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La passione della ragione
Studi sul pensiero di Ludovico Geymonat

di Alba Paladini

La passione della ragione di Fabio Minazzi, pubblicato presso la Thélema di Milano, ricostruisce, attraverso sei saggi in parte riediti, il pensiero di Ludovico Geymonat in una prospettiva storico-biografica e con un taglio etico che, lungi dall’appiattire la ricerca sui toni retorici dell’encomio e dell’ossequio al maestro, pone in risalto il punto di vista critico dell’Autore e consente di proporre al lettore un modello di intellettualità in cui si fondono rigore teorico e impegno civile.

L’analisi di Minazzi parte dagli anni della formazione universitaria: Geymonat si laurea dapprima in filosofia e poi in matematica ed apprende, innestandola su un temperamento atavicamente ribelle («Li Geymonat ou chi soun fol ou chi soun mat»), la lezione morale di Juvalta e di Martinetti: il primo gli indica il metacriterio etico della coerenza, il secondo il valore dell’intransigenza. Sullo sfondo emergono, ricostruiti con dovizia di fonti e testimonianze storiche, il clima culturale, dominato dall’idealismo di Croce e Gentile, e il costume di una piccola Italia, che, per paura, necessità o indole, si vende al regime, ma che pure ha le sue figure di grande rilievo morale in un Martinetti che rifiuta, insieme ad altri dodici intellettuali, di firmare il giuramento di fedeltà al regime e che, minacciato nello svolgimento del suo stesso magistero, con lucida esasperazione «ai fascisti, che avevano minacciato di schiaffeggiarlo in aula, fece pubblicamente sapere che avrebbe opposto decisa resistenza sparando immediatamente al suo primo aggressore (a tal fine soleva depositare sulla cattedra, all’inizio delle lezioni, la propria rivoltella). L’energia dell’uomo era ben nota, e nessuno osò attuare l’infame minaccia».

In questa temperie si delinea, con tratti che rimarranno fondamentali, la figura di Geymonat studioso di filosofia della scienza e uomo dal forte impegno civile: d’ora in poi azione e riflessione filosofica si svilupperanno in un intreccio, spesso problematico, che continuamente trarrà impulso da una sorta di a priori che è, poi, un’inesauribile "passione della ragione".

Cosí il "cittadino" Geymonat prende posizione a favore di Croce, attaccato dal regime per la sua critica dei Patti Lateranensi e dal quale, pure, lo separa una sorta di abisso teorico; si accosta, attraverso "le lezioni" di un operaio, al partito comunista; vi si iscrive con una sorta di "dispensa ideologica", resa inevitabile dalla sua convinta adesione al neopositivismo; imbraccia il fucile accanto ai partigiani e li guida nella guerra di liberazione, con grave scandalo degli intellettuali innamorati della purezza del pensiero («[Geymonat] mi disse come, in fondo, i membri di questa stessa gloriosa Accademia [delle Scienze] torinese non gli avessero mai perdonato di aver "imbracciato il fucile" durante la guerra di Liberazione»); assume, ancora negli anni ’80, la solitaria difesa del regime comunista sovietico. Tutte prove di una profonda fedeltà all’insegnamento di Juvalta e Marinetti, cioè dell’incapacità di scindere pensiero e azione, in ossequio alla coerenza logica e all’intransigenza morale e in dispregio di un conveniente conformismo.

Così il filosofo Geymonat aderisce, negli anni Trenta, al positivismo prima e al neopositivismo poi, sulla base di una convinzione che rimarrà costante in tutta la sua posteriore riflessione: la scienza è l’oggetto privilegiato della ricerca filosofica, perché l’analisi del pensiero scientifico ha ormai inglobato il problema gnoseologico dominante nella filosofia classica e moderna, sicché l’epistemologia ha preso il posto della gnoseologia e, essendo la scienza la sola forma di conoscenza che pretende all’oggettività, riflettere su di essa significa affrontare, ancora una volta, il problema del realismo, chiarire come debba intendersi e come venga a costituirsi il rapporto tra strutture cognitive ed esperienza. Ma, se il razionalismo metodologico neopositivista, eliminando, attraverso un processo di chiarificazione logica, la pretesa di assolutezza e universalità delle proposizioni scientifiche, umanizza la scienza, di quest’ultima si lascia sfuggire la dinamicità. La critica di Preti al neopositivismo, introducendo l’illuminante termine di confronto del trascendentalismo kantiano, chiarisce molto bene questo contrasto, che lo stesso Geymonat avverte in modo drammatico: ridurre la scientificità al piano protocollare significa, infatti, fare della filosofia una semplice metodologia che pone una serie di regole logiche formali indifferenti alla complessità del divenire storico del sapere scientifico, laddove il trascendentalismo kantiano, insistendo sulla funzione della sintesi, ha per oggetto specifico il costruirsi di questa complessità.

