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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Valore aggiunto: professioni con-divise

 

L’Insegnante & la  Scuola

Spunti per discutere la relazione di Elio Damiano su

 

DALLA COMUNITÀ PROFESSIONALE ALL’IDENTITÀ DEL PROFESSIONISTA DI SCUOLA

Prima Parte

Convegno AIMC: Trevi 28 marzo 2004

 

L’insegnante nel suo contesto

 

      Gli insegnanti, a differenza di altre professioni, non sono nati socialmente come singoli operatori che offrono un servizio al pubblico secondo regole negoziate con i clienti e definite all’interno di una loro ‘corporazione ’; al contrario, sono i fondatori di scuole che li reclutano come esecutori ad hoc di un progetto culturale prestabilito nelle sue finalità, e finanche nei suoi metodi. Come succede in questi casi, la soggettività degli insegnanti ha avuto modo di procurarsi spazi di ‘libero movimento’,  così come sono emerse élites che si sono affermate in termini professionali : ma sempre e comunque nel quadro di una organizzazione controllata da un’autorità esterna, religiosa e/o politica.

A cominciare dagli aspetti più palesi, la scuola-organizzazione fin dall’avvio presentò un formato che oggi diremmo ‘modulare’: una ‘unità operativa’ (gli alunni ordinati in classi di età), una ‘unità spaziale’ (l’edificio scolastico, composto di spazi corrispondenti all’unità operativa, l’aula della classe, e ad ambienti per attività comuni),  una ‘unità temporale’ (il corso, scandito per periodi più brevi, in cicli poliennali e annuali, ulteriormente frazionati fino all’unità oraria), una ‘unità  formativa’ (il curricolo, coordinato all’unità temporale  -alla quale era comunemente assimilato- con una serie corrispondente di conoscenze differenziate, continue e progressive da distribuire lungo la stessa scansione e da accertare mediante controlli specifici, esami ed altre valutazioni, in vista del conseguimento della certificazione finale).  Nessuna novità per quanti, come noi, non riusciremmo oggi ad immaginare una struttura organizzativa altra da questa: e tuttavia, una profonda innovazione, per tutti i suoi aspetti –i raggruppamenti per età, la concentrazione spazio/temporale dell’attività, la periodizzazione conoscenze/esami lungo un percorso rigorosamente predeterminato, la certificazione, ed altro ancora, fino alla ‘divisa’, agli arredi ad hoc ed all’internato…- che  peraltro fece la sua comparsa simultaneamente già ‘matura’ in più d’un Paese europeo, al di qua e al di là della ‘cortina di ferro’ tracciata allora dalla Riforma, cattolica e protestante. E se all’origine troviamo i riformatori religiosi, i contemporanei ne furono colpiti, in particolare il ‘popolo grasso’ che ne decretò il successo, anche perché trovava il collegium –così si chiamava quell’edizione di scuola ‘burocratica’- particolarmente conforme al proprio ethos di ceto emergente. 

 

  Soffermiamoci sulla definizione dell’insegnante come soggetto di quella struttura organizzativa: un operatore di prima linea cui affidare la responsabilità di guidare un gruppo-classe fino al conseguimento del titolo di studio corrispondente ad una parte del curricolo da coordinare con altri pari grado. Il formato dell’organizzazione ‘disegna’ la figura dell’insegnante come ce la rappresentiamo oggi, quando non sembra possa sagomarsi diversamente. Fuori della matrice burocratica, questo profilo di insegnante non è intellegibile.

L’insegnante non agisce a titolo personale, ma in nome e per conto di altri, al potere del quale egli rinvia per la propria attività e la sua legittimazione. Ma anche il committente della scuola burocratica non agisce direttamente il suo progetto, costretto com’è a  transitare attraverso la mediazione del soggetto insegnante: del quale deve acquisire il consenso, anche solo attraverso il controllo. Si tratta di un gioco delle parti dal quale scaturirà una vicenda importante, ancora oggi non conclusa, e che ha fatto le vicissitudini della professionalità ‘diversa’ dell’insegnante. 

 Il primo destinatario del progetto culturale assegnato alle scuole era lo stesso insegnante: prima ancora degli alunni, perché ne costituiva il tramite diretto, sul fronte della relazione educativa. In questo senso si può dire che l’organizzazione della scuola burocratica, dettando le condizioni d’esercizio, non solo ordinava le prassi dell’insegnante, ma –attraverso queste- finalizzava le sue azioni e orientava le sue rappresentazioni: dell’alunno e del suo dover essere, dell’insegnamento, dei mezzi e delle attese. E quindi del ruolo dell’insegnante, e delle connesse responsabilità. In questo senso si può dire che la scuola-organizzazione ‘genera’ l’insegnante, contribuendo a definirne non solo la ‘forma’ esterna, ma anche l’idea intorno alla quale si costituiva il suo modo di pensarsi e di identificarsi come tale. Così la scuola si faceva ‘istituzione’, mentre l’insegnante, modellandosi sul formato della scuola, ne diventava –nelle sue caratteristiche e nei suoi limiti- l’espressione soggettiva, l’interprete dei suoi valori e il tramite della sua presenza  culturale e sociale. Un gioco di specchi che fa del binomio scuola-insegnanti un sistema che non si può scindere senza compromettere una effettiva comprensione di ciascuno dei termini.

 

 Le ricerche etnografiche sugli insegnanti hanno evidenziato un ‘aria di famiglia’: è difficile trovare un singolo insegnante che concentri su di sé tutti i tratti caratteristici del gruppo di appartenenza, e non solo una particolare combinazione degli elementi della costellazione totale,  comunque distintiva della categoria.  In questa rappresentazione articolata fra tratti comuni e differenze specifiche, fra le note caratteristiche più diffuse si segnala quella per la quale l’insegnante ha  ‘pari ma non colleghi’ : pur avendo una concezione ugualitaria degli altri insegnanti (per la cordialità manifesta dei rapporti, per il senso di comunanza espresso nelle vicissitudini della professione e della vita, ma anche per l’intolleranza per le differenze di carichi e di grado…), l’insegnante di norma non cerca il confronto e lo scambio professionale, o comunque reputa eccezionale chiedere un consiglio o, ancora di più, si guarda bene dall’offrire un suggerimento in relazione ai problemi del lavoro. 

Non mancano certamente insegnanti che si comportano diversamente, con regole abituali di comunicazione professionale intensiva, ma questo accade solitamente in scuole che si distinguono dalle altre a ragione del loro ‘clima’ collaborativo. In genere le norme implicite, ma non per questo meno imperative, prevedono relazioni che possono estendersi anche al di fuori della sede di lavoro, nelle forme della frequentazione comune di  luoghi di ritrovo e di vacanze fino agli incontri di famiglia e all’amicizia: ma comunque in ossequio al non detto di evitare l’invasività professionale. Il bravo collega viene definito amichevole e disponibile,  ma anche, dichiaratamente,  come colui che si guarda bene dal ‘ficcare il naso’ nelle questioni del mestiere.

