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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
- ISSN 1973-252X
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

IL DIRITTO AD UNA SANA ALIMENTAZIONE

         L’art. 25 della Dichiarazione Universale dei diritti umani riconosce ad ogni individuo il diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute ed il benessere proprio e della sua famiglia “con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione…”.

         L’alimentazione si inserisce, pertanto, senza possibilità di equivoci, tra i presupposti  ineludibili della vita di ogni persona, costituendo la condizione base di un diritto che, complessivamente, viene indicato come buona salute, o, meglio, come benessere dell’individuo; diritto che praticamente ogni nazione dichiara di voler assicurare ai propri cittadini.

Attualmente, infatti,  sono 110 i paesi del mondo che riconoscono il diritto alla salute nelle rispettive leggi fondamentali e ben 149 sono quelli che hanno ratificato il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali  ICESCR 1966, Convenzione con cui, all’art. 12,  si stabilisce che gli Stati membri riconoscono “il diritto di ciascuno al raggiungimento del più elevato standard di salute fisica e mentale possibile”, enumerando poi le possibili “misure che gli Stati stessi devono adottare ….per conseguire la piena attuazione di questo diritto” .

         Per poter parlare di alimentazione sana occorre, pertanto, chiarirsi le idee su quel che significa diritto alla salute, un diritto di cui, per la prima volta, si è parlato nella carta costituzionale della Organizzazione mondiale della sanità (World Health Organization, WHO, 1946), successivamente riaffermato nel 1978 con la Dichiarazione di Alma Ata e quindi  nel 1998, con la Dichiarazione  sulla salute mondiale adottata dall’OMS.

         Prima di approfondire tale nozione è bene premettere, però, che il diritto alla salute fa parte di un più vasto gruppo di diritti umani nel quale sono compresi sia diritti sociali, economici e culturali (come il diritto al cibo, alla casa, al lavoro, all’istruzione alla partecipazione, a godere dei benefici del progresso scientifico), sia diritti politici (come il diritto alla vita ed alla non discriminazione, all’uguaglianza, alla libertà di associazione, di movimento, di accesso all’informazione ecc…..).

Ma cosa sono, in realtà,  i diritti umani?

Spesso, infatti, tendiamo a parlare di DIRITTI, ed ancor più di DIRITTI UMANI, come se si trattasse di concetti univocamente noti e condivisi a livello generale, dando per scontato un contesto di riferimenti comuni che a tali diritti danno sostegno. Ma ciò è soltanto frutto di una convenzione,    in quanto il concetto di “diritto umano” resta troppo spesso sospeso in un’area di indeterminatezza  che ne investe sia il contenuto che la definizione degli obblighi correlati.

Chiediamoci, allora, prima di tutto, se il termine diritto abbia un solo significato, indipendentemente dall’aggettivazione che lo correda.

La parola “diritto” contraddistingue, secondo l’unanime accezione, una determinata esigenza cui si attribuisce  la qualifica di  “pretesa giustificata”; occorre, però, specificare che, all’interno di tale pretesa, sono rinvenibili lemmi tra loro ben distinti, quali quello dei “diritti umani” e quello dei “diritti fondamentali”. La categoria giuridica, apparente riferimento per ambedue è, invece, a ben vedere, applicabile solamente al secondo di essi, mentre entrambi possono essere ricondotti agevolmente ad una categoria comune, quella morale.

 Le ragioni che li giustificano sono, infatti, particolarmente incisive sotto il profilo morale, ma solo i diritti fondamentali possono giovarsi di un  riconoscimento, operato da fonti di livello gerarchico superiore, come la Costituzione, capace di trasformare l’ideale morale, pur valido in sé e per sé, ma non cogente,  in concetto giuridico, cioè in una pretesa che può essere concretamente fatta valere, perché appositamente tutelata e garantita dall’ordinamento giuridico. 

C’è bisogno, allora, di fare attenzione nell’uso di espressioni e terminologie che vengono spesso utilizzate in modo equivalente, ma che possono ingenerare non poca confusione.