È, dunque, proprio il principio della storicità della scienza che, operando quale «tarlo critico della metodologia positivista» spinge Geymonat ad aderire, negli anni Cinquanta, al razionalismo critico neoilluminista. Pur rimanendo la scienza l’oggetto centrale della riflessione filosofica, essa è ora considerata nella sua genesi storicamente determinata in senso sia intellettuale che materiale. Infatti, chi produce scienza è un soggetto dotato di una razionalità finita, che opera sulla base di conoscenze già acquisite, oggettivazione del lavoro mentale delle generazioni precedenti, e che ha interesse ad incidere sulla realtà trasformandola sulla base di tecnologie nuove che vengono, a loro volta, ad innestarsi su quelle precedentemente prodotte: il concetto di scienza si amplia con l’introduzione di una categoria, quella di patrimonio teorico e tecnico-sperimentale, che apre alla considerazione del momento sperimentale e pratico della ricerca scientifica. Questa è, dunque, una forma di progresso intellettuale e materiale che si confronta in un’ottica nuova con ciò che è già stato pensato e fatto; la «tecnica della ragione umana», che ad essa sottostà, deve necessariamente, per la sua determinatezza storica, perdere i caratteri dell’universalità e della necessità, ma l’analisi filosofica garantisce il ricomporsi dell’unità avendo costantemente per oggetto le strutture cognitive, pur se considerate in relazione alle modalità specifiche con cui esse operano in differenti contesti culturali che sono, perciò stesso, storici.

E tuttavia permane, in questa nuova impostazione, uno iato tra concretezza del divenire storico della scienza e riflessione epistemologica, ancora troppo legata al convenzionalismo neopositivista e a volte ridotta a tecnica metodologica di una singola scienza. Così, lo stesso «tarlo critico» che ha prodotto l’adesione al neoilluminismo, ne determina, negli anni Settanta, il superamento attraverso una reinterpretazione del materialismo dialettico, punto d’approdo della riflessione geymonatiana.

Il neoilluminismo, con la sua pretesa di considerare la ragione come tecnica operativa ed il soggetto come unica sorgente di senso, introduce due pericolosi equivoci, perché sottrae alla realtà il fondamento della oggettività della conoscenza scientifica e, assegnando ad altri livelli dell’indagine filosofica il compito di «conoscere il vero nocciolo» di tale realtà, giustifica la neutralità della scienza e nega il suo collegamento con un piú vasto progetto di rinnovamento civile. Per risolvere il fondamentale nodo teorico dell’accordo tra livello formale dell’analisi epistemica e concretezza del divenire scientifico occorre, dunque, ampliare ulteriormente il concetto di razionalità scientifica e giustificarne il fondamento realistico. La categoria che rende possibile questa operazione teorica è quella della totalità, all’interno della quale trovano spazio quegli elementi non rigorosi, dei quali la conoscenza scientifica deve tuttavia tener conto, e che possono essere indagati con il metodo dialettico, perché esso consente «di sottoporre ad un’indagine in qualche modo razionale fenomeni che partecipano a totalità fluide in movimento non meccanico», mentre il formalismo logico può, da solo, risultare unilaterale per la sua tendenza a fissare parametri assiomatici. Il carattere dinamico e dialettico, così evidenziato, della conoscenza scientifica fonda l’istanza realista, perché denota una capacità di «approssimare il reale, non di adeguarlo», che ne garantisce l’esistenza e la struttura dialettica, di cui è parte integrante la prassi tecnologica. Così realtà, ricerca scientifica e sviluppo tecnologico sono collegati in un intreccio che, per il suo radicarsi nella cultura di una società storicamente determinata, non ha nulla di neutrale.

Fabio Minazzi ricostruisce il pensiero di Geymonat «con amorevole sforzo interpretativo», come sottolinea Evandro Agazzi nella sua Prefazione, e, soprattutto, con una «passione della ragione» che, frutto della lezione etica del suo maestro, ad essa rende l’omaggio piú genuino, introducendo una prospettiva critica che si ricollega al trascendentalismo. La capacità di quest’ultimo di porre la realtà come criticamente costruita e non ingenuamente data recupera «in tutta la sua autonomia relativa, il piano concettuale operante entro il sapere scientifico», supera il presupposto metafisico della filosofia dell’identità che inficia il materialismo dialettico, evidenzia il livello genuinamente filosofico dell’analisi.

Al Geymonat neoilluminista è sfuggito che è possibile tornare a riflettere sulla stessa epistemologia, con un’indagine sul fondamento e la genesi dei processi cognitivi che assume una valenza euristica tale da fondare l’autonomia della ricerca filosofica. In tal senso la filosofia della scienza consente di metariflettere il mondo, senza "l’ingenuità" dell’antica gnoseologia: il nostro pensiero non rispecchia la realtà, ma continuamente la costruisce e, riflettendo sui modi di questa costruzione, acquista una consapevolezza teorica che, di volta in volta, ci dà validi riferimenti per comprendere come interpretiamo questa realtà e come, probabilmente, essa è, sicché è legittimo "spendere" questa consapevolezza nell’analisi di tutte le manifestazioni della nostra razionalità storicamente determinata e, dunque, anche dei grandi temi del rinnovamento civile. La stessa curvatura critica e storica della ragione risulta esaltata da questa impostazione, perché essa elimina la pesante ipoteca metafisica di una razionalità oggettiva nella quale il materialismo dialettico rischia di cadere risolvendo nell’identità il rapporto ragione-natura proprio del conoscere.


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