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Donne d’Egitto
di Antonio Stanca
Nawal
al Sa’dawi è nata nel 1931 a Kafr Tahla, piccolo villaggio sulle rive
del Nilo a Nord del Cairo. Si è laureata in medicina nel 1955 presso
l’Università del Cairo e qui
si è specializzata in Psichiatria. Ha iniziato il suo lavoro di medico
nel villaggio natale ed ha avuto modo di osservare le gravi condizioni
di sottomissione, di oppressione delle donne
egiziane, il loro stato di disuguaglianza rispetto agli uomini.
Da qui la Sa’dawi si era sentita mossa ad agire politicamente, a
denunciare quanto riscontrato. Una “socialista femminista” sarà detta
per la sua presenza in ambito sociale e politico e questo le farà
perdere l’incarico al Ministero della Sanità, l’incarico successivo di
redattrice di un giornale sanitario e l’altro di segretaria generale
dell’Associazione Medica Egiziana. Si dedicherà, quindi, ad una lunga
ricerca sulle nevrosi delle donne egiziane e la condurrà a termine
presso la Facoltà di Medicina dell’Università del Cairo. Sarà
consigliera delle Nazioni Unite per poco tempo poiché si dimetterà
delusa dell’organismo. A causa della sua presa di posizione a favore dei
diritti delle donne di religione islamica, dell’uguaglianza tra uomini e
donne, contro una società basata sul capitalismo, la Sa’dawi nel 1981 fu
messa in carcere insieme ad altri contestatori e dei suoi libri fu
vietata la pubblicazione in patria. Uscita dal carcere e minacciata di
morte dai fondamentalisti islamici poiché le sue azioni, le sue opere
contravvenivano alle regole della loro religione, fuggì in America dove
insegnò presso alcune Università. Nel 1896 tornò in Egitto e riprese col
suo impegno pubblico, culturale e letterario. Oltre che di azioni di
contestazione la Sa’dawi è stata autrice di racconti, favole, romanzi e
saggi. Alla fine degli anni ’50 risale l’inizio della sua attività
letteraria e questa, insieme a quella saggistica e sociale, le sarà
ispirata dal suo lavoro di medico e psichiatra, dalla conoscenza che
esso le procurerà dell’arretratezza delle donne egiziane e arabe tutte.
Come scrittrice, come saggista e come attivista la Sa’dawi
si è impegnata a rilevare quanto
le donne arabe siano ancora destinate a sopportare nel corpo e nello
spirito, come esse siano le vere vittime delle leggi dell’Islam che le
assoggettano all’uomo. Una continua, accesa difesa dei diritti
umani, civili della donna islamica può essere definita l’intera opera
dell’ottantenne Nawal al Sa’dawi ed in particolare sull’Egitto la sua
azione si è concentrata poiché qui ha visto maggiormente tradito quello
spirito innovatore apparso agli inizi del ‘900. Molte delle riforme,
delle leggi circa la condizione femminile allora approvate non hanno
avuto attuazione e intanto col tempo si è verificato un ritorno ai
rigori del fondamentalismo islamico. Da questi avrebbe voluto liberare
la donna araba la Sa’dawi con la sua posizione politica, sociale, con i
suoi saggi, contro questi ha voluto scrivere nelle sue narrazioni.
Narrerà di donne realmente esistite, sconfitte dalla loro religione, dei
loro casi disperati, ne farà motivo di racconto, di favola, di romanzo
perché così crederà di farli giungere a tutti, di farli valere per
tutti. Un esempio di tale operazione è stato il lungo
racconto Firdaus (storia di una donna egiziana), pubblicato nella versione
originale nel 1985 ed ora ristampato, nella serie Astrea Pocket, dalla
casa editrice Giunti di Milano. La traduzione dall’inglese è di Silvia
Federici. La Sa’dawi nel 1974, quando s’interessava di casi di donne
egiziane ammalate di nevrosi, aveva conosciuto in un carcere del Cairo
una donna di nome Firdaus e le era sembrata diversa dalle altre. Aveva
pensato di trarne un racconto e
l’avrebbe fatto in seguito. Ad attirare l’attenzione della scrittrice
era stato il modo col quale Firdaus, condannata a morte, attendeva di
essere giustiziata, il suo atteggiamento sicuro, altero di fronte ad una
pena così grave. Durante la sua vita, da quando era bambina, era stata
esposta agli abusi, alle violenze da parte di una società, di una
religione dove erano gli uomini, il padre, il marito, il compagno, il
protettore, a comandare, approfittare, far soffrire. Molte volte era
fuggita dai pericoli nei quali si era trovata, molte volte era rimasta
sola per strada, affamata,esposta al freddo, sfinita, e credendo di
risolvere il problema del momento era caduta in un’altra assurda
situazione. Infine era giunta nelle mani di un protettore che, a sua
volta, intendeva approfittare di lei in ogni senso, voleva farne una
prigioniera. Lo aveva ucciso, era finita in carcere ed era stata
condannata a morte. Ma non aveva paura di morire per quello che aveva
fatto perché credeva, era convinta di aver compiuto un gesto che poteva
servire per il bene di tutte le donne come lei, poteva riscattarle dalla
loro condizione. Voleva offrire un esempio di forza, di coraggio contro
quanto le opprimeva, mostrare che è possibile ribellarsi, lottare contro
un ingiusto sistema di vita. Per questo sorprende la scrittrice che si
reca a visitarla e per questo la Sa’dawi pensa di raccontare il suo
caso. Lo farà perché come altre volte con le sue storie vere vuole
estendere il significato di
messaggi tanto importanti, procurare loro un’ampiezza maggiore,
dimostrare quanto può una persona sola e indifesa, quanto la sua anima.
A quell’anima la Sa’dawi si sente vicina perché anche lei ha sofferto,
anche lei ha lottato. In Firdaus scopre una compagna di pensiero e di
azione e col racconto si elevano entrambe sulle proprie vicende e
diventano i simboli di un’umanità ancora capace di vivere dell’idea, di
credere. |
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