 

    La cultura  della parità può essere letta in termini negativi –come quando a proposito del costume didattico si parla di ‘individualismo’- e condannato –in particolare dai formatori degli insegnanti- attraverso vere e proprie campagne condotte invocando la ‘collegialità’ -sul fronte delle relazioni interne- e  la ‘partecipazione’ –nei riguardi delle famiglie e delle altre istituzioni educative del territorio- come è accaduto da noi negli anni ’70, per incoraggiare l’apertura e l’innovazione. Campagne pedagogiche che hanno indotto, più che a generare, ad apprezzare  l’esistenza di scuole ‘diverse’ perché capaci di contrastare questa ‘regolarità’ della scuola. Quasi nessuno, in queste arringhe, peraltro approvate –per quanto aggressive- da parte degli stessi insegnanti, ha badato a segnalare i vantaggi della cultura profonda della scuola: p.e. il controllo della competitività interna e la relativa scarsità dei fenomeni di ‘mobbing’ fra colleghi che angustiano considerevolmente altri ambienti di lavoro.

 

   Un primo aspetto da considerare ai fini dell’interpretazione è il fatto che –come abbiamo visto- prima degli insegnanti –designati come intendiamo oggi - è sorta la scuola, quella di tipo ‘burocratico’: ed è questa che ha generato la figura di insegnante, prima di forgiarla come organizzazione ‘istituente’.  La struttura che ha modellato il formato scolastico dell’insegnamento –la modularità, con le unità ‘classe’, ’aula’,‘corso’, ‘curricolo’- ha tracciato inesorabilmente l’isolamento del singolo insegnante rispetto ad eventuali ‘colleghi’, assegnando rigorosamente la responsabilità del coordinamento, di scuola e di sistema scolastico, ad altre figure, dal dirigente scolastico fino agli amministratori intermedi e centrali. Non si trattava semplicemente di una opzione organizzativa conveniente ma di una ‘filosofia’ dell’organizzazione, appunto quella ‘burocratica’. Si trattava di ‘semplificare’ la complessità dell’azione, riducendone il campo decisionale ad ambito limitato e circoscritto di esecuzione di compiti, ovvero deprivandola della visione d’insieme assicurata dalle finalità, di esclusiva competenza del vertice. Limitate le sue responsabilità alle operazioni esecutive relative ad un gruppo di alunni per un corpo di contenuti, c’è da sorprendersi se nella pratica quotidiana l’insegnante abbia assimilato ‘classe’ e ’aula’ –nel linguaggio comune gruppo e, insieme, spazio fisico- personalizzando la sua nicchia mansionaria con quegli attributi possessivi –i ‘miei’ alunni, la ‘mia’ materia- facendone il bersaglio scontato della critica psico-socio-pedagogica? Essendo stato disposto per gerarchia di organigramma fuori dalla percezione dell’insieme –un sistema fisico-sociale a ‘guscio d’uovo’, come dicono gli anglosassoni-  c’è da scandalizzarsi se l’insegnante tende a centrarsi sul suo universo particolaristico, fino a rinunciare ad occuparsi di gestione dell’intero dell’unità scolastica?  Essendo stato disegnato su misura dell’organizzazione, secondo funzioni codificate e attribuite dal vertice, l’insegnante non ritiene che tocchi a lui occuparsi della formazione iniziale dei nuovi insegnanti: non attesta così l’incidenza della sua matrice e della sua carriera? Deprivato della visione d’insieme, confinato alla periferia dell’organizzazione: per un verso allineato ad altri operatori con compiti dello stesso livello, dall’altro diviso rispetto a questi per specificità di compiti, ha elaborato una rappresentazione del suo status conforme a questa condizione. Appunto, una ‘cultura dei pari’. Perché dovrebbe giungere a considerarli dei colleghi, quando non ha mai potuto sceglierseli, né intervenire al tempo della loro formazione e selezione?

Funzione di una ‘cultura’ è quella di offrire un senso alla condizione operativa ed esistenziale: di qui scaturisce un modo di vivere e di essere. Anche nei suoi effetti indesiderabili –v. l’isolazionismo rispetto ai fattori extrascolastici del rendimento scolastico- come anche la protezione rispetto ai loro limiti, p.e. a riguardo dei problemi dell’insuccesso scolastico; ma anche la credenza consolatoria sull’importanza sociale della scuola  e la ‘distanza di rispetto’ nei confronti di altri che partecipano della stessa condizione esposta al giudizio altrui, in ordine ad un impegno ad elevato grado di incertezza e imprevedibilità. La ‘cultura della parità’ non sembra del tutto inappropriata rispetto al suo scopo, nella prospettiva di chi vive di scuola.

 

    La struttura della scuola è certamente ‘istituente’ e può render conto non poco, come abbiamo visto, dell’antropologia degli insegnanti: ma la ricerca ha mostrato come non siamo ad una modellizzazione né totale né uniforme. Si danno processi inequivocabili di abitualizzazione, adattamento e integrazione: li abbiamo elencati, pur sinteticamente. Ma per converso sono rilevabili anche risposte diversificate, compensazioni, negoziazioni e accomodamenti, anche sofferte emarginazioni ed eccezioni vissute ‘eroicamente’ dai protagonisti: che attestano un incessante dinamismo di soggetti, individuali, soprattutto di piccolo gruppo, che vengono a patti con le pressioni istituzionali, istituendo a loro volta sotto-culture alternative, quasi sempre precarie, come spazi di libero movimento o anche solo tensioni e conflitti; ma che a volte si stabilizzano in micro-cambiamenti e significative innovazioni, soprattutto quando investono un intero istituto scolastico.  Prova, ancora una volta, che gli aspetti soggettivi e quelli istituzionali non si escludono fra di loro, ma  confluiscono perché componenti diverse del medesimo universo di cui si costituisce –soprattutto per quanto riguarda la scuola- la loro ragion d’essere, l’universo simbolico.

