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Mangiare bene per volere bene
Una
ragazza giapponese, Ringo, che lavora in un ristorante turco a Tokyo e
che convive da anni col fidanzato, anche lui al servizio di un
ristorante vicino a quello di Ringo, un giorno, tornata a casa, non
trova nessuno e scopre di essere stata abbandonata. Ne rimane tanto
sconvolta da perdere la voce e decidere di lasciare la città e tornare
nel suo paesino tra le montagne dal quale era fuggita all’età di
quindici anni perché impossibile era divenuto il rapporto con la madre.
Nemmeno quando si ritroveranno dopo tanto tempo le due donne si
mostreranno disposte a ridurre quello stato di avversione che si era
creato tra loro. Per Ringo i problemi sembravano aumentati ma essendo
sempre propensa ad immaginare, sempre pronta a fare, avrà un’idea che
sarà decisiva per la sua vita. Riuscirà a trasformare il vecchio granaio
della casa materna in un piccolo ristorante che potrà ospitare una
coppia al giorno e nel quale Ringo sarà la cuoca, cucinerà come aveva
imparato a Tokyo. Nei lavori più pesanti sarà aiutata da alcune persone
del villaggio mentre distante continuerà a rimanere la madre. Il
ristorante si chiamerà Lumachino e subito dopo l’inizio dell’attività
diventerà famoso per le pietanze squisite e per gli effetti straordinari
che da queste provengono. Riescono a rendere più buone le persone che le
gustano, a promuovere pensieri delicati, a risvegliare sentimenti
sopiti, a condurre al bene,
all’amore. Era come se il cibo parlasse alle persone, le rendesse
partecipi della sua bontà, come se avesse un’anima e la comunicasse, la
trasferisse in loro. Il ristorante di Ringo divenne subito noto nel
circondario, la sua cucina fu sempre più richiesta e lei fece del suo
lavoro di cuoca la maggiore, l’unica aspirazione della sua vita. Si
sentiva al colmo della felicità, parlava con le vivande, credeva che
avessero uno spirito, che sapessero dei suoi pensieri, dei suoi
propositi. Si riconcilierà con la madre, saprà da lei quanto non aveva
mai saputo, conoscerà l’uomo che tanti anni prima l’aveva abbandonata e
al quale era rimasta sempre legata, preparerà gli infiniti piatti che
faranno parte del banchetto delle loro nozze, la vorrà vedere felice
anche se poco durerà per la madre il tempo della felicità poiché una
grave ed improvvisa malattia la condurrà alla morte. Ringo, però, non si
rassegnerà alla sua scomparsa, immaginerà di vederla, di parlarle fino a
giungere a recuperare quella voce che tanto tempo prima aveva perso. E’ questo il contenuto del romanzo d’esordio
della trentottenne scrittrice giapponese Ito Ogawa,
Il ristorante dell’amore
ritrovato. L’opera, comparsa nel 2008 nella versione originale, è
stata pubblicata in Italia nel 2010 dalla casa editrice Neri Pozza di
Vicenza (trad. di Gianluca Coci, pp.184, € 15,00). L’Ogawa, conosciuta
in Giappone come autrice di canzoni e libri per ragazzi, con questo
primo romanzo ha ottenuto un successo che ha superato i confini della
sua nazione. Ne è stato tratto un film. E’ un romanzo ma
anche un racconto, una favola. E’ moderno ma anche antico. I suoi
temi sono nuovi quali il difficile rapporto tra genitori e figli,
l’abbandono della caotica vita di città per un’altra condotta allo stato
naturale, ma anche vecchi,
remoti quali la convinzione che il cibo sia dotato di anima, che abbia
una sua vita e che la trasmetta a chi lo ingerisce. Sono credenze che
risalgono alla mitologia giapponese, al suo famoso libro
Kojiki dove si dice che il
cibo è un mezzo di comunicazione tra gli uomini e gli dei. Tanto ha
voluto la Ogawa col suo romanzo ed è riuscita, ha combinato i vari
elementi in maniera così naturale da non permettere di distinguere tra
realtà e fantasia, verità e finzione. E’ stata la sua lingua a
procurarle un risultato tanto importante. E’ la lingua semplice, facile
di una scrittrice per ragazzi, la lingua delle favole, quella che non
conosce confini. |
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