Da Svevo a Kentridge
(Un successo che continua)
di Antonio Stanca
"…
quando avrà letto ‘Senilità’, nel 1930, Italo Svevo era già
morto: o meglio era morto Ettore Schmitz e Italo Svevo cominciava a
vivere …" così scrive il critico letterario Riccardo Scrivano
nel ricostruire gli anni di formazione dello scrittore istriano
Quarantotti Gambini. In verità il valore di Italo Svevo (Trieste
1861- Motta di Livenza, Treviso, 1928), la sua dimensione europea sono
stati unanimamente riconosciuti soltanto a partire dagli anni ’60
nonostante le prime prove narrative risalissero al 1890 (la novella
"L’assassinio di via Belpoggio") e "La coscienza di
Zeno" (1923) avesse rotto il silenzio che gravava sull’autore
dopo la pubblicazione dei romanzi "Una vita" (1892) e
"Senilità" (1898). Erano stati Eugenio Montale, nel 1925,
in un’ampia recensione sulla rivista milanese "L’esame"
ed i noti studiosi francesi Valery Larbaud e Benjamin Crémieux, nel
1926, a presentare Svevo come un "caso letterario" ed a
procurargli, pur se a sessantaquattro anni, un’improvvisa
notorietà. Ma la cultura del seguente regime fascista d’inclinazione
estetizzante e avversa alla fragilità morale dei personaggi sveviani,
l’"italiano" di Svevo da molti critici ritenuto"
cattivo" poiché antiletterario e la provenienza tedesca dell’autore,
che lo faceva considerare un " alieno" nel nostro panorama
culturale ed artistico, saranno i motivi che limiteranno il successo a
pochissimo tempo e ritarderanno ancora la diffusione delle sue opere e
del suo nome. Si dovrà attendere, s’è detto, il 1960 perché
quelli che per tanto tempo erano sembrati problemi nell’opera e
nella vita dello scrittore, l’insistente indagine psicologica, il
difficile rapporto con se stesso, con "la malattia della
scrittura", la particolare tecnica espressiva, gli ascendenti
personali e culturali più europei che italiani, venissero considerati
dei meriti e tali da procurare a Svevo una collocazione accanto ai
grandi del Novecento europeo quali Proust, Joyce, Kafka, Musil ed all’Italia
la possibilità di essere degnamente rappresentata in sì elevato
contesto di cultura ed arte.
Da allora di Svevo non si sarebbe più smesso di
parlare, la sua fama avrebbe superato i confini nazionali e sarebbe
giunta ai nostri giorni quando il regista sudafricano William
Kentridge a Kassel, in Germania, avrebbe rappresentato "La
coscienza di Zeno" tramite una messa in scena a più voci. Vi
hanno preso parte oltre all’attore Dawid Minaar nei panni di Zeno,
cantanti lirici, quartetti musicali ed altre presenze animate,
disegni, cartoni, figure, ambienti, luci, ombre che apparivano e
scomparivano, si modificavano, si muovevano in continuazione su un
grande schermo visibile dietro il protagonista che, disteso su un
letto, si abbandonava ad un interminabile, polemico e contraddittorio
soliloquio.
Dal
24 al 26 Ottobre prossimo la rappresentazione avrà luogo a Roma
presso il teatro Valle e contemporaneamente al Centro delle arti
contemporanee di via Guido Reni avverrà la prima mostra italiana di
William Kentridge. Questi vive ed opera nell’estremo meridione
africano, a Johannesburg, e non facilmente né chiaramente definibile
si presenta nella figura dal momento che molto varia e articolata è
divenuta col tempo la sua attività. Il disegno, tuttavia, rimane l’operazione
principale del Kentridge, dal disegno egli è partito per giungere al
cinema, al teatro, ad animazioni di ogni genere che, a suo parere,
sono da ritenere un ampliamento, uno sviluppo della prima forma
espressiva. Per i contenuti l’Africa, l’apartheid, la condizione
dei negri, le gravi e insanabili contraddizioni della vita e della
società del continente africano specie nella sua estremità
meridionale, hanno costituito un nutrimento inesauribile. Attraverso
disegni ispirantisi al mondo umano, animale, vegetale Kentridge ha
ottenuto infinite figurazioni di persone e cose, è assurto a
significati più estesi di quelli reali, è approdato all’arte. Con
lui quella africana dell’esclusione, dello sfruttamento è divenuta
la condizione di ogni umanità offesa in qualunque parte del mondo si
trovi, ha superato la particolarità del caso per la generalità, l’universalità
di uno stato dell’animo, di un sentimento. Pertanto ad un regista
che procede in tal senso è successo ultimamente di pensare di
ricavare da "La coscienza di Zeno" un’opera teatrale nella
quale, mediante l’uso di molti e vari mezzi, si riuscisse a
trasformare il romanzo , la sua ambientazione nella Trieste degli anni
’20, la vita della città che vi traspare, i problemi patiti da chi
di essa è insoddisfatto, in una serie di allegorie della propria
città, Johannesburg, in particolare dell’ambiente che qui vigeva
intorno agli anni ’80. Questo è sembrato a Kentridge molto simile a
quello triestino del tempo di Svevo: un luogo di provincia,
periferico, di confine e come tale attraversato da molte culture e
lingue senza potersi identificare nelle proprie, segnato da un’atmosfera
di smarrimento, confusione, sfiducia che condannava gli spiriti eletti
ad uno stato di perenne inquietudine, d’insopprimibile turbamento.
Così nella Trieste dei primi decenni del secolo e così nella
Johannesburg degli ultimi ma soprattutto così in Svevo e così in
Kentridge: come il primo anche il secondo ha vissuto la stessa
realtà, ha sofferto gli stessi problemi e questi ha voluto
rappresentare rifacendosi a quanto dall’altro era stato già
narrato. E’ una prova della corrispondenza, della comunicazione che,
pur a lunga distanza di tempo, possono scoprirsi tra due autori, è un’ulteriore
testimonianza di come Svevo continui a valere, ad agire, è un segno
che ne " La coscienza di Zeno" si può riconoscere non
soltanto un uomo ma anche un’umanità.
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