Diritti Fondamentali sono, pertanto, solo quei diritti riconosciuti da un ordinamento giuridico statale che li enuncia nella sua norma gerarchicamente più importante, la Costituzione, e che attengono al cittadino dello Stato che quella costituzione ha adottato.

Diritti umani sono invece quei diritti la cui titolarità spetta alla persona in quanto tale, quindi a tutte le persone, indipendentemente dalla appartenenza ad uno Stato, e che sono riconosciuti da fonti consuetudinarie o pattizie dell’ordinamento giuridico internazionale.

Diritti fondamentali e diritti umani possono, di conseguenza, avere contenuti simili, o addirittura identici, ma la loro diversa natura giuridica fa sì che la loro garanzia sia profondamente difforme. I diritti fondamentali, infatti, possono essere fatti valere in giudizio per ottenerne il riconoscimento  in attuazione della specifica garanzia costituzionale, i diritti umani, invece, possono avvalersi soltanto dei meccanismi di tutela internazionale che, mentre per alcuni diritti civili sono ormai sufficientemente efficaci, per quanto riguarda i diritti sociali non hanno raggiunto una vera incisività.

La conseguenza è che un diritto umano può dirsi effettivamente riconosciuto solo quando esso sia garantito da norme giuridiche sia internazionali che interne.

Detto questo, torniamo alla nozione di salute.

Quando ne rivendichiamo il diritto, intendiamo riferirci ad una semplice assenza di malattia oppure ad uno “stato di completo benessere fisico e psichico” dell’individuo (come la definisce la Conferenza di Alma Ata del 1978) ?

         E, una volta che ne stabiliamo il contenuto, dobbiamo annoverare il relativo diritto ra quelli fondamentali o tra quelli umani?

Nella nostra carta Costituzionale esiste uno specifico diritto alla salute.

Esso è, infatti, espressamente garantito dall’art. 32, posto sotto il Titolo rapporti etico-sociali, e che al primo comma dichiara che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività, garantendo cure gratuite agli indigenti.

Il diritto alla salute, dunque, è un bene protetto, oltre che da fonti internazionali, anche da norme interne del grado più elevato;  può qualificarsi, perciò, oltre che come diritto fondamentale anche come diritto umano.

Affermare questo significa che ogni cittadino italiano può davvero PRETENDERE  che la Repubblica gli assicuri  la salute come pieno benessere fisico e psichico?

         L’art. 32 della Costituzione va, indubbiamente, letto insieme con gli articoli 2 e 3 della stessa, in un unico contesto giuridico-interpretativo che costituisce un sistema inscindibile, nel quale diritti inviolabili, solidarietà politica economica e sociale, pari dignità, libertà ed eguaglianza debbono concorrere ad assicurare ad ogni cittadino il pieno sviluppo della persona umana. Ma questo sistema, così lusinghiero e promettente all’apparenza, è affetto da una debolezza intrinseca che ne mina la valenza sia con la “programmaticità” dei principi fondamentali, cui riconducono gli articoli 2 e 3, sia con la intitolazione ai “rapporti-sociali” cui riconduce la collocazione  dell’art. 32.

Una qualificazione che ne subordina l’attuazione concreta ad una specifica volontà politica che intenda convogliare adeguate risorse finanziarie allo scopo di rendere concreto quel diritto.

In altre parole, dunque, possiamo dire che il diritto alla salute esiste solamente se i singoli Stati vogliono davvero garantirne l’effettività. Perché non basta ad un  diritto essere annoverato tra quelli fondamentali e quelli umani per diventare automaticamente concreto. 

         Anche i diritti fondamentali, infatti, si suddividono in diverse categorie, per le quali i meccanismi di garanzia scattano in modi ed in  tempi difformi.

La principale distinzione che ci riguarda è quella che divide i diritti civili dai diritti sociali. E si tratta di una distinzione di non poco peso, perché, mentre per i diritti civili l’effettività della tutela consiste essenzialmente in un obbligo negativo (astensione da condotte lesive), i diritti sociali implicano necessariamente l’agire. E’ soltanto l’iniziativa politica, perciò, che obbliga lo Stato a porre in essere un sistema sanitario  efficiente e di accesso generalizzato. La Costituzione resta, infatti, indifferente rispetto all’effettività di questa iniziativa, come indifferenti restano le fonti internazionali, poiché la questione della giustizia distributiva è affidata al singolo Stato, come questione di mero diritto interno.

