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Un Nobel discusso di Antonio Stanca Come altre volte negli anni immediatamente precedenti anche nel 2004 il premio Nobel per la letteratura è stato conferito, con notevole sorpresa degli ambienti culturali, ad un autore non ampiamente affermato e riconosciuto per le qualità artistiche, non già famoso per contenuti e forme espressive ma limitato nella difesa di una causa civile, sociale, nella denuncia di una situazione particolare. Non alla sua arte ci si è riferiti, quindi, per la valutazione ma ai suoi propositi di contestazione, agli intenti polemici di rottura col sistema. E’ questa la dimensione nella quale rientra il Nobel 2004, cioè la cinquantottenne austriaca Elfriede Jelinek, scrittrice, sceneggiatrice e autrice di libretti d’opera. Ha esordito nel 1967 con un libro di poesie ma in seguito la narrativa ed il teatro sono divenute le sue attività preferite. Del 1975 è il romanzo “Le amanti”, del 1980 “Gli esclusi”, del 1983 “La pianista”, la sua narrazione più nota, del 1989 “La voglia”. Tra le “pièces” più riuscite vanno ricordate “Cosa succede quando Nora lascia suo marito” del 1979, “Malattia” del 1987, “Autogrill” del 1994. Sia nella narrativa che nel teatro la Jelinek mostra la volontà di esprimere, rappresentare quanto da lei sentito e creduto quale accesa femminista e convinta comunista. Si era iscritta al Partito nel 1974 poiché ne condivideva i programmi di recupero degli oppressi, degli sfruttati, degli emarginati, dei poveri. Tra questi includeva la donna poiché la considerava eternamente usata dall’uomo, a lui sottomessa, da lui ridotta a schiava dei suoi bisogni. E’ un’operazione di rivendicazione di diritti calpestati quella che la Jelinek si propone di compiere col suo lavoro letterario e teatrale. S’inserisce, così, in una corrente che ha caratterizzato la moderna letteratura austriaca ed ha trovato in Thomas Bernhard e Ingeborg Bachmann due tra i maggiori rappresentanti. Ci si proponeva di criticare quanto dei costumi individuali e sociali impedisce la libertà dell’individuo, di evidenziare come le convenzioni soffocano, nell’uomo, la possibilità e capacità di dire di sé, di fare per sé, annullano la sua autonomia, cancellano la sua identità. In particolare quella letteratura aveva accusato l’ambiente austriaco e soprattutto viennese di essere angusto, di risentire ancora dei vecchi schemi, delle suddivisioni in classi e, pertanto, di aggravare una situazione già critica. Il Gruppo di Vienna sono stati definiti quelli ed altri autori e tra essi va inserita la Jelinek anche per il linguaggio usato poiché trasgressivo, paratattico, carico di metafore e immagini ardite e intenzionalmente ispirato a quello pubblicitario, dei mass-media. Nelle primissime opere in versi e nelle narrazioni precedenti quelle citate quali “Bukolit” (1968) e “Siamo zimbelli baby” (1970), la scrittrice aveva accolto tale sperimentazione linguistica per manifestare la propria protesta contro convenzioni e schematismi. In seguito alla forma particolare si erano aggiunti i contenuti e la sua contestazione era diventata più concreta, più determinata. Senza raggiungere gli esiti dei suddetti autori e riducendo le linee di quella corrente alle richieste del suo femminismo e comunismo ella si ribellava a quanto d’ingiusto, di dannoso nei riguardi degli umili, dei deboli si verificava ancora nella vita attuale, specialmente in quella austriaca, nonostante fossero trascorsi tanti secoli di storia e tante volte fosse emerso il fenomeno. Si era resa, in tal modo, invisa alla propria città e nazione e ricorrenti erano state le critiche ed accuse di perversione, di oscenità che le erano provenute da parte della stampa e della critica più avanzata. Anche per questo motivo l’assegnazione del Nobel ha sorpreso tutti compresa lei. Non siamo, con la Jelinek, di fronte ad una scrittrice impegnata a risalire dal particolare presentato ad un significato più esteso. Lo stato di subordinazione che la donna da secoli subisce, la povertà di certe classi sociali rimaste sempre più sommerse dall’evolversi dei tempi sono i temi della sua denuncia, i contenuti che ricorrono nella sua narrativa e teatro ma sono anche i suoi limiti poiché non riescono né ambiscono a superare la loro situazione per diventare simboli validi per tutti e per sempre. Questa aspirazione, questa idealità, questo processo di trasfigurazione mancano nella Jelinek e la sua rimane una registrazione di quanto accade, di come si vive, una cronaca, un documento da lei ritenuto tanto più valido quanto più le riesce di renderlo in maniera aderente, concreta, reale. Soprattutto per questo la sorpresa e perché altri o altre concorrenti al Nobel avevano perseguito e ottenuto, nelle loro opere, quanto necessario per parlare di arte, per raggiungere una dimensione superiore alla contingente, per assurgere all’universale. Se alcuni autori oggi li perseguono significa che questi principi sono ancora validi e difficile riesce spiegare che non vengano riconosciuti dove sarebbe necessario e che altri siano preferiti ad essi. |
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