 

        Come per gli insegnanti, la scuola ha generato un tipo di insegnamento –un ‘modo’-  tutt’affatto peculiare, che ha richiesto un corrispettivo genere di trattamento dei contenuti trasmessi e di relazione educativa instaurata- ovvero una struttura didattica che, a prescindere dal successo (di fatto, più che di nome), presentava fin dagli inizi aspetti dirompenti e, per alcuni versi, inediti, almeno quanto a compresenza, coerenza e sistematicità di vari elementi in precedenza diffusi fra diverse istituzioni. La scuola ha modulato la figura dell’insegnante non solo come organizzazione istituente, ma anche, e certamente più in profondità, con il ‘modo’ mediante il quale essa ha ridefinito l’insegnamento. Il ‘modo scolastico’  riguarda, fra gli altri, un aspetto dell insegnamento che nella situazione dell’educazione ‘al naturale’ poteva essere sottovalutato, se non addirittura considerato un limite: la possibilità di scegliere. Con l’avvento della scuola, i soggetti mirati rinunciano alla loro potestà di stabilire ‘che cosa’ imparare, ‘quando, ’per quanto tempo’ e ‘secondo quale successione’, ‘come’ imparare, ‘da chi’ imparare e  ‘insieme a chi altri’. Si tratta di una delega che progressivamente, con accelerazioni e rallentamenti, secondo gradi e combinazioni più o meno liberalizzanti o autoritari, è giunta all’esautoramento dei soggetti in apprendimento con l’obbligo scolastico, che li ha trasformati in ‘effettivi’, secondo il linguaggio amministrativo della scuola.  La delega e l’obbligo coinvolgono una dimensione del rapporto educativo: il potere. Con la scuola tutte le componenti del potere educativo, sopra indicate, nessuna esclusa, vengono concentrate  nell’istituzione, che viene pertanto a definirsi come una forma organizzata e specializzata del loro esercizio sistematico (quando non, almeno tendenzialmente, monopolistico). A seconda delle nostre sensibilità culturali e pedagogiche, possiamo considerare questa ‘istituzionalizzazione’ dell’educativo come particolarmente grave e pericolosa per la libertà, non solo per i soggetti esposti ma per l’intera società, condannata all’autoritarismo; ma la diffusione della scolarizzazione ha potuto apparire un segno di modernizzazione ed esprimere una volontà di progresso e di riscatto a rivoluzionari ed anche ai riformisti. La concentrazione del potere educativo, dunque, intesa come appropriazione sistematica delle scelte relative all’apprendere: se è vero che sono tali scelte, fra le mani dei soggetti in formazione, a rendere ‘significativo’ l’apprendimento –come sostengono i descolarizzatori- ovvero a farlo diventare traccia persistente della biografia personale, ne discende che l’insegnamento della scuola ottiene di ‘snaturare’ l’apprendimento. Denunciato polemicamente, è questo un esito, grave, creato dall’artefatto scolastico: detto con eufemismo, la scuola, avocando a sé l’esercizio del potere educativo, opera una sorta di ‘de-naturazione’ della relazione fra insegnante e soggetto in formazione. Detto sotto forma di problema, la scuola non può sottrarsi, in quanto tale, all’impegno di cercare una soluzione a questa perdita di ‘significati’.

     E difatti, a partire dai primi fondatori –i riformatori religiosi del 16° secolo- fino ai responsabili degli istituti scolastici di oggi, l’azione principale viene vista nella costruzione di un ‘artefatto’ capace di suscitare apprendimenti esistenzialmente duraturi per i soggetti in formazione. Non c’è alcun disaccordo sul dato per il quale il modo scolastico dovrebbe consistere principalmente nella ricerca di tali condizioni di significanza: ri-attualizzare la scelta educativa dalla parte dell’alunno, che l’aveva perduta entrando nella scuola, trasformando così una rinuncia in una opzione rinnovata ed autentica; ‘volendo’ che cosa gli viene insegnato, i tempi ed i metodi dell’insegnamento, i compagni di apprendimento e, soprattutto, almeno sul piano relazionale, la persona dalla quale apprendere, ritrovando il ‘maestro’ là dove avrebbe potuto trovare solo l’insegnante, un mercenario destinato a lui dall’organizzazione.

     Così possiamo trovare insegnanti più o meno adeguati ed efficaci, entusiasti o sfiduciati, ma certamente non inconsapevoli che questo è quanto ci si aspetta da loro; lo stesso vale per gli alunni, variamente impegnati a cercare l’occasione di trovare compagni di ventura fra i quali ricostruire la complicità delle relazioni naturali, soprattutto obbligati a cercare l’opportunità più o meno improbabile di trovare il ‘mentore’ capace di accompagnarli come guida discreta sui percorsi del sapere e magari del divenire. Ma è indubbiamente questa la fenomenologia della scuola e, quello che preme mettere in evidenza, il problem solving di cui consiste essenzialmente l’azione dei due soggetti principali del teatro scolastico e, per quanto la si voglia rappresentare a livello di mera sopravvivenza oppure di eccellenza, la sostanza effettuale della scuola. 

 

      Se da un lato il modo ‘scolastico’ rende particolarmente ardua la soluzione del problema dell’autorità -l’insegnante è egli stesso sovrastato istituzionalmente dal programma e dal progetto simbolico che lo ispira- e per quanto consenziente e persuaso, ne rappresenta l’esecutore e l’interprete, non certo il committente, dall’altro esso offre la possibilità di rendere ‘oggettiva’ l’autorità, dislocandola a carico dell’istituzione, spersonalizzandola o incarnandola o addirittura nascondendola nelle sue regole d’ambiente. Il modo ‘scolastico’ impone, per sua costituzione, una soluzione obbligata: quella della responsabilità ‘mediata’ da parte dell’insegnante, che non può non presentarsi all’alunno come il mandatario di un progetto istituzionale ed istituente, un ‘terzo’ che agisce per conto di una committenza identificata con soggetti politici ed opzioni culturali più o meno legittimate.

     Per questo motivo, l’istituzione scolastica può solo intervenire a monte, secondo tre linee diverse, per supportare il ruolo intermediario dell’insegnante:  (a) avendo cura di assicurarsi il suo effettivo consenso al progetto culturale che ispira le finalità scolastiche; è la soluzione più debole, ovvero più esposta alla manipolazione ed al controllo autoritario degli insegnanti, secondo quanto abbiamo già discusso nell’apertura di questo capitolo; (b) garantendo la partecipazione degli insegnanti alla elaborazione del progetto educativo stesso, mediante strutture di pianificazione solidale tra centro e periferia del sistema scolastico, riconoscendo loro la possibilità di influenzare l’istituzione, e promuovendo le condizioni perché le singole scuole si attivino come comunità capaci di costituirsi come un ambiente educativo in un quadro di valori comuni oggettivato in regole condivise e praticate; (c) promuovendo la professionalizzazione degli insegnanti, intesa come responsabilità diretta, scientificamente sostenibile e socialmente credibile, della gestione dell’azione educativa.

 

      Per quanto rappresentata personalmente dall’insegnante, l’autorità educativa è incorporata in larga misura nella struttura della scuola, nella sua organizzazione simbolica e materiale, nel curricolo come negli spazi fisici e nelle attrezzature, nell’orientamento morale dell’istituzione. L’asimmetria è nella disposizione ordinale, temporale e regolamentare della scuola: l’asimmetria è ambientale, sovrasta gli operatori ed è solo rappresentata dalle figure d’autorità. Una spersonalizzazione che costituisce la vera invenzione della scuola ‘burocratica’, presso la quale anche i contenuti –nonostante la loro funzione di marcatori di una cultura di ceto o di classe, di nazione o di ideologia- possono presentarsi neutrali, perché sono i passaggi procedurali, come gli esami e le certificazioni, soprattutto i titoli di studio finali che –emanando dal potere che la legittima- condensano in sé il significato ed il valore dell’esperienza che vi si compie. Il curricolo scolastico non è tutto detto nei programmi ufficiali, perché una parte importante è ’latente’ nei dispositivi organizzativi e amministrativi degli studi.