Fino a qualche tempo fa, infatti, la ripartizione classica degli affari riguardanti l’attività di uno Stato distingueva le materie riguardanti il profilo nazionale da quelle con rilievo anche estero. 

Dobbiamo chiederci, allora, che impatto ha avuto la globalizzazione su questo assetto tradizionale, in quanto, ormai, il problema della giustizia distributiva è sia statale che globale e configura la dimensione essenziale dello stesso diritto alla sussistenza, in un’ottica di più equa ripartizione, di più diffusa solidarietà, di più razionale utilizzo delle risorse naturali.

La risposta che affiora da una qualsiasi verifica è che, purtroppo, il cammino in direzione di una globalizzazione che riguardi anche i diritti è tutt’altro che spedito e lineare; la globalizzazione più avanzata è infatti solo quella della finanza e dell’economia mentre stiamo assistendo, senza reagire,  ad una sostituzione progressiva della Banca Mondiale all’organizzazione Mondiale della Sanità.

 La conseguenza più immediata è che la salute, invece che affermarsi sempre maggiormente come diritto fondamentale della persona, si è trasformata in bene di consumo, servizio, merce; tanto è vero chele politiche della salute  sono decise principalmente dall’Organizzazione Internazionale del Commercio ed oggetto di trattative tra governi ed imprese multinazionali.

E l’alimentazione?

Anche il cibo ha seguito la stessa sorte.

Un famoso sociologo, Raj Patel, spiega in un suo libro molto di moda, “Stuffed & Straved” (rimpinzàti ed affamàti), uscito in Italia da Feltrinelli con il titolo  “I padroni del cibo”, che per ogni dollaro speso per promuovere alimenti naturali se ne spendono 500 per pubblicizzare lo “junk food “, ossia il cibo di bassissima qualità.

Patel insegna all’Università di Berkeley, in California ed il suo pensiero è diventato il riferimento più autorevole di quanti ritengono – e non sono pochi – che la chiave del potere  (economico, culturale e politico) del XXI secolo risieda proprio nel cibo, nonché che la crisi, se non il fallimento, dell’economia tradizionale derivi dalla mancata considerazione che esso non è una merce come le altre ma è, prima di tutto, un fattore culturale. Non può, pertanto, essere soggetto alle leggi del mercato.

 Al cibo, infatti, sono legate tradizioni, sapori ed odori che fanno parte dell’identità e della stessa geografia di un popolo, assimilati dalla nascita, spesso inconsciamente, da quanti ne fanno parte, e che sono destinati a riconoscersi, rinnegando di colpo una cultura alimentare più attenta alla chimica che alla qualità, in un guizzo di profumo che si sprigiona da una pentola messa sul fuoco .

  Sta di fatto che l’inquietante realtà degli obesi dei paesi ricchi e degli affamati del terzo mondo ci avverte come  il maggior benessere non abbia certo saputo produrre un approccio corretto con il cibo.

E’, questa,  una realtà che parrebbe anacronistica rispetto alla  tecnologia così avanzata della nostra epoca  che  avrebbe dovuto, ormai, consentire a tutti di mangiare correttamente, pur mantenendo la propria identità. Si è verificata, al contrario, una generale corsa all’uniformità di un cibo facile da trovare, scelto per suggestione pubblicitaria, prodotto in zone anonime e che nulla ha a che fare con la storia di un territorio.

