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Flaiano, una possibilità mancata

di Antonio Stanca

Presso Bompiani è uscito l’epistolario di Ennio Flaiano col titolo “Soltanto le parole – Lettere di e a Ennio Flaiano (1933-1972)” a cura di Anna Longoni e Diana Ruesch.

Flaiano è stato scrittore, giornalista, drammaturgo, sceneggiatore: è nato a Pescara nel 1910, è vissuto generalmente a Roma dove è morto nel 1972. Le lettere da lui inviate o ricevute informano, tra l’altro, di quanto accadeva quando la nostra cultura ed arte, nei primi decenni del secolo, si dibattevano tra suggestioni ed influenze provenienti da riviste quali “Solaria” o da esempi di autori stranieri, quando tra tanti richiami finivano col prevalere quelli tradizionali di carattere positivista o idealista ed ogni autore finiva col seguire una via propria, particolare, unica e col formare, insieme agli altri, un contesto quanto mai vario ed eterogeneo.

In tale atmosfera è vissuto ed ha operato Ennio Flaiano e le sue lettere sono importanti perché svelano i motivi che gli hanno impedito una maggiore applicazione nell’attività letteraria e lo hanno relegato ai margini di sì ampio movimento di autori, pensieri ed opere. Esse lo mostrano come una persona  rivolta più verso gli altri che verso se stesso,  incline più a partecipare, collaborare che  isolarsi, distinguersi,  propensa a dare e non ad ottenere e queste tendenze non solo lo allontanavano dalla sua attività di autore ma lo esponevano anche a gravissime delusioni. Molte volte egli vide negato o non adeguatamente riconosciuto l’impegno profuso in ambito giornalistico o cinematografico e grave era stato il rammarico per aver sacrificato ad esso gli stimoli di carattere letterario che sentiva urgere in sé.

Tuttavia da quanto di lui ci è giunto tra romanzi, racconti e drammi, si può dedurre che con Flaiano ci troviamo di fronte ad uno scrittore che soffre profondamente i suoi tempi e cioè la società di massa, gli ambienti consumistici, il mondo industrializzato, la tecnologia avanzata e tutto ciò che contribuiva all’affermazione di aspirazioni comuni e generalmente aliene da ogni spiritualità o sentimentalità. Il tono satirico di alcune sue opere non basta a mascherare il dramma da esse celato e che deriva dalla constatazione di un tempo, di un’umanità che hanno decisamente optato per la materia, la contingenza, la realtà e respinto lo spirito, la trascendenza, l’idealità insieme a chi vi era rimasto ancora legato.

L’uomo di Flaiano è quello che si è perso nella vita da quando questa è stata privata dei suoi principali valori o principi, di ogni riferimento sicuro, di ogni verità  oggettiva, da quando tutto è divenuto relativo poiché ridotto ad una dimensione puramente individuale. Il suo è il “tempo di uccidere”, di sopprimere i pericoli anche se vana sarebbe risultata una lotta ingaggiata tra l’uno e i molti, l’uomo e la vita. E’ bastato che Flaiano volesse conservare, per il protagonista dei suoi racconti o l’interprete dei suoi drammi, quell’umanità che sarebbe dovuta essere propria dell’uomo perché l’autore risultasse isolato dal contesto, un “diverso”, “un marziano a Roma”, perché si esponesse ad un dramma insolubile, ad una continua sofferenza.

Per questa via lo scrittore di Pescara era giunto al problema di ogni grossa personalità artistica soprattutto moderna, il contrasto tra ideale e reale. E’ il motivo costante della sua produzione dal quale nemmeno impegni diversi come il giornalismo o la sceneggiatura o i frequenti viaggi da essi richiesti erano riusciti a distoglierlo. Anzi, come si è detto e come soprattutto traspare dalle lettere di poco precedenti la morte, Flaiano aveva sofferto fino alla disperazione per non essersi concesso unicamente alla scrittura, per non aver sviluppato certi spunti o momenti di essa, per essersi rivolto più all’esterno che all’interno, alla sua opera.

Questo non autorizza a pensare che si sarebbe trattato sicuramente di una grande opera o di un grande scrittore ma fa riflettere su Flaiano come su una possibilità mancata quando c’erano tutte le premesse perché si verificasse.


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