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A lezione di teatro
(Kantor a Firenze)

di Antonio Stanca

Rispetto al connazionale e contemporaneo, teorico e regista di teatro Jerzy Grotowski il pittore, scenografo ed anche lui teorico e regista teatrale polacco Tadeusz Kantor (Wielopole, Cracovia 1915-Cracovia 1990) è stato scoperto con ritardo dagli ambienti intellettuali dell’Occidente. Il caso sorprende dal momento che per il teatro del ‘900, al quale entrambi i nomi appartengono, la Polonia risulta collegata con autori, tendenze ed operazioni d’avanguardia che si verificano in ogni parte d’Europa ed in America. Molto probabilmente la figura e l’opera di Kantor saranno rimaste oscurate dalla dimensione mondiale raggiunta da Grotowski con la poetica del "teatro povero". Ma anche in ritardo la scoperta di Kantor è stata importante perché ha permesso di valutare la sua attività come fondamentale per il contemporaneo teatro polacco e di rintracciare le sue influenze oltre i confini della Polonia.

Testimonianza di tanto merito vuole essere la mostra in via d’allestimento a Firenze nel Rondò di Bacco. Kantor soggiornò circa un anno in questa città e la mostra si propone di sottoporre alla visione dei visitatori il maggior numero possibile di "oggetti di scena" usati dal regista nei suoi spettacoli. "…l’oggetto utilizzato sulla scena e nelle mani dell’attore esiste come l’attore, è l’attore. Oggetto=attore!" aveva egli detto a proposito di una delle sue installazioni e famose sono rimaste molte di queste poiché cariche, nei loro elementi od "oggetti" compositivi, di allusioni, messaggi segreti, capaci di risalire dal particolare evidenziato alla generalità di un significato, all’universalità di un’idea.

Kantor aveva cominciato con le sue rappresentazioni tra 1943 e il 1945 nella Polonia occupata dai tedeschi. Lavorava clandestinamente e mentre attingeva da opere di drammaturghi polacchi a lui precedenti quali Slowacki e Wyspianski mostrava di volersi muovere in chiave sperimentale. Nel 1955 fonderà, a Cracovia, il teatro d’avanguardia Cricot 2, del quale è stato direttore fino alla morte avvenuta nel 1990 in seguito ad uno dei suoi famosi accessi di collera verificatosi, stavolta, durante le prove dell’ultimo spettacolo prodotto "Oggi è il mio compleanno". La collera per una prova non riuscita è una conferma, insieme all’altra del famoso abito-costume (un completo nero) da lui indossato sia sulla scena sia in ogni momento della vita, di come e di quanto in Kantor l’uomo s’identificasse con l’attore, la vita col teatro. Così si spiegano pure l’ossessione a ricostruire, tramite gli spettacoli, gli anni della sua vita trascorsa, la ricerca, sulla scena, di riferimenti precisi al suo passato e la protesta, anche violenta, quando gli sembrava che questi non fossero ottenuti.

