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Nell’opera la vita di Antonio Stanca Dalla Piemme Bestseller è stato ora ristampato “La taverna del Doge Loredan”, romanzo di Alberto Ongaro, scrittore veneziano di ottantadue anni che l’aveva pubblicato nel 1980. Ongaro è giunto alla narrativa intorno agli anni ’60. Prima, in Sud America, è stato sceneggiatore di fumetti disegnati da Hugo Pratt, poi, in Inghilterra, ha lavorato come corrispondente del settimanale “Europeo” e dal 1979 si è stabilito in maniera definitiva a Venezia per dedicarsi alla scrittura di racconti e romanzi. Nel 1986 con “La partita” ha vinto il Premio Campiello e “La taverna del Doge Loredan” è stato finalista del premio Pen Club. Questa è considerata la migliore opera dell’Ongaro dal momento che riesce a combinare bene tutti gli elementi della sua scrittura e nonostante non sia egli un autore molto amato dal pubblico poiché misteriosi risultano spesso i suoi contenuti. Ne “La taverna del Doge Loredan” non mancano le situazioni enigmatiche, come in altri romanzi anche qui si verificano nel corso degli eventi presentati, sembrano aspetti, momenti naturali di essi, anche qui avvengono magie, ci sono circostanze misteriose, la fantasia sta accanto alla realtà. Come altre volte Ongaro trasferisce nella scrittura quanto gli proviene dalla sua precedente attività di fumettista, d’inventore. Stavolta, però, la trama è più complessa e più articolata sia per i tempi diversi tra i quali si muove sia per i molti luoghi, personaggi, avvenimenti che contiene sia per le infinite e varie situazioni private e pubbliche, comuni ed eccezionali, volgari e pregevoli, reali e fantastiche che mostra. Ne “La taverna del Doge Loredan” Ongaro si propone maggiori, più alti significati, vuole mostrare come non ci sia differenza tra la realtà e la scrittura, tra la vita e l’opera, come questa possa accogliere i molteplici aspetti di quella e valere non solo come documento ma anche come letteratura, vuol dire che dalla vita un autore è mosso a scrivere, della vita scrive. Prova ne sia il fatto che il primo personaggio de “La taverna del Doge Loredan”, Schultz, di antica famiglia veneziana e che a Venezia vive e lavora come tipografo ed editore, leggendo un vecchio romanzo anonimo, che scopre in casa e che dice di una storia avvenuta più di un secolo prima, finisce per riconoscervi le vicende, le esperienze della propria vita. Si tratta di una storia molto lunga che si svolge tra Venezia e Londra attraverso tutta l’Europa, i suoi fiumi, i suoi boschi, le sue vallate, i suoi giorni, le sue notti, ed ha per protagonisti un giovane gentiluomo inglese, Jacob Flint, una bellissima popolana veneziana, Nina Manfrin, moglie del ruffiano Ludovico Binelli, e il suo amante, l’orrido Terry Fielding, figura centrale negli ambienti della malavita inglese e che tiene ai suoi ordini anche pericolosi rettili mentre due corvi parlanti gli danno la caccia ovunque. A Londra, nella “Taverna del Doge Loredan”, un covo di banditi, del quale Nina è divenuta proprietaria dopo essere fuggita da Venezia e prima di rimanere vedova, s’incontrano lei e Jacob, pure questi in fuga perché ricercato dalla polizia. I due si amano subito anche se Nina è già l’amante di Fielding ed a lui si sente legata più d’ogni altro uomo al quale con facilità si è concessa e si concede. Bella oltre misura, appassionata, sensuale è Nina, attirata dai piaceri del corpo ma anche capace di un’anima, di sentimenti forti, incrollabili e per essi sarà sempre in fuga, cercata, inseguita da Jacob e Fielding. Si perderà, non si saprà più niente di lei mentre questi troveranno la morte dopo innumerevoli peripezie. Un romanzo avvincente, coinvolgente questo dell’Ongaro, un romanzo che molto assomiglia ad una favola anche se non ha una lieta fine. Come una favola dice di brutti e cattivi e di belli e buoni, di mostri e fate, d’immaginazione e realtà, di fantasia e verità, d’odio ed amore, di male e bene. Come una favola deriva dalla vita, serve alla vita, ad ogni vita. Questo si propone di dimostrare Ongaro quando cambia in continuazione i piani della narrazione, si sposta tra presente e passato per tornare a quel primo lettore del romanzo anonimo, il veneziano Schultz, che la vecchia storia narrata scopre uguale alla propria e, alla fine, entra in essa e si confonde con i suoi personaggi. Senza tempo, senza luogo, senza nome è la vita e così la scrittura che da essa proviene, un caso, un destino sono entrambe: qui il significato principale perseguito dall’Ongaro con il romanzo ma non è il solo ché altre regole, altre verità emergono dalla lettura, altri valori si propone la sua scrittura pur muovendosi tra i bassifondi della vita e della storia, tra i gradi più infimi della società. Per essa ogni vita vale e come ogni vita vuole insegnare, avere degli scopi: questo la libera dai limiti della cronaca e fa del suo autore uno scrittore degno di nota poiché capace di costruire una trama così intricata, affidarle tanti messaggi e svolgerla con un linguaggio così ricco e appropriato. |
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