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Prima l’uomo
(Una prova riuscita)

di Antonio Stanca

Dalla storia alla vita, dalla vita all’uomo, dall’uomo all’arte: è il percorso compiuto dal cinquantottenne cuneese Mario Cavatore in “Il seminatore” (ed. Einaudi). Dopo essersi impegnato  in altri campi Cavatore fa ora la sua prima prova narrativa e riesce ad attirare l’attenzione della critica sia per il contenuto sapientemente costruito sia per la forma semplice e chiara nonostante alcune libertà.

La vicenda è ambientata nella Svizzera degli anni precedenti il secondo conflitto mondiale, dei seguenti fino a quelli a noi più prossimi. Nel 1939, mentre svolge il servizio di leva, lo zingaro Lubo sa che i suoi due bambini sono stati deportati dalla polizia e la moglie uccisa perché si era opposta. I poliziotti avevano operato in nome della legge che prevedeva l’abolizione del nomadismo e l’affidamento dei bambini delle famiglie nomadi o di zingari, come quella di Lubo, ad istituzioni quali “Bambini della strada”. Queste ufficialmente dovrebbero occuparsi della loro formazione e inserimento nella società ma in realtà si adoperano per annullare ogni loro capacità d’intendere e volere fino al punto da far pensare, ad alcuni “istitutori” o “politici”, ai modi da seguire per eliminarli. Si trattava, come documenta lo stesso Cavatore nella postfazione dell’opera, di un’applicazione delle “teorie eugenetiche” sorte ai primi del ‘900 ad opera di studiosi soprattutto inglesi e francesi, finalizzate ad un “miglioramento della specie umana” mediante la soppressione di chi in essa è di peso per le condizioni fisiche,  per  l’origine o per il modo di vivere, e seguite fino a tempi recenti da molti stati del mondo dopo essere passate, e tragicamente, attraverso la Germania di Hitler.

Lubo, di fronte agli irreparabili danni subiti ed allo scandalo di un’autorità che voleva mostrarglieli come “legali”, decide di vendicarsi uccidendo un commerciante afgano appropriandosi della sua identità e ricchezza e trasformandosi in un affascinante seduttore intento a far nascere, mediante l’accoppiamento con donne svizzere, bambini “bastardi” onde guastare quel piano di “pulizia etnica”, quel programma di “politica razziale” che aveva causato l’internamento dei suoi figli e la morte della moglie. Quasi duecento di tali nascite egli “semina” ed una, quella di Hugo, verrà dal rapporto con una vedova italiana, immigrata a Lugano e già madre del giovane Hans. Hugo sarà sempre considerato con distanza se non con rivalità da Hans e la storia dei due fratelli fino alla tragica conclusione s’intreccerà  con quella del “seminatore” e rientrerà nel romanzo, insieme ad altri personaggi ed avvenimenti, rimanendovi oscura, torbida e ricevendo chiarezza solo dalla lettera finale del commissario Motti al giudice Gino.       

Saranno le dichiarazioni e soprattutto confessioni del Motti a far acquisire alla vicenda fino a lui giunta un’articolazione tale da dimostrarla intricata ed a farle superare la dimensione del documento vero, della situazione reale per un’altra di  valore superiore perché morale, spirituale. Egli dirà di aver omesso la legge dal momento che ha ucciso come ha fatto lo zingaro Lubo ed ha liberato dal carcere Hans ritenuto colpevole della morte della moglie Martha, ma  chiederà pure di essere capito per i suoi reati perché a muoverlo sono state motivazioni di carattere interiore uguali a quelle che hanno agito in Lubo e Hans. Vicino ai due egli si colloca con la  lettera e come per sé anche per loro chiede comprensione e grazia da parte del giudice. E’ consapevole che nessuna legge potrà assolverli giacché in nessuna c’è posto per i fatti dell’anima e, in tal caso, è pronto ad essere condannato. Non gli sia impedito, però, di segnalare i veri colpevoli, di indicare nelle istituzioni, che ad un padre hanno sottratto  i figli ed ucciso la moglie, i responsabili della sua condotta  criminosa, di spiegare l’immagine di Hans armato di coltello di fronte alla moglie ed al fratello Hugo, sorpresi a letto, come dovuta al dramma inesprimibile di un giovane che, dopo tante vicissitudini, aveva creduto di aver trovato per sempre una compagna ed, infine, di capire che se lui, il commissario Motti, ha sparato sul poliziotto Marco prima che questi sparasse su Hugo, lo ha fatto perché da indagini condotte aveva saputo delle colpe di Marco, dei suoi abusi e violazioni.                      .

In ogni caso sono state delle cause interiori ad agire e, purtroppo, non molto potrà essere concesso loro da parte della legge ma si potrebbe pure, secondo Motti, cominciare a pensare a quanto si nasconde dietro le apparenze, a quali siano le vere realtà ed a procedere ad un’operazione di revisione che comprendesse anche la legge.

In un atto di denuncia  di quanto è avvenuto e avviene nella storia, passata e presente, ai danni dell’uomo ed in nome della legge, si trasforma, quindi, il romanzo, in un messaggio volto a recuperare, a perseguire i valori dell’animo, dello spirito oltre ogni evidenza, a  credere nell’uomo, nella sua capacità di amare, nel suo bisogno di ritrovarsi nell’idea: tutto quanto, nell’opera, è stato detto della storia, della vita è servito a farci giungere all’uomo, a farcelo scoprire come ancora autentico, vero e capace di superarle, trascenderle, assumere un significato proprio, divenire un simbolo, un motivo d’arte. Anche questo ha mostrato Cavatore col suo libro: che l’arte è ancora oggi possibile e come ottenerla.

Per essere una prima prova e perché compiuta in uno spazio di poco superiore a cento pagine non poteva essere migliore!


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