|
|
Come finisce la storia di Antonio Stanca Da Baldini-Castoldi è stato ristampato il libro "La società dello spettacolo" del francese Guy Debord. Questi è nato a Parigi nel 1931 e lì si è suicidato nel 1994 dopo aver pubblicato alcuni lavori, collaborato a produzioni filmiche ed essere apparso, con saggi, su giornali e riviste. Di formazione anarchico-marxista aveva fondato, nel 1957, l’Internazionale situazionista, movimento culturale che contestava la società consumistica in nome di quanto in essa, nelle sue regole non rientrava, e diretto per alcuni anni la "Rivista internazionale situazionista". Riguardo a "La società dello spettacolo" la prima edizione risale al 1967 ed a questa, nel 1988, l’autore aveva aggiunto "Commentari alla società dello spettacolo" per ampliare e completare l’opera con la trattazione di quanto gli sembrava si fosse verificato nei tempi seguenti la sua comparsa. Entrambi i lavori sono presenti in questa ristampa. Si tratta, quindi, di un libro di critica sociale, di osservazione ed analisi del moderno costume individuale e collettivo, di un testo di sociologia che, nonostante le reticenze dell’autore a divulgare i propri lavori, ha rappresentato un fenomeno importante, è divenuto un classico della contestazione, tradotto in molte lingue ed ancora oggi citato.Il suo procedimento è per tesi e dal contenuto di queste si deduce che Debord, negli anni ’60, aveva previsto quel che sarebbe accaduto ai nostri giorni, che tra segnali semplici e molto vaghi era stato capace d’ intravedere il futuro ambiente umano e sociale ed identificarlo con quello dello "spettacolo". Spettacolo concentrato e spettacolo diffuso sono i temi principali nell’edizione del ’67, spettacolo integrato nell’edizione dell’ ’88 comprensiva dei "Commentari". Il primo dei tre fenomeni si verifica, secondo Debord, in società a regime dittatoriale, il secondo in regimi democratici, il terzo comprende entrambi e rappresenta l’ultima fase di un processo di spettacolarizzazione che, se allo stadio iniziale aveva risparmiato le periferie, ora ha ridotto a sé ogni spazio, tempo e luogo. Il problema ha avuto inizio tra fine ‘800 e primo ‘900 quando il rapporto tra lavoratore e prodotto ha cominciato ad alterarsi ed il primo non si riconosce, non si ritrova più nel secondo. Non lo sente proprio bensì estraneo ed obbediente a modelli esterni, legati al sistema nel quale è inserito e che gli ha procurato la forma che serviva a farlo valere. Non è più importante che esso rifletta il lavoro richiesto per realizzarlo, che sia vero, autentico ma soltanto che appaia come lo si attende e vuole, che faccia spettacolo perché così richiede la nuova situazione economica. Nella condizione dell’umanità, nella storia del pensiero era così avvenuto, in epoca moderna, un passaggio determinante: dall’essere si era passati all’avere ed ora si era giunti all’apparire, cioè al non essere. E questo per tutto quanto fa parte dell’uomo, cioè vita, costume, politica, cultura, arte, scienza. Politici sono, infatti, anche uomini corrotti, scrittori, poeti sono anche presentatori televisivi. Non ci sono più ruoli, di scienza si dicono esperti anche "i fornai". E’ questo "lo spettacolare integrato" di cui Debord dice nei "Commentari". Qui le sue analisi sono più vicine ai nostri tempi, più aggiornate, e l’autore perviene a gravi, allarmanti constatazioni: la vittoria della finzione sulla realtà, della copia sull’originale, della forma sul contenuto è ormai totale. Per Debord non c’è più niente di autentico giacché tutto è concepito, prodotto, vissuto, tutto esiste, si muove in funzione dell’immagine che deve suscitare all’esterno presso chi guarda o sente o segue, il quale, a sua volta, lo fa obbedendo ad altri bisogni o richieste di apparenza. E’ questa "la società dello spettacolo" ed in essa anche le più elementari, le primarie espressioni della vita dell’uomo quali la famiglia, l’istruzione, il lavoro, i sentimenti, i pensieri, le aspirazioni, seguono tutte una direzione unica, quella di conformarsi all’ambiente, al costume, alla moda, alla tendenza del momento sopprimendo qualunque bisogno o richiamo interiore, qualunque autenticità e verità. L’esterno vale più dell’interno, la forma più del contenuto: tutto deve apparire quasi si trattasse solo di oggetti, di merce, come se si fosse in una mostra permanente ed infinitamente estesa. La società, il mondo sono ormai completamente materializzati, un’immensa costruzione è sorta sulle rovine di ogni valore dello spirito, della morale. Un infinito, sterminato presente ha annullato ogni passato, ogni storia e fatto dell’esistenza una scena senza confini poiché tutto, ovunque e sempre si modifica secondo quanto richiesto dalla circostanza, si adegua a come è necessario apparire. Una realtà privata di ogni riferimento stabile o valore obiettivo perché perennemente cangiante, modificantesi e, quindi, impossibile da cogliere, fissare, definire, è una realtà inesistente, una realtà cancellata dal suo spettacolo. Possono sembrare eccessive, sconsolanti queste conclusioni del Debord e, tuttavia, vanno riconosciute: se oggi si parla di fine di ogni manifestazione o relazione o condizione umana ove la spiritualità o, in genere, l’interiorità ha un posto preminente, se l’individualità, la socialità, l’umanità si sono materializzate, se l’uomo è divenuto un oggetto come tanti altri, se ha accettato, in qualunque condizione si trovi ad agire, a vivere, di valere per quel che appare e non per quel che è, significa che ogni valore permanente è finito, che la spettacolarità e la sua perenne mobilità hanno invaso tutto e che il fenomeno è di proporzioni incalcolabili e destinato a non avere fine. Al Debord di questo libro si potrebbe obiettare di aver trattato una materia così viva e mossa quale quella umana e sociale con uno stile conciso, categorico, sentenzioso, che procede per rigorose formulazioni, di aver avviato un percorso simile a quello delle trattazioni scientifiche ma non si può disconoscere che dietro certe agghiaccianti considerazioni si cela non l’arido osservatore bensì l’uomo sconvolto da quanto registrato, dalla verifica di una dilagante crisi d’identità, dalla constatazione dell’impossibilità di vivere, di essere per chi, come lui, voleva vivere ed essere. La sua vita condotta quasi completamente in una solitudine altera e sdegnosa, la sua rinuncia ad ogni pubblicità che riguardasse la persona o l’opera, la sua morte provano che se Debord è stato lapidario, esclusivo, assoluto nella scrittura, fragile, debole è stato nell’animo, continuamente in pena perché estraneo, in ogni momento, a quanto gli avveniva intorno, diverso da tutto ciò che lo circondava fino a convincersi di essere inutile e sottrarsi al contesto. |
La pagina
- Educazione&Scuola©