L’elemento di disturbo, quello che ha impedito uno sviluppo più regolare è stata, allora, forse una globalizzazione sbagliata e che, proprio nel settore dell’alimentazione, ha prodotto una tragica babele alimentare che ha disorientato sia i supersazi che gli affamati e che trova origine, con buona probabilità, nell’intervento di una politica distorta. Quest’ultima intende regolare su scala mondiale la  disponibilità di cibo  con le leggi del libero mercato, acuendo le dispendiose contraddizioni che caratterizzano il nostro tempo. Per tale ragione, ad esempio, in nazioni africane nelle quali attualmente non ci sono guerre, non ci sono né siccità né carestie, la gente muore lo stesso di fame perché non ha i soldi per comprarsi da mangiare, costringendo gli aiuti internazionali ad intervenire con il loro costoso programma di sostegno e con alimenti ovviamente prodotti altrove, mentre le derrate alimentari del paese vanno a male, perché nessuno è in grado di acquistarle.

Non a caso, il predominio mondiale nel settore alimentare appartiene ad un paese che non ha una tradizione gastronomica propria  e che, in genere, considera un’assurdità sprecare il tempo a tavola, nutrendosi nei fast food di alimenti di scarsa qualità, magari serviti addirittura in automobile. Un paese dove quattro multinazionali dell’alimentazione controllano il 50 % del mercato alimentare e dove gli obesi aumentano in maniera vertiginosa.

 Il cibo, invece, almeno per noi italiani, è identità, è cultura; è sapore del  vivere. Paolo Massobrio nota, in una sua rubrica, che il gusto non è né una cosa da ricchi, né una cosa da poveri, non è né di destra, né di sinistra; c’è o non c’è; io aggiungo che esiste fin dalla nascita e che resiste fino alla morte; che è la sola cosa che, noi fortunati cittadini di un paese industrializzato, utilizziamo almeno tre volte al giorno, tutti i giorni, la sola  di farci immediatamente percepire i connotati decisivi della nostra origine.

Un apposito programma quadro dell’U.E. ha posto, tra le priorità principali, la crescita di una Comunità di Ricerca e sviluppo sul tema “Qualità della sicurezza e Salute alimentare”, da attuarsi mediante la crescita del sapere individuale e collettivo sulla qualità totale dell’intero processo di produzione e commercio della catena alimentare; lo slogan che lo contraddistingue è, com’è noto, “Dalla Fattoria alla Forchetta”.

Ma che succede, quando proprio dalla fattoria esce un cibo avvelenato?

Di appena ieri è la notizia del maiale alla diossina; ma ci sono anche, come chiunque ricorda, la mucca pazza, il pollame malato di aviaria, le pecore dalla lingua blu, il vino al metanolo, gli OGM….. e potrei continuare molto a lungo.

Carlo Rubbia, presentando un master in diritto dell’ambiente alla Sapienza romana, ricordava pochi giorni orsono  come educazione e scienza debbano procedere di pari passo, tanto è vero che la definizione dei diritti e dei doveri delle nazioni non può non coinvolgere la comunità scientifica (v. Dichiarazione di Erice sull’equità ed il diritto alla salute del 2001)    

Condividendo in pieno questa affermazione, mi permetto di sottolineare che, se davvero il cibo è cultura, esso non può che essere oggetto di studio e, quindi, passare necessariamente attraverso la scuola.

         La nostra scuola che deve farsi protagonista, allora, di una vera e propria “guerra della salute”  che consenta finalmente di far diventare effettivo questo diritto.

La Commissione Agricoltura del Parlamento europeo ha proposto di triplicare il finanziamento del programma di distribuzione gratuita di frutta e verdura fresca nelle scuole per gli anni scolastici 2009-2010. Un’indicazione che tende ad incoraggiare i giovani a consumare prodotti salubri come la frutta e la verdura, abbandonando quell’alimentazione spazzatura che ha rovinato la salute di tante persone.

Bisogna abituare i bambini a mangiare in modo corretto e la scuola è il luogo dove insegnare le buone abitudini alimentari. A cominciare dalla mensa scolastica. Roma si pone come modello per molte città europee: cibo buono e sano, ogni giorno, con almeno 400 gr. di frutta e verdura fresche a testa; non è impossibile, non costa di più.

Ma, prima di tutto, bisogna persuadersi, una volta per tutte,  che il primo medico, dopo essere passato dal campo, abita in cucina: ed è sempre meglio curarsi a tavola che aver bisogno di un dottore.

Lidia Ciabattini


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