     L’incidenza della scuola non è quindi solamente storica o strutturale, ma appunto ‘istituzionale’. Come succede per tutte le organizzazioni ad alto tasso antropologico, la simbolica scolastica non è soltanto strumentale alle finalità dell’insegnamento, ma si costituisce, insieme, come la messa in scena del risultato atteso e come il medium del lavoro educativo.

     Gli spazi fisici –le caratteristiche dell’habitat, i colori, il materiale di costruzione, le sezioni in cui si articolano, i loro connettivi e le soglie che li separano, gli accessi e gli intorni- non sono neutri perché condizionano variamente le possibilità di suscitare, incoraggiare, ordinare, finalizzare movimenti e comportamenti, aggregando e separando gli attori scolastici. Le contingenze spaziali si completano nell’arredo, con i significati che ad esso si possono attribuire in rapporto alla funzione simbolica –avvicinare e separare, osservare e farsi osservare, partecipare, isolarsi e far convergere per confrontarsi…- secondo quanto la prossemica e la praxeologia rivelano e propongono.

     I tempi sono la risorsa principale dell’educazione di scuola, fra le più ‘discrezionali’ perché si esercita in forma eminentemente indiretta,  dall’interno delle azioni che scandisce. Essa tocca i processi formativi perché ne istituisce l’ordine di durata –inizio e conclusione- di successione –di ritmo, precedenza e andatura- e di simultaneità –complementarità e giustapposizione- contrassegnando così l’intero progetto educativo di cui si sostanzia una istituzione come la scuola. Difatti, non è irrilevante dare più o meno tempo ad un argomento o ad una disciplina, farli precedere o farli seguire rispetto ad altri, collocarli in tempi privilegiati o marginali, lungo la giornata scolastica, tenerli distinti, aggiungerli, offrirli con possibilità di decidere se praticarli d’obbligo o per opzioni più o meno vincolate; così come rompere, eccezionalmente e/o ciclicamente l’ordine temporale, per costruire ‘eventi’ che acquistano così eccezionalità attraverso questa estemporaneità. Inoltre, il tempo si applica come organizzatore degli spazi fisici e degli oggetti, che possono essere resi accessibili solo in momenti dati o per periodi assegnati, oppure per attività specifiche o polivalenti; ma anche come regolatore dei raggruppamenti o delle attività dei singoli, considerati per sé oppure in riferimento agli spazi ed ai materiali di lavoro.

     La disposizione sovraordinata del fattore tempo ci permette di cogliere una dimensione globale che riguarda l’insegnamento di scuola, e che investe il governo unificato del sistema degli elementi indicati.  Riusciamo così a cogliere una specificità del ‘modo scolastico’ dell’educazione, questa sì non riconducibile alla sommatoria delle sue componenti. Tale funzione sistemica consente l’adozione di strategie organiche indirizzate alle variabili d’insieme, come la capacità di suggerire un contesto di senso  ‘pro-attivo’, la possibilità di esprimere significati ecologici, convergenti e comprensivi fra insegnanti, alunni ed altri operatori, la cura per un ‘clima’ sensibile, accogliente e ricettivo, che metta tutti i soggetti in condizione di sperimentare il nuovo, di essere curiosi, di confrontarsi con le difficoltà, di risolvere costruttivamente le frustrazioni, di apprezzare le diversità, di sviluppare il proprio desiderio di realizzazione.

     Nella scuola si possono riconoscere, in questa prospettiva, le finalità educative ed il progetto pedagogico in atto: che cosa stanno a dire, sulla socializzazione degli alunni (e degli insegnanti), i lunghi corridoi con aule in serie su un lato solo, i banchi orientati verso cattedre in prospettiva focale? Certamente anche le origini e le dipendenze dalle destinazioni precedenti, ma anche le regole prescrittive che hanno ispirato e dato un significato alle regole costitutive circa i ruoli ascritti agli alunni in relazione agli insegnanti. Ed un orario scolastico che distribuisce le attività formative in unità di tempo orarie ed in sequenza ordinale –secondo una metrica che discende dal ‘peso’ curricolare di ciascuna delle discipline- oppure in successione (apparentemente) caotica?

    La letteratura individua effetti impliciti ed espliciti dell’insegnamento di scuola, a seconda che l’azione educativa si svolga direttamente ed in termini ‘formali’, attraverso l’intervento visibile dell’insegnante e le discipline di studio, oppure indirettamente, mediante la gestione delle contingenze organizzative e della cornice spazio-temporale dell’esperienza scolastica. Questi ultimi condizionamenti agiscono sul profondo e con efficacia non irrilevante soprattutto perché investono le dimensioni emotive ed affettive, quindi aree educative pregnanti come l’educazione morale, l’educazione sociale, l’educazione civica e politica.

 

       Sulla scorta di queste ricerche,  alcuni hanno proposto di parlare di ‘doppio curricolo’, quello esplicito o formale e quello implicito o educazionale. Curricoli che possono rinforzarsi a vicenda, oppure interferire e contraddirsi, compromettendo più o meno gravemente, insieme all’unitarietà, anche l’incidenza complessiva del progetto educativo di scuola.

     La persona, soprattutto in età evolutiva, inscrive le sue pratiche, ai vari livelli, in orizzonti di senso, elaborandone in vario modo i significati. Tali processi di adattamento e assimilazione, soprattutto perché realizzati in via indiretta, fuori dalla vigilanza della consapevolezza, trovano il soggetto, anche adulto, più indifeso e più esposto, producendo ‘abitualizzazioni’ regolari ed intensive che lasciano tracce non superficiali sulla struttura della personalità e sui suoi orientamenti esistenziali, non solo né limitatamente scolastici. Si tratta di modellamenti che, per quanto eventualmente in contrasto con gli insegnamenti formali –quelli detti a viva voce e scopertamente dagli insegnanti- se non venissero sottoposti ad esame e presa di coscienza, risulterebbero incomparabilmente più decisivi. Infatti, sono insegnamenti essi stessi, operazionalizzati nelle routines organizzative, ovvero, in tutta la loro grevità, ‘materiali’, e toccano categorie basilari dell’esperienza come lo spazio ed il tempo, con il loro carico simbolico e le loro ricadute sulla qualità complessiva e sul verso delle relazioni umane.

 

       Se è accertato che anche la dimensione materiale della scuola ‘fa’ educazione, ne discende che diventa possibile declinare in chiave educativa anche le strutture scolastiche: che non vanno considerate alla stregua di ‘neutri’ contenitori del curricolo formale –l’unica che conta, come si pensa di solito, ingenuamente- ma esprimono tutto un potenziale spesso sottovalutato di ‘media’ educativi. Con la conseguenza di estendere –anche indirettamente, a livello di scuola- le funzioni degli insegnanti, che in questa chiave sono invitati a collocarsi opportunamente in cabina di regìa, come costruttori di ambienti educazionali.


