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Il destino degli ebrei

di  Antonio Stanca

Scritta nel 1990 la breve opera “Kaddish per il bambino non nato” è stata pubblicata ora da Feltrinelli ed è l’ultima della trilogia che lo scrittore ebreo-ungherese Imre Kertész autore anche di saggi e poesie, oggi settantasettenne, ha dedicato alla ricostruzione delle tormentate vicende della sua vita. Le due precedenti erano state “Essere senza destino” del 1975, in italiano nel 1999, e “Fiasco” del 1988 e da noi nel 2003. Queste avevano rivelato Kertész al mondo procurandogli anche, nel 2002, il Premio Nobel per la Letteratura. Gli avevano offerto la possibilità di riscattare la sua vita dagli interminabili patimenti che gli aveva riservato, di trascenderli in motivi e valori estesi oltre i limiti del finito, del contingente, di pervenire all’arte.

In “Essere senza destino” Kertész aveva narrato del campo di concentramento di Auschwitz, dove era stato deportato da Budapest quando aveva meno di quindici anni, di quanto aveva dovuto faticare per accorgersi, lui bambino, che si trattava di un luogo di dolore, di come era giunto ad avere coscienza di questo, ad accettarlo pur di continuare a vivere. Kertész aveva riconosciuto nel dolore il suo unico destino, aveva accettato di vivere solo di dolore, aveva mostrato di credere nella vita, di volerla salvare qualunque condizione fosse richiesta. E’ questo il messaggio che giunge da quella lontana opera, un messaggio di fiducia, di speranza, religioso, filosofico,artistico, umano.

Poi in “Fiasco” lo scrittore avrebbe detto del suo ritorno in Ungheria avvenuto nel 1948 e trasformatosi per lui in una continuazione della passata sofferenza stavolta per le persecuzioni alle quali sarà esposto a causa del regime comunista. Per poter vivere presterà servizio militare, lavorerà per il teatro, come traduttore e sempre lontana, irraggiungibile, impossibile gli apparirà una condizione di vita liberata dalla paura, dal pericolo, dal dramma. Nemmeno in quest’ultimo atto della trilogia, “Kaddish per il bambino non nato”, l’autore si mostra lontano dallo stato d’allarme che è stato proprio della sua vita ed opera. Stavolta più che di una narrazione si può dire di un saggio, lo stile è molto articolato, carico di riferimenti, sovrabbondante, i periodi sono lunghi e complessi. Fin dalle prime pagine sembra di assistere all’inizio di un vasto movimento, di prendere parte al dispiegarsi di una forza immensa. E’ quella che trasmette l’autore e che gli proviene dall’aver egli acquisito un’altra coscienza e dal volerla dichiarare. E’ successo nel giro di questi ultimi tempi: anni fa aveva detto a sua moglie, ora ex, di non voler diventare padre, di recente alla domanda di un amico, il dottor Obláth, ha risposto di non essere padre e di non averlo voluto essere. Da allora ad adesso si è convinto di non aver sbagliato anzi si è rafforzato nell’idea e nel libro offre una spiegazione di essa alla luce del dramma che la storia ha riservato all’umanità, Auschwitz. Dopo quell’evento non dovrebbe più esserci volontà di vita per l’uomo ebreo, sapere di quella catastrofe e soprattutto averla subita dovrebbe trattenere gli ebrei dal desiderio di continuarsi, dal pensiero di trasmettersi, di sapersi seguiti. Una meditazione sulla Shoah, sui suoi orrori, contiene quest’ultima opera della già avviata trilogia e stavolta, a differenza di prima, niente sembra venire in soccorso di chi scrive. Se prima Kertész era approdato ad una qualche possibilità di salvezza dal male patito, se era giunto ad accettarlo in nome della vita, a farne la sua vita, ora la sciagura sembra irreparabile, nessun’aspirazione riesce a superarla, trascenderla.

Essere stati in passato od essere oggi ebrei è una disgrazia ineliminabile, una negazione  necessaria della vita, della storia, un destino avverso di fronte al quale tutto, anche quello stato di sublimazione raggiunto da Kertész nelle opere precedenti, è costretto a riconoscere i propri limiti ed arretrare. Nel Kertész della maturità l’uomo ha annullato l’artista, la ragione ha vinto sull’aspirazione.


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