti al Pen Club di Parigi, era stato definito “uno dei padri del romanzo moderno” ed accostato ad autori quali Proust, Joyce e Musil. In Italia, invece, nonostante gli interventi di Eugenio Montale e di alcuni scrittori della rivista “Solaria”, la sua figura sarebbe rimasta quasi sconosciuta fino agli anni ’60. In verità la formazione umana, culturale, sociale di Svevo era avvenuta in una Trieste ancora dell’Impero austriaco e, perciò, partecipe di quell’acceso movimento d’idee, autori, opere, verificatosi alla fine del secolo scorso nell’ambito della letteratura mitteleuropea. Ma anche quando, dopo la prima guerra mondiale, la città sarebbe divenuta italiana Svevo non avrebbe risentito dei trionfalismi e della retorica di tanta letteratura dell’età giolittiana e avrebbe continuato ad interessarsi a quanto avveniva in Europa (il flusso di coscienza di Joyce, la psicanalisi di Freud) anche perché la sua attività di uomo d’affari lo faceva spesso viaggiare tra i principali centri europei in alcuni dei quali a volte risiedeva. Tutto questo insieme alla nazionalità tedesca del padre e italiana della madre, alla sua prima formazione avvenuta su classici stranieri, in particolare francesi, sulla filosofia di Schopenhauer, di Nietzsche e sulla musica e teatro di Wagner, lo avrebbero indotto a sentirsi italiano a metà ed a scegliere di chiamarsi Italo Svevo invece di Ettore Schmitz. La particolarità del suo caso, tuttavia, sta soprattutto nel fatto che in lui coesistono e cooperano due diversi ed opposti modi di essere e vivere: da una parte l’uomo comune, il figlio, il marito, il padre, il nonno, l’impiegato d’ufficio, l’industriale, dall’altra l’uomo d’elezione, lo scrittore inquieto, insoddisfatto, deluso della vita, delle sue convenzioni; egli è l’uomo pubblico, d’azione, capace di rapporti, affermazioni e successi concreti nel proprio lavoro, ed anche l’uomo privato, di pensiero, di riflessione, incline al ripiegamento su se stesso, all’assenza, fedele ai valori dello spirito e per questo esposto all’esclusione, alla sconfitta da parte dell’ambiente come traspare nei suoi due primi romanzi, “Una vita” (1892) e “Senilità” (1898). I protagonisti, Alfonso Nitti ed Emilio Brentani, sono due intellettuali falliti nelle loro aspirazioni ed incapaci di inserirsi nella dinamica della vita degli altri, due “inetti” o sconfitti morali che soffrono il problema al punto da suicidarsi il primo e star male il secondo. Sono queste le opere principali della prima fase dell’attività letteraria di Svevo, quelle che non avranno alcun successo e saranno seguite da un lunghissimo periodo di silenzio durante il quale egli si dedicherà quasi unicamente all’attività commerciale come se temesse d’ “ammalarsi” di letteratura al pari dei suoi personaggi.