Valore aggiunto: professioni con-divise

 

L’Insegnante & la  Scuola

Spunti per discutere la relazione di Elio Damiano su

DALLA COMUNITÀ PROFESSIONALE ALL’IDENTITÀ DEL PROFESSIONISTA DI SCUOLA

 

SECONDA PARTE

 

Convegno AIMC: Trevi 28 marzO

 

  Quando si afferma l’effetto-scuola ci si riferisce all’esperienza piuttosto comune che mostra come ci siano istituti scolastici tristi, squallidi, altri austeri, severi, mentre alcuni sono accoglienti, vivaci, addirittura gioiosi. Quando ricordiamo i nostri trascorsi di alunni, proviamo risonanze profonde, di atmosfere pesanti o misteriose, di spazi attraenti e di altri che incutevano timore, di momenti solenni e di altri eccitanti. E se oggi, a distanza di una vita, càpita di tornare in quegli stessi luoghi, ora possono sembrare più piccoli e molto meno pregnanti, oppure capaci di rievocare le medesime vibrazioni. E comunque, quando succede, per ragioni professionali, di visitarne un certo numero, non si può restare indifferenti rispetto alle notevoli diversità di sensazioni derivate dal funzionamento sociale, suggerito dai rumori e dai colori, dalla segnaletica che prescrive –agli interni ed agli esterni- percorsi e tempi di accesso agli uffici ed agli altri luoghi rilevanti, le porte aperte sulle attività in corso, quelle riservate, esclusive o semplicemente chiuse. Tradotto in forma di domanda, il problema degli ‘effetti-scuola’ si formula così: il ‘clima’ di una scuola influenza il comportamento degli insegnanti ed il loro rendimento? e il comportamento e l’apprendimento degli alunni?

 

 

      I rapporti fra insegnante e scuola rappresentano un tema ‘difficile’ per almeno due ragioni: l’insegnante non ‘vede’ la scuola-istituzione, se non come un vincolo che lo limita e lo distrae dal compito primario –il lavoro di aula- dove tende a ripiegare tutte le volte che riesce a sottrarsi all’impegno di pensarsi in dimensione di scuola e di destinare tempo ed energie all’azione organizzativa. La seconda ragione risiede nella letteratura pedagogica che condivide un atteggiamento più generale  della cultura occidentale al riguardo: è ‘anti-scolastica’. E’ vero il motto per il quale ‘schola reformanda semper’, ma non basta a spiegare il fervore del libellismo antiscolastico, un fenomeno storico, regolare e tutt’oggi attuale 

     Come abbiamo cercato di argomentare, insomma, i legami fra scuola e insegnanti sono molteplici ed intrinseci perché in qualche modo se ne possa prescindere. E’ indubbio pertanto che la scuola comporti dei vincoli all’azione dell’insegnante, ma è altrettanto certo che essa possa essere considerata una risorsa, da valorizzare per consentirsi l’esercizio pieno della professione: anche perché essa incide comunque, presso l’insegnante e attraverso di lui.

 

 

      Il filone della ricerca noto come ‘School Improvement’, che ha fatto propria la presa di coscienza del fattore-istituto per attivare quello che è stato chiamato il ‘doppio curricolo’, conferma che a certe condizioni gli effetti-scuola si possono esplicitare e, quel che più conta, si possono governare. Ancora più interessante –anche sotto il profilo dell’educazione come ‘cura’- è la conferma che l’efficacia del secondo curricolo, quello ‘implicito’, è maggiore in riferimento agli alunni svantaggiati. Il peso dei fattori extrascolastici non viene annullato, né bisogna sostituire il fatalismo sociologico con le illusioni pedagogiche; piuttosto va tenuto presente che la ‘pedagogia compensativa’ ha ancora una sua giustificazione e il lavoro organizzativo degli insegnanti una risorsa in più .

     Ancora una volta si può obiettare che la ‘cultura’ medesima della scuola oppone al cambiamento varie resistenze, ostacoli e finanche barriere, come mostrano gli studi sull’innovazione condotti a livello internazionale. E tuttavia, nella medesima sede –il CERI dell’OCDE- un altro programma, scaturito dalla riflessione sugli insuccessi delle esperienze di cambiamento, ha mostrato come il fattore differenziale in questo campo sono le unità scolastiche. Queste conclusioni apparivano tanto più probanti perché proseguivano le riflessioni sul fallimento acclarato di altri elementi, dalle tecnologie educative (le ‘Teaching Machines’ negli anni ’50) e, appunto, degli effetti-insegnante, selezionati fra quelli eccellenti e formati in quanto ‘agenti di cambiamento’(negli anni ’70). Come si era detto, pittorescamente, al riguardo, le une e gli altri avevano dovuto –come per il giogo sannitico- ‘adattarsi alla porta della scuola’. Con una nota aggiuntiva non proprio marginale: l’insuccesso degli insegnanti come ‘Change Agents’ si spiegava perché essi medesimi interpretavano con maggiore adesione –a ragione della loro eccellenza- la cultura della scuola con la quale dovevano misurarsi…

     La ricerca sul terreno -attraverso una serie di 'studi di caso' condotti in numerosi Paesi sviluppati- aveva raccolto un variegato repertorio di 'scuole creative': non tanto perchè brillanti per risultati d'eccellenza, quanto perchè in grado di gestire unitariamente una varia conflittualità interna e di tradurla in una dinamica produttiva, realistica rispetto ai mezzi disponibili, congruente  con le specifiche situazioni ambientali, secondo strategie che rivelavano, nella loro differenziazione, una 'identità di scuola', apparsa in grado di adattarsi e adattare le innovazioni. Molto ancora rimane da capire di questa fenomenologia, i dati della ricerca hanno raggiunto una massa critica che fa progredire parecchio la comprensione dell'insegnamento come 'fatto di scuola', non sommatorio di individualità straordinarie, ma come processo sintetico, articolato e unitario, di gruppo. Creativo perchè capace di trasformare l’innovazione in regolarità di pratiche usuali.

 

 

  La riflessione che queste indagini impongono è che l’effetto-scuola è importante anche come condizione per avviare il cambiamento atteso nella scuola stessa.  Più in generale, nell’orizzonte che qui stiamo investigando, è la sagoma dell’insegnante che viene a stagliarsi in forme più ampie ed articolate, fino a comprendervi l’unità scolastica come ambiente da codificare in chiave educativa, mediante un’azione organizzativa che si è rivelata come una autentica sezione della competenza didattica, l’educazione istituzionale. E’ questo il significato pedagogico della cd ‘flessibilità organizzativa’, ovvero la possibilità, offerta attraverso l’autonomia, di fare educazione attraverso l’organizzazione della scuola come unità operativa nel  contesto locale.

