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Centocinquanta ANNI DI STORIA e non
solo…
di CARLO DE NITTI
E’ storiograficamente acquisito che la nascita dello
Stato italiano unitario è ben lontana dalla favola bella che
l’iconografia agiografica risorgimentale ha tramandato per parecchi
anni. In particolare, non ancora tempo di smettere di indagare sulle
omissioni, sulle falsificazioni avvenute agli albori della Stato
unitario, come ci attesta la letteratura prima ancora che la
storiografia, come fa Lino Patruno in questo suo ultimo lavoro Fuoco
del Sud, edito da Rubbettino. A partire dai plebisciti di annessione del Regno delle
due Sicilie al Regno di Sardegna, come ci ha raccontato Giuseppe Tomasi
di Lampedusa ne Il Gattopardo. Chi non ricorda l’amichevole e riservata
confessione che don Ciccio Tumeo fa al Principe Fabrizio Corbera
Principe di Salina intorno al suo voto a favore dei Borboni non emerso
allo spoglio delle seicentododici schede tutte favorevoli all’annessione
del piccolo comune di Donnafugata al Regno ‘savoiardo’, come lo chiama
con disprezzo don Ciccio medesimo? Così è difficile credere alla definizione del
brigantaggio postunitario esclusivamente come una lotta filoborbonica
per il ritorno al potere dei ‘buoni’ della dinastia deposta dalla
spedizione dei Mille contro i ‘cattivi’ i Piemontesi propugnatori del
neonato Stato unitario. Domanda: come si presenta al Sud l’arrivo dei
Piemontesi e delle loro leggi? Anche in questo caso letteratura aiuta la comprensione
dei giovani: esempio tipico di un piccolo villaggio meridionale e dei
suoi abitanti è il primo grande romanzo dell’Italia unita, I
Malavoglia di Giovanni Verga. Non è qui, ovviamente, il caso di
ricostruire l’ideologia verghiana né di sposarla ma di partire dal
romanzo per conoscere la fenomenologia dei rapporti tra sudditi e re,
inteso come sinonimo di Stato. Nel
villaggio di Acitrezza (CT), la famiglia protagonista entra in contatto
con lo Stato o per pagare le tasse o quando ‘Ntoni, il primo dei cinque
nipoti del patriarca, viene chiamato in continente a prestare il
servizio militare per la leva di mare: “perché il Re faceva così,
che i ragazzi se
li pigliava per la leva quando erano atti a buscarsi il pane; ma sinché
erano di peso alla famiglia, avevano a tirarli su per soldati”(Capitolo
I). Peraltro, in paese chi sono gli unici forestieri se
non i rappresentati dello Stato e, quindi, della legge: don Silvestro,
il segretario comunale, e don Michele, il brigadiere delle guardie
doganali, che avrà un ruolo di rilievo nella parte finale del romanzo a
causa dell’infatuazione per lui di Lia ‘Malavoglia’, la minore dei
nipoti, che abbandona il paese. Ancora: Luca, il secondo figlio
di Bastianazzo ‘Malavoglia’, muore nella battaglia navale di Lissa ed
alla famiglia nulla viene comunicato: “Un giorno dopo cominciò a correre
la voce che nel mare verso Trieste ci era stato un combattimento tra i
bastimenti nostri e quelli dei nemici […]
Nel paese grosso il povero vecchio si
sentiva perso peggio che a trovarsi in mare di notte, e senza sapere
dove drizzare il timone. Infine gli fecero la carità di dirgli che
andasse dal capitano del porto, giacché le notizie doveva saperle lui.
Colà, dopo averlo rimandato per un pezzo da Erode a Pilato, si misero a
sfogliare certi libracci e a cercare col dito sulla lista dei morti.
Allorché arrivarono ad un nome, la Longa che non aveva ben udito, perché
le fischiavano gli orecchi, e ascoltava bianca come quelle cartacce,
sdrucciolò pian piano per terra, mezzo morta. - Son più di
quaranta giorni, - conchiuse l'impiegato, chiudendo il registro. Fu a
Lissa; che non lo sapevate ancora?” (Capitolo IX) Il neonato Stato italiano si presenta al sud come
gendarme, in qualunque caso non è percepito dalla gente, così come dai
protagonisti del romanzo, se non come una forza estranea,
enorme nella sua mole, le cui esigenze ed i cui fini sono
contrapposti a quelli individuali. Come non pensare, allora alla novella
Libertà. Dalle illusioni dello “sciorinarono dal campanile un
fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a
gridare in piazza: - Viva la libertà!” alle delusioni dell’epilogo: “Il
carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: - Dove
mi conducete? - In galera? - O perché? Non mi è toccato neppure un palmo
di terra! Se avevano detto che c'era la libertà!...” Anche i personaggi danarosi percepiscono anch’essi lo
Stato come estraneo, soprattutto come gabelliere, basti pensare
all’altro grande romanzo verista Mastro-don Gesualdo ed alla
celeberrima novella La roba ed al suo protagonista, Mazzarò. Allora vogliamo pensare ai briganti come dei paladini
dei Borboni o come persone che lottano per un futuro migliore per sé e
per i propri figli, come ha cantato e scritto molto acutamente Eugenio
Bennato, opportunamente citato da Patruno (p. 17) o come hanno scritto
autorevoli storici, a cominciare da Gaetano Salvemini (1873 - 1957). Riflettere sulle modalità della nascita dello stato
unitario – ovvero sulla piemontesizzazione dell’Italia – con
l’estensione frettolosa di leggi pensate per un piccolo regno a tutta la
penisola, a cominciare da quella legge che porta il nome del conte
Gabrio Casati (1798 - 1873), che istituiva la scuola pubblica ed
obbligatoria per due anni così largamente disattesa in un Sud pieno di
analfabeti è il modo migliore di accostarsi alla lettura di Fuoco del
sud,, un volume molto ben documentato e costruito che compie
un’analitica ricognizione dei movimenti politici che accompagnarono la
nascita dell’Italia unita e che, con loro, si chiede e non solo in modo
accademico: che fare oggi per il Sud?
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