Quando nel 1923 Svevo, ormai maturo, si ripresenterà con “La coscienza di Zeno” molto sarà cambiato: Zeno Cosini è ancora un incapace ma non ne fa un dramma come i suoi precursori poiché ha acquisito tanta e tale “coscienza” del problema da ridimensionarlo e considerarlo uno dei tanti che affliggono l’umanità, da rifiutare la cura a cui inizialmente si era sottoposto per risolverlo e ironizzare su di esso. E’ una maturazione rispetto alla situazione precedentemente vissuta e sofferta. A differenza del Nitti e del Brentani ora Svevo è l’intellettuale che rinuncia a considerare la letteratura un valore unico, superiore ad ogni altro, ad estraniarsi in nome di essa poiché la ritiene soltanto una possibilità, un modo per indagare e conoscere la realtà propria e altrui, per scoprire la sua illusorietà e quanto si cela dietro ogni apparenza. Non si erge a severo accusatore o implacabile giudice della diffusa condizione d’ ipocrisia ma ne ricava una concezione di generale, totale negatività che riguarda ogni forma o luogo o tempo del vivere e che, pur suscitando indignazione, finisce con l’essere accettata dal momento che è impossibile pensare di  modificarla. Altre differenze rispetto ai due precedenti romanzi stanno nella narrazione condotta ora in prima persona e nello svolgimento dell’opera che non è lineare ma piuttosto discontinuo giacché avviene per temi: sono le tappe principali della propria vita percorse dal protagonista su invito del medico che in tal modo intende curarlo della sua mancanza di volontà. E’ un’opera che si fa da sé e che è sentita come necessaria data la sua funzione di terapia. Avverrà, però, che Zeno Cosini, nel ricostruire il proprio vissuto, non riesca ad ordinarlo in maniera puntuale e chiara ma lo presenti irto di complicazioni, contraddizioni a causa di dimenticanze od omissioni di vario genere e che giunga a considerare impossibile la guarigione e necessaria la malattia, a ritenere questa come l’espressione particolare di un disagio, di un malessere generale, a pensare alla vita come ad una pena diffusa e possibile di essere eliminata solo cambiando totalmente lo stato delle cose, ricreandolo per tutti. Questo scopre Svevo ne “La coscienza di Zeno” a conclusione del viaggio a ritroso fatto compiere al suo personaggio e la rivelata estensione del problema se lo solleva dalla particolarità del proprio dramma lo inquieta maggiormente come avviene di fronte ad ogni grave constatazione. Non gli rimarrà che arrendersi all’inevitabilità ed assumere quell’atteggiamento di amara ironia proprio di chi si rassegna malvolentieri. Questo percorrerà tutto il libro e diverrà distintivo della scrittura di Svevo nelle opere, novelle e drammi, compiuti o incompiuti, che seguiranno. Anche il progettato quarto romanzo sulla vecchiaia avrebbe contenuto temi e toni tra il serio e il faceto: è la condizione alla quale è pervenuto Svevo dopo quella scoperta ma la morte improvvisa gli impedirà di svilupparla e rappresentarla ulteriormente. Importante è, tuttavia, sapere che avrebbe continuato a scrivere sempre nei modi dell’indagine introspettiva e nonostante avesse ormai constatato la relatività, la precarietà se non la vanità dell’opera letteraria ai fini di una correzione o miglioramento della drammatica situazione scoperta. Avrebbe continuato a seguire entrambi i suoi destini, quello dell’uomo e l’altro dell’artista, senza sperare che si potessero combinare o che da uno di essi potesse provenire la soluzione del problema. Li avrebbe accettati come naturali ed avrebbe ancora ironizzato sugli aspetti, momenti, sentimenti, pensieri che la vecchiaia gli aveva arrecato senza pensare di sublimarli attraverso l’opera, di ridurre ad essi quelli dell’intera umanità ma compenetrandoli con questi e giungendo  a sempre nuove rivelazioni e constatazioni.

Un diario particolare, un insolito documento di vita potrebbe essere definita la sua opera giacché non rinuncia mai a se stessa pur disponendosi verso l’esterno, non smette di procedere pur soffrendo, di cercare effetti comici anche nel dramma. Unica è questa posizione di Svevo nel contesto non solo della letteratura italiana ma anche straniera a lui contemporanea. Se da quest’ultima aveva preso le mosse si era poi allontanato per seguire solamente le proprie inclinazioni, per vivere e scrivere della vita, per fare dell’opera un aspetto naturale dell’essere, per procurare alla letteratura una dimensione umana ed uno stile che, dovendo esprimere tanta alternanza di temi ed umori, tale movimento di luci ed ombre, sarebbe stato immediato, essenziale, carico di effetti particolari, vicino e lontano dal parlato, poco rispettoso della tradizione, nuovo.


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