 

 

    L’insegnamento va visto come una professione di scuola, che manifesta al livello ottimale le sue potenzialità se esercitata come ‘lavoro di squadra’. Anche questa si può considerare un’eredità dei vincoli operativi imposti dall’amministrazione. Ma l’analisi ha rivelato la virtù ‘istituente’ dell’organizzazione scolastica e l’esperienza non infrequente di scuole capaci di generare ‘valore aggiunto’ ha mostrato quali siano le condizioni per conseguire questi risultati: lo scambio di esperienze e la condivisione pratica di regole elaborate in comune che rendono complementari le varietà inevitabili ed opportune degli approcci individuali all’azione didattica.

 

 

   Questa caratterizzazione distintiva della scuola come comunità normativa può risultare conforme al requisito dell’autocontrollo richiesto come pregiudiziale della professionalizzazione. Il ‘buon insegnante’ è un ‘insegnante di scuola’,  a condizione di garantirne con l’autonomia l’esercizio fattivo della responsabilità.

Quando di entra nell’orbita di una professionalizzazione il sistema scolastico deve modificare i rapporti di potere fra le soggettività in gioco. L’amministrazione dovrebbe dovrebbe fare qualche passo indietro. E  limitarsi a fare l’essenziale per mettere gli altri in condizioni di fare il loro lavoro. A titolo d’esempio, per essere concreti, il ministero dovrebbe limitarsi a prescrivere le priorità di un piano di sviluppo del sistema scolastico. In ordine a queste priorità, il centro determina gli standards scolastici in termini di  quadro e di soglia minima necessaria: indicando le discipline che vanno considerate necessarie e l’orario minimo da assegnare a ciascuna di esse. Senza entrare nel merito dei contenuti e delle metodologie didattiche, dell’orario e dell’azione organizzativa,  riservati all’ideazione e messa in opera delle unità scolastiche. Per quanto circoscritto, non è compito da poco perché comporta mettere in piedi un servizio di ricerca valutativa, per assicurare il rispetto dei parametri richiesti e assicurare lo scambio e la comunicazione fra le unità scolastiche per far conoscere le pratiche più riuscite.

Non si tratta di una scelta per accondiscendenza o per impotenza, bensì di un’opzione fondata sull’assunto che l’azione educativa sia un compito integrale, che non si può dividere, distribuendo i fini ed i mezzi a soggetti diversi fra loro. Con due corollari: che non si può separare la responsabilità globale dell’atto educativo dal soggetto che la compie; che la responsabilità del centro non riguarda l’attività educativa, bensì le condizioni di uguaglianza davanti alla scuola, da assicurare ai cittadini, e il raccordo fra sistema scolastico e prospettive generali di sviluppo del Paese.

 

 

 

   Un’attenzione tutta particolare va riservata alla valutazione, intorno alla quale s’intrecciano aspettative diverse, immarcescibili residui autoritari e paternalistici,  inconfessabili timori di esporsi a giudizi sommari, strategie aziendaliste fra premi e castighi. Questione oltremodo delicata, perché tocca da vicino la ridistribuzione del potere e che pertanto impone di fare la massima chiarezza. A cominciare dall’assunto per il quale la valutazione degli insegnanti –in un sistema di lavoro professionale- non tollera interferenze di altri che non siano, gelosamente, gli insegnanti stessi. E pertanto è compito di un organismo centrale di autogoverno.

 

 

  A fronte di questa autonomia di giudizio, va edificato un sistema di garanzie dell’alunno altrettanto solido e protetto: non tollerato né sofferto, ma esigito dagli stessi insegnanti, in nome della volontà di legittimare pubblicamente la loro competenza, da cui discende l’autovalutazione di merito delle loro pratiche professionali. Se la società rinuncia, in qualche misura, al suo diritto di educare, cedendolo ad una categoria professionale, questa deve offrire una serie di garanzie circa l’uso di questa funzione nell’interesse generale: un credito che va onorato attraverso una rendicontazione leale, convinta ed esauriente.

 E’ questa la differenza rispetto al sistema impiegatizio, nel quale l’operatore si trova dinanzi a due interlocutori –da un lato la struttura che gli dà lavoro, dall’altro l’utente- che si stringono in blocco e diventano la ‘parte avversa’ dalla quale guardarsi, mettendo in atto una varietà di tattiche difensive ben note alle burocrazie. In un contesto professionale, la logica dell’autonomia prevede che sia il medesimo professionista a proteggere il ‘cliente’ ed a farsi carico dei suoi interessi. E non soltanto perché si tratta di un soggetto ‘minore’ per posizione –come l’alunno rispetto all’insegnante- ma perché questo è il senso dell’autonomia, chiesta e ottenuta:  vicariare la società nell’esercizio e nello sviluppo di un diritto.

E’ un programma impegnativo, che comporta riorientare i parametri di riferimento, dal rispetto delle regole imposte dall’amministrazione al principio di responsabilità nei riguardi degli alunni e delle loro famiglie, allo scopo di negoziare, acquisire e gestire relazioni ispirate dalla fiducia. Sulla base di un ‘codice d’onore’ da costruire progressivamente, a partire dalle esperienze di deontologia ‘di fatto’ realizzate dagli insegnanti e dalle scuole.  

 

 

   Abbiamo già detto del sistema di riferimenti, necessariamente unitari come vincolo per la programmazione locale, e delle caratteristiche non massimaliste, ma di ‘soglia minima necessaria’ degli standards scolastici nazionali. Qui aggiungiamo che la costruzione, quindi il controllo del rispetto di questi vincoli, deve vedere –intorno ad un tavolo che riunisce componenti plurime, politiche, amministrative, tecniche- anche la partecipazione degli insegnanti: una partecipazione diretta, non solo a propria tutela, ma soprattutto con funzione di facilitazione e di supporto all’affidabilità degli accertamenti in corso e degli eventuali provvedimenti di adeguazione ai livelli di prestazione attesi.   

 

 

  E’ evidente che un sistema con queste proprietà investe molto sull’insegnante, soggetto focale,  all’interno di una comunità educativa, messa in grado di attivare un circuito di programmazione a due vie, a cominciare dalla periferia del sistema. Una funzione docente reintegrata, che non solo presuppone una professionalità adeguata al compito, ma che rappresenta essa stessa la condizione per una effettiva professionalizzazione. Un aspetto che non dipende solo dall’architettura e dalla pianificazione del sistema scolastico, ma tocca un’altra problematica, quella del sapere professionale, altrettanto, se non più determinante,  e ancora aperta.

