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Dall’anima
al suo mistero*
di Antonio Stanca
“Autenticamente
vero” è un racconto di Henry James (New York 1843 – Londra 1916) scritto
nel 1892 e attualmente tradotto da Elisabetta Querci e ristampato per
conto della “Biblioteca di Repubblica – L’Espresso”, n.24, Gruppo
Editoriale L’Espresso, Roma 2010, pp.95. Fa parte della seconda fase
della vasta produzione dello scrittore, quella che va dal 1891 al 1895 e
che lo vede impegnato anche in opere teatrali che non hanno successo. Precedentemente, nei primi lavori, romanzi e racconti,
James aveva scritto del tema “internazionale”, aveva, cioè, creato
personaggi del nuovo continente nei quali era avvenuta, come in lui,
quell’iniziazione alla cultura europea che avrebbe dovuto completare la
loro formazione d’origine e rendere possibile una fusione tra le due
culture. Questo periodo è compreso tra il 1875 e gli ultimi anni ’80 e
si conclude con il riconoscimento dell’impossibilità di tale aspirazione
a causa degli impedimenti che ad essa derivavano dalle complicazioni
ormai presenti nello spirito europeo. Tra le opere del secondo periodo oltre agli insuccessi
teatrali ci sono le narrazioni concentrate nel rappresentare quanto
accade nell’animo umano, nel fare della vita interiore l’unica, la
maggiore verità e nell’identificarla con l’arte. Con un’arte che rifiuta
l’esterno, la realtà, l’azione per esprimere soltanto quanto proviene
dall’idea, dal pensiero. Nel terzo ed ultimo periodo della produzione jamesiana,
dal 1896 al primo decennio del ‘900, i temi delle fasi precedenti
ritornano per essere ripresi con quella che sarà detta la maniera
“sperimentale” di James e che influenzerà molta letteratura del
Novecento. Nei romanzi e racconti di questo periodo la vita interiore di
prima assumerà tanti risvolti, sarà all’origine di tanti pensieri e
sentimenti, di un tale movimento d’idee, si dilaterà al punto da rendere
impossibile il raggiungimento di una verità unica e inalterabile. Non ci
sarebbe potuta essere tra le tante motivazioni profonde che James
avrebbe fatto emergere dalla coscienza, dall’anima dell’uomo.
All’inafferrabile, all’indicibile si sarebbe giunti, nel mistero si
sarebbe rimasti e l’arte avrebbe perso la possibilità di essere
identificata. Un processo continuo avviene nel pensiero di James e
così nell’opera che passa dall’impossibilità di una fusione tra cultura
americana e cultura europea a causa dei problemi presentati da questa,
al rifiuto della realtà in nome dell’idea, alla moltiplicazione dei
generi e dei livelli di pensiero e, quindi, alla sua relatività. Questa
diviene la regola alla quale non sfugge nemmeno l’arte. Tra antico e moderno si muove James, ad un momento di
passaggio egli appartiene, a quando l’arte si stava allontanando dalla
tradizionale posizione di verità superiore, trascendente perché
dell’anima a causa delle tante verità che dall’anima erano insorte.
James ha vissuto, ha sofferto tale passaggio e lo ha espresso nelle sue
opere. Nato in una famiglia molto colta, fratello minore di
William James, uno dei maggiori filosofi dell’America del tempo,
arricchitosi culturalmente e moralmente tramite gli studi in America ed
i continui soggiorni in Svizzera, Francia, Italia, Inghilterra,
trasferitosi definitivamente a Londra, James dedicherà la sua vita
esclusivamente all’attività letteraria, sarà l’autore di oltre cento
racconti, venti romanzi, tre volumi autobiografici e raccolte di saggi.
Tra i racconti rientra il suddetto “Autenticamente vero” che appartiene
alla seconda fase della produzione di James, quella impegnata a fissare
l’importanza, il valore della vita interiore, a ritenerla superiore alla
realtà e identificarla con l’arte. Per questo il ritrattista londinese
giunge, nel racconto, a rifiutare i due eleganti, raffinati modelli che
prima aveva accettato, marito e moglie bellissimi e distinti. Essi
volevano apparire nei libri che egli illustrava in tutta la loro
“autenticità”, volevano essere “veri”. A lui, invece, interessava il
modo col quale la realtà poteva venire trasfigurata, elevata a
significati diversi da quelli apparenti, superata, tradotta in arte. Gli
erano, quindi, sufficienti altri modelli pur sgraziati ma più modesti,
meno appariscenti e soprattutto meno pretenziosi. Per il ritrattista
l’invenzione doveva vincere sulla realtà, la fantasia sulla verità. E
insieme a lui James dichiarava la convinzione propria di quel
particolare momento della sua attività, quella relativa all’arte quale
espressione interiore, superamento della materia, della contingenza,
rifiuto di esse. Da questa proclamazione del valore assoluto
dell’interiorità James sarebbe giunto a ridurre la sua importanza perché
tante interiorità avrebbe
scoperto possibili, tante verità avrebbe dovuto attribuire all’animo
umano da vederlo perso tra di esse.
Partito per l’anima non era arrivato alla sua scoperta ma al suo
mistero!
*in “Segni e
comprensione, n.72, Settembre- Dicembre 2010, Università del Salento
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