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Mangione: tra finito e infinito di Antonio Stanca Lunedì 8 Marzo a Galatina, presso la galleria "Santoro", è stata inaugurata la mostra della pittrice soletana Croce Mangione. C’è stato un gran concorso di pubblico e sono circolati giudizi di apprezzamento e ammirazione. L’autrice non ha nascosto l’emozione e timidezza che, per anni e nonostante numerosi inviti, l’hanno sempre trattenuta dal presentare al pubblico i propri lavori. Ora che la presentazione è avvenuta non si può non dirsi rammaricati di non aver avuto prima la possibilità di conoscere i suoi quadri data la loro novità e singolarità. Nella mostra sono presenti opere che vanno dal 1990 ai nostri giorni, le ultime dell’artista, quelle che contengono gli esiti migliori della sua maturazione spirituale e tecnica, i temi e i modi ai quali ella è pervenuta lungo un percorso partito da molto lontano, dagli anni della prima giovinezza. Paesaggi, fiori, ritratti, nature morte sono i motivi che attirano l’attenzione della Mangione, che muovono la sua sensibilità mentre lo stile usato per renderli si ripete con tale insistenza da sembrare di poter costituire da solo l’aspetto caratterizzante e principale dell’intera produzione. Esso può essere accostato al noto divisionismo italiano dell’ultimo Ottocento e primo Novecento per la pennellata di tipo filamentoso, la vivacità dei colori, il dinamismo delle immagini. Ma tali elementi, nella Mangione, hanno smarrito gli intenti realistici o sociali per dar vita a figure che non sembrano mai decisamente concluse nei loro contorni né stabilmente delimitate entro certi confini bensì ancora in formazione, in movimento e, quindi, possibili di cambiamenti. E’ questa l’impressione che si ricava osservando i quadri: una realtà che si va formando, che si muove e può cambiare poiché non finita, problematica, tesa verso soluzioni che rimangono invisibili, finalità ad essa esterne, sconosciute, segreti da scoprire. Pertanto in ogni quadro, qualunque sia il soggetto, aleggia un’atmosfera di indistinta animazione che tende a dilatarsi, a superare i limiti della figura e coinvolgere lo spettatore attirandolo nella propria azione. A rendere più sentiti tale suggestione e coinvolgimento concorrono i colori usati, generalmente giallo, rosso, verde, che, nelle loro infinite e vivaci tonalità e sfumature,fanno vivere e parlare quanto rappresentato, accendono i volti, i paesaggi, i fiori e persino le nature morte in modo tale da renderli tangibili, reali anche se di una realtà, si è detto, perennemente mossa e proiettata verso ciò che da essa è lontano, diverso. Uno stato d’animo indefinito, indeterminato è quello che soggiace alle figurazioni della Mangione, una condizione spirituale d’inquietudine, di attesa che le tiene sospese tra realtà e idea, materia e spirito, finito e infinito, non le esaurisce nell’evidenza e le muove a trascenderla. Ne deriva che i suoi soggetti perdono ogni carattere immediato, contingente per trasformarsi negli elementi di un’interminabile ricerca, nei simboli dell’eterna aspirazione dell’uomo a spiegarsi il motivo, il valore, il significato della vita di là da quanto gli è concesso di vedere, sentire, pensare, fare, credere, nei segni della sua amara constatazione di essere escluso da tali rivelazioni e costretto a rimanere eternamente diviso tra il loro mistero e la sua realtà, tra la speranza di superarsi e la rassegnazione ad accettarsi. Espresso Sud- Maggio 1999 |
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