Il nodo principale da legare riguarda la pratica con la teoria, la soluzione va cercata adottando un modello di formazione  integrata, che associa fin dal primo momento l’esperienza di terreno con lo studio teorico, attraverso la transizione ‘riflessiva’ del laboratorio. Questo dispositivo prevede l’alternanza della formazione tra due istituzioni distinte, la scuola e l’università, coordinate allo scopo. La scuola dev’essere riconosciuta la sede del sapere professionale, nel formato della ‘conoscenza pratica’. Bisogna sfuggire alla distorsione che vede l’università, per le scienze dell’educazione, come il luogo della professionalizzazione. A ciascuno il suo, e l’università si definisce attraverso il suo contesto come luogo della conoscenza generale, quella che si usa chiamare ‘teoria’. Il contributo dell’università consiste nella ricerca sull’insegnamento, orientando la produzione di conoscenze e la sua didattica rispetto alle caratteristiche proprie di questo oggetto di studio: sia per le discipline di contenuto, sia per le scienze dell’educazione, senza dare per scontata la corrispondenza fra saperi accademici e saperi di scuola. Il luogo di congiunzione tra i due campi pedagogici della professionalizzazione è il laboratorio. Qui la conoscenza pratica viene tradotta in linguaggio e decontestualizzata, per diventare oggetto di ricerca e pertanto di comunicazione formativa.

Per tradizione di dipendenza, l’anello debole dell’alternanza è la scuola, che può accettare la collaborazione per lusinga oppure addirittura sottrarsi ad un impegno che considera aggiuntivo, rispetto al suo carico ordinario, quando non addirittura estraneo. Questo può impedire un autentico partenariato e pertanto vale la pena di ribadire la necessità della funzione formativa della scuola per gli insegnanti, fin dalla preparazione iniziale.

     Il tirocinio va visto come un compito 'normale' delle Unità Scolastiche, di tutte, evitando di costituire 'scuole elitarie', specializzate come 'cliniche della formazione' o come ‘centri di eccellenza’ perché questo, come mostra l’esperienza internazionale, non favorisce, anzi ostacola, la socializzazione professionale. L'attività di accompagnamento del tirocinante  non è una professione 'speciale', ma fa parte 'corrente' della funzione docente e il tempo che richiede il suo esercizio va concesso a tutti gli insegnanti, a rotazione, escludendo in assoluto 'distacchi totali' dal lavoro di aula e di scuola. Il tirocinio va invece integrato nella vita di scuola, nè isolato e tantomeno accaparrato, ma riconosciuto da tutti e adottato come pratica di routine dell'Unità Scolastica nel suo insieme; e pertanto va disposto nella prospettiva della scuola che si vive come una comunità professionale, a cominciare, appunto, dall'"aspirante-insegnante" per continuare con l'"insegnante-debuttante" e proseguire con tutti i susseguenti 'cicli' della biografia professionale degli insegnanti.

     Diventa così anche più chiara la nozione di 'continuum della formazione': ovvero l'idea della formazione iniziale come un momento dello sviluppo professionale dell'insegnante, dopo il quale si susseguono, in relazione alle diverse fasi della vita d’insegnante ed ai loro specifici bisogni, corrispondenti attività formative. Perché il lavoro di aula e di scuola, nelle sue diverse contingenze, è formativo, a modo suo: anche la formazione in servizio deve poter avvenire attraverso congedi per alternanza, con periodi trascorsi osservando e collaborando con altri colleghi-mentori in scuole diverse dalla propria, integrati da laboratori ‘riflessivi’ ed esplicitazioni teoriche presso l’università ed istituti di ricerca.

La formazione si conferma fattore ad ampio spettro, fonte della professionalizzazione degli insegnanti, attraverso la quale fa da leva al funzionamento di un sistema scolastico rinnovato nei suoi presupposti. La sua importanza è cruciale e pertanto va attentamente sorvegliata nella sua organizzazione ed attuazione. E’ essenziale stabilire a chi tocchi il compito di accertarne l’efficienza e dove cercare le prove della sua efficacia. Ebbene, in coerenza con l’impianto complessivo del sistema disegnato, sono due i soggetti cui affidare il mandato di monitoraggio: l’organismo di autogoverno degli insegnanti –per gli standards riguardanti gli operatori scolastici- e l’amministrazione centrale, per quanto concerne gli standards riguardanti il diritto all’educazione degli alunni. Il luogo dove accertare i risultati, della formazione iniziale e della formazione continua, è evidentemente la scuola, dove i processi formativi trovano il loro sbocco probante, di sintesi ed in concreto.

 

 

   Un modello formativo orientato in termini teorico-pratici è tenuto a comprendere, come abbiamo già segnalato, quegli aspetti costitutivi della funzione docente che riguardano la moralità: come principio di responsabilità degli insegnanti, ma anche come contenuti e valori di riferimento degli alunni. Questa ‘moralità potenziata’ va considerata una particolarità distintiva della professione dell’insegnante, che è tenuto ad esercitare –anche se non vuole e finanche se è attanagliato dalla ‘paura di educare’- una autentica ‘giurisprudenza’ degli eventi morali, fino a istituire la stessa classe e, collegialmente, la scuola come una comunità ‘praticamente’ morale. Eludere questi aspetti significa non tener conto della effettualità della vita scolastica e rendere in buona misura incongrua se non astratta la formazione professionale.

In questa prospettiva, non solo bisogna mettersi in condizioni di alimentare la formazione degli insegnanti promuovendo la ricerca sull’etica pedagogica, ma anche integrare nei curricoli universitari contenuti e discipline pertinenti all’ambito della morale professionale, ivi comprese le metodologie appropriate ad un sapere costituito da conoscenze pratiche e relative alle pratiche. Occorre fare in modo che l’attività formativa di questo settore abbia una valenza orientativa, finalizzata a promuovere nel candidato-insegnante la presa di coscienza di che cosa comporti, sul piano personale ‘profondo’, affrontare la relazione educativa in modo che possa esercitare un’opzione commisurata alle sue motivazioni ed alle sue attese.

 

  Di solito, la formazione in servizio viene associata alla ‘carriera’. Due disegni di legge sono in discussione nel nostro Parlamento. L’argomentazione è notoria:  tempo 6-7 anni in media, l’insegnante ‘si siede’ e fissa stabilmente i suoi comportamenti sul lavoro. Si danno brillanti e non rarissime eccezioni, ma in genere gli stimoli introdotti, quando sono accolti, vengono dopo qualche turbativa ricondotti nell’alveo delle tendenze acquisite. Succede anche nelle migliori ‘famiglie di lavoro’, ma c’è poco da consolarsi. In queste condizioni, la scuola va a rimorchio. Allora –si dice- bisogna creare, appunto, una carriera, cioè attivare una corsa, con ostacoli, competizioni a premi e giurie per riconoscere i vincitori. Così l’acqua stagnante si muove, trasformandosi in una corrente veloce, in grado di tenere i passi con i tempi, e magari di anticiparli.

