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In un’immagine una storia di Antonio
Stanca
Atiq
Rahimi è uno scrittore afghano di quarantotto anni, è nato a Kabul nel
1962, dopo aver ottenuto l’asilo politico vive a Parigi. I suoi romanzi
si sono mostrati impegnati a rappresentare il popolo afghano, la sua
storia, la sua vita rimasta sottosviluppata, arretrata poiché come nel
passato anche in tempi recenti il suo territorio è
stato esposto alle ambizioni
delle potenze straniere che hanno contribuito ad aggravare i problemi. Nel lontano ‘800 era stato conteso tra l’Inghilterra e la Russia, poi era divenuto
protettorato inglese nel 1879, regno indipendente nel 1921, repubblica
nel 1977, nel 1978 veniva occupato militarmente dall’Unione Sovietica e
dal 1996, anno della marcia dei Talebani su Kabul, fino ad oggi è
tormentato da conflitti interni tra fazioni contrarie. Pertanto nessuno
può prevedere cosa accadrà in futuro, quale sarà l’Afghanistan dei
giovani dal momento che finora non ha avuto la possibilità di operare in
maniera autonoma, di superare le differenze tra le diverse etnie che lo
compongono ed assumere un’immagine propria, costituirsi come nazione,
non è stato libero di procedere, progredire pacificamente, di
svilupparsi. Ai vecchi problemi si sono aggiunti i nuovi e su questo
sfondo Rahimi colloca le sue storie, fa vivere i suoi personaggi. Sono
in genere storie difficili, dolorose, senza soluzione come la vita dalla
quale sono attinte. Anche nell’ultimo romanzo, “Pietra di pazienza”,
scritto in francese, in uno stile lapidario, vincitore del Premio
Goncourt 2008 e pubblicato in Italia nel 2009 da Einaudi, lo scrittore
rappresenta una situazione propria della sua gente e la fa avvenire in
una casa vecchia e decrepita del suo Afghanistan mentre all’esterno
infuriano gli scontri armati. In una stanza di quella casa c’è a terra
su un giaciglio un uomo gravemente ferito in seguito ad una rissa. E’ in
fin di vita e costretto a giacere immobile con accanto la moglie che,
accovacciata sulle gambe con la testa tra le ginocchia, lo assiste per
tutto il giorno e la notte. Da fuori provengono i rumori della guerra,
grida, spari, bombardamenti. Angosciosa, desolata è l’immagine dei due in una
stanza sudicia, scarsamente illuminata. Più grave diviene quando si sa
che l’uomo non può parlare, forse non sente, non vede, respira soltanto
e al ritmo del suo respiro finiscono con l’adeguarsi i tempi della donna
e dell’opera. Non si distingue tra l’una e l’altra poiché lei è la
protagonista quasi esclusiva del romanzo, la sua situazione è sempre
ricorrente. Non lascerà mai solo l’uomo se non per brevi assenze.
Stanca, scoraggiata penserà pure di abbandonarlo ma tornerà sempre da
lui, gli starà sempre accanto, gli parlerà pur sapendo di non poter
essere ascoltata, di non poter ottenere risposta, gli dirà dei suoi
pensieri, dei suoi ricordi, delle loro famiglie, delle vicende occorse
ad entrambe, giungerà a ritenere assurda quella situazione, implorerà,
invocherà Dio perché la risolva, per ottenere una parola, un gesto dal
moribondo ma finirà con il rassegnarsi, con l’accettare il suo quale un
destino inevitabile, riconoscerà nel marito quella “pietra di pazienza”
alla quale, come nella mitologia, nella religione, nella tradizione
afghana, nei racconti dei vecchi, si confidano tutti i pensieri, tutti i
patimenti fino a farla esplodere. Anche per lei succederà così alla fine
ma prima di giungervi diversi, opposti stati d’animo l’assaliranno
mentre i suoi lunghi monologhi faranno sapere come sono vissute, come
vivono le donne afghane, come sono sottomesse alle regole prima del
padre e poi del marito e della società, come altro modo, altro destino
non sia loro possibile. Tanta storia, tanta vita emergono dai discorsi
solitari della donna. Si sa che simile al suo è il destino delle altre
donne del suo paese, immutabile, un destino di “pazienza” nonostante il
loro desiderio di liberarsi, di vivere. Questo ha voluto significare Rahimi col suo romanzo,
ha voluto dire, tramite un esempio attuale, dell’eterna, misera
condizione femminile in Afghanistan, ha voluto fissare una storia intera
in quell’immagine che senza sosta percorre l’opera. |
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