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Tra sé e gli altri
(Poesia oggi)

di Antonio Stanca

Di Giovanni Raboni (Milano 1932) la casa editrice Mondadori ha recentemente pubblicato "Barlumi di storia", breve raccolta di componimenti poetici in verso libero e di brani di prosa. In essi l’autore ripercorre i tempi della sua vita collegandoli con quanto succedeva all’esterno, nella storia, e giungendo ai giorni nostri.

Raboni è autore coltissimo: ha tradotto poeti inglesi e soprattutto francesi dei primi del Novecento, la "Ricerca" di Proust, ha diretto i "Quaderni della Fenice" e "L’Illustrazione Italiana", ha svolto attività di critico letterario e teatrale, ha collaborato col "Corriere della Sera" e l’"Europeo", è stato scrittore ma soprattutto poeta e le sue numerose raccolte Garzanti ha riunito nel volume "Tutte le poesie".

Raboni poeta va inserito in quella che egli ha definito "la generazione del ‘56", tra i continuatori, cioè, insieme agli altri poeti Giancarlo Majorino, Tiziano Rossi e Raffaele Crovi, della cosiddetta "linea lombarda" avviata negli anni ’20, a Milano, da Vittorio Sereni e rappresentata da autori quali Risi, Erba, Orelli, Cattafi. Erano stati anche questi poeti ed avevano partecipato di una comune atmosfera improntata alla rivendicazione di ragioni storiche, morali, esistenziali di fronte alla condizione di aggressività che nella realtà sociale e politica di quegli anni si andava definendo in Italia e che avrebbe portato agli orrori del fascismo. Essi muovevano da posizioni di sinistra, volevano essere "impegnati" e così sarebbe stato per i loro continuatori compreso Raboni. In diversi tempi, però, i due gruppi avrebbero operato, uno prima e l’altro dopo la seconda guerra mondiale, ed in una diversa realtà. Per questo nei poeti della "generazione del ‘56" sono divenuti fondamentali dei motivi che nei primi erano apparsi quali il forte risentimento morale per una vita, un mondo che li ha esclusi nel suo processo di evoluzione, nella straripante affermazione dei valori della materia, che ha annullato le aspirazioni, gli ideali propri della loro formazione. Anche nell’espressione questi artisti sono vicini dal momento che la loro denuncia di quanto l’uomo ha perso con il progresso, l’industrializzazione, si manifesta tramite un linguaggio che sa del parlato, del quotidiano, dei loro vari registri. La realtà, la sua osservazione e valutazione, hanno determinato i contenuti e la forma di questa poesia, che, per il proposito di giudicare i danni comportati all’uomo dalla storia, potrebbe essere interpretata come un messaggio, un richiamo, un tentativo estremo di riportare la vita ai valori del sentimento, dello spirito prima della caduta definitiva sia questa culturale-artistica (di "letteratura selvaggia", perché ridotta a tutte le condizioni e creazioni, si sarebbe parlato in seguito) sia umano-sociale (l’individualismo esasperato, il nichilismo, il rifiuto d’ogni regola o valore costituito, sarebbero divenuti elementi caratteristici della condotta individuale e collettiva).

Raboni è giunto a vivere questo momento ed ora ha scritto le sue ultime cose!

In "Barlumi di storia" si va dagli anni dell’infanzia dell’autore, avvenuta al tempo della seconda guerra mondiale ed esposta ai gravi pericoli di questa, ad oggi quando Raboni, settantenne, constata che da allora quei pericoli non sono mai finiti ed ancora incombono in un mondo che non ha voluto ascoltare la voce di personaggi quali John Kennedy, Nikita Kruscev, papa Giovanni XXIII, impegnati in un’azione di distensione nei rapporti tra nazioni, società, persone. Pertanto oltre al disastroso terrorismo internazionale, alla tensione interna ed esterna ad ogni paese, al diffuso stato di guerra, si assiste ormai anche al degrado morale dell’uomo contemporaneo, di ogni aspetto della sua vita, alla scomparsa di qualsiasi volontà di riscatto, elevazione o prospettiva diversa da quelle immediate, concrete.

"E tutto, anche le foglie che crescono, / anche i figli che nascono, / tutto finalmente, senza futuro": sono i versi finali di questa raccolta nella quale l’autore ha attraversato mediante "barlumi" circa un secolo di storia, nazionale e mondiale, passando dalle sue vecchie speranze in un mondo migliore alla constatazione dell’attuale barbarie senza, però, mostrarsi disposto a rinunciare ad essere presente, a vivere, operare pur in una situazione così grave: "Per quanto /ignominioso sia il presente io mai / rinuncerei, potendo scegliere / a starvi, magari di sghembo / e rattrappito d’ amarezza, dentro".

A sostenere Raboni in tale convinzione agisce il suo cattolicesimo, la sua fede nel valore religioso della vita. Ed ancora a farlo resistere pur in un "profluvio di rovine" interviene l’altra fiducia nell’opera dell’uomo, in questo caso nella voce, nella parola, nella scrittura anche se prodotte in ambienti avversi o private di ogni possibilità d’incidere. Così si spiega l’attenzione di Raboni, continua e più evidente che negli altri poeti del gruppo, alla forma, agli effetti di stile. Più colto degli altri Raboni non rinuncia alla sua cultura, alla tradizione letteraria ed artistica di cui si ritiene erede ed interprete. Di essa molto frequenti sono gli echi nei suoi versi compresi questi ultimi.

L’uomo e l’artista s’incontrano nelle loro fedi, la vita e l’arte trovano in esse la loro identificazione, il coraggio di continuare. Esse non sanno più cosa sono ché tutto intorno a loro è diverso da loro, non sanno come orientarsi, quale posizione scegliere e, tuttavia, non evadono il problema creandosi un mondo ideale o rifugiandosi nell’intimismo o nel passato, nei ricordi, come avviene per tanti autori moderni, e si destinano ad una condizione perennemente, irrimediabilmente sospesa tra sé e gli altri, tra affermazione e negazione.


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