E’, ripresa in altra formulazione, la soluzione della valutazione degli insegnanti, coronata da incentivi. Ora ritorna in una cornice prestigiosa come la professionalizzazione: ma la posizione del problema è la medesima. Con la differenza che mentre quella faceva la distinzione con premi in denaro, ora si aggiunge la marcatura dei ruoli certificati: ‘tirocinante’, ‘ordinario’, ‘esperto’, tutti docenti, ma in cordata. Quello che fa difetto in questa strategia è la conoscenza della ‘cultura’, in senso antropologico, della categoria. E questo vale già la fine di ogni progetto che riguardi gli insegnanti. La loro è una cultura dei pari,  v. sopra, con i suoi limiti e virtù, varianti e accomodamenti. Fra pari, non si tollerano facilmente  le differenze, di carichi e di grado e qualsivoglia gerarchizzazione di compiti.  Ma, per quel che ci riguarda in questa sede,  la cultura dei ‘pari’ è perfettamente compatibile con la professionalizzazione. Anche nella prospettiva di ‘professione al collegiale’, come mostrano le esperienze delle ‘scuole creative’. Se ne deduce che la strategia della ‘carriera’ è estranea  rispetto alla cultura interna. La soluzione va cercata sempre nel quadro della professionalizzazione, ma secondo modi più appropriati e pertinenti.

L’errore riguarda il fatto che si dà una soluzione unica –la ‘carriera’-  a due problemi diversi: uno è rappresentato dal perfezionamento delle stesse capacità professionali; l’altro dallo sviluppo della professione stessa nelle sue specializzazioni. Tenersi aggiornati è diverso dal fare carriera, perchè nel primo caso si tratta di fare sempre meglio lo stesso lavoro, nell’altro è cambiare tipo di lavoro all’interno della stessa funzione. Per il primo ostacolo occorre la formazione in servizio, nel secondo serve creare una ‘filiera’ di ramificazioni professionali: per offrire risposte mirate alle domande educative emergenti e per lo sviluppo organizzativo della scuola, ma anche per rispondere al bisogno sentito di avere occasioni diversificate per mettersi alla prova lungo il corso della vita professionale.

Per quanto riguarda la formazione in servizio, occorre supportare l’usura del quotidiano in relazione alle specifiche necessità delle diverse fasi della biografia professionale. Prendendo le dovute distanze da una logica del sospetto e del controllo, bensì in un contesto di ‘cura’ delle risorse umane: in ambienti professionalmente ricchi e stimolanti, con riviste, libri, portali informatici e documentazione ‘up-date’, in particolare con finanziamenti personali ad hoc per procurarsi occasioni di aggiornamento. E, come abbiamo proposto, obblighi periodici di acquisire ‘crediti formativi’  attraverso stage in alternanza, in continuità e progressione rispetto alla formazione iniziale, tra laboratori ad orientamento ‘riflessivo’ e tirocini, facendo attenzione ad aggiornare anche la riflessione sugli aspetti morali e sociali della professione educativa.

Quanto alla carriera, limitiamoci ad alcune esemplificazioni, peraltro già in evidenza. Chi vorrà fare il dirigente, può fare esperienza e acquisire titoli attraverso le cosiddette ‘figure di sistema’, dedicate alla cura dell’organizzazione scolastica. Altri potrà differenziare la funzione docente come ‘formatore di insegnanti’, a cominciare dalla formazione iniziale (mentore-accogliente, supervisore del tirocinio). La formazione assistita dal computer già rappresenta un interessante sviluppo di carriera per insegnanti esperti. Una figura già provata all’estero è l’insegnante-documentalista, che raccoglie-adatta-produce il materiale su misura per alimentare l’azione, lo scambio e il perfezionamento professionale dei colleghi. E ancora il ‘pedagogista’, per dedicarsi ai problemi speciali degli alunni, con consulenza ai colleghi ed alle famiglie. Sono tutte diversificazioni che non  fanno  gerarchia ma solo ‘carriera’: specializzazioni complementari del lavoro educativo che arricchiscono le possibilità di realizzazione dei singoli e possono promuovere la qualità dei servizi scolastici. Soprattutto conformi all’ethos proprio della cultura degli insegnanti.

 

 

  Sappiamo che a questi discorsi partecipa un convitato di pietra: tutti parlano di lui, ma lui non c’è.  L’insegnante. Di solito per sapere che cosa pensa al riguardo bisogna ricorrere a sondaggi ed a inchieste che ben di rado li vedono fra i committenti. Si conoscono le loro preoccupazioni a riguardo dell’investitura professionale e le loro riserve sul contributo alla loro formazione da parte dell’università. Sappiamo che non sono infondate, e d’altronde il cambiamento è tutto o quasi sulle loro spalle. Vorranno investirsi nell’impresa?

La professionalizzazione è effettivamente un’impresa pedagogica, meglio, quindi, se ‘autoeducativa’. Diventa essenziale il ruolo delle associazioni professionali, meglio se coordinate fra di loro in quello che sappiamo essere un progetto, di cui si danno condizioni rilevanti favorevoli. In Italia l’associazionismo è radicato, ma non particolarmente diffuso e intensamente partecipato. E’ facilmente prevedibile che la loro opera di sensibilizzazione ed orientamento incontrerà le resistenze, se non l’opposizione, del sindacato. La trasversalità del sindacato alle associazioni professionali provocherà crisi, l’unico esito prevedibile delle quali sarà la destabilizzazione della linea della professionalizzazione.

Questa deve restare, pur in altra chiave, una professione pubblica, da svolgere in ordine agli interessi generali, con una particolare preferenza per i ceti sociali più deboli. Perché l’educazione scolastica è bene troppo importante e delicato per essere monopolizzato da qualcuno, neanche dagli insegnanti stessi. I quali, in genere, secondo il portato della loro cultura, condividono l’idea che la loro attività, ancora di più se professionalizzata, sia un mandato sociale.

   Siamo dinanzi ad una latitudine di riferimenti morali che dovrà giovarsi del supporto attivo dei movimenti e delle associazioni che la professionalizzazione richiama ad una presenza più diffusa e capillare di quanto non sia accaduto finora. L’associazionismo va considerato un fattore strategico della professionalizzazione, soprattutto se riuscirà a svilupparsi come risorsa capace di animare comunità di condivisione pratica e di riattualizzazione delle norme e dei valori della categoria. Ma anche sul versante esterno dell’arena pubblica, sarà decisivo sollecitare la comprensione per la difficile attività lavorativa dell’insegnante, riportare a dimensioni realistiche le richieste eccessive sulle sue possibilità di riscattare l’alunno da tutti i mali, assicurare la difesa d’ufficio dalle critiche ingiustificate, garantire una consulenza pedagogica pertinente attraverso rapporti regolari con la ricerca educativa tale da procurare all’insegnante, secondo possibilità, soddisfazioni professionali, autostima, autorevolezza e considerazione sociale.

 

(estratti da: Elio Damiano, L’insegnante. Identificazione di una professione, La Scuola, Brescia 2004)


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