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Morante, l’arte di amare di Antonio Stanca
Non una novità, tuttavia, rappresenta l’opera nel quadro della produzione della Morante dal momento che l’intensa spiritualità che la muove in poesia è anche quella che anima i personaggi centrali delle sue più importanti narrazioni sia precedenti sia seguenti il 1958. Magica, incantata, da favola è l’atmosfera che questi versi creano e tale era stata quella diffusa nel primo romanzo “Menzogna e sortilegio” (1948) dove la storia di una famiglia del Sud viene ricostruita tramite i ricordi, le allucinazioni di una discendente chiusa in una stanza e separata dalla vita, dalla realtà. Anche ne “L’isola di Arturo” (1957) la maturazione del giovane protagonista avviene nell’ambiente immobile, solitario, irreale, fantastico dell’isola di Procida. Nel romanzo-poema “Il mondo salvato dai ragazzini” (1968) si tende verso una condizione di vita liberata dal peso della storia, verso uno stato di felicità, d’innocenza del quale i “ragazzetti celesti”, simili ad angeli, sarebbero i portatori. Nell’ampio affresco delle vicende belliche verificatesi in Italia e nel mondo tra il 1941 e il 1947 e contenuto nel romanzo “La storia” (1974), la scrittrice, nonostante si mostri maggiormente impegnata dal punto di vista ideologico e cerchi una forma meno elaborata rispetto alle opere precedenti, finisce con l’approdare ad un rifiuto della storia dei “grandi”, col contrapporre ad essa quella dei “piccoli”, cioè degli umili, dei poveri, dei bambini, ai suoi orrori la loro semplicità e ingenuità. E nell’ultimo romanzo, “Aracoeli” (1982), la Morante tornerà definitivamente alla condizione magico- evocativa propria della sua scrittura tramite il percorso che farà compiere alla memoria del protagonista intento a ricostruire la figura materna. Confermerà, quindi, la sua propensione a sentire più che dire, a narrare, romanzare, favoleggiare più che descrivere, rappresentare. Scriveva ella degli esclusi, dei deboli non per denunciare la loro condizione, per rivendicare i loro diritti ma per trarre da essi gli esempi di bene, di amore, d’innocenza che considerava necessari in un mondo traviato dal male, per trasferirli nella dimensione dell’idea, trascenderli, trasformarli in simboli unici, inalterabili; scriveva di essi perché come essi amava, credeva, sperava, sognava e con l’amore, la fede, la speranza, il sogno, identificava la loro vita e la sua arte. Per esse sarebbe vissuta e avrebbe accettato di rimanere isolata nel contesto degli autori neorealisti suoi contemporanei. Una missione, un’investitura sarebbe stata la sua come per tradizione è stato per l’artista. Vera, autentica la sua arte si sarebbe immersa nelle profondità del pensiero, del sentimento per portare alla luce le loro verità, per pervenire a certezze assolute, uniche, per superare la materia. E se nei romanzi la costruzione degli esterni, l’ambientazione, la vicenda potevano ridurre lo spazio, rallentare l’espressione dello spirito, nei versi questo si esprime in maniera totale, immediata. Ovunque nelle poesie di “Alibi” c’è una verità dell’anima: è come se parlasse un oracolo, un profeta tanto c’è di saggezza, d’intelligenza in ogni verso, tanto di sentito, di amato in ogni parola. Si procede per illuminazioni, visioni, rivelazioni come solo in poesia è possibile, si dice di ciò che è grande, vero, eterno come solo un artista può fare qualunque sia il suo tempo e comunque sia nato e vissuto. Così è stato per la Morante e per questo non poteva appartenere a nessuna corrente né partecipare di alcun cenacolo come, infatti, avvenne una volta maturata la propria posizione. Sola rimase la donna come l’artista e come i personaggi di questa ché altro modo non c’era per chi voleva vivere d’amore, di bene, di pace in tempi che procedevano diversamente, d’arte quando ormai anche di questa si discuteva. |
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