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“INSEGNARE AL PRINCIPE DI DANIMARCA” È UN LIBRO DA LEGGERE E RILEGGERE.
L’autrice
Carla Melazzini è viva fra noi: donna che comunica la bellezza
tormentata del mestiere di insegnare in carne ed ossa a una schiera di
ragazzi e ragazze che nel turbine di una vita adulta fin dalla nascita
cercano una chance presso insegnanti, educatori, “mamme” sociali, che
credono in loro nonostante le apparenze distrutte di un’interiorità
complessa e devastata da un mondo di figure parentali che non la
pensano, non se ne curano perché non se ne possono curare, prese come
sono da un ambiente degradato, abbandonato a se stesso; figure senza
punti di riferimento, senza rete. Interiorità devastate da un territorio
che non le vede, non le sente, oppure sente soltanto chi ha potere e non
ritiene necessario e fondamentale volgere lo sguardo agli “ultimi della
classe”. Carla è donna di totale impegno, dolcissima
nell’analisi durissima della realtà in cui ha operato. Ogni sua
riflessione potrebbe dar vita a un trattato profondo di vitale pedagogia
della sincerità. Carla non ha dato ricette, non ha programmato a priori
le sue scelte, le ha semplicemente vissute insieme con “i principi di
Danimarca”. Il libro è una testimonianza preziosa per insegnanti che
lavorano ovunque, anche nei quartieri alti di qualche città ben più
fortunata di Napoli, perché richiama ognuno/a di noi all’ascolto delle
vibrazioni delle emozioni, al dirigere lo sguardo al linguaggio dei
corpi più che al detto, al tacere per “sentire”, riflettere, rielaborare
insieme con alunne e alunni: grande metodologia disattesa il più delle
volte, ogni volta che l’ansia del dire noi, fare noi, giudicare
noi…prende il sopravvento sulla comunicazione che dovrebbe essere sempre
bidirezionale. La penna di Carla è sferzante senza volerlo essere,
però lo diventa appena consideriamo quanto a volte la scuola e spesso le
politiche scolastiche non tengano in conto le anime che tentano un
recupero, che si ribellano nei modi più eclatanti alle atrocità subite e
alla indistinta ma sicura percezione di non avere un futuro. La scuola
sovente giudica, fa uso di scalette, di voti, incentiva l’individualismo
del merito …li usa come armi improprie che feriscono invece di aiutare
la risalita…scale che diventano barriere, muri che i più fragili
rinunciano a superare… Il mestiere di Carla è quello di chi prova a dare
una chance, un po’ di autostima nello scoprire potenzialità gasate nelle
aule della spocchia e del sapere per il sapere. Carla parla a se stessa registrando i suoi giorni e
i personaggi veri di CHANCE, eppure, senza mai farlo direttamente, urla
la sua rabbia verso chi non ha occhi per vedere; Carla rivela il suo
amore incondizionato verso gli ultimi. Un amore che conosce bene la
consapevolezza brutale della non riuscita, conosce a fondo le sue
“creature”, si addolora per l’impotenza dinanzi alle loro regressioni,
alle fughe, agli abbandoni…eppure non molla mai, accoglie, lenisce le
ferite, lucidamente ama anche quando non è ricambiato. Il libro va letto e riletto, va diffuso. Le parole
che vi sono incise sono macigni, dovrebbero diventare leve per cambiare
non il mondo, ma almeno parti di esso, almeno qualche angolo di esso.
Non si può, non si deve rimanere sordi e insensibili, pena la
“scomparsa” di tanti giovani che esistono senza essere. 19 settembre 2011 Claudia Fanti
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