Negli allestimenti, nell’attività del Cricot2 giungono a maturazione, a compimento quelle intuizioni particolari, quelle novità che Kantor aveva lasciato trasparire già nella sua prima fase. Allora era stata evidente l’influenza su di lui esercitata dalle avanguardie storiche, dadaismo e surrealismo. Altri insegnamenti gli sarebbero derivati, in seguito, da avanguardisti più recenti quali il teorico teatrale inglese Gordon Craig, il pittore francese Marcel Duchamp nonché i conterranei Bruno Schulz, scrittore e disegnatore, e Ignacy Witkiewicz, scrittore e commediografo. Vecchia e nuova avanguardia, insieme agli studi compiuti presso l’Accademia di Belle Arti di Cracovia, avevano costituito gli elementi principali della sua formazione. Questi, assimilati e combinati con una spiritualità sempre accesa, una fantasia inarrestabile, una costante tensione verso il nuovo, l’originale si sarebbero trasformati nell’attività pratica e teorica del Kantor di Cricot2, gli avrebbero procurato la produzione di tanti spettacoli e l’allegata pubblicazione, tramite "manifesti", dei suoi programmi o progetti di teatro. Dal progetto di "teatro informale" del 1961 egli sarebbe passato a quello di "teatro zero", poi agli altri di "teatro happening" e "teatro impossibile" ed infine, nel 1975, all’ultimo di "teatro della morte". Un teatro d’avanguardia il suo ma anche e soprattutto di ricerca di sempre nuove soluzioni, instancabilmente impegnato in diversi esperimenti scenici, nell’uso sempre particolare dello spazio e degli "oggetti", nella creazione di tante situazioni, nell’interpretazione da parte di attori professionisti e non. Un teatro nel quale gli effetti spaziali e visivi sarebbero prevalsi sugli altri senza che si riuscisse a distinguere i confini tra di loro o tra i generi dei quali, nei "manifesti", Kantor era stato propugnatore. Dalle commedie di Witkiewicz e dai racconti di Schulz egli avrebbe tratto molto materiale per i suoi interminabili esperimenti. Il famoso e riuscitissimo spettacolo "La classe morta", del 1975, s’ispirava ad un racconto di Schulz "I pensionati". Anche qui, come altrove e come s’è detto , il regista cercherà di evocare momenti ed aspetti dell’infanzia, episodi dei suoi anni a scuola ed in famiglia, azioni, pensieri, sogni, linguaggi passati, giocattoli usati e di mostrarli come finiti per sempre, perduti, come segni della vita sottoposta ad un continuo processo di deterioramento in ogni sua cosa, ad un inevitabile destino di fine, di morte. Per tale drammatica constatazione il teatro costituiva la presa di coscienza, la possibilità di estenderla, tramite la rappresentazione, oltre ogni limite personale, di farne un motivo assoluto, universale. Col teatro da una vita si poteva pervenire alla vita, da un uomo all’umanità. Al fine di raggiungere questa dimensione Kantor era convinto che fosse necessaria la sua presenza sulla scena perché avrebbe mediato tra il presente ed il passato che si voleva recuperare e favorito l’immedesimazione dello spettatore col personaggio.

Il regista acquistava, con Kantor, un’importanza maggiore dell’autore e questi scompariva in uno spettacolo che obbediva soltanto alle intenzioni ed operazioni di chi lo preparava. Sarebbe stata un’altra delle novità di Kantor: il regista crea lo spettacolo perché "…è colui che capisce un testo, ne estrae la sostanza teatrale, lo traduce in quella materiale della scena, coordinando attori, scene, costumi, luci, musiche, macchine…" (Silvio D’Amico, 1935). Su questa linea si pone Kantor per le sue realizzazioni e per le teorizzazioni che le hanno accompagnate e sono state raccolte in testi quali "Scuola elementare di teatro", "La mia opera, il mio viaggio", pubblicati in Italia rispettivamente nel 1988 e nel 1992. Da queste opere si deduce pure come Kantor, in ognuno dei programmi teatrali perseguiti, proponesse per lo spettacolo l’uso di materiali, mezzi, "oggetti", semplici, comuni, perseguisse situazioni quotidiane e si affidasse molto alla figura dell’attore, alle sue capacità di gestire il proprio corpo ed esprimere la propria arte. Se il teatro doveva identificarsi con la vita, doveva essere, come questa, vero, autentico, doveva mostrarla, come solo ad esso è possibile, nel suo farsi, nello scorrere usuale, nell’ineluttabilità del suo destino di nascita, crescita, morte e nella conseguente precarietà di ogni manifestazione.

Dopo la fase del "teatro dell’assurdo" e l’altra del "teatro del silenzio" con Kantor si tornava alla parola, al soggetto da rappresentare, si restituiva al teatro la funzione di espressione e trasmissione d’idee, il ruolo di comunicazione e diffusione di temi e problemi propri della condizione umana, la possibilità di giungere ad ogni livello culturale e sociale. Non c’è molta distanza tra tali posizioni e la poetica del "teatro povero" di Grotowski e Kantor sarebbe giunto ad ascriversi la paternità di questa. Ma se non è possibile modificare il giudizio di preminenza accordato a Grotowski dai tempi è necessario rilevare che l’operazione compiuta da Kantor è più completa, più articolata dal momento che non mostra mai di rifiutare la lezione delle avanguardie storiche e si dispone verso un continuo confronto con esse e con le esperienze teatrali di autori del suo tempo. Se la sua voce è riuscita ad emergere tra tanto movimento, a risultare nuova tra molte precedenti e contemporanee, non le si può negare originalità né ritenere giusto il silenzio per un certo tempo gravato su di essa.


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