Tempi
difficili
di Antonio Stanca
Nel
saggio “Dopo la fine” (Sulla condizione postuma della letteratura),
pubblicato da Einaudi, il noto studioso e critico letterario Giulio
Ferroni, autore, tra l’altro, di una “Storia della letteratura italiana”
in quattro volumi, pure edita da Einaudi, intende dimostrare come dalla
fine del ‘700 in poi è comparsa negli ambienti letterari, soprattutto
occidentali, l’ossessione della fine e come essa sia “il riflesso di una
serie di trasformazioni radicali che hanno messo ai margini la scrittura
nel nostro sistema di comunicazione”. Il fenomeno, naturalmente, si è
accentuato col tempo e col definirsi dell’attuale condizione individuale
e sociale. In una società come la contemporanea, nella quale la funzione
comunicativa è stata quasi totalmente assunta dai mezzi televisivi o in
genere di massa, dai loro procedimenti per immagini, figure, effetti di
luce, suoni, colori, da tutto ciò che può “compiacere i sensi”, era
naturale che la scrittura, specie quella impegnata, letteraria,
d’autore, d’arte, registrasse una sempre minore attenzione. La facilità
veniva preferita alla difficoltà, l’ascolto, l’acquisizione passiva alla
lettura, alla riflessione, all’impegno. A mancare non erano gli autori
di letteratura bensì il pubblico, i lettori poiché attirati dalle
infinite conoscenze comportate dalla modernità e dai modi più vicini,
rapidi e accessibili da esse usati per diffondersi. In simile contesto,
sempre più dinamico, frenetico e sempre più privo di spazi liberi, era
necessario che la comunicazione si adeguasse al sistema, assumesse una
qualità ed un aspetto tali da giungere a tutti, li facesse sentire
protagonisti di quanto saputo, visto o sentito, ne permeasse i pensieri,
i discorsi, avviasse un’immensa operazione di “omologazione” nella quale
si sarebbero ridotti il tempo per la lettura e l’ interesse per i
contenuti e significati di un libro. Elementi estranei, lontani sono
divenuti ormai questi poiché diversi da quelli della più estesa cultura
di massa che ha determinato, definito l’uomo moderno nei suoi atti,
pensieri, umori, sentimenti fino a fargli diventare impensabile
qualunque messaggio contrario alle nuove regole quale, appunto, il
letterario, l’artistico, e qualunque azione impegnata a coglierlo. La
nuova cultura ha fatto della vita una situazione di diffusa, immensa,
perenne attualità dalla quale ha escluso ogni forma di tradizione
compresa quella culturale: è un uomo, il moderno, che vive solo di
presente poiché ha smarrito il passato, la storia e tutto quanto vi era
connesso. Riflesso evidente di tale trasformazione è la scuola dei
nostri giorni dove l’azione pratica, la tecnica tendono ad annullare
l’attività di pensiero, osservazione, elaborazione e le discipline,
letteratura, filosofia, storia, che la richiedono. Aumenteranno,
pertanto, l’informazione, la conoscenza e si ridurranno l’attenzione,
l’applicazione; crescerà il corpo e diminuirà lo spirito e basterà
essere scrittori o poeti o filosofi o in genere intellettuali per
rimanere esclusi dal contesto, basterà credere nella scrittura per
diventare un eroe solitario. Tale era stato, tra fine ‘800 e primo ‘900,
il letterato, l’artista decadente ma allora soprattutto per problemi di
carattere morale ai quali ora si sono aggiunti altri. Allora egli aveva
scelto di stare lontano dalla quotidianità, ora è stata questa ad
allontanarlo: quella che era stata una vocazione è divenuta una condanna
prima alla solitudine e poi al silenzio, alla fine. E’ come se la
sopraggiunta cultura di massa avesse decretato che la scrittura, in
particolare quella letteraria, non ha più niente da comunicare, non
serve più essendo comparsi tanti altri motivi e modi per esprimersi,
farsi ascoltare, informare, convincere, conoscere.
E’ finito il rapporto tra
letteratura e storia, scrittura e società, durato per tutto l’Ottocento
ed oltre, fin quando, cioè, l’arte era stata anche l’interprete degli
umori ed istanze di un particolare momento della storia, della cultura,
il loro riflesso, la loro sublimazione. Fino ad allora la scrittura
letteraria, poetica o in genere artistica aveva attinto alla vita,
l’aveva trasfigurata e proiettata in una dimensione superiore. Ora nella
scrittura d’autore, nell’arte si esprime solo il singolo e non la
collettività tramite lui: essa ha perso il carattere ideale, la funzione
didattica, l’aspirazione universale e si è ridotta ad una voce isolata
costretta, a volte, ad usare i mezzi propri di ogni altro prodotto per
poter continuare ad essere. In tale confronto è destinata a perdere
poiché, s’è detto, la parola scritta è stata ormai superata da quella
figurata, colorata, sonora, visiva, il prodotto letterario da quello
tecnico. La capacità di attrazione, suggestione, convinzione di questo è
superiore e, di conseguenza, ha ridotto l’uomo ad un’espressione della
tecnologia, ad un’immagine dei suoi sensi continuamente stimolati
dall’esterno, ad un automa dalla vita riflessa e lontana da ogni
interiorità, umanità, tradizione e da quanto, come la letteratura e la
scrittura, poteva ricordargliele.
In tale situazione si è
cominciato a parlare di nuovo umanesimo, del bisogno, cioè, di
recuperare, ripristinare i valori umani più autentici ed i modi più
adatti ad esprimerli e diffonderli quali quelli della scrittura
letteraria ed artistica. Molto lontana appare, tuttavia, tale
prospettiva e costretta a rimanere ancora per molto tempo limitata a
pochi ambienti e personaggi. E’ una nuova figura d’autore quella che
dovrebbe valere per una situazione quale la presente e futura e non è
facile pensare di operare da umanisti in tempi così cambiati rispetto a
quelli propri